L'origine dello Stato
Un percorso da Platone a Marx

A cura di Carla Maria Fabiani

 

1. Platone

Il maestro di Platone, Socrate, rappresentò per lui non solo un esempio di sapienza e di ricerca teorica della verità, attraverso il continuo dialogare, ma anche un esempio morale e politico di comportamento nei confronti della comunità, della polis e del potere.

Fin dall’inizio della sua ricerca teorica, Platone si avvicina alla filosofia intesa socraticamente come scienza non solo teoretica - ricerca della verità - ma anche pratica e morale - come scienza del bene e del male - ; il piano puramente teorico del pensiero, del ragionamento, della discussione intorno alla verità delle cose viene tenuto insieme a quello del comportamento morale, del rapporto politico fra il cittadino e la polis, fra l’individuo e la comunità. La ricerca della verità è, per Socrate, consapevolezza di ciò che è bene e di ciò che è male; ricerca che avviene in un contesto di rapporti umani, politici e sociali, quale era quello della polis (Atene) nel corso del V secolo a. C.

La vicenda umana e filosofica di Socrate si conclude tragicamente, come si sa, nel 399 a.C. con la condanna a morte del filosofo, il quale, fedele ai propri princìpi, pur non riconoscendosi colpevole di fronte ai giudici - colpevole di tradire la religione olimpica e di deviare i giovani dalla tradizione - accetta e porta di persona a termine la propria condanna bevendo la cicuta.

L’esempio socratico costituisce per Platone un punto di partenza per il suo successivo percorso filosofico che si distaccherà, a un certo punto, dalla concezione della dialettica che aveva Socrate approdando a quella "dottrina delle idee" che, invece di eliminare l’esigenza filosofica di interrogarsi sulla verità, accentuerà la necessità, da parte di chi ricerca il vero, di percorrere un cammino di conoscenza verso quelle forme o idee delle cose (éidos o idéa in greco) che, non sconosciute all’animo umano, debbono però essere faticosamente riportate alla memoria.

Socrate costituisce un fondamentale punto di partenza anche per la riflessione e l’attività politica di Platone, il quale, dopo la morte del maestro, si recherà in Sicilia a Siracusa, presso la corte del tiranno Dionigi il Vecchio, con il fine di realizzare, fuori d’Atene (la città che aveva condannato il più sapiente fra gli uomini), uno stato in cui potere politico e filosofia fossero organicamente uniti.

La forte delusione, per altro ripetuta in altri due successivi viaggi, che seguì all’incontro e al tentativo di collaborazione col tiranno, spinse Platone, tornato ad Atene, da una parte a fondare nel 387 a.C. l’Accademia, alla quale si dedicò per circa 20 anni, e dall’altra ad occuparsi in modo prevalentemente teorico dei problemi e delle questioni politiche.

Nei primi dialoghi (Gorgia, Menone) del secondo periodo platonico (periodo della maturità che segna il distacco da Socrate), vengono fatti accenni per lo più negativi alla politica, considerata in modo assai pessimistico, data la vicenda socratica alle spalle. La politica però viene definita eticamente, e cioè proprio come la pratica consapevole del bene da parte di chi vuole estendere la virtù a tutta quanta la città, a tutti i cittadini e al loro comportamento complessivo; cosa a cui finora si sono sottratti tutti i (falsi) politici, e della quale solo Socrate si è seriamente occupato.

La teoria politica di Platone si fa più complessa e articolata nella Repubblica dove il filosofo viene descritto come il perfetto politico, e cioè come colui che sa cos’è la giustizia e la applica consapevolmente. Il dialogo comincia con la domanda che cosa sia veramente giustizia, approdando a una feconda analogia fra la giustizia nell’uomo e la giustizia nello Stato. Da questo punto in poi viene ricercata la genesi dello Stato, la sua origine di carattere economico, fondata cioè sulla necessità di soddisfare i bisogni naturali dell’uomo e della comunità. D’altra parte lo Stato si fa "gonfio di lusso" e cioè aumentando la popolazione, aumentano e si complicano quei bisogni che si distaccano dalla iniziale naturalità e necessitano di un allargamento, che provoca guerre, ma soprattutto disequilibri interni.

La giustizia viene allora identificata proprio con l’equilibrio, con la capacità di ciascuno - e di ciascuna classe presente nello Stato - di svolgere bene il proprio compito. Ma per fare questo è necessaria la massima consapevolezza dell’identità fra l’interesse proprio e l’interesse dello Stato. Gli unici a possederla, secondo Platone, sono i filosofi, ai quali viene affidato il comando supremo. In questo senso si può parlare in Platone di uno Stato e di rapporti politici fra le classi (filosofi-governanti, guerrieri-soldati e artigiani-agricoltori) in cui viga la noocrazia, e cioè l’egemonia e il potere di chi sa. Come si vede, qui dove non ce lo aspettavamo, si impone il concetto e il termine nous, mente, conoscenza e consapevolezza filosofica, la quale solamente può identificarsi senz’altro con il potere politico. La perfezione politica dello stato, in altri termini, presuppone la perfezione filosofico-etica di esso, incarnata dalla classe dei filosofi al potere.

Si è a lungo parlato e discusso del valore storico e filosofico dello Stato platonico; se esso sia solo un’utopia (un’idea perfetta ma difficilmente realizzabile), oppure abbia un carattere normativo nei confronti della realtà, e cioè sia un modello a cui gli Stati reali devono, per quanto è possibile, rifarsi. Hegel ha sostenuto in vario modo che lo Stato platonico fosse una ‘utopia reale’, e cioè certamente un prodotto di pensiero, ma non un ideale vuoto, piuttosto quel concetto di Stato che meglio di tutti coglieva la natura stessa dell’eticità greca. D’altra parte la Repubblica di Platone ha riscontri oggettivi nell’esperienza da lui vissuta con la vicenda di Socrate, dalla quale risultò l’esigenza di una profonda riforma politica che riportasse l’equilibrio all’interno della democrazia e comunque prospettasse la concreta possibilità di fondare lo Stato non su interessi particolari e privati ma universali e generali.

La riflessione politica di Platone, dopo la Repubblica, si sviluppò ulteriormente nel Politico e nelle Leggi, oltreché nel Timeo (dove l’analogia fra la struttura dell’individuo e quella dello Stato è estesa a tutto l’universo), tutte opere della vecchiaia, nelle quali il forte dualismo fra mondo delle idee e mondo della realtà concreta viene in un certo senso attenuato, e d’altra parte l’idea di Stato come attuazione consapevole ed equilibrata della giustizia viene affiancata dalla necessità di osservare le leggi. Nel Politico viene considerata la forma di costituzione democratica come la meno pericolosa - anche se la costituzione ‘regia’ rimane pur sempre l’ideale, ma ahimè perduto per sempre - perché la divisione dei poteri presente in essa limita quelle tendenze nocive provenienti dal mancato rispetto delle leggi e dal prevalere di forze particolari sull’interesse comune. In questo dialogo si prende a tema la necessità, da parte dello Stato che intende perfezionarsi, di darsi una costituzione, un insieme di leggi, il più possibile misurata e bilanciata. Nelle Leggi verrà inoltre stesa da Platone una vera e propria legislazione positiva, cioè un codice di leggi riguardante tutti i campi del diritto, da quello costituzionale, al pubblico, a quello privato.

Questo maggiore senso del concreto che l’ultimo Platone sembra manifestare nella sua ricerca in campo politico, individua nello Stato spartano la forma costituzionale migliore, poiché essenzialmente mista: l’unità del principio monarchico è nella figura del Re, di quello aristocratico nel Consiglio degli anziani e di quello democratico nell’Eforato. La predilezione platonica per la politica spartana, rispetto a quella ateniese, risale in realtà al tempo della giovinezza, ma qui viene espressa con riferimenti precisi al campo del diritto che precedentemente non erano mai stati presi in considerazione.

In conclusione si può dire che l’ultimo Platone si sia evoluto in senso pessimistico per quanto riguarda la politica, nella misura in cui prende atto della sempre maggiore difficoltà di fondare uno stato veramente giusto ed equilibrato (si vedano anche le negative esperienze politiche vissute in Sicilia); d’altra parte però non abbandona la sua convinzione profonda della necessità di tenere organicamente unite la vita politica con la vita filosofica, la conoscenza dell’uomo con quella dello Stato, quella dello Stato con quella dell’universo. In questo senso - e qui vi accenniamo soltanto - il Timeo risulta paradigmatico, anche perché istituisce un nesso etico universale; si potrebbe dire che l’etica stessa, in questo dialogo, riceva una fondazione cosmica. Come il mitico Demiurgo è l’artefice del mondo e dell’uomo, così l’uomo deve dar vita a uno stato basato su equilibri che ricordino quelli dell’armonia universale.

 

1.1. L’origine dello Stato platonico: il Libro II della Repubblica

Nel Libro I Socrate e Glaucone avevano iniziato con Polemarco, Cefalo, Trasimaco, Adimanto e altri concittadini a parlare di ‘giustizia’. Che cos’è giustizia? La restituzione del debito, fare del bene agli amici e male ai nemici, la competenza nel gestire i propri affari, e così via? Nel dialogo serrato fra Socrate e Polemarco interviene violentemente Trasimaco (il sofista) proponendo una netta definizione di giustizia: essa è l’utile del più forte. Ma il più forte, in una comunità, nella polis, è certamente chi governa. Allora delle due l’una: o chi governa persegue il proprio utile o l’utile dei suoi sudditi. Per Trasimaco - Socrate è convinto del suo immoralismo di fondo - la giustizia è certamente uno strumento; chi detiene il potere lo usa per i propri fini, per rafforzarsi, non per favorire il bene della collettività. Dunque ciò che è giusto per il più forte è ingiusto per il più debole e non coincide necessariamente con l’interesse di tutti. La giustizia, così intesa, si rovescia piuttosto nel suo contrario, nell’ingiustizia.

