SULL'INCONSCIO

Realizzato da Jacopo (dr Freud)

La filosofia

Fin dalla nascita della Filosofia un concetto imprescindibile è stato quello della Coscienza e della volontarietà delle azioni dettate dall’Io. Tale concetto verrà ripreso ed analizzato dalla Filosofia del Metodo. Cartesio ne propone un’analisi attraverso una rigorosa indagine Metafisica. Egli formula, in particolare, due affermazioni che saranno le basi per una successiva contestazione; la prima “Cogito, ergo sum”, propone la certezza della propria esistenza come essere univocamente pensante; la seconda suddivide le cose materiali, res extensa, dall’altro tipo di sostanza, res cogitans, il pensiero. Da queste deriva il netto distinguo tra anima e corpo portato avanti dal razionalista francese, che le ritiene tra loro totalmente indipendenti. Già nella seconda metà del ‘600 vengono mosse le prime contestazioni al pensiero cartesiano, in particolare si cerca di stabilire concetti che spieghino il rapporto anima-corpo. Malebranche sarà creatore di una corrente nota col nome di occasionalismo, secondo la quale il rapporto fra le due sostanze può spiegarsi unicamente con l’azione di Dio. Con le Monadi, Leibniz , introduce il concetto di “percezioni insensibili”, meglio note come “piccole percezioni”; queste sono in netto contrasto con le tesi di Cartesio e di Locke , che avevano identificato il pensare con la coscienza di pensare. Le “exiguarum perceptionum” hanno il compito di far dialogare le Monadi attraverso sensazioni non accompagnate dalla consapevolezza o dalla riflessione. Il noto filosofo non si ferma qui e sostiene che lo spirito pensa sempre, in quanto è costantemente sottoposto a percezioni, senza che queste debbano necessariamente rientrare nel campo della Coscienza; egli distingue inoltre fra due tipi di inconsapevolezza, quella derivante da percezioni passate e dimenticate, e quelle derivate da percezioni che non hanno mai raggiunto il livello della consapevolezza. In un penetrante passo dei “Nuovi saggi sull’intelletto umano” , egli descrive queste percezioni, che pur non coscienti, producono “reali mutamenti nell’anima”.

" D'altra parte vi sono mille segni che fanno credere essere in noi ad ogni istante un' infinità di percezioni, ma senza appercezione e senza riflessione; cioè a dire reali mutamenti nell'anima, dei quali non abbiamo coscienza perché le impressioni relative sono o troppo piccole o troppo numerose o troppo uniformi, di modo che non hanno nulla che le caratterizzi partitamente; unite ad altre tuttavia, esse non mancano di fare il loro effetto e di farsi sentire nel complesso almeno confusamente ".

La nozione di Inconscio viene rielaborata dall’Idealismo tedesco, che lo eleva ad un piano Trascendente. Per Fitche , è inconscia l’attività infinita dell’Io che, delimitandosi, produce il non-Io. Il sapere infatti, richiede per esistere che, all’Io spirituale si presenti un’alterità da rappresentare e da configurare, un’alterità che nella sua concretezza non si può dedurre logicamente dalla posizione originaria dell’Io. Detto questo, Fitche vede che nella costituzione della Coscienza non operano solo fattori Teoretici (immaginazione, intelletto, giudizio, ragione), ma anche e insieme fattori Pratici (sentimento, impulso, volontà). D’altra parte la spiegazione della Coscienza non può essere data soltanto dal fatto che in essa agisce l’Io spirituale, ma richiede una azione, “un urto”, dall’esterno. In Schelling l’Inconscio diventa un aspetto fondamentale dell’Assoluto, che si configura come la figura di inconsapevolezza nella Natura. Essa è un “organismo senziente” che si autoproduce razionalmente in una sequenza di gradi sempre più complessa, pur in assenza di finalità razionali esplicite. L’uomo è certo una tra le forze naturali, ma il suo agire introduce un finalismo nel mondo delle necessità e casualità naturali. Il rapporto tra la coscienza spirituale-soggettiva dell’uomo e l’inconscio oggettivo della natura è espresso nelle righe di seguito, tratte dal “Sistema dell’Idealismo trascendentale” (1800).

Non si può concepire come in pari tempo, il mondo oggettivo si adatti alle nostre rappresentazioni, e le nostre rappresentazioni al mondo oggettivo, se tra i due mondi, l’ideale e il reale, non esiste un’armonia prestabilita. Ma quest’armonia prestabilita non è a sua volta neanche pensabile, se l’attività da cui è prodotto il mondo oggettivo non è originariamente identica con quella che si mantiene nel volere e viceversa. Ora, è senza dubbio un’attività produttiva quella che si manifesta nel volere: ogni agire libero è produttivo, ma produttivo con coscienza. Se ora si pone che, siccome le due attività devono essere nel principio una sola, quella medesima attività che nell’agire libero è produttiva con coscienza, nella produzione del mondo sia produttiva senza coscienza, allora quell’armonia prestabilita è reale e la contraddizione risolta ”.