Ma l’ingiustizia come tale - incalza Socrate - sebbene considerata superiore alla giustizia, può essere il collante di un insieme sociale, di una comunità, di un’alleanza fra uomini? La convinzione socratica è chiara al proposito: entro una comunità (piccola o grande che sia) non può vigere l’ingiustizia e cioè il perseguimento da parte dei suoi membri del proprio esclusivo interesse, pena la rottura dell’unità stessa. L’ingiustizia, dice Socrate, è ciò che rompe e interrompe quell’unità che si voleva realizzare (1).

La discussione intorno a che cosa sia giustizia prosegue poi senza però arrivare ad una definizione certa.

Nel Libro II i dialoganti intendono ricercare che cosa sia la giustizia in se stessa e quali effetti abbia, mettendola a confronto con l’ingiustizia. Ma Socrate allarga e complica il piano della discussione, facendo diretto riferimento alla necessità che gli uomini hanno di unirsi in comunità per realizzare il proprio bene e soddisfare i propri bisogni. Il suo diretto interlocutore è al momento Adimanto.

"Ti dirò. Noi chiamiamo giustizia sia quella di un singolo uomo che anche quella di un’intera città? O forse no?"
"Sì, è così."
"E non è più grande una città di un singolo uomo?"
"Certo, è più grande."
"Forse dunque in ciò che è più grande potrebbe esserci una giustizia più grande e più facile da esaminare. Se volete perciò cercheremo innanzitutto nella città che cosa mai sia la giustizia; e poi in questo modo la osserveremo anche in ciascuno preso singolarmente, considerando la somiglianza di ciò che è più grande nell’idea di ciò che è più piccolo."
[Repubblica, II, 368e-369a]. (2)

Socrate istituisce qui un’analogia apparentemente di poca importanza, funzionale alla ricerca del significato di giustizia, in realtà però, a ben vedere, di grande impatto etico. La sua proposta è quella di spostare il punto di vista della ricerca dall’individuo singolo (che cosa sia giustizia per ciascuno) alla polis (che cosa sia giustizia per "una città intera"). Il piano individuale della moralità, senza che gli interlocutori di Socrate possano immediatamente accorgersene, viene adattato al piano etico-politico. La distinzione fra i due è inizialmente presentata come una differenza quantitativa; quello che è giusto per il singolo uomo, nella città si presenta ‘in grande’ (quindi in una prospettiva più adatta all’osservazione), ma - aggiunge Socrate - la ricerca deve stabilire una similitudine fra l’una e l’altra giustizia, deve trovare "la somiglianza di ciò che è più grande, nell’idea di ciò che è più piccolo". E cioè deve partire dalla giustizia nella polis per poi adeguarvi quella dell’individuo: deve trasferire, per similitudine, ciò che è giusto nella e per la città (ciò che è giusto ‘politicamente’) nella considerazione della giustizia individuale.

Il metodo così esposto e proposto da Socrate è giustificato teoreticamente. Il ‘vedere’ è il discrimine della ricerca. Ciò che si vede meglio, perché è più grande, deve avere la precedenza su ciò che si vede meno bene, perché è più piccolo (3).

Il dialogo poi continua con la domanda che Socrate rivolge ad Adimanto sull’origine della polis.

"Io, dissi, credo che la città nasca perché ciascuno di noi non può certo bastare a se stesso, ma ha bisogno di molti altri. O credi che ci potrebbe essere qualche altra causa originaria per la fondazione di una città?"
"Nessun’altra."
"Ebbene, allora l’uno ricorre all’altro per bisogno di una cosa e a un altro ancora per un’altra; avendo bisogno di molte cose, molti compagni e persone che si aiutano a vicenda si raccolgono in un solo luogo, e a questa convivenza noi diamo il nome di città. Non è così ?"
"Certamente."
"E uno mettendo insieme le sue cose con un altro non lo fa perché ritiene che ciò sia a sé stesso più vantaggioso?"
"E' così."
"Allora su, diss’io, facciamo come dal principio una città servendoci del logos. La creerà, così sembra, il nostro bisogno"
"Come no?"
"Ma il primo e il più grande dei bisogni è quello di procurarsi del cibo per esistere e vivere."
[Repubblica, II, 369b-d]

L’origine dello Stato (cioè della polis) nel mondo greco viene fatta risalire da Socrate-Platone al ‘bisogno’ e alla necessità imprescindibile per l’uomo di soddisfare i propri bisogni. Non è pensabile il soddisfacimento anche dei bisogni primari e più materiali (come il trovare e preparare il cibo) in una condizione di asocialità e di isolamento. L’individuo singolo non basta a sé stesso, non riesce a conservarsi, a riprodursi come tale. La riproduzione del singolo uomo non può che avvenire in un contesto ‘comunitario’; la compartecipazione dei singoli alla ‘cosa comune’ è dettata dalla consapevolezza del vantaggio che ne deriva. Il vantaggio di "esistere e di vivere" cioè di riprodursi.

Sebbene l’incipit socratico sull’origine dello Stato appaia quasi scontato e di semplice formulazione, in realtà nasconde una complessità data dall’intreccio che viene da subito istituito fra la ‘materialità’ della riproduzione dell’uomo e la politicità che immediatamente vi si accompagna. La conservazione del singolo (il suo essere in vita) può realizzarsi solo in un contesto di rapporti con altri uomini; una stabile relazione fra individualità che, a stretto rigore, non sono più tali. L’individuo da solo non può né essere né vivere.

L’origine della polis perciò, sebbene sia dettata da esigenze ‘materialistiche’, al contempo però è essenzialmente caratterizzata da elementi che vanno già al di là della semplice riproduzione materiale dell’uomo singolo. La relazione fra uomini e il modo in cui questi si riproducono vicendevolmente, nella consapevolezza del loro rapporto ‘politico’, è ciò che si impone fin da subito nel ragionamento socratico di ricostruzione ab initio della forma statale.

D’altra parte bisogna notare anche come Platone faccia nascere la polis certamente da rapporti economico-materialistici che superano l’orizzonte limitato dell’individuo e che fondano gli stessi rapporti politici fra gli uomini.

La naturale moltiplicazione dei bisogni (il cibo, la casa, il vestito, etc.) determina la necessità di dividere socialmente il lavoro. Si prospetta perciò una città-stato composita e complessa nelle sue relazioni economiche e politiche. A questo proposito, Socrate continua dicendo:

"Forza dunque, dissi, in che modo la città riuscirà a procurarsi tutte queste cose? L’uno sarà agricoltore, l’altro architetto, l’altro ancora tessitore? o nello stesso luogo aggiungeremo anche un calzolaio e un medico del corpo?"
"Certamente."
"Sarebbe allora al massimo una città di quattro o cinque uomini."
"Così pare"
[Repubblica, II, 369d-e]

Il dialogo di Socrate con Adimanto si concentra poi sulla specializzazione e differenziazione del lavoro sociale diviso fra ciascun membro della polis. E’ più conveniente per la comunità e per la disposizione naturale del singolo che ciascuno si specializzi in un’arte particolare piuttosto che doverle intraprendere tutte per soddisfare i propri svariati bisogni. Ma i bisogni di ciascuno, a ben vedere, sono infiniti; dunque una città di quattro o cinque persone è assolutamente limitata e insufficiente. I falegnami e i fabbri costruiranno i mezzi di lavoro per l’agricoltore, i pastori accudiranno il gregge, e così via. La città si farà perciò sempre più composita e articolata. La sua grandezza aumenterà a vista d’occhio.

"Non sarebbe , dissi, una piccola città, avendo tutte queste cose."
"D’altronde, continuai, fondare una tale città in un qualche luogo in cui non sia necessario importare merci, è cosa quasi impossibile."
"Impossibile, infatti."
[Repubblica, II, 369e]

Segue una carrellata di nuove e particolari figure sociali che entrano in relazione politica fra loro all’interno della città. I rapporti economici discendono direttamente dai bisogni naturali espressi dagli uomini riuniti in comunità, ma fin da subito le relazioni e distinzioni economiche che si vengono spontaneamente a creare ne creano a loro volta delle altre

"E poi dunque? nella stessa città in che modo reciprocamente si prenderà parte di quelle cose che ciascuno produce? Quelle cose grazie alle quali, avendo formato una comunità, abbiamo fondato una città."
"Chiaramente, disse quello, vendendo e comprando."
"Di conseguenza avremo quindi un mercato e una moneta come simbolo convenzionale in ragione dello scambio."
"Certo."
[Repubblica, II, 371b]

La riproduzione strettamente economica della polis (lo scambio dei prodotti fra i cittadini distinti ormai per competenze legate alla divisione del lavoro messo in comune) si impone su quella immediatamente naturale e fondata sui bisogni primari. Il cittadino così raffigurato riceve all’interno della comunità politica una peculiare determinazione di carattere sociale ed economico: non è solo un individuo, non si occupa solo della propria riproduzione e nemmeno della riproduzione comune in modo aspecifico, viceversa riproduce se stesso solo in quanto si dedica a un’arte lavorativa particolare inserita organicamente dentro un’ampia articolazione sociale del lavoro, dalla quale quella dipende necessariamente.

Lo scambio dei prodotti nell’agorà fa sorgere nuove figure sociali, quali i rivenditori al minuto, gli inservienti, e così via. Cosicché la città si popola ulteriormente e aumenta la sua consistenza.

"Forse dunque, Adimanto, è ormai cresciuta la nostra città, cosi da essere perfetta?"
"Forse"
"Ma allora dove sono in essa la giustizia e dove l’ingiustizia? E in quale di quelle cose che abbiamo esaminato è nata?"
"Io, disse, non saprei, o Socrate, se non forse nell’uso reciproco di quelle stesse cose."
"Ma forse, dissi io, parli bene; quindi bisogna esaminare e non ritrarsi […]."
[Repubblica, II, 371e-372a]

La giustizia allora, in una città del genere, consisterebbe nel modo in cui reciprocamente si intrecciano e si soddisfano i bisogni di ciascuno. L’ingiustizia nella mancata soddisfazione dell’uno o dell’altro bisogno, nell’interruzione dell’utile intreccio delle attività lavorative, volte alla riproduzione dell’insieme sociale.

Ma una città del genere - si fa avanti Glaucone - è pur sempre una piccola e semplice città. Nella realtà invece la polis si presenta "opulenta", cioè "gonfia di lusso" e molto più complessa di quella finora descritta. La semplicità originaria e ‘spartana’ dei costumi viene sostituita da modi di vita più esigenti e lontani dalla pura e semplice necessità di sopravvivere.

Le figure sociali che mano a mano verranno create si moltiplicano a vista d’occhio (il cacciatore, l’artista, il poeta, la balia, etc.), la popolazione aumenta e aumenta con essa il bisogno di ulteriori risorse, non comprese e prodotte dalla città stessa. La conquista di altre terre e di altre città, quindi la guerra, sarà la diretta conseguenza dell’espansione oltre misura dei bisogni e del lusso.

L’arte della guerra non potrà essere esercitata dagli stessi cittadini intenti a svolgere altre attività. Sarà necessario allora istituire una particolare classe di uomini, i guardiani, i quali si occuperanno esclusivamente dell’arte guerriera.

La divisione in tre differenti classi (guardiani-filosofi, guardiani-guerrieri, artigiani-commercianti) strutturerà e organizzerà la vita stessa della polis, la quale potrà dirsi perfettamente costituita (Politéia) quando regnerà in essa il giusto equilibrio fra le competenze di ciascuna categoria.

La visione platonica dello Stato, e più precisamente della sua origine, da dove e come nasce la polis, ossia una comunità politica di uomini in cui vigano rapporti di reciproco scambio e assistenza, nella massima consapevolezza del bene comune e dell’interesse generale, potrebbe essere facilmente confusa con una spiegazione contrattualistica, tale che l’accordo di ciascun individuo con tutti gli altri permette la riproduzione della comunità nella sua interezza.

A ben vedere però, il ruolo dell’individuo nella polis viene subordinato logicamente e storicamente a quello della stessa città: prima viene la configurazione politica in cui i cittadini vivono e si riproducono, poi viene la possibilità, per l’individuo, di "esistere e vivere" come tale. Il singolo uomo, isolato politicamente, non è nemmeno pensabile.

Solo dopo che il logos (cioè il ragionamento) abbia fatto luce sulla struttura sociale ed economica della città-stato, si può rivolgere il pensiero al ruolo politico e etico dell’individuo, cioè al suo modo di vita nella città.

L’origine dello Stato certamente affonda le sue radici nel bisogno materiale dell’uomo, ma, così sembra intendere Platone per bocca di Socrate, non dell’uomo singolo, piuttosto dell’uomo in senso lato e generico. La comunità (koinonìa) è la forma più immediata di sussistenza reciproca messa in atto dagli uomini, la polis è un passo più in avanti, poiché in essa si divide ciò che si è messo in comune secondo criteri di giustizia e di equilibrio, ossia criteri etici, che hanno in se stessi e non nella semplice riproduzione materiale il loro fine e la loro ragion d’essere.

L’origine economica della polis (la città che riproduce, attraverso la divisione del lavoro, gli uomini uniti in comunità) non può che presentarsi anche come profondamente etica, nella misura in cui, secondo Platone, ciò che va riprodotto è innanzitutto il bene comune, ossia l’ethos reciproco a cui i singoli devono riferirsi sia quando necessitano di qualcosa sia quando la producono utilmente. Nell’utilità comune, nel bisogno reciproco, nell’equilibrio fra le diverse competenze, dice a un certo punto Adimanto, potrebbe trovarsi la giustizia, e, prosegue Socrate, forse la strada per capire che cosa essa sia è proprio questa.

 

2. Aristotele

La vita etica dell’uomo, secondo Aristotele, si realizza in quella politica, cioè nella polis, innanzitutto come vita associata, come realizzazione della natura più profonda dell’uomo, cioè quella di essere essenzialmente un politicón zóon, un "animale politico" (o socievole), destinato cioè a vivere nella polis. Dunque la politica, nel pensiero di Aristotele, va studiata nel suo legame con l’etica.

Il problema socratico del Bene, o meglio del "vero" Bene, che non è tale solo in sé ma anche per noi, in quanto ci attrae fortemente, è impostato da Aristotele in modo tale da criticare il dualismo platonico fra ragione e volontà, fra ragione e passione, fra la parte razionale dell’anima e quella morale. Aristotele non intende seguire l’intellettualismo socratico, ossia l’immediata coincidenza fra scienza del bene e virtù, fra conoscenza di ciò che è veramente bene e conseguente pratica di esso. Nell’Ethica Eudemea e in quella Nicomachea viene distinta anzi la virtù come "saggezza pratica" dalla "sapienza contemplativa"; il piano pratico della vita dell’uomo, il suo agire sensato e consapevole è distinto dal piano puramente teoretico (In questo senso, il filosofo è altra cosa dall’uomo politico del quale può fare solo il consigliere, ma non può sostituirlo nelle sue specifiche funzioni di governo e comando). La conoscenza del bene non assicura la sua realizzazione, poiché il livello dell’intelletto non è immediatamente unito a quello della volontà. Aristotele cerca perciò di individuare un termine medio che unisca l’elemento razionale della "deliberazione" (la consapevolezza di perseguire ciò che è bene) a quello irrazionale dell’"appetizione" (la spinta a farlo). Il "proponimento" è ciò che unisce i due piani apparentemente separati. La virtù, la realizzazione compiuta del Bene, dunque l’essenza etica dell’uomo, si identifica, secondo Aristotele, proprio con il proponimento del giusto mezzo, con la ricerca cioè della mediazione costante fra elementi razionali e elementi irrazionali, fra intelletto e volontà, conoscenza e azione. L’abitudine alla virtù garantisce la continuità del bene come pratica consapevole.

La vita etica, la vita attiva, si realizza nella politica, poiché la vita associata, per l’uomo, è un’esigenza naturale. Il barbaro, che non conosce la polis, è servo per natura, il greco invece è per natura un "animale politico", un animale cioè etico che realizza politicamente il bene comune.

La formazione dello Stato non deriva da un accordo o da una convenzione stipulata dai singoli; essi, al contrario, sussistono solo all’interno della polis, la quale si configura come la struttura sociale a cui tendono tutte le altre forme di convivenza (la famiglia, il villaggio).

La Politica di Aristotele si presenta divisa in 8 libri scritti in epoche diverse.

Come per la Metafisica e la Fisica, anche qui le questioni si susseguono in modo non sempre omogeneo, presentandosi perciò con una certa autonomia l’una dall’altra.

Il primo libro, che qui verrà preso in considerazione, tratta esplicitamente dell’origine della polis, cioè dello Stato.

L’oikos (casa, famiglia) è la comunità originaria, nella quale l’uomo greco, libero "per natura", si riproduce e conserva nel rapporto di ‘genere’ maschio-femmina e nel rapporto di dominio padrone-schiavo.

La physis, cioè il fondamento naturale di questi rapporti originari, è l’essenza etica, umana e già ‘politica’ che fonda la costituzione della polis. L’insieme di più famiglie è il villaggio (kome) e più villaggi sono la "cosiddetta polis". L’autosufficienza e la capacità autonoma di riprodursi dell’insieme sociale (sia esso familiare o politico) è il fine etico verso cui la natura umana è spinta immediatamente, è la realizzazione stessa della felicità. L’economia familiare e la gestione familiare delle ricchezze è la base materiale da cui prende le mosse tutto il resto.

 

2.1. L’origine economico-familiare della polis aristotelica

"Poiché vediamo che ogni città [o Stato] è una sorta di comunità e che ogni comunità si costituisce in vista di un certo bene (infatti grazie a ciò che sembra bene tutti fanno tutto), è chiaro che tutte prendano di mira un certo bene, ma soprattutto è chiaro che la più importante fra tutte tenda al sommo dei beni e che ricomprenda tutte le altre; questa è la cosiddetta pólis o anche la comunità politica.
Allora dunque, quanti credono che l’uomo politico e il re e l’amministratore e il despota siano lo stesso, non dicono bene; infatti nel più e nel meno di ciascuno di questi individuano le differenze, non invece nella specie [eídei] […]: ma sarà chiaro ciò che sto dicendo a chi esamina la questione secondo metodo.
Come infatti negli altri campi della scienza è necessario dividere il composto [syntheton] fino agli elementi semplici (cioè alle parti più piccole del tutto), in questo modo, esaminando di quali elementi si compone, vedremo meglio la città e anche riguardo a questi, ossia in che cosa differiscono tra loro e se è possibile accogliere una nozione scientifica di ciascuno di cui si è detto.
Se dunque si riguardassero le cose svolgersi dall’origine, come in altri campi, anche in questi se ne avrebbe così una perfetta visione. E’ necessario innanzitutto che si uniscano in coppia coloro che non possono stare l’uno senza l’altro, quali la femmina e il maschio in vista della riproduzione [ghenéseos] […], e chi per natura comanda e chi è comandato per la conservazione. […] Perciò da queste due comunità [maschio-femmina/padrone-schiavo] scaturisce in primo luogo la famiglia [oikía] […] Mentre la prima comunità formata da più famiglie in vista di bisogni non quotidiani è il villaggio [kome]. […] La comunità che risulta da più villaggi è la città perfetta che, mantenendosi ormai, per così dire, al limite della completa autosufficienza [autarkeías] , si è formata per rendere possibile la vita, ma in realtà esiste per rendere possibile un buon vivere. Perciò ogni città esiste per natura, se anche per natura esistono le prime comunità; infatti essa è il loro fine [telos], e la natura è il fine […]. Inoltre la causa e il fine di una cosa è il meglio; e l’autosufficienza è il fine e il meglio. Da queste cose risulta evidente che la polis è per natura e che l’uomo per natura è un animale politico, e chi è apolide per natura e non per avventura è certamente un inetto o un essere superiore all’uomo. […] Infatti, come diciamo, la natura non fa niente invano; e solo l’uomo fra gli animali possiede la parola [logon]; la voce [phonè] certo è segno di dolore e di piacere, perciò la si trova anche tra gli altri animali […], ma la parola [logos] è fatta per esprimere ciò che è utile e ciò che è dannoso, così anche il giusto e l’ingiusto; questo infatti è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere solo lui la percezione del buono e del cattivo, del giusto e dell’ingiusto e del resto; ora, il possesso comune [koinonía] di queste cose fa la famiglia e la città. E per natura la città è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi; perché è necessario che il tutto sia anteriore alle parti […].
Che la città esiste per natura e prima di ciascuno, è dunque evidente: infatti se ciascuno isolatamente non è autosufficiente, sarà nella medesima condizione delle parti rispetto al tutto, quindi chi non può vivere in comunità o non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte della città, di conseguenza o è una bestia o un dio. […]
Ora, la giustizia come pratica virtuosa [dikaiosyne] è un elemento politico; infatti il diritto [dike] è l’ordinamento di una comunità politica: e la giustizia [dike] è scelta di ciò che è giusto.
[Politica, I, 1252a-1253a]

L’origine etica della polis viene messa subito in chiaro da Aristotele: il "bene" è l’essenza intorno a cui si viene a costituire una comunità di uomini. La città, però, non è una comunità singola che tende a un bene qualsiasi, poiché tende al bene sommo e comune a più comunità fra loro collegate sotto la sua guida. La comunità politica perciò è innanzitutto una connessione etica di comunità, un intero etico ordinato e articolato, è sia parte (una città) che tutto (ricomprende le altre città); è l’ordinamento politico in quanto tale, che si costituisce secondo distinzioni gerarchiche fra le sue diverse componenti.