Quindi per Schelling “la natura comincia in maniera inconscia e finisce coscientemente”. Inoltre smentendo in maniera decisa Cartesio afferma che fra Natura e Spirito vi è una profonda unità, la prima è Spirito invisibile, il secondo è Natura invisibile; le forze di attrazione e repulsione operanti negli enti della natura sono gli stessi principi attivi nell’intuizione dello spirito umano, ciò spiega l’armonia prestabilita che regola i rapporti tra mondo oggettivo e soggettivo. Sempre nel“Sistema dell’Idealismo trascendentale”, l’arte viene intesa come culmine extrafilosofico del sapere, in quanto in essa si riflettono necessità e casualità della natura e quindi si presenta come il metodo più idoneo per esprimere e pensare la natura stessa. Il concetto di Inconscio verrà largamente espresso nelle riflessioni di Schopenhauer che influenzeranno in modo significativo i pensatori del suo tempo. Per analizzare tale visione si può partire dall’affermazione che apre “Il mondo come volontà e rappresentazione”, capolavoro del filosofo di Danzica: “Il mondo è mia rappresentazione”. Il fatto che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere le cose per quelle che sono, che tutto ciò di cui si ha conoscenza certa si trovi dentro la nostra coscienza, è una realtà già affermata nella filosofia moderna. Schopenhauer si spinge oltre: la rappresentazione ha due aspetti necessari ed inseparabili, il soggetto e l’oggetto, quest’ultimo esiste per il soggetto solo grazie all’azione che esso esercita nello spazio e nel tempo, dunque nella rappresentazione, la realtà non si esprime nella sua verità, ma nella sua apparenza, che la nasconde come un velo. Sottesa a questa apparenza fenomenica vi è la realtà noumenica, che secondo Kant non è conoscibile, Schopenhauer viceversa afferma che il noumeno è per l’uomo accessibile, in quanto esso è espresso dalla volontà, alla quale si accede attraverso il corpo, dove noi viviamo, godendo e soffrendo; quindi più che conoscenza e intelletto, noi siamo, per Schopenhauer vita e volontà di vivere, cioè un impulso irresistibile che ci spinge a vivere ed agire; il nostro stesso corpo è nient’altro che la manifestazione esteriore delle nostre brame interiori. Il corpo è volontà resa visibile. Essendo poi la causalità della volontà a noi del tutto ignota si può affermare che è l’inconscio la causa vera del comportamento, mentre le motivazioni coscienti sono relegate ad un ruolo subordinato, sono solamente razionalizzazioni che mascherano i reali motivi dell’agire. Ogni comportamento, anche il più nobile, è dettato da un impulso di realizzazione della volontà, così un amore romantico è solo copertura della volontà di soddisfazione di un istinto sessuale. Schopenhauer afferma che questa forza oscura si rappresenta in ogni essere come una sorta di “volontà cosmica” possente e irrazionale, l’individuo è mero strumento ed espressione della volontà di vita della natura. L’uomo solamente comprende la tragicità e l’assurdità di queste dinamiche e vive in perenne oscillazione tra il dolore, prodotto da una tensione nella ricerca di una impossibile liberazione da questa condizione e la noia, derivata da un effimero e temporaneo appagamento; dei sette giorni della settimana, sei sono di dolore, e il settimo è di noia. Come si comprende da queste parole, Schopenhauer perviene ad una delle più radicali forme di pessimismo cosmico di tutta la storia del pensiero, ritenendo che il male non sia solo nel mondo, ma nel principio stesso da cui tutto dipende. Egli è polemico con tutti i filosofi che teorizzano un fine ultimo architettato da un organismo perfetto, un Dio, o una ragione immane come in Hegel , e pur considerando questa visione come consolatrice, derivante dalla constatazione della sua persistenza nel tempo, non può che dichiararla palesemente falsa, il mondo non è il regno di una onnisciente logica ma un’esplosione di forze irrazionali, il teatro dell’illogicità e della sopraffazione. Schopenhauer può essere considerato il primo ateo dichiarato e irremovibile: come trovare il posto per un Dio buono, se tutto è sofferenza, dolore, caos, assurdo, non senso? Viene dunque minata alle fondamenta la classica prova ontologica: non avendo concetto di Dio, non si può affermarne l’esistenza, neanche implicitamente. Gli dei sono il sintomo del doppio bisogno che spinge l’uomo da un lato verso la ricerca di un aiuto e sostegno, dall’altro verso l’occupazione e il passatempo, ma tutto ciò è completamente inutile: invano l’uomo chiede aiuto agli dei, poiché rimane implacabilmente in preda al suo destino. Per Schopenhauer l’unico modo per trovare una pace è quello di “cessare di volere”, sottraendosi dal dolore, dalla noia e dalla infinita catena dei bisogni. Tale atteggiamento prenderà il nome di nolontà e si potrà attuare attraverso varie tappe, che vanno dal suicidio, all’arte, alla pietà, all’ascesi. L’espressione che può completamente liberare ogni individuo, eliminando la soddisfazione e risorgenza del bisogno, è proprio quest’ultima in cui la noluntas si fa estrema, ponendo l’essere nella condizione di rinunciare alla propria individualità e alle proprie esigenze. Anche l’arte può sottrarre dal gorgo dei desideri, essendo conoscenza pura e disinteressata, che si rivolge alle idee, alle forme pure, ai modelli eterni delle cose. Tra le arti indicate da Schopenhauer spicca la tragedia, che “esprime e oggettiva il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità…”, e, ancor di più, la musica: essa è l’immediata rivelazione della volontà a se stessa, ci mette in contatto, al di là dei limiti della ragione, con le radici stesse della vita e dell’essere. Ogni arte è quindi liberatrice, catartica, però la sua liberazione è pur sempre temporanea e parziale: i momenti felici della contemplazione estetica sono istanti rari e brevi, e sono solo di conforto alla vita stessa ma non sono la redenzione definitiva, che rimane l’ascesi. Eduard von Hartmann , fonda le sue tematiche spiritualistiche sull’armonizzazione delle filosofie di Hegel, Schelling e Schopenhauer, di cui per altro fu allievo. Egli afferma che l’inconscio è l’essenza della realtà, un principio universale, presente ed attivo ovunque, che si manifesta nella materia come pensiero. Von Hartmann eleva l’inconscio al ruolo d’agente provvidenziale di natura antropomorfica, facendolo “un elemento ignoto che sceglie, che agisce con saggezza” e che “lavora secondo gli interessi del fine che perseguiamo”. Egli fornirà una sintesi di inconscio, utilizzando sia nozioni filosofiche che dati scientifici, e realizzando, una singolare miscela metafisico-scientifica, in cui le considerazioni fisiologiche sono gli strumenti di una “induzione metafisica”, che opera una sorta di trattamento metafisico dei fatti. Partendo dalle manifestazioni principali dell’inconscio, nella “vita corporale”, poi nello “spirito umano”, egli intende risalire al cuore stesso dell’inconscio, al “cuore centrale cui convergono come fossero raggi” le espressioni fenomeniche parziali. Friedrich Nietzsche nel suo cammino, teso ad una spietata negazione dell’eredità cristiana e più in generale della filosofia occidentale, giungerà ad una definizione molto precisa delle dinamiche e manifestazioni inconsce, che per stessa ammissione influenzeranno, sia dal punto di vista terminologico che concettuale, Freud. Nelle prime opere, fortemente ispirate alle esperienze di Schopenhauer, Nietzsche critica aspramente la cultura tedesca contemporanea, considerandola “teoretica”, in quanto tende a subordinare l’Arte al concetto; viceversa esalta la tragedia greca che, riuscendo ad unire l’ebbrezza creativa dell’impulso dionisiaco, con la moderazione, la razionalità e l’equilibrio dell’impulso apollineo, si dimostra la forma suprema d’Arte. Nelle opere successive, che aprono una fase “neoilluministica”, avviene la vera scoperta dell’inconscio, tassello fondamentale per la totale ridiscussione della morale delle filosofie, che prendendo spunto dal titolo di una suo opera, sono definite “umane, troppo umane”. In “Aurora” si legge che gli uomini, “non fanno nulla per il loro ego, bensì soltanto per il fantasma dell’ego”, gli uomini sono sconosciuti a se stessi poiché “vivono tutti insieme in una nebbia di opinioni impersonali e semipersonali”. La volontà di verità pone le proprie radici in questa oscura foschia, ma non vi sono verità se non all’interno di una interpretazione, che è essa stessa una mera storicizzazione instaurata dall’uomo per un bisogno di stabilità: “ciò che sembriamo essere, secondo gli stati per i quali soltanto abbiamo coscienza e parole, e quindi lode e biasimo, nessuno di noi lo è; stando a queste grossolane manifestazioni, che sono le sole a farsi conoscere, noi mal ci conosciamo, ricaviamo una conclusione da un materiale in cui le eccezioni prevalgono sulla regola, erriamo nel leggere questa scrittura alfabetica del nostro sé apparentemente chiarissima”. Secondo Nietzsche il rapporto tra gli istinti inconsci e la vita cosciente, emerge nel sogno, e venti anni prima de “L’interpretazione dei sogni” di Freud, lo considera come soddisfacimento allucinatorio di un istinto rimasto insaziato. Tuttavia gli stessi istinti non sono il testo di una rappresentazione, che prende forma nella coscienza, ma bensì sono già interpretazioni, infatti sono loro, nella continua ricerca di un soddisfacimento, ad interpretare gli stimoli interni ed esterni ed a guidare l’intera nostra vita psichica. Ne “La gaia scienza”, vi è un attacco incrociato alla civiltà occidentale; con una affermazione, che secondo lo stesso Nietzsche, “fa tremare le vene dei polsi”, egli afferma che “Dio è morto!”, “Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso!”. Egli ritiene che la morale, da Platone, attraversando tutto il pensiero cristiano, ha ridotto l’uomo ad un ruolo subordinato che lo ha portato alla vergogna e di conseguenza ad una infelicità di fondo. La critica si estende anche al sapere, metodologico e spassionato, e criticando Spinoza , in un aforisma afferma:

Che cosa significa conoscere? Non ridere, non lugere, neque destarsi, sed intelligere! - Dice Spinoza, con quella semplicità e sublimità che è nel suo carattere, Cionondimeno: che è in ultima analisi questo intelligere se non la forma in cui appunto ci diventano a un tratto avvertibili questi tre fatti? Un risultato dei tre diversi e tra loro contraddittori impulsi a voler schernire, compassionare, esecrare?

Nietzsche può quindi concludere che la conoscenza non è qualcosa di contrapposto o estraneo agli istinti, bensì “soltanto un certo rapporto degli istinti fra loro” e solo la presa d’atto della loro importanza, può portare l’uomo ad emanciparsi, sia dalla teoretica che dalla sottomissione ad un volere supremo. In “Al di là del bene e del male”, la contestazione del modello conoscitivo classico va di pari passo alla critica radicale del soggetto. Nietzsche, si scaglia contro Kant, considerandolo tartufo, e contro Spinoza, definito ciarlatano. La volontà di conoscenza propria della filosofia è per lo più segretamente diretta dagli istinti del filosofo, e convogliata da essa in determinati binari. E’ quindi una mera falsificazione affermare il soggetto “io” e la condizione del predicato “penso”, in quanto “un pensiero viene quando è lui a volerlo, e non quando ‘io’ lo voglio”. Perciò sarebbe più corretto dire “esso pensa”, se non fosse, come già esposto in precedenza, che anche questo “esso” contiene un’interpretazione del processo e non rientra nel processo stesso. Questi termini, nei quali si articolava la conoscenza filosofica tradizionale, sono espressione di una fede metafisica nel mondo vero, e in quanto tali segnati da un antivitalismo di fondo; la volontà di verità è definita un “principio distruttore ostile della vita”, “un occulto desiderio di morte”, in ultima analisi è concepita come volontà del nulla e in quanto tale si scontra con “i presupposti fondamentalissimi della vita”. Nietzsche elabora un modello conoscitivo in grado di interpretare la realtà dopo la morte della metafisica; tale teoria si basa su una conoscenza prospettica, che intende superare la rigida divisione tra verità ed illusione, mondo reale e apparente, lo stesso intelletto umano è strutturato secondo forme prospettiche, con le quali soltanto possiamo cogliere la realtà. L’uomo della conoscenza e quindi un Ecken-steher, ossia uno che sta all’angolo; “Non possiamo girare con lo sguardo il nostro angolo” e chiederci come apparirebbero le cose ad altre specie di intelletto, d’altra parte sarebbe una “ridicola presunzione” decretare il nostro l’unico angolo visuale possibile, “il mondo è piuttosto divenuto per noi ancora una volta infinito: in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite”. Nella “Genealogia della morale”, Nietzsche smantellando la morale ne risale fino all’origine. Essa è uno strumento di potere, di dominio; suddivide gli uomini in “forti”, che la usano per prevaricare l’altra categoria, i “buoni”, questi, deboli, incapaci di elaborare un pensiero autonomo, la usano utilitaristicamente per predicare falsa democrazia rendendola una sorta di “morale degli schiavi”, nata dal risentimento verso la classe dei forti. La creazione di questo antimondo, indebolisce l’uomo, lo porta ad allontanarsi dalla sua natura originaria; ma la natura si è sempre vendicata e gli istinti si sono rifugiati all’interno dell’uomo, Nietzsche, anticipando ancora una volta Freud, scopre la resistenza degli istinti e delle pulsioni, e la conseguente impossibilità di annullarli con la sola forza della coscienza e della morale, inoltre nota come, se non sono liberati per vie naturali, essi possono esercitare un’azione ancora più perversa. L’uomo appare in queste parole come un “animale malato”. Nietzsche proporrà una tra trasvalutazione di tutti i valori, atta a smuovere il nichilismo di fondo, che culminerà con i concetti di volontà di potenza e di superuomo. Purtroppo l’esposizione di questi due concetti, dopo la morte di Nietzsche avvenuta in seguito ad una lunga malattia mentale, verrà manipolata dalla sorella, che pubblicherà, postuma, una raccolta di aforismi, strutturata secondo una fisionomia anti-umanitaria ed addirittura razzista, su cui farà leva il nazismo. Soltanto dopo il secondo dopoguerra sarà rivalutata l’opera nietzschiana, dando vita all’edizione completa delle opere, che dimostrerà la totale estraneità del filosofo al nazismo. Un altro filosofo che influì, non soltanto nel proprio ristretto ambito, ma con le sue riflessioni preparò un terreno fertile per tutte le scienze umanistiche, fu senza ombra di dubbio Henri Bergson ; per sottolineare l’importanza avuta, nel 1928, gli venne attribuito il premio Nobel; fu il primo filosofo premiato con questa onorificenza. Bergson critica la filosofia positivistica, ritenendola una mero scientismo, che cerca meccanicamente di stabilire certezze su temi metafisici. Nell’ottica di questa ridefinizione degli ambiti filosofici è di grandissima importanza l’introduzione del suo concetto di tempo della coscienza come durata. Il tempo non è una reversibile successione di attimi distinti, tutti di eguale importanza; se la spazialità è la caratteristica delle cose, la durata è la caratteristica della coscienza; durata vuol dire che l’Io vive il presente e nel presente, con la memoria del passato e l’anticipazione del futuro. Passato e futuro possono vivere soltanto in una coscienza fortemente radicata nel presente. Bergson distingue la memoria, il ricordo e la percezione; la memoria è legata al corpo ma è sempre presente, anche se a noi non è direttamente accessibile, il ricordo è ciò che filtra dalla memoria perché richiamato dalla percezione, che è “l’azione possibile del nostro corpo sugli altri corpi”; la percezione non ha quindi un carattere puramente conoscitivo ma pratico, operativo, perché percepire significa modificare la realtà materiale in base alle esigenze del nostro corpo, cioè significa, in pratica, agire. Un’altra delle celebri ridefinizione dialettiche è quella che evidenzia le diversità tra istinto, dialettica e intuizione; l’istinto è specializzato e ha il compito di usare e costruire gli strumenti organici che sono già presenti nell’organismo stesso; l’intelligenza, invece, è la facoltà di utilizzare utensili o oggetti per fabbricare altri utensili, variandone indefinitamente la fabbricazione; appare dunque evidente come l’intelligenza sia proprietà esclusiva dell’uomo, per questo secondo Bergson, l’uomo, prima di essere sapiens, è homo faber. Per ragioni pratiche l’intelligenza astrae, modellizza, campiona la realtà e se questa facoltà risulta fondamentale per la progettazione è altrettanto evidente che non possa spiegare la vera realtà perché, mille fotografie di Parigi non sono Parigi; a tale proposito Bergson dice: “ci sono cose che soltanto l’intelligenza è capace di cercare, ma che da sé non troverà mai; soltanto l’istinto potrebbe scoprirle ma esso non le cercherà mai”; fortunatamente l’uomo è dotato di intuizione, essa è immediata come l’istinto e consapevole come l’intelligenza, è visione dello spirito da parte dello spirito, ed è proprio l’intuizione che ci svela la durata della coscienza e il tempo reale, e che ci rende consapevoli di quella liberà che siamo noi stessi. Nel 1907, Bergson sintetizza il suo pensieri ne “L’evoluzione creatrice”, con questa opera estende alla vita biologica le teorie prima definite sulla base della coscienza; la vita è dunque creazione libera e imprevedibile, è slancio vitale, mentre la materia non è altro che il momento dell’arresto di quello slancio vitale; la materia prende forma dal ricadere di quello slancio che con la sua creatività, crea e arricchisce, generando la vita. In questa prospettiva è molto forte, in Bergson, l’aspetto mistico; egli esalterà la religione dinamica, il misticismo, che è “una presa di contatto e, di conseguenza, una coincidenza parziale, con lo sforzo creatore, che la vita manifesta. Questo sforzo è di Dio, se non è Dio stesso… Dio è amore ed oggetto di amore: qui è tutto il misticismo”. L’esperienza del divino come amore deve tradursi in una operosità che mira la creatività dell’uomo e l’amore per i propri simili, da qui, la differenza tra misticismo orientale e quello cristiano; mentre il primo è contemplativo e non crede nell’efficacia dell’azione, il secondo è un superiore punto di slancio per l’azione del mondo; l’amore per Dio, diviene così, amore per tutta l’umanità. Bergson non tratterà mai esplicitamente l’inconscio, ma la sua definizione di tempo come durata e la sua differenziazione delle componenti intellettive, darà ottime basi, quasi una metodica, che si prestano perfettamente per definire il ruolo che l’inconscio ha nella nostra vita di uomini e di umanità. Alla fine dell’Ottocento, la psichiatria austro-tedesca sosteneva posizioni di tipo positivistico e naturalistico, spiegando le sofferenze mentali come conseguenze di lesioni o disfunzioni celebrali. Inoltre si riteneva essere la coscienza a poter governare in modo totalitario la psiche. Un giovane medico psichiatra, Sigmund Freud , attraverso un metodo analitico applicato direttamente ai propri pazienti, riuscirà a concepire