Come e da chi viene governata la polis ? E’ una domanda legittima, tuttavia mal posta se le differenze tra le varie forme di governo venissero indagate a caso, senza metodo, rispondendo con una spiegazione quantitativa (c’è chi governa su poche persone, chi invece su molte, etc.), non invece specifica. Le diverse funzioni di comando e di amministrazione politica hanno una loro ragion d’essere che risponde a criteri logicamente interni alla conformazione stessa della polis, all’articolazione dell’intero sistema etico-politico. La forma specifica con la quale la polis si presenta agli occhi di colui che filosoficamente ne ricerca un’adeguata definizione, corrisponde esattamente alla sua forma costitutiva; il principio di determinazione della realtà indagata è la sua stessa natura essenziale.

Questa corrispondenza teoretica fra l’indagine e l’oggetto indagato ci è garantita dal metodo che, secondo Aristotele, accomuna la scienza politica a tutte le altre.

La polis, come si è visto, è un "composto", un insieme di comunità, un tutto che va, secondo il metodo scientifico, analizzato nelle sue singole parti, senza che di esso vada persa la connessione d’insieme. Si ricerca una nozione scientifica che distingua la specificità di ciascuna forma di governo, mantenendola all’interno della definizione generica di polis. La comunità politica è un’unità, tuttavia, essendo un composto articolato, si distingue a seconda della diversa forma di connessione che tiene insieme le sue singole parti; dunque di polis non ce n’è una sola, ma ce ne possono essere di diverse specie.

Aristotele ricerca l’origine della polis. La formazione della comunità politica è un processo che va osservato nel suo completo svolgimento, con un suo punto di partenza e una sua fine compiuta.

La ragione prima per la quale si forma una comunità di uomini è quella della riproduzione. La riproduzione del genere però non è garantita solo dall’accoppiamento maschio-femmina, ma dalla conservazione della sua possibilità all’interno di un contesto familiare e domestico in cui sia presente il rapporto altrettanto naturale fra il padrone e lo schiavo. La riproduzione della famiglia (comunità di genere) e la sua conservazione (comunità di dominio domestico), la loro unità indissolubile e naturale, costituiscono l’originaria configurazione sociale entro cui l’uomo singolo è necessariamente ricompreso. Il villaggio si presenta piuttosto come derivato familiare: l’unione di più famiglie.

La città è il composto ultimo nel quale convergono più unità familiari riunite in villaggi. Ma la città compiuta (perfetta) è quella che si mostra autosufficiente e autonoma, che si riproduce da sé e permette alle parti semplici di cui si compone (le comunità, ossia la famiglia e il villaggio) di vivere in correlazione l’una con l’altra al suo interno. L’origine della polis dunque è totalmente naturale, nella misura in cui, dice Aristotele, essa si è formata per permettere "il vivere" delle sue interne articolazioni; la sua essenza naturale (che corrisponde cioè al processo vitale in quanto tale) coincide con l’essenza etica del "bene". Vivere politicamente vuol dire perciò vivere bene. Il bene a cui tende il "composto" (la polis) coincide con la piena autosufficienza riproduttiva, che è perciò sia scopo finale dell’evoluzione (dalla famiglia, al villaggio, alla città), sia naturale risultato a cui non può non pervenire il processo di formazione politico. La famiglia di per sé non basta a se stessa, così il singolo villaggio, da cui, in vista del "meglio", cioè della piena autarchia, si forma necessariamente la città. Il composto politico, cioè la polis, è natura, fine e meglio per la famiglia e il villaggio, oltre che la causa essenziale della loro stessa evoluzione politica.

L’uomo è perciò per natura un animale politico, destinato a vivere nella città, in cui solamente è dato vivere e vivere bene. L’isolamento innaturale (cioè non accidentale e contro natura) presenta caratteristiche subumane o divine.

Viceversa l’uomo, essendo in possesso del logos, cioè della capacità di distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, il "composto" dalle sue parti più semplici, sa e vuole che la "comunità politica" sia il suo contesto naturale e etico. Sa cioè che fuori di essa non avrebbe alcuna possibilità di vivere, ma ancora di più sa che la polis precede ontologicamente e logicamente la vita stessa della famiglia e del villaggio. Questi infatti sono come le singole membra di un organismo, solo nel quale hanno la vita garantita; qualora una parte si distaccasse dal tutto, non avrebbe più vita e non sarebbe più quella che è.

Se il bene è il fine naturale e necessario a cui tende la polis, esso si realizza praticamente nella virtù della giustizia. Questa non è solo una pratica virtuosa ma corrisponde all’ordinamento stesso su cui si regge la città.

Come si è potuto vedere dall’analisi del testo, la deduzione aristotelica di polis ruota intorno a una serie di parole chiave, che vengono fatte interagire l’una con l’altra al fine di trovare una definizione scientifica (logica e ontologica) della forma politica di comunità.

L’incipit è esplicitamente etico, così come anche la conclusione. La naturale tendenza al "bene" che spinge gli uomini a fare tutto quello che fanno, si rivela come spinta naturale al possesso comune del bene e della felicità, che a loro volta si realizzano in un ambito politico ordinato giuridicamente e vissuto secondo giustizia dai suoi membri.

L’uomo singolo, l’individuo, non ricoprono alcun posto essenziale nella formazione della polis e nella sua esposizione filosofica.

Vediamo allora quali sono le categorie fondamentali che permettono ad Aristotele di esporre scientificamente lo sviluppo originario della città-stato.

Innanzitutto la physis, ossia il "per natura", che è alla base di tutto lo svolgimento. La natura umana, il genere umano, è tale solo in quanto si riproduce in comunità e non isolatamente. La consapevolezza di essere questa essenza naturale (il ghénos) distingue l’uomo dagli altri animali. Il logos perciò si presenta innanzitutto come capacità umana di conoscere la propria specifica physis, quella cioè di essere genere umano. Ma il genere non è tale se non all’interno di rapporti sociali dati: la comunità maschio-femmina e la comunità padrone-schiavo. L’oikía non è solo la stirpe-famiglia, dunque la continuità di sangue del genere, ma anche e soprattutto la sua collocazione sociale all’interno di rapporti di dominio storicamente dati, i quali inevitabilmente si presentano come una seconda natura per chi in essi si riproduce. Dunque la comunità domestica è l’origine da cui prende le mosse, secondo Aristotele, la polis.

A questo punto interviene la questione di metodo. Potrebbe sembrare una digressione estrinseca, quella posta da Aristotele per indirizzare tutta l’analisi verso la concezione dell’unità politica come di un "composto". Ma, come si vedrà, è indissolubilmente legata alla sua concezione etico-politica del "vivere bene".

Il composto è infatti proprio l’organismo da cui non possono distaccarsi le singole membra, pena l’impossibilità di "vivere" e "vivere bene".

Il metodo è quello proprio della filosofia e di ogni scienza che si pretende tale: considerare l’ultimo come il primo e il primo come ultimo. L’esposizione deve cioè partire certo dagli elementi più astratti e semplici (la famiglia e il villaggio), giungendo fino a quelli più concreti e comprensivi (la polis), tuttavia deve mantenere la consapevolezza della priorità logico-ontologica del composto organico rispetto alle sue componenti. Dunque la città-stato è certo l’ultimo nell’esposizione, poiché è il fine (telos) e la natura essenziale dell’unità familiare e del villaggio, ma è il primo in quanto è la loro unità pienamente realizzata, solo entro la quale quelle possono vivere e riprodursi. E il fine o la natura di una cosa, dice Aristotele, è anche la causa sui (to ou éneka), cioè la causa prima del proprio sviluppo. Ma la causa di uno sviluppo portato al suo pieno compimento è il "meglio", cioè è un valore etico che, secondo Aristotele, nell’ambito politico non può che identificarsi con il "vivere bene", cioè secondo giustizia.

La pratica virtuosa della giustizia e l’ordinamento giusto di una polis, garantiscono la sua piena autosufficienza riproduttiva; garantiscono la vita del composto, il quale è organico proprio in quanto si riproduce da sé.

Dunque, come si è potuto notare, tutta l’argomentazione aristotelica si presenta fortemente dialettica e sintetica, cioè tesa a individuare all’interno di uno sviluppo reale, quello della polis, la connessione intrinseca di quegli elementi che ne segnano le singole tappe evolutive.

D’altra parte, la concezione politica di Aristotele si presenta legata non solo al piano etico del comportamento umano, ma anche a quello logico. L’uomo è tale solo in quanto possiede il logos, grazie al quale distingue e riconosce il vero bene, cioè quello politico, nel quale, come si è già detto, l’individualità, la singolarità, non viene tematizzata, proprio in forza di quel metodo esposto preliminarmente all’analisi.