l’importanza delle istanze inconsce, che vanno al di la della consapevolezza del soggetto; questa scoperta segnerà l’atto di nascita della psicoanalisi. Essa travalicherà immediatamente l’ambito medico terapeutico nel quale è stata concepita, ed influirà pesantemente su tutte le scienze umane, dalla letteratura, alla poesia, alla pittura ed ovviamente alla filosofia. Freud affiancherà ad una pratica medica già assodata, come l’ipnosi, un’altra terapia, denominata “delle libere associazioni”, o come veniva chiamata dai suoi pazienti “talking cure”; con essa, dopo aver messo il paziente a proprio agio, lo si lasciava libero di esprimere ogni cosa passasse per la testa, senza alcuno scrupolo religioso e morale, senza omettere nulla, che pure poteva sembrare ridicolo o irrilevante; nel momento in cui il flusso dei pensieri subiva un blocco improvviso, si poteva identificare una esperienza “rimossa”, ossia qualcosa che era stato tenuto lontano dalla coscienza per evitare la sofferenza del ricordo; da qui il noto concetto freudiano di “resistenza” e “rimozione”. Freud, teorizzerà queste scoperte nella prima topica (dal greco topoi, luoghi), già descritta nell’”Interpretazione dei sogni”. Con questa topica, verranno stabiliti tre luoghi psichici; l’inconscio, che è una forza attiva, dotata di proprie finalità ed operante secondo una propria logica, totalmente differente da quella della vita cosciente; in esso sono presenti gli elementi psichici stabilmente inconsci che sono mantenuti tali da forze come la rimozione; per esempio sono contenuti esperienze spiacevoli, forzatamente dimenticate; si ricordi però che allontanare dalla coscienza non significa dimenticare, ogni esperienza può tornare in superficie e, molto spesso, la nuova manifestazione sarà caratterizzata da dinamiche nevrotiche. Il secondo luogo è il conscio, che si identifica con la nostra attività diurna consapevole, che per forza di cose è una situazione alquanto fluida, infatti è impossibile essere perfettamente consapevoli di tutto quello che facciamo e che vogliamo. Tra questi, si interpone il preconscio, che comprende l’insieme dei ricordi, rappresentazioni, desideri, ossia fattori psichici che pur rimanendo temporaneamente inconsci, possono, in virtù di un lieve sforzo, divenire consci. Freud chiamerà conscienzialisti, coloro i quali seguendo i canoni filosofici classici, equiparano la psiche alla coscienza; l’accusa non è meno lieve a coloro che capovolgeranno questa visione, non riuscendo però ad attribuire un ruolo alla coscienza, finendola per relegare ad un ruolo di pura apparenza. Secondo Freud la coscienza gestisce ruoli fondamentali, quali la direzione dell’attenzione e la regolazione degli spostamenti dell’investimento energetico. Nell’indagine psicoanalitica assume una fondamentale importanza il sogno, definito la “via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica”; in esso viene meno gran parte della forza di resistenza e quindi è uno strumento per l’appagamento di un desiderio; questa gratificazione avviene però in modo allucinatorio, attraverso mascheramenti e deformazioni attuati dal residuo di censura. La comprensione delle dinamiche oniriche non è cosi semplice, a tale proposito Freud detta cinque caratteristiche base, che possono essere usate per comprendere il significato latente del sogno: la condensazione, cioè la tendenza ad esprimere in un unico elemento più elementi tra loro collegati; lo spostamento, che consiste nel trasferimento di interesse da una rappresentazione ad un’altra; la drammatizzazione ossia l’alterazione delle situazioni; la rappresentazione per opposto, in cui un elemento può significare il suo opposto; la simbolizzazione, in cui un elemento può essere al posto di un altro. L’interpretazione del sogno come desiderio permette di spiegare non solo l’inconscio del singolo ma anche quello dell’umanità, nonché fatti culturali come l’arte, il mito, il folclore e fatti accidentali come i motti di spirito e i lapsus. Il desiderio si va a collocare in una situazione psichica in cui si intersecano ontogenesi, ossia nascita e infanzia dell’individuo e filogenesi, nascita e infanzia dell’umanità; la sua indagine porta di conseguenza ad una scoperta di significati arcaici che sono comuni al mito e alla religione; anche per questo Freud, ebreo di nascita, si dichiarerà ateo. Negli scritti di Metapsicologia, viene affiancato al principio di piacere, che è comunque ritenuto la base di ogni cosa, il principio di realtà, con esso il soddisfacimento dei desideri viene mitigato in base alle condizioni imposte dalla realtà, anche se questo può risultare spiacevole; mentre il principio di piacere tende ad ottenere tutto subito, il principio di realtà può differire la soddisfazione in vista di una meta possibile, ritenuta più sicura e meno illusoria, entra quindi in gioco il processo di sublimazione, che consiste nel reagire positivamente a situazioni spiacevoli, in modo da ottenere in qualche modo un soddisfacimento, anche se non è quello che originariamente si cercava. Questo dualismo verrà precisato in alcuni scritti successivi, nei quali Freud affianca alla pulsione sessuale, chiamata Eros, l’esistenza di una pulsione di morte, Thanatos, che è una tendenza distruttiva inerente alla vita stessa. Freud giunge a questa conclusione dall’osservazione di un comportamento caratterizzato dalla coazione a ripetere, ossia quando un soggetto ripete ossessivamente operazioni anche spiacevoli, che riflettono, in modo più o meno mascherato, elementi di conflitti passati. Dalla nuova esperienza maturata, nell’opera “L’Io e l’Es”, Freud, teorizzerà la seconda topica; con essa verranno definiti tre nuovi luoghi psichici, l’Es, l’Io ed il SuperIo che si vanno ad intersecare con i precedenti. L’Es è il serbatoio dell’energia psichica, e contiene l’insieme delle espressioni dinamiche inconsce delle pulsioni, che sono in parte innate ed in parte acquisite; l’Es è retto dal principio di piacere che spinge alla ricerca della libido. La seconda istanza, l’Io, racchiude tutte le esperienze dell’individuo, il pensiero razionale e controlla le percezioni; esso è in gran parte inconscio, ed è molto importante perché deve mediare, attraverso le resistenze, i conflitti tra le pulsione dettate dall’Es e la realtà imposta dal SuperIo. Quest’ultimo è la coscienza morale che si forma in base all’educazione e all’ambiente in cui si vive; la sua formazione avviene al termine del complesso edipico; la funzione del SuperIo è quella di giudice e censore dell’Io, non a caso all’interno dell’Io, la percezione inconscia delle critiche del SuperIo verrà vissuta come senso di colpa. L’ambito sessuale sarà per Freud un caposaldo, in particolare attraverso l’analisi dei sogni nei suoi pazienti, giungerà a scoprire la sessualità dell’infanzia; in primissima età essa è pura ricerca di piacere, svincolata da ogni bisogno riproduttivo e di conseguenza ricercata in ogni parte del corpo; il bambino sarà perciò definito perverso polimorfo. Freud suddividerà lo sviluppo della sessualità in cinque fasi: la prima è la fase orale, che va dalla nascita fino ai due anni circa, nella quale il bambino concentra la ricerca della libido nella bocca; infatti si può notare come essi provino piacere nel portare qualsiasi cosa alla bocca, dal seno della propria madre ai più strani oggetti; attraverso questa fase avviene il primo approccio conoscitivo con la realtà esterna. La seconda fase è chiamata fase anale e va dai due ai quattro anni circa, durante essa il bambino prova piacere a trattenere e rilasciare gli sfinteri anali, ed è strettamente legata agli inviti dei genitori a trattenere e rilasciare le feci, quello che comunemente viene definito “educazione al vasino”. La terza e importantissima viene chiamata fase fallica, va dai quattro ai sei, sette anni circa; il bambino scopre la diversità del proprio organo genitale rispetto a quello degli “amichetti” e delle “amichette”, in questo momento è normale l’insorgenza di un complesso di castrazione nel maschio, poiché esso ritiene che la bambina sia stata punita col taglio del pene, mentre nella femmina insorge l’invidia nei confronti del bambino che ha quella cosa che lei non ha; sempre in questo periodo nasce, e si sviluppa più o meno inconsciamente, il complesso di Edipo, che va ad indicare la normale crisi emotiva, nella quale il bambino prova desiderio sessuale verso la madre e gelosia nei confronti del padre, la bambina vorrebbe viceversa “sposare” il padre ed è gelosa con la madre; questo periodo è in genere superato col processo di identificazione nel genitore del proprio sesso, nel quale il bambino impara ad assumere i comportamenti adatti al suo sesso nella società in cui vive, è da questo punto che si diviene “normali”, mentre prima si era “bisessuali”; in questa fase si viene perciò a creare il SuperIo che assume solitamente la figura del padre, il quale attraverso i suoi insegnamenti fa capire al bimbo ciò che è bene e ciò che è male, riuscendo a fargli interiorizzare questi comportamenti. Dopo le prime tre fasi, caratterizzate da una sessualità infantile, vi è la fase di latenza nella quale le pulsioni sessuali sono nascoste, latenti, e l’attenzione del bambino è per lo più rivolta allo studio e alla sua accettazione in ambiti sociali e culturali. Con l’avvento della pubertà, si apre la fase genitale, che sarà il preludio per la normale attività sessuale dell’adulto. La questione religiosa viene affrontata da Freud in diverse opere, in generale la definisce come una illusione, nel senso che è un appagamento illusorio dei desideri più antici dell’umanità: la felicità, l’immortalità, la giustizia, l’amore. La stessa figura di Dio per Freud non sarebbe altro che la proiezione dei rapporti psichici ambivalenti che l’uomo ha con il proprio padre terreno; in un celebre aforisma, Freud dice: “Dio? Dio è solo un padre esaltato!”. Accanto al “maestro” Freud si sono raccolti numerosi seguaci, che hanno creato la Società Psicoanalitica Internazionale. Alfred Adler , pur avendo aderito ad essa già nel 1902, ha presupposti di lavoro molto differenti, non a caso poco meno di dieci anni più tardi si differenziò da tale movimento. La concezione Adleriana è fortemente influenzata dalle sue origini: nasce in una famiglia ebraica di ceto piccolo borghese, vive un’infanzia difficile, colma di problemi fisici che lo inducono ad una riflessione sui sensi di inferiorità e sulle difficoltà di socializzazione, che teorizzerà nel corso della sua vita; da adolescente vede nei caffè viennesi luoghi perfetti per la discussione e lo scambio di opinioni, da qui si crea la sua abitudine a diffondere la dottrina psicoanalitica al di fuori di ambienti elitari. La visione Adleriana sarà maggiormente rivolta all’interazione tra gli uomini, ed a una ricerca delle dinamiche sociali; la verifica dei suoi studi avverrà direttamente sui campi di guerra del primo conflitto mondiale, nel quale avrà modo di osservare le reazioni psicopatologiche dei soldati. Al termine della guerra abbraccia una politica socialista, creando le prime strutture psicopedagogiche. Le sue teorie otterranno grande spolvero nel nuovo mondo, nel quale effettuerà numerose conferenze, e nel quale decise infine di trasferirsi, ottenendo per altro una prestigiosa cattedra alla Columbia University. Gli ultimi anni della sua vita lo videro ancora impegnato su temi psicologici di carattere sociale, dalla criminologia alla pedagogia. Il suo movimento prende il nome di Psicologia Individuale e trova nell’opera “Conoscenza dell’Uomo” il testo più importante. Molte critiche mosse al padre della psicanalisi sono accuse di “pansessualismo”, ossia di una esagerata considerazione del lato puramente sessuale; Erich Fromm , pur sostenendo appassionatamente la psicoanalisi, sarà tra questi, e proprio per discuterne la tesi scriverà un libro intitolato “Grandezza e limiti del pensiero di Freud”; in questa summa riconoscerà la genialità freudiana nell’intuire come il pensiero razionale spesso veli i nostri sentimenti più autentici, quelli inconsci, e pertanto “nasconda la verità”; la libertà non è soltanto conoscere “ciò che credo consciamente, ma anche ciò che reprimo perché non voglio pensarci”. Questa scoperta è per Fromm egualmente importante alla scoperta dell’ideologia borghese da parte di Marx ; Fromm, proporrà spesso il parallelismo tra questi due rivoluzionari nel corso della sua vita. Egli curerà molto gli aspetti sociali degli istinti, trasponendo l’Es alle masse e l’Io all’elité razionale che lo tiene sotto stretto controllo; alla critica di pansessualismo se ne aggiungono altre, in merito al complesso di Edipo Fromm afferma: “Dove Freud errava…era nella visione dell’attaccamento alla madre come di un attaccamento di natura essenzialmente sessuale… non è il desiderio sessuale a rendere il rapporto con la madre così intenso e vitale. È l’aspirazione a una situazione nella quale il bambino è protetto e amato, e non ha ancora responsabilità da affrontare”; le critiche si estendono anche alla terapia, in merito alla concezione del Transfer, ossia quel processo secondo il quale, il paziente trasferisce i suoi odi e sentimenti che prova per il proprio essere all’analista, Fromm nota delle rassomiglianze con il rapporto tra il popolo e i grandi dittatori, come ad esempio Hitler, per i quali la folla ha rispetto e ammirazione ma anche timore e risentimento. La critica si fa radicale con gli imitatori di Freud, con in testa Reich , che hanno ridotto la nevrosi ad una meccanica soddisfazione di istinti sessuali repressi, inventando per tanto la celebrazione del consumismo sessuale. Per Fromm invece solo la libertà rende liberi e sconfigge la repressione, e tale tesi riprende il meglio dei filosofi di ogni tempo, da Socrate a Marx passando per Spinoza. I veri mali dell’uomo sono l’illusione, ovvero l’ignoranza, l’odio e la brama di possesso, da cui consegue necessariamente la sofferenza. L’unico modo per emancipare la propria libertà di uomini è dunque, la formazione di un pensiero critico, costruito attraverso una conoscenza, anche e soprattutto di se stessi. Oltre ai sopraccitati molti altri ebbero come maestro Freud ma in assoluto il più grande è stato lo svizzero Carl Gustave Jung . Fu lo stesso Freud a volerlo conoscere dopo aver letto un suo libro sulla “dementia praecox”; Jung in merito racconta: “M’invitò lui, ed il nostro primo incontro ebbe luogo a Vienna nel febbraio del 1907… conversammo, quasi senza sosta, per tredici ore. Freud era il primo uomo veramente notevole che avessi mai incontrato… In lui non v’era nulla che fosse banale: lo trovai d’un’intelligenza fuori dal comune, acuto, notevole sotto ogni aspetto”. Come si evince vi è una grande stima reciproca, stima che si esplica in numerosi anni di collaborazione, nei quali effettuano interessanti esperienze comuni; ad esempio durante una serie di congressi in America, analizzano vicendevolmente i loro sogni, traendone preziose conclusioni; purtroppo proprio in questa occasione c’è lo scoppio del loro rapporto, Freud accuserà il proprio collaboratore di mancanza di rispetto, il quale risponderà con le dimissioni dall’Associazione Internazionale della Psicoanalisi. La vera causa di questa scissione è però ad un livello epistemologico, ed è radicata nel DNA culturale di Jung; in gioventù egli formò un substrato misticheggiante dato da una innata passione per la storia delle culture di tutto il mondo e per una profonda passione per lingue andate perdute, come il sanscrito. Dopo la scissione dal maestro creerà una nuova dottrina psicologica che prenderà il nome di Psicologia Analitica conosciuta anche come Psicologia dei Complessi. La sua concezione di libido è assai differente da quella freudiana e molto più simile allo slancio vitale di Bergson, essa è una pulsione dinamica della vita, che garantisce la conservazione degli individui e della specie. I contenuti rimossi, secondo il suo pensiero, non sono di natura esclusivamente sessuale, né tanto meno, sono esclusivamente del singolo, ma bensì sono manifestazione di un’unica energia omnipervasiva presente nella natura, che potrà rivolgersi internamente o esternamente rispetto al singolo, nel primo caso avremo un tipo introverso nel secondo un tipo estroverso. L’accusa rivolta al pensiero freudiano è di privilegiare troppo la componente biologica, a scapito di quella spirituale con la conseguenza di rappresentarla in modo pessimistico, essa è invece una forza essenzialmente sana, protesa verso il futuro, dalla quale dipendono le realizzazioni più importanti della cultura occidentale. Il modo con cui la libido si manifesterà è ispirato dagli archetipi, questi sono condizioni congenite di intuizione, modelli ideali innati, che emergono nei sogni, nei simboli, nei miti e nelle allucinazioni comuni ad ogni popolazione e forma di civiltà del passato come del presente. La nevrosi è dunque prodotta, non tanto da avvenimenti della prima infanzia, ma da un conflitto presente, dall’incapacità di adattarsi alle richieste dell’ambiente o di trasformarlo: in questa situazione prevale l’inerzia, che fa regredire l’impulso libidico a stadi arcaici; mentre già dall’antichità, in uno stadio normale, grazie all’attività di produzione dei simboli, l’uomo riuscì a trasferire l’energia psichica da manifestazioni pulsionali immediate, a manifestazioni mediate, orientate verso fini creativi e, in tal modo, effettuò la transizione dal piano della natura a quello della cultura. Non è difficile capire come Jung attribuisca