 

3. Agostino

La patristica occidentale e latina, fino ad Agostino e a parte Tertulliano, non presenta personalità di vigore speculativo come quella orientale (Clemente Alessandrino 150-213d.C., e Origene185(6)-254d.C.). Nasce però anche questa in forte contrapposizione, oltre che al paganesimo, a quelle eresie che si erano diffuse contemporaneamente alla religione cristiana, la quale era penetrata in tutto l’Impero romano già durante l’età di Commodo (morto nel 193 d.C.). Sotto Diocleziano, alla persecuzione dei cristiani (303-304 d.C.) si contrappose il poderoso sforzo del Cristianesimo di precisare e fissare il contenuto ortodosso della propria fede. Il III secolo d.C. vede infatti un rapido riprodursi di differenti eresie, alle quali tutta una serie di Concili, tra il IV e V secolo, risposero con la condanna. La patristica dunque, a differenza della letteratura apologetica, si caratterizza sostanzialmente per questo suo intento difensivo dell’autentica dottrina cristiana, in contrapposizione ai movimenti ereticali.

L’età di Costantino, con l’editto di Milano (313 d.C.) che dichiarava cessata la persecuzione contro i cristiani, vede la nascita dell’Impero romano-cristiano. Nel 325 con il concilio di Nicea viene condannata ufficialmente l’eresia ariana e la Chiesa acquista un carattere unitario e universale (ecclesia catholica). Dopo l’età di Giuliano l’Apostata (331-363 d.C.), con il Concilio di Costantinopoli (381), viene sancita e completata la dottrina trinitaria.

Sebbene Teodosio (378-395) avesse riunificato l’Impero - la cui capitale era stata trasferita nel 330 a Bisanzio da Costantino, determinando una netta separazione politico-culturale tra Occidente e Oriente - la vicenda che lo coinvolse nel 390, quando fu obbligato da Ambrogio, vescovo di Milano, a pentirsi pubblicamente per il massacro degli abitanti di Tessalonica, mostra come l’imperatore cercasse sostegno, nel tenere unito l’impero, proprio nell’autorità del clero latino, l’unica rimasta nel progressivo disfacimento dell’organizzazione dell’Occidente. Non è un caso infatti che già nel 380 l’Imperatore riconosca nel vescovo di Roma la massima autorità religiosa.

Nel 410 l’Impero d’Occidente subisce una dura e simbolica sconfitta da parte dei barbari: i Visigoti di Alarico invadono e saccheggiano Roma. Nel 455 Roma soggiacque a una nuova invasione ad opera dei Vandali. Il papa Leone I si mostrò l’unica autorità presente e operante sul posto nel corso del secondo saccheggio. poi la fine dell’Impero Romano d’Occidente viene segnata dalla deposizione di Romolo Augustolo, nel 476, da parte di Odoacre (re degli Eruli e comandante dell’esercito imperiale, vassallo dell’imperatore di Costantinopoli). Ha così inizio l’età dei regni romano-germanici.

Il periodo della decadenza dell’Impero romano è vissuta appieno da Agostino (354-430d.C.). Nasce nell’Africa romana, e dopo un periodo di vita dissipata, la lettura dell’Hortensius di Cicerone lo avvicina alla filosofia. Aderisce successivamente al manicheismo, ma venendo nel 383 a Roma si avvicina al probabilismo accademico. Nel 384 è a Milano e grazie alla predicazione di Ambrogio e alla vicinanza della madre cattolica si converte al cattolicesimo.

Dal 386 in poi produrrà un numero estremamente rilevante di scritti, anche in polemica con le sue precedenti convinzioni, ma soprattutto teso alla critica delle maggiori eresie contemporanee. Nel 396 nominato Vescovo di Ippona, dove morirà nel 430 nel corso dell’assedio dei Vandali di Genserico.

Il De Civitate Dei, scritto fra il 413 e il 426, è la sua maggiore opera politico-religiosa poiché risponde innanzitutto all’accusa mossa ai cristiani, successivamente al sacco di Roma, di essere la causa scatenante del declino politico imperiale. In realtà, il pensiero politico agostiniano è più complesso e non riducibile a una semplice difesa del Cristianesimo contro Roma.

L’origine dell’ordine politico esistente (della città terrena) si intreccia con l’ordine divino (la città celeste), secondo un dualismo che trova in terra dei punti di contatto e di mescolanza, ma che è destinato a separarsi nettamente alla fine dei tempi e all’avvento del regno di Dio. Tutta l’opera (divisa in 22 capitoli) si presenta come un commento e un’interpretazione particolarmente approfondita delle Sacre Scritture.

 

3.1. Agostino: l’origine delle due città nella Città di Dio

"Due amori diversi hanno edificato le due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, la città terrena; l’amore di Dio fino al disprezzo di sé, la città celeste. Così l’una si gloria in sé stessa, l’altra nel Signore. Poiché la prima chiede la sua gloria agli uomini, mentre per la seconda la gloria maggiore è Dio, testimone della sua coscienza. La prima innalza il suo capo nella sua propria gloria, la seconda dice al suo Dio: " Tu sei la mia gloria, tu innalzi il mio capo". Nell’una tanto i principi quanto le nazioni sottomesse sono dominati dalla brama del dominio, nell’altra tutti si servono a vicenda con carità scambievole, i governanti col prendersi cura dei sudditi, i sudditi coll’ubbidire ai governanti. L’una nei suoi capi ama la sua propria forza, l’altra dice al suo Dio: "Amerò te, o Signore, che sei la mia forza". E perciò i sapienti della città terrena, vivendo secondo l’uomo, hanno cercato il bene del corpo o dell’anima o di tutti e due; e quelli che han potuto conoscere Dio "non l’hanno onorato come Dio né gli hanno reso grazie, ma si sono persi nel niente delle loro argomentazioni ed il loro sciocco cuore si è riempito di tenebre, proclamandosi sapienti" e cioè esaltandosi, dominati dall’orgoglio, nella loro sapienza "sono diventati stolti ed hanno scambiato la gloria di Dio incorruttibile per un’immagine fatta a somiglianza dell’uomo corruttibile, degli uccelli, dei quadrupedi, dei serpenti", poiché nell’adorare simulacri di questo genere si sono fatti guida o seguaci dei loro popoli, "hanno offerto il culto e l’omaggio di servitù alla creatura piuttosto che al Creatore, che è benedetto nei secoli". Nella città celeste invece non vi è nessuna sapienza umana, se non la pietà con cui secondo rettitudine si offre il culto al vero Dio, aspettando il premio nella santa società, non soltanto degli uomini, ma anche degli angeli "affinché Dio sia tutto in tutto".
[Agostino, La città di Dio, a cura di D. Pesce, La Nuova Italia, Firenze, 1954, pp. 72 e segg.]

La città terrena (ossia l’Impero romano e più in generale la storia degli uomini sulla terra) è tenuta separata da Agostino dalla città celeste (il regno di Dio, l’aldilà). La realizzazione dell’una però non esclude quella dell’altra; viceversa, sebbene la loro ragion d’essere sia distinta come sono distinti i "due amori" (l’uno rivolto solo verso l’uomo e le cose di questo mondo, l’altro verso il Creatore e l’aldilà), la città celeste è presente nella storia e si manifesta come storia della Chiesa e della cristianità nel mondo.

L’origine teologica delle due città è comune, risale cioè alla genesi stessa, ossia all’origine stessa del genere umano, così come testimoniano le Sacre Scritture.

"Quel che non si può negare è che Caino sia stato il primo di tutti a nascere dall’unione dell’uomo con la donna. […] A Caino seguì Abele, che fu ucciso dal fratello maggiore e mostrò per primo in una sorta di prefigurazione quante inique persecuzioni la pellegrina città di Dio avrebbe dovuto sopportare da parte degli empi, degli uomini radicati alla terra, cioè di quelli che amano la loro origine terrena […]. Da allora si divisero le generazioni, da una parte quelle discendenti da Caino, dall’altra quelle discendenti da colui che Adamo generò perché prendesse la successione di Abele […]. Queste due serie di generazioni, l’una discendente da Seth, l’altra da Caino, rappresentano le due città, di cui trattiamo, nei loro ordini distinti, l’una celeste e pellegrina sulla terra, l’altra terrena che aspira alle gioie terrene e ad esse si attacca come se fossero le sole gioie."
[Agostino, La città di Dio, cit., pp. 72 e segg.]

Dunque le due città non sono altro che la stessa generazione dualistica dell’uomo da parte di Dio: i discendenti di Abele (e di Seth) da una parte e i discendenti di Caino dall’altra. Nel corso della storia c’è una effettiva e insuperabile mescolanza dei due "ordini"; la città celeste (la stirpe di Abele) vive come "pellegrina" in questo mondo, aspirando a separarsene definitivamente solo alla fine dei tempi e di tutte le generazioni. La storia sacra è dunque la storia del popolo d’Israele e della cristianità, la quale riceve dalla Rivelazione la certezza assoluta del proprio riscatto finale.

La Chiesa di Cristo, dice Agostino, è la città di Dio, che instaurando in questo mondo l’universalità (l’universale possibilità di salvezza), manifesta la presenza dell’eterno nella temporalità storica. La stessa decadenza dell’Impero romano è provvidenziale, così come è provvidenziale la fine del paganesimo in quanto tale, sebbene anche in quel mondo e in quell’età siano rintracciabili valori e virtù "naturali" da conservare e rivalutare in senso cristiano.

La pace terrena (cioè politica) è augurabile proprio in quanto prepara la pace celeste; dunque il cristiano si adatterà a vivere proprio in quelle istituzioni mondane che garantiscono la pacifica convivenza tra gli uomini.

"Così anche la città terrena, che non vive di fede, desidera la pace terrena ed indirizza la concordia dei cittadini, nel comandare e nell’ubbidire, al fine vi sia, quanto agli interessi propri della vita mortale, una certa composizione delle volontà umane. Mentre la Città celeste, o meglio quella parte di essa ch’è pellegrina in questa mortalità, e vive di fede, è necessario che usi anch’essa di questa pace, finché non passi questa mortalità, a cui una pace cosiffatta è necessaria."
[Agostino, La città di Dio,
cit., pp. 72 e segg.]

Siamo ancora lontani da una vera e propria concezione teocratica del potere politico, sebbene un imperatore come Teodosio venga portato come esempio di realizzazione della pace in terra. D’altra parte, dice Agostino, i soldati cristiani seppero stare al fianco di Giuliano l’Apostata, perché sapevano distinguere l’obbedienza a Dio dall’obbedienza alle autorità terrene.

C’è dunque nella storia una mescolanza inestricabile fra elementi celesti ed elementi terreni, fra Babilonia e Gerusalemme; una mescolanza di uomini e di valori, che il cristiano, grazie alla Rivelazione, sa distinguere e anche rispettare, pur vivendo come pellegrino in questo mondo.

Il dualismo fra le due città sembra dunque riguardare più la loro fine che la loro origine; il loro differente destino è la conseguenza di un libero distacco dell’uomo da Dio, così come la caducità della città terrena sarà la conseguenza del mancato riconoscimento della verità rivelata da parte dell’uomo.

Il cristiano invece, riconoscendo l’eterno nel tempo, la parola divina e l’insegnamento di Cristo anche in questo mondo - anche e proprio nel corso della decadenza dell’Impero romano - può assolvere i compiti politici con un’attitudine volta al conseguimento della pace e della felicità universale. Dunque un imperatore cristiano potrebbe meglio di chiunque altro risollevare le sorti dell’Occidente, in quanto avrebbe a cuore la salvezza dell’uomo già in questa terra.

"Ed infatti non per questo noi diciamo felici alcuni imperatori cristiani, perché tennero molto al lungo il potere, […] perché dominarono i nemici dello stato […]. Questi imperatori cristiani noi diciamo che sono felici ora nella speranza e poi in realtà, quando sarà venuto il giorno che attendiamo."
[Agostino, La città di Dio,
cit., pp. 72 e segg.]

L’universalità della parola divina, il valore dell’uomo in quanto tale, la liberazione da ogni schiavitù terrena, la realizzazione della felicità spirituale, l’assolutezza della fede in un aldilà rivelato, e tuttavia la sua convergenza con il mondo, sono i capisaldi della patristica agostiniana, la quale fa i conti certamente con l’ordine politico imperiale di Roma, con la sua decadenza, ma anche con il suo possibile riscatto, proprio grazie all’opera dei cristiani nel mondo.

Agostino perciò pur criticando e condannando duramente il paganesimo, anche da un punto di vista morale, non di meno si distacca decisamente dalla tradizione ebraica, considerando il popolo eletto (discendente da Abele e Seth) mischiato e indistinto materialmente con il popolo miscredente (discendente da Caino). Così come la città celeste non è precisamente Gerusalemme, o meglio, non si identifica con nessun ordine politico materiale terreno, ma è piuttosto un ordine spirituale che la Rivelazione ha reso evidente sulla terra. La speranza del cristiano, del servo come dell’imperatore, è quella di far parte, dopo la fine dei tempi e di ogni generazione di uomini, di quella città che solo allora regnerà separatamente e con un potere assoluto e universale su tutti gli uomini. La città terrena, e gli uomini che si ostineranno a credere e ad amare solo questa, avrà il medesimo destino delle forze diaboliche rispetto a quelle angeliche.

"Il genere umano l’abbiamo distribuito in due ordini, l’uno di quelli che vivono secondo l’uomo, l’altro di quelli che vivono secondo Dio. Queste due società noi le chiamiamo anche col nome mistico di città, delle quali l’una è predestinata a regnare in eterno con Dio, l’altra a subire l’eterno supplizio col diavolo. Ma questa è la loro fine di cui parleremo dopo. Ora, invece, poiché s’è già detto abbastanza della loro origine sia fra gli angeli, il cui numero ci è ignoto, sia nei due primi uomini, mi pare che si debba venire a parlare del loro sviluppo dal momento in cui quei due primi progenitori incominciarono a generare fino a quando gli uomini cesseranno di generare. Poiché lo sviluppo delle due città si distende per tutto questo spazio di tempo o secolo in cui le generazioni degli uomini si succedono secondo l’alterna vicenda della natura e della morte."
[Agostino, La città di Dio,
cit., pp. 72 e segg.]

Il rapporto terreno fra questi due "ordini", la loro origine comune, ma la loro differente predestinazione, sono i nodi centrali della teologia della storia agostiniana e della conseguente sacralizzazione della politica, vista anch’essa come la faticosa costruzione dell’eterno nel temporale, ovvero come raggiungimento in terra di quella pace che sarà assoluta e universale solo alla fine della storia.

 

4. Machiavelli

Il Rinascimento in Italia si caratterizza politicamente per la formazione dei principati e delle Signorie, nell’Europa delle grandi monarchie. Il pensiero politico e giuridico del XV e del XVI secolo rifiorisce proprio in seguito e contemporaneamente alle vicende che coinvolgono la storia dei singoli Stati, in forte contrapposizione teorica alla tradizione aristotelica e alla trattatistica medievale.

In Italia poi, la mancata formazione dello Stato nazionale – mentre la Francia si costituì a monarchia nazionale dopo la fine della guerra dei 100 anni, l’Inghilterra dopo la "guerra delle due rose" conclusasi nel 1485, la Spagna con il matrimonio di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia e la cacciata nel 1492 dell’ultimo regno musulmano in terra spagnola - pone ai pensatori politici il concreto problema della formazione e conservazione dello Stato, oltre a quello della legittimità e fondamento della sua sovranità; d’altra parte il dilagare delle lotte di religione impone di considerare da vicino e più approfonditamente i rapporti fra politica e religione, facendole entrambe risalire a un’esigenza propria della natura umana.

Il periodo iniziale del Rinascimento è stato chiamato Umanesimo a causa della riscoperta e del vero e proprio culto delle humanae litterae, che caratterizza soprattutto la cultura italiana già dalla fine del XIV secolo fino alla prima metà del XV. Firenze è la città umanista per eccellenza, i cui intellettuali sono dediti alla lettura e allo studio dei classici latini e greci, dei quali si intende cogliere l’originalità e specificità rispetto alla "barbarie medievale". Il recupero del passato non è però semplice ripetizione e imitazione, ma fonte di progresso culturale e scientifico. La riconquista della storicità dell’uomo (figlio di tempi passati la cui verità si proietta nel presente) non caratterizza solo la filologia umanista, ma investe anche l’insieme dei rapporti politici e culturali italiani, sottoponendo a revisione in particolar modo la Chiesa come istituzione e come unica depositaria della verità (ricordiamo la prova filologica fornita dal Valla sulla falsità della "Donazione di Costantino", la figura di Erasmo e poi soprattutto la Riforma protestante).

Certamente la laicizzazione della cultura è il discrimine che segna le differenze fra le Università tradizionali dell’età medievale e i nuovi "studi" e le Accademie che fioriscono sotto il patrocinio di principi e signori (Medici a Firenze, Sforza a Milano, Montefeltro a Urbino, etc.). D’altra parte il Medioevo non è un’età completamente superata, nemmeno dal punto di vista culturale, visto che, per esempio, nei primi decenni del XV secolo le università europee sono ancora dominate dal contrasto tra realismo e nominalismo, cioè tra la tradizione platonico-aristotelica e quella ockamistica, così come anche è vivo il contrasto fra tesi conciliariste (sempre più diffuse) e tesi a favore della superiorità del Pontefice sul Concilio.

Al "letterato" umanista (non solo filologo ma anche scrittore di politica e morale, legato sempre più ai favori di principi e mecenati, avverso ai sistemi teorici della scienza scolastica) si affianca anche una nuova concezione più propriamente filosofica, che vede in sostanziale omogeneità la natura e l’uomo. Questa convinzione teorica costituirà la base della ricerca scientifica rinascimentale, volta soprattutto a sottomettere, conoscere e cogliere i segreti più nascosti del mondo naturale. La fisica, la chimica e l’astronomia (accanto anche alla magia, alchimia e astrologia) saranno approfondite e coltivate con una tradizione di studi che non presenta soluzioni di continuità a partire dalla fisica ockhamistica dei secoli XIV e XV a Leonardo, Copernico e Keplero.

L’aristotelismo e platonismo si caratterizzano l’uno come recupero antiscolastico degli scritti di Aristotele sulla politica, la poetica e la retorica, l’altro come riscoperta in toto del pensiero e dell’opera di Platone, di cui nel Medioevo poco si sapeva. La riscoperta del mondo antico porta anche a considerare sotto una nuova luce lo stoicismo e l’epicureismo, in funzione soprattutto antiplatonica e antiaristotelica. I temi filosofici che vengono trattati sono soprattutto di carattere etico-morale e anche politico.

Possono essere distinte due fasi nella storia umanistico-rinascimentale del pensiero politico italiano: la prima vede scontrarsi due opposti ideali di Stato, quello "repubblicano" e "civile" che presentava Firenze come l’erede della "libertà" dell’antica Roma repubblicana, in contrapposizione a quello della "tirannide" viscontea a Milano, dalla quale sorse poi un ideale politico ispirato alla Repubblica platonica. L’ideale del "perfetto principe", educato negli studia humanitatis e capace di circondarsi di un’élite di collaboratori altrettanto valenti.

La seconda fase del pensiero politico italiano corrisponde alla crisi degli stati regionali e dell’equilibrio mediceo rotto dalle guerre tra Francia e Spagna, che si conclusero solo nel 1559 con l’asservimento dell’Italia alla Spagna.

Le idealizzazioni del primo periodo vengono evidentemente sostituite da una considerazione "realistica" della figura del principe e dell’uomo politico, che riusciva a creare una realtà politica nuova, con spregiudicato uso di tutti i mezzi possibili a sua disposizione e con una "sapiente" conoscenza della natura umana. La situazione stessa suggeriva un atteggiamento volto alla realizzazione effettiva degli affari politici e della storia in quanto tale.

In questo complesso quadro storico e culturale si colloca la figura di Machiavelli (1469-1527), il massimo pensatore politico della prima metà del Cinquecento. La sua riflessione si concentra sulla ricerca di una logica interna che regoli le dinamiche politiche, liberandola da richiami e dipendenze di carattere morale e religioso.