alla spiritualità un ruolo molto importante, quasi necessario, per dare all’uomo la possibilità di trascendere i suoi simboli in ambito religioso. Al di là dell’inconscio personale, il ripensamento junghiano, evidenzia soprattutto il concetto di inconscio collettivo, riconoscendo: “una poderosa massa ereditaria spirituale che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale” e che contiene degli elementi collettivi e comuni ad ogni singolo: gli “archetipi”. Essi sono dei modelli, non concepiti come idee ma piuttosto come possibilità di rappresentazione, ossia disposizioni a riprodurre forme e immagini virtuali, tipiche del mondo e della vita, le quali corrispondono alle esperienze compiute dall’umanità nello sviluppo delle coscienza. Gli archetipi lasciano le loro tracce nei miti, nelle favole e nei sogni, che contrariamente a quanto pensava Freud, non sono appagamento di desideri puramente individuali legati alla sessualità infantile, ma espressioni dell’inconscio collettivo. L’inconscio collettivo non è acquisizione personale; l’inconscio personale consiste principalmente in complessi; il complesso è un insieme organico di contenuti mentali ed emotivi generalmente inconsci, che turbano la vita a livello cosciente del singolo individuo, condizionandone la sua personalità. Essi hanno il compito di mediare tra coscienza e inconscio individuale e tra quest’ultimo e inconscio collettivo; sono strutturati a coppie contrarie, individuate dall’Io e della sua ombra, intesa come possibilità di esistenza respinte dal soggetto come non proprie perché considerate negative. L’obbiettivo della terapia non è per Jung l’eliminazione di questi contrasti, perché sarebbe un impoverimento della persona, ma bensì una loro armonizzazione nel segno di una crescita del Sé. Su questi presupposti Jung costruirà delle tipologie di caratteri, ossia di forme individuali stabili, la quale è fondamentalmente sulla distinzione tra introversione e estroversione: nel primo caso l’energia libidica è orientata verso l’interno, mentre nel secondo caso è orientata verso l’esterno; anche se prevale una condizione non è però detto che l’opposto sia scomparso, anzi esso è presente, attivo e molto sensibile, quindi diventare se stessi, od usando una nozione di Jung “individuarsi”, non significa arroccarsi nella propria identità egoica, ma aprirsi alla totalità del Sè. La psicoanalisi nasce in un contesto scientifico, ma acquista importanza grazie alla capacità di Freud di saperla alimentare con concetti filosofici. Freud stesso propone le sue teorizzazioni, non ad uno stretto ambiente medico, ma a tutta la cultura del tempo, tenendo convegni di ampio raggio e cercando di dare alla sua dottrina una valenza di comprensione e riflessione culturale. Purtroppo l’esperienza psicoanalitica è stata spesso abusata, perché ritenuta come “una totalità sufficiente in sé”, e applicata erroneamente “ad litteram”. In questo senso il filosofo Paul Ricoeur ci viene in aiuto, suggerendo due possibili atteggiamenti di fronte agli scritti di Freud, “la lettura” e “l’interpretazione filosofica”. Secondo Ricoeur, questa distinzione oltre che ammessa è dovuta; nel caso della lettura si attua un procedimento da storico della filosofia, che ricostruisce l’architettura del pensiero, avvicinandosi quanto più possibile all’oggettività, attraverso una non-soggettività, ossia subordinando i propri pensieri, le proprie convinzioni, a ciò che vuole dire l’opera stessa, la quale resta il quid che regola la lettura; l’obiezione che può essere mossa alla lettura è che al contrario di una filosofia tradizionale, Freud propone un’indagine analitica che per propria definizione necessita di una competenza, di un apprendistato e di una tecnica, per questo il cammino di una psicoanalisi non potrà mai essere sostituito da una intelligenza libresca; ciò nonostante il senso di quanto è vissuto è essenzialmente comunicabile; l’esperienza può essere traslata e capita per mezzo di una simpatia intellettiva, così come a teatro si possono comprendere situazione, sentimenti, comportamenti non direttamente vissuti, così, attraverso questa simpatia intellettiva, si può comprendere cosa significa un’esperienza non fatta. Il fatto che Freud trasponga le topiche della psiche individuale ad una dimensione di dialettica tra desiderio, Es, e cultura, SuperIo, mostrando la pulsione in, e a partire da, un piano di espressione, in, e a partire da effetti di senso, non fa altro che legittimare la comunicabilità dell’esperienza analitica. Il secondo atteggiamento di fronte ai testi di Freud è quello di una interpretazione filosofica; essa implica la rielaborazione dei concetti per porli come base per la costruzione di un nuovo discorso, è evidente l’obiezione che può essere mossa a questo atteggiamento, infatti il fatto di considerare alcuni aspetti a dispetto di altri può essere ritenuto come il supremo diniego, la più astuta delle resistenze; questa obiezione è smontata dal fatto che lo stesso Freud dichiara di aver messo in luce solo un gruppo di pulsioni, quelle direttamente accessibili alla sua pratica, facendo permeare soltanto un fascio di luce tra gli altri nell’esperienza umana. Come ogni filosofia quella di Freud si crea attraverso un linguaggio anteriore, che è sorgente inevitabile di malintesi, in particolare la scoperta freudiana sta sul piano degli effetti di senso ma viene esplorata con il linguaggio e nella concettualità dell’energetismo dei suoi maestri di Vienna; in questo caso non è sufficiente un riconoscimento delle regole del gioco nel linguaggio, nella fattispecie una correzione sintattica, la psicoanalisi interponendosi nella flessione tra desiderio e cultura deve operare congiuntamente con nozioni appartenenti a questi due piani diversi di coerenza, due universi di discorso, quello della forza e quello del senso; è proprio in questo discorso misto che il desiderio trova la sua esplicazione annunciandosi entro e mediante un processo di simbolizzazione; se questo discorso misto impedisce alla psicanalisi di inclinare dalla parte delle scienze naturali, altrettanto però le impedisce di piegarsi dalla parte della semiologia; le leggi del senso, in psicoanalisi, non possono essere ridotte a quelle della linguistica, la manifestazione del desiderio avviene si in maniera infralinguistica, ma soprattutto in una maniera sovralinguistica, ossia muovendo le significanti insite in grosse cellule del discorso, come possono essere i proverbi e i detti; proprio per queste osservazioni Freud afferma che “sono le parole ad essere trattate da cose e non viceversa”. Ricoeur per riuscire a dare una struttura di riferimento in grado di interpretare queste rappresentazioni della dialettica tra il desiderio e la sua manifestazione simbolizzata, si affida alla filosofia riflessiva, in particolare seguendo Nabert , egli considera che “il comprendere è inseparabile dal comprendersi”, che l’universo simbolico è l’ambito dell’auto-esplicazione; in questo modo si abbatte il problema di senso, ma soprattutto non c’è apprensione diretta di sé ad opera di sé stessi, ma soltanto attraverso la lunga via dell’interpretazione dei segni; in breve la proposta di Ricoeur è la riflessione concreta, cioè il Cogito mediato da tutto l’universo dei segni. Una filosofia riflessiva lasciandosi istruire da Freud deve staccarsi immediatamente dal dato che la riflessione e la coscienza coincidano, essa deve riconoscere che per trovare il soggetto bisogna abbandonare la coscienza. Il soggetto non è quello che crediamo, perciò l’apoditticità del Cogito non può essere affermata senza che sia riconosciuta una inadeguatezza della coscienza. Ciò che emerge da queste riflessioni è un Cogito ferito, un Cogito che si pone ma non possiede, un Cogito che comprende la propria verità originaria soltanto entro e attraverso il riconoscimento dell’inadeguatezza, dell’illusione, della menzogna della coscienza presente. L’ultima tappa di questo viaggio nell’interpretazione filosofica di Freud è contrassegnata dalla dialettica tra archeologia e teleologia. Questi aspetti temporali investono l’economica freudiana, infatti nella posizione del desiderio vi è una anteriorità, che è sia filogenetica che ontogenetica, storica e simbolica; il desiderio in tutti i sensi viene prima, previene; la scoperta del desiderio anteriore è l’ossessione del freudismo, esso si insinua nei ritardi dell’affettività, nel timore religioso, nei fantasmi dell’arte, è questa l’archeologia della psiche, la battaglia iperbolica tra i giganti Eros e Thanatos. Solo questa riflessione che porta ad una decomposizione regressiva può portare alla progressione, in questa battaglia di senso, niente e nessuno esce indenne, la timida speranza deve attraversare il deserto del lutto…