Tutte le sue opere (il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, le Istorie fiorentine) ci mostrano una concezione "storicistica" e insieme "naturalistica" che dei processi politici aveva Machiavelli. Da una parte è necessario rintracciare nella storia passata quei principi che preservano dalla decadenza una comunità politica, dall’altra proprio questa osservazione rivolta al passato fa luce sulla natura umana in quanto tale.

Il ritorno alla repubblica romana, come principio e costume politico garante di stabilità, non costituisce per l’autore il vagheggiamento di uno "stato ideale", essendo la sua analisi volta tutta verso la realtà quale essa "è" e non quale essa "dovrebbe essere".

La figura del "principe", come costruttore e conservatore dello Stato, si rende realisticamente necessaria in un contesto storico-politico, quale era quello dell’Italia cinquecentesca che si manteneva in condizioni di anarchia e servitù, a fronte sia della formazione delle grandi monarchie europee e in considerazione del fatto che un regime repubblicano può essere utile a uno Stato già consolidato. Viceversa, per la fondazione di esso è necessario un forte principato, nel quale il principe costringa la malvagia e riottosa natura umana a rispettare le leggi, scegliendo di volta in volta se comportarsi da "volpe" o da "leone", usando spregiudicatamente i mezzi necessari a conseguire i suoi fini. Il giudizio morale e religioso sui "mezzi" e sulla politica in genere va sospeso, essa piuttosto va giudicata iuxta propria principia, cioè secondo l’utile e secondo l’interesse e non secondo il bene o il male.

Il principe dunque può e deve essere anche "non buono" e limitarsi nella sua crudeltà solo quando può ritorcersi contro di lui e il suo Stato. La violenza fonda uno Stato, ma, per conservarlo, essa non deve essere perpetuata; il principe deve anzi arginare la casualità degli avvenimenti ed esercitare quella "virtù" che si rifà piuttosto alla virtus pagana del buon cittadino che a quella salvifica cristiana, la quale anzi avrebbe degenerato e indebolito l’uomo attuale rispetto agli antichi.

Machiavelli corregge in senso pessimistico quel naturalismo tipico del Rinascimento quando propone una concezione della "natura" dell’uomo come sostanzialmente immobile e non migliorabile. Ciò che spinge gli uomini all’azione è l’avidità di guadagno e di potere. In campo morale e politico poi non vi sono dei valori stabili e determinabili in assoluto, già per il fatto che le vicende umane sono segnate da quel ritorno ciclico che trasforma la virtù in quiete, la quiete in ozio, l’ozio in disordine, il disordine in rovina e questa di nuovo in ordine e poi in virtù, e così via.

 

4.1. Machiavelli: Il Principe e la fondazione dei principati

"Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati. E’ principati sono, o ereditarii, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E’ nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi ad essere liberi; e acquistonsi o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù".
[Machiavelli, Il Principe, in Il principe e altri scritti, introduzione e commento di G. Sasso, La Nuova Italia, Firenze, 1963., pp.7-10]

Nel 1513 Machiavelli compone il suo opuscolo de principatibus, mentre a Firenze stanno tornando i Medici, dopo diciotto anni di esilio.

L’allontanamento forzato dal suo ufficio e dalla sua vita abituale, immersa negli affari politici della città, lo porta però a mettere in ordine quella "scienza" politica che proprio con lui si appresta a nascere. Il Principe perciò non può semplicemente essere considerato come il frutto di una riflessione personale, su vicende certo politiche, ma che coinvolgono radicalmente la vita privata dell’autore; piuttosto si presenta come un vero e proprio trattatello politico, denso di teoria, di studi e letture intraprese non certo a caso, sebbene scritto probabilmente di getto.

"La cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique; le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate, e ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra." [Machiavelli, Il Principe, cit., pp.4-5]

Il Principe si compone di ventisei capitoli, ciascuno concentrato su di un tema particolare, tutti però tesi a riscattare la decadenza politica fiorentina e italiana, ricercandone le ragioni e soprattutto i rimedi pratici ed efficaci.

"Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa. […] Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo necessità." [Machiavelli, Il Principe, cit., pp.136-137]

Il tema centrale proposto dall’autore - se cioè sia possibile razionalizzare il molteplice delle vicende umane e politiche dominandolo con la virtù - si intreccia con la funzione perturbatrice e irriducibile assegnata alla fortuna proprio in campo politico; l’antinomia che si viene a creare fra fortuna e virtù non viene risolta compiutamente dal Machiavelli, tuttavia trova nella figura storica del principe una possibile sintesi.

"Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano, di privati, principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono; […]. Io voglio all’uno e all’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé […] e se gli ordini suoi non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna."
[Machiavelli, Il Principe, cit., pp.63-66]

Tra la fortuna e la virtù si inserisce anche la forza, o meglio il raggiungimento a tutti i costi di un risultato utile politicamente, portato a termine da una personalità consapevole delle proprie capacità e della condizione oggettiva in cui opera. In questo senso, la vicenda di Cesare Borgia è paradigmatica poiché racchiude in sé tutti e tre i termini dell’agire politico: virtù (come capacità di intervenire adeguatamente sulle cose politiche), fortuna (come ineliminabile casualità propria della natura umana), forza (come capacità di usare senza incertezze il proprio potere).

Dunque l’origine dello Stato, secondo il Machiavelli, si presenta piuttosto come fondazione di un principato per opera di una forte e virtuosa personalità politica, la quale sappia conciliare la realtà effettuale con l’accidentalità delle vicende umane; e quindi sappia scegliere oculatamente i mezzi con i quali formare il principato.

Inoltre, nei Discorsi Machiavelli sembra preferire il regime repubblicano-democratico, in quanto la collegialità e l’alternanza al potere possono meglio garantire quella flessibilità e adattabilità alle circostanze che al singolo è negata.

"Quinci nasce che una repubblica ha maggiore vita ed ha più lungamente buona fortuna che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ temporali, per la diversità de’ cittadini che sono in quella, che non può uno principe."
[Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, III, 9]

Il primo capitolo del Principe ha un intento dichiarativo ed enunciativo della materia; il suo stile è in funzione proprio di questo intento. Machiavelli ha in effetti presente tutti i fondamentali motivi dell’opera che sta scrivendo.

Qui vengono distinti i vari tipi di principato, ereditario o nuovo, e quest’ultimo a sua volta o tutto nuovo o misto (cioè come membro in aggiunta a uno Stato ereditato dal principe che lo acquista). Del principato ereditario, la cui fondazione presenta minori difficoltà teoriche e pratiche, Machiavelli parlerà nel II capitolo, mentre dei principati nuovi, in cui "consistono le difficultà", parlerà a partire dal III capitolo dedicato ai principati misti. I principati nuovi pongono dunque i seguenti problemi: c’è il caso di un "privato" che diventa padrone di un "dominio" (è il caso di Cesare Borgia e di Francesco Sforza), il caso di un "principe" o "re" il quale aggiunge un nuovo dominio al suo precedente regno o principato (è il caso di Ferdinando il Cattolico e il Regno di Napoli). La conquista di un dominio da parte di un privato oppure da parte di un principe o re, implica dei problemi se quel dominio non era originariamente "uso a vivere" sotto un principe ma in libertà. I mezzi per conquistare e mantenere una terra "usa" alla libertà sono differenti da quelli impiegati nei confronti di una terra abituata ad essere governata da un principe.

La conquista pone immediatamente il problema dei "mezzi politici", delle "armi proprie" o "altrui", della "virtù" e della "fortuna". Gli esempi precedentemente citati di Francesco Sforza e di Cesare Borgia, distinguono innanzitutto le capacità virtuose del principe - le quali, alla lunga, possono prevalere sulla sorte avversa e sulle oggettive difficoltà incontrate nel corso della conquista - dalle capacità meno virtuose ma favorite dalla fortuna, che, al dunque, si rivelano estremamente fragili e negative. Il tono di Machiavelli è evidentemente di consiglio nei confronti del principe, affinché mantenga nella stabilità il suo dominio; un consiglio però che si presenta ‘altalenante’ e non risolutivo, nella misura in cui non risolve fino in fondo l’antinomia posta fra virtù e fortuna, sebbene proponga una lettura politico-utilitaristica della fondazione e della conservazione dello Stato basato sulla forza, ovvero sul rapporto politico fra sudditi e principe personificato e controllato innanzitutto da quest’ultimo, dalla sua capacità virtuosa di dominio, costi quel che costi.

 

5. Hobbes, Rousseau, Locke: l’origine contrattualistica dello Stato

Scegliamo questi tre autori per esporre antologicamente la teoria politica del contrattualismo moderno, che ha in realtà origini precedenti a Hobbes, in ambiente calvinista e particolarmente in Germania con il giurista Altusio (1557-1638). La moderna e borghese concezione dello Stato come di un corpo politico fondato su di un contratto fra popolo e re, da cui deve dipendere l’autorità del sovrano, garantisce al suddito l’esercizio dei suoi diritti naturali di ‘uomo’, dai quali il diritto positivo, e cioè statuale, non può discostarsi opprimendoli o cancellandoli.

Il diritto naturale costituisce l’oggetto proprio della teoria giuridica del giusnaturalismo (4), al quale diedero veste sistematica l’olandese Grozio (1583-1645) e il tedesco Pufendorf (1632-1694). Nello stesso periodo in Francia si distinse la teoria politica di Jean Bodin (1529-1596) volta a sganciare lo Stato dai conflitti fra le diverse confessioni religiose e a dichiararne la sovranità assoluta sulla società civile.

In questo quadro si inserisce il pensiero e l’opera di Hobbes (1588-1679). Il suo intervento in ambito di teoria politica viene seguito da quello propriamente illuminista di Locke (1632-1704), anch’egli filosofo inglese, le cui opere principali furono pubblicate tutte dopo la Rivoluzione inglese del 1688-1689.

La figura di Rousseau (1712-1778) si inserisce invece nella Francia dei philosophes, ma il suo intervento si distaccherà polemicamente dalla concezione ottimistica di progresso sociale sostenuta dalla maggior parte degli illuministi francesi a lui contemporanei.

Sebbene i tre autori citati non siano gli unici a parlare di ‘patto’ o di ‘contratto (5) ’ come origine dello Stato, li abbiamo scelti in quanto espongono in forma sistematica e complessa questa moderna concezione politica.

 

5.1. Hobbes: come e perché nasce lo Stato

La filosofia politica di Hobbes vuole avere carattere scientifico. La sua concezione filosofica della realtà può essere definita come un meccanicismo di stampo materialistico, che si basa sulla convinzione metodologica secondo la quale la scienza deve avere per oggetto ‘corpi’ generati dall’uomo, i quali possono perciò essere indagati e conosciuti. Il ‘calcolo’ filosofico è il lavoro proprio della ragione che fornendo nomi adeguati alle cose ne conosce la causa e gli effetti reali. Gli oggetti propri della filosofia sono perciò costruzioni umane di cui va riconosciuto e ricostruito il processo genetico. Di Dio, che non è un nostro prodotto, non possiamo conoscere le cause, dunque non ne possiamo dare una corretta definizione.

La politica fa pienamente parte della filosofia. Lo Stato, il ‘corpo politico’ è appieno una nostra costruzione, dunque possiamo indagarlo e definirlo scientificamente. E’ possibile perciò, per quanto riguarda l’indagine sociale, antropologica e politica l’applicazione del metodo costruttivistico proposto da Hobbes.

Lo Stato non è, come voleva Aristotele, un ente naturale, ma decisamente artificiale (come una macchina), costruito volutamente dagli uomini sulla base di una convenzione da essi liberamente stipulata, per ragioni che riguardano innanzitutto la necessità di autoconservarsi e mantenersi in vita.

Anche la politica, come le altre scienze, deve seguire un metodo rigidamente deduttivo e procedere secondo il principio di causa-effetto.

Nel 1651 esce a Londra il Leviatano, l’opera politica maggiore di Hobbes.

L’unità dello Stato e l’obbligo politico di obbedire alle leggi emanate dal sovrano sono i principi fondamentali su cui si costruisce il corpo politico.

L’assolutismo dello Stato hobbesiano si presenta come moderna tendenza all’unificazione e all’accentramento del potere politico di contro a quello feudale in cui convivevano numerosi organismi (corporazioni, ordini, assemblee degli ordini, etc.), che pretendevano di controllare e partecipare a pieno titolo alla sovranità.

Secondo Hobbes invece il potere sovrano e l’obbligo politico di obbedienza devono direttamente scaturire dalla volontà stessa degli individui, dal consenso che viene da loro espresso idealmente in un ‘patto’ che istituisce la forma politica di Stato. Non vi può essere "nessuna obbligazione per un uomo, la quale non derivi da un atto personale poiché tutti gli uomini sono egualmente liberi per natura" (Leviatano, XXI). Sebbene Hobbes sia consapevole che l’origine di uno Stato è determinata da violenza e conquista (Leviatano XX), l’obbligo politico si instaura solo se tra sovrano conquistatore e popolo sopravviene un patto : "non è dunque la vittoria a conferire il diritto di dominio sul vinto, ma il patto da costui concluso." Bisogna postulare dunque un patto, qualunque sia la reale origine di uno Stato. I rapporti tra potere sovrano e popolo devono essere regolati ‘come se’ il primo sia nato dal consenso dei secondi.

Lo Stato hobbesiano si presenta come un’istituzione fondata essenzialmente sul consenso dei sudditi e perciò moderna, in quanto lascia cadere ogni giustificazione divina o naturale della propria origine.

Il potere sovrano affidato consensualmente dai sudditi a un terzo (un individuo o un’assemblea) deve essere assoluto, cioè accentratore e irresistibile a qualsiasi opposizione o intervento esterno, poiché deve mantenere la pace fra gli uomini, i quali per natura sono tendenzialmente egoisti e incapaci di autoconservarsi in una condizione di pace stabile e duratura.

Il mondo naturale degli uomini è disgregato e in preda a costante competizione fra i singoli, i quali nel perseguimento del loro utile vengono in contrasto con quello degli altri, creando uno stato di guerra che impedisce una pacifica convivenza necessaria all’autoconservazione. La filosofia morale, e cioè la capacità umana di distinguere il bene dal male, e la capacità di accordarsi su ciò che è bene, può venire in aiuto di questa condizione fortemente instabile, ma non può risolvere definitivamente la naturale disposizione dell’uomo alla guerra competitiva e all’egoismo. Solo una costruzione artificiale, quale è lo Stato, può regolare i naturali rapporti umani. Se non ci fosse il ‘corpo politico’ l’uomo vivrebbe in uno stato di natura in tutto simile a uno stato di continuata guerra civile, nell’impossibilità di mantenersi in vita, sebbene per natura gli uomini abbiano diritto all’autoconservazione e alla realizzazione del proprio utile, e dunque siano naturalmente liberi e uguali. Queste leggi di natura, definite dalla filosofia morale, possono spingere l’uomo ad uscire da questa condizione naturale di guerra, ma non possono regolare i rapporti umani, poiché mancano di un consenso universalmente espresso e pattuito, solo dal quale può scaturire l’autorità del comando e l’obbligatorietà dell’ubbidienza alle leggi.

L’origine artificiale dello Stato attraverso il ‘patto’ ha ragioni antropologiche, che si fondano essenzialmente sulla modalità di vita dell’uomo in una condizione di naturalità, la quale però ha già caratteristiche civili e politiche, nella misura in cui produce da sé il suo stesso superamento. Lo stato di natura si presenta come una contraddizione irrisolta, nella misura in cui costringe l’uomo a una guerra che gli impedisce materialmente di perseguire lo scopo stesso del suo vivere naturale: il diritto ad autoconservarsi.

La nascita dello Stato viene così descritta da Hobbes nel suo Leviatano:

"La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di assicurarli in modo tale che con la propria industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere se stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni, e sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di lui, ed ogni loro giudizio al giudizio di lui. Questo è più del consenso o della concordia; è un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno STATO, in latino CIVITAS. Questa è la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste l’essenza dello stato che (se si vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni membro di una grande moltitudine, con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa.
Chi regge la parte di questa persona viene chiamato SOVRANO e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro è suo SUDDITO.
Si consegue questo potere sovrano in due modi. Il primo è dato dalla forza naturale, come quando un uomo fa sì che i suoi figli si sottomettano insieme con i loro figli al suo governo, in quanto è in grado di distruggerli se si rifiutano o come quando sottomette con la guerra i suoi nemici alla sua volontà, dando loro la vita a quella condizione. Si ha l’altro, quando gli uomini si accordano fra di loro per sottomettersi a qualche uomo o a qualche assemblea di uomini, volontariamente, confidando di essere così protetti contro tutti gli altri. Quest’ultimo può essere chiamato uno stato politico o stato per istituzione e il precedente uno stato per acquisizione."
[Hobbes, Leviatano, a cura di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze, 1976, pp.163-168]

"Si dice che uno stato è istituito, quando una moltitudine di uomini si accorda e pattuisce, ognuno con ogni altro, che qualunque sia l’uomo o l’assemblea di uomini cui sarà dato, dalla maggior parte, il diritto a rappresentare la persona di loro tutti (vale a dire, ad essere il loro rappresentante), ognuno, tanto chi ha votato a favore quanto chi ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini, alla stessa maniera che se fossero propri, al fine di vivere in pace tra di loro e di esser protetti contro gli altri uomini.
Da questa istituzione dello stato sono derivati tutti i diritti e le facoltà di colui o di coloro ai quali è conferito il potere sovrano dal consenso del popolo riunito in assemblea."
[Hobbes, Leviatano, cit., p.169]

La persona dello Stato è rappresentata dal sovrano (ossia dall’esercizio del potere sovrano) che può anche non essere un monarca, ma un’assemblea di tutti nella democrazia e di pochi nell’aristocrazia. La sovranità detiene in modo unitario e indivisibile tutti i diritti e i poteri dello Stato: diritto di fare le leggi e le norme obbligatorie per i singoli individui. Anche il diritto alla proprietà privata per il singolo, che secondo Hobbes nasce con lo Stato non essendo un diritto di natura, non esclude il potere sovrano, in quanto è la fonte primaria del suo mantenimento. La giustizia, la guerra, l’amministrazione, la decisione in campo religioso, etc., sono tutti ambiti in cui deve intervenire l’autorità del sovrano, al fine di evitare un ritorno allo stato di natura, ovvero una ricaduta del ‘corpo politico’ nella dannosa e lacerante guerra civile. Sebbene l’individuo sia libero privatamente di coltivare le sue convinzioni, anche la sua coscienza religiosa, lo Stato decide in materia di fede e in tutto il resto per quel che concerne la vita pubblica.

L’obbligo di obbedire al sovrano è incondizionato e semplice. Semplice perché l’obbedienza al potere è richiesta al momento stesso del patto, prima che la sovranità si dispieghi in leggi, norme particolari, etc. Incondizionato perché il sovrano non partecipa al patto, non è un’istituzione condizionata a sua volta dal patto, non c’è reciprocità di obblighi fra sudditi e sovrano. La sovranità sta solo dalla parte della persona dello Stato, questo è ciò che il patto stabilisce e che i sudditi esprimono volontariamente.

Dunque il patto di unione fra sudditi si determina piuttosto come patto di dominazione o patto a favore del sovrano. D’altra parte, l’obbligo unilaterale a cui i sudditi sottostanno, è autorizzato dalla loro espressa volontà. Il potere assoluto del sovrano non è perciò ‘arbitrario’, nella misura in cui è il risultato di un atto politico (il patto) universalmente consaputo e liberamente voluto.

 

5.2. Locke: lo Stato ‘antiassolutista’ o ‘liberale’, ovvero la comunità politica

Nel Secondo Trattato sul Governo (1690), non diversamente da Hobbes, Locke traccia la sua teoria contrattualistica del potere politico e dello Stato. Ciò che separa Locke dall’assolutismo hobbesiano è l’introduzione esplicita e argomentata, nella ricostruzione della formazione moderna dello Stato, della categoria di individuo libero e uguale sia nello stato di natura che in quello di diritto. Il rapporto Stato/individuo viene modificato da Locke in senso ‘liberale’: la sovranità non appartiene unilateralmente alla persona dello Stato, ma