La poesia

La poesia del ‘900 porta con sé il fardello di un positivismo che aveva velato, con la sua sicurezza, gli autori del diciannovesimo secolo; il contrasto con le avanguardie culturali contemporanee fa si che il mondo letterario passi una sorta di “pubertà”, nella quale gli eccessi, dovuti ad una perdita dei cardini ideologici fino ad allora certi, favoriscono uno sviluppo, fatto di ritrovato vitalismo ma al tempo stesso condito da una perdita delle mere illusioni tipiche della fanciullezza. In quest’ottica si pone il personaggio di Giuseppe Ungaretti ; la sua poetica fonda le radici nelle letture di Nietzsche e Leopardi, risalendo dal pessimismo cosmico ad una archeologia del soggetto tesa ad indagarne i profondi legami col mondo direttamente accessibile delle percezioni immediate. Queste riflessioni trovano terreno fertile nelle lezioni seguite alla Sorbona tenute da Bergson, e nelle discussioni dei salotti francesi nei quali confluiscono le idee di intellettuali del calibro di Baudelaire e Mallarmé. Lo scoppio del primo conflitto mondiale segna profondamente Ungaretti; egli si arruola e partecipa in prima persona ai sanguinosi scontri. Questi tragici avvenimenti permettono di porre in atto le speculazioni che prima erano solo in potenza nell’anima del poeta, creando una sorta di ragnatela invisibile di analogie che pongono in relazione il mondo contingente con l’assoluto. L’arte assume il significato di una esperienza assoluta e totale, unica e irripetibile e al poeta è dato l’annoso compito di naufragare in questo inesauribile nulla; di questo naufragare, che segna con ignota forza la vita, abbiamo testimonianza nella poesia che darà nome alla raccolta nella quale è pubblicata:

Il porto sepolto

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

Il titolo prende spunto da un porto ormai sepolto che sarebbe dovuto esistere ad Alessandria d’Egitto in tempi remoti, già prima della fondazione ufficiale della città; Ungaretti aveva sentito parlare di questo porto da ragazzo, rimanendone affascinato, trovando in esso un’oggettivazione esemplare della durata della coscienza, che è vivere il presente nel presente con la memoria del passato e l’anticipazione del futuro; in questo senso la distinzione temporale spazializzata viene a scomparire, in quanto la vita si consuma e s’annienta di attimo in attimo ma al tempo stesso è sempre presente e dato immediato della coscienza, creando un abisso nel quale il nulla non è nient’altro che l’infinito. La presa di coscienza di sé, per Ungaretti, avviene prima pian piano per poi culminare nella poesia “I Fiumi”, nella quale, enumerando idealmente gli affluenti dell’Isonzo, ritrova introspettivamente le origini della propria storia di uomo che è individuale (“una docile fibra”) ma che stringe un legame di reciproca dipendenza con l’assoluto (“dell’universo”). In questa poesia, fortemente autobiografica, sono presentate tutte le stagioni della vita del poeta: il bagaglio archetipo formatosi nei duemila anni nei quali crebbe la sua stirpe bagnandosi nel Serchio, l’inconsapevolezza dell’essere bambino segnata dalla spontanea felicità che scorreva nelle immense pianure disegnate dal corso del Nilo, la scoperta o meglio “il conoscersi” raggiunto osservando le turbinose e drammatiche acque della Senna ed infine la figura dell’Isonzo, concreto, attuale, drammatico, acqua purificatrice che accogliendo in sé un’intera vita fatta di momenti (i fiumi), crea una meravigliosa armonia in grado di lavare dal corpo il sudiciume della guerra. Questa ricerca di una purezza edenica continuerà a persistere nelle opere di Ungaretti, in particolare negli “Inni” egli si affida alla religione nel tentativo, attraverso la preghiera, di rimarginare la ferita aperta dalle tentazioni, dalla angosce, dalle colpe frutto della memoria (Caino); in questa fase è limpida la predonominanza di un istinto di morte, Thanatos, che viene però mitigato con la volontà d’espiazione affidata all’invocazione di Dio. In parziale contrapposizione alla figura di Ungaretti, così nobile nella sua modestia, si pone D’Annunzio ; egli fa dell’estetica il senso della vita, interpretandola come opera d’arte. Fin da giovanissimo riveste un ruolo importante nella cultura italiana, creandosi attorno, con i suoi eccessi, un enorme vortice di attenzione e conseguentemente di denaro. La peculiarità che contraddistingue tutta la sua vita è l’indossare maschere, che riescano ad evocare sussulti nel lettore, o nell’ascoltatore; questa copertura però può aiutare ancor più di una limpida ma statica espressione, infatti analizzando gli intrecci che tessono i costumi di volta in volta indossati e poi gettati, si può comprendere il dramma esistenziale dei letterati a cavallo del secolo, costretti a trovare una propria identità per non cadere nello sterile sottobosco. Dopo la prima fase puramente estetica, D’Annunzio, viene a conoscenza delle speculazioni filosofiche di Nietzsche, rimanendo affascinato dalla figura del Superuomo; ovviamente, come la sua vita ci insegna, egli proporrà una visione molto personale, per così dire “approssimata”, rispetto alla figura stilata dal filosofo tedesco; a differenza della precedente fase, egli vuole porsi come “vate”, in grado di guidare la massa inetta, soggiogandola, degradando la sua condizione in nome di una ritrovata aristocrazia; come già detto, dietro a questa imponente maschera si celano fitte reti di drammi vissuti dentro sé stesso e traslati magistralmente nei romanzi; non a caso la figura del protagonista cela al proprio interno angosce tremende, quasi sempre svelate dalla voce narrante. Nella raccolta Alcyone troviamo il D’Annunzio meno imbrigliato nella ideologia costrittiva cui era solito affidarsi, e scorgiamo il vero spirito Dionisiaco, unito alla bellezza dello spirito Apollineo, del poeta che fa del verso, della musicalità della parola, la chiave per raggiungere il piano metafisico dell’esistenza; in particolare è davvero notevole il concerto che ci regala nella poesia “La pioggia nel pineto”. In questa lirica egli, con maestria, ci conduce ad una fusione panica con la natura circostante, orchestrando con rime il concerto suonato dal crepitio delle gocce di pioggia che picchiettano le foglie di un bosco; in questa poesia la figura umana si fonde con l’armonia della natura, trovando finalmente pace. In maniera diametralmente opposta ad una figura così prorompente, come quella di D’Annunzio, trova spazio Eugenio Montale ; la sua prima raccolta, “Ossi di seppia”, raccoglie poesie nate da un retroterra psicologico più che squisitamente culturale e letterario; come già il titolo presenta in modo esemplare, la riflessione sopra la quale l’atto poetico si costruisce è la vita, non intesa come sublime realizzazione artistica, ma bensì come detrito insignificante di un mondo senza teleologia, visto come esistenza mancata. In questo senso si può dedurre una chiara assonanza con il lessico schopenhaueriano, dove la vita è assolutamente ateleologica, più in generale si possono notare affinità con i pensatori che si contrappongono ad un positivismo scientista. Il modo con cui Montale cerca di avvicinarsi al quid dell’esistenza è esemplare; egli è conscio di essere vicino a qualcosa di essenziale ma al contempo è consapevole di vivere “sotto una campana di vetro”, che gli impedisce di raggiungere quello che pur gli pare di scorgere. Nella poesia “Meriggiare pallido e assorto”, questo scontro, questo miraggio imprescindibile, è reso evidente dalla figura del muro, che rappresenta la realtà-necessità, a difesa del varco per la libertà, che cela il miracolo, la finalità.

Meriggiare pallido e assorto.

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d' orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch' ora si rompono ed ora s' intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com' è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

In questi versi è sospeso il seguitare a vivere per inerzia, totalmente privato di uno slancio vitale; di quest’inerzia si fa carico l’ambientazione, arida, la luce, al contempo piena ed insensata. E’ evidente la dimensione metafisica in cui dobbiamo calarci, che ricorda in modo impeccabile le atmosfere inconcludenti della pittura surrealista; le immagini così semplici, nella loro indifferenza, creano il dubbio dell’esistenza di qualcosa di inconoscibile, che getta nello sconforto; l’inconoscibilità di quel qualcosa che pure siamo costretti a cercare è sostenuta dal muro, inteso come una muraglia, che ai nostri occhi, non ha né inizio né termine, e che a difesa della propria irraggiungibilità è sovrastata da cocci di bottiglia, che feriscono chi cerca di travalicare quello che è a noi dato. Lo sconcerto della inconoscibilità porta ancora di più ad abbracciare l’idea di mondo come rappresentazione, ed in questa ottica è molto importante un’altra poesia contenuta negli Ossi:

Forse un mattino andando in un’aria di vetro.

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida,rivolgendomi vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto
.

In questa poesia è affrontata un’esperienza non rarissima, che può trovare numerosi riscontri filosofici e letterari, perché questa forma di allucinazione psichica ha luogo in un’antropologia dell’immaginazione comune, in particolare è da notare l’affinità con un alcune righe dei Racconti autobiografici di Tolstoj : " immaginavo che fuori di me nessuno e nulla esistesse in tutto il mondo, che gli oggetti non fossero oggetti, ma immagini, le quali mi apparivano solo quando vi fissavo l'attenzione, e che appena cessavo di pensarci quelle immagini subito svanissero. In una parola mi trovavo d'accordo con Schelling nel ritenere che esistono non gli oggetti, ma il nostro rapporto con essi [...] rapidamente mi voltavo dalla parte opposta, sperando di sorprendere il nulla, là dove io non ero ". L’accorgersi dell’inesistenza del mondo soprasensibile è per Montale un’esperienza sfuggente, il miracolo che tanto cerca oltre il muro è osservare il vuoto, che dona “un terrore di ubriaco”; in realtà il realizzarsi del miracolo è anche qui negato dal “forse” che apre la poesia, e ancor più è inconoscibile agli uomini che camminano senza badare per la loro vita. Nel passaggio alla seconda raccolta, “Le Occasioni”, la campana di vetro rimane intatta; la ricerca di una poesia in grado di comunicare l’estraneità, segna ancor più le differenza tra i suoi versi e quelli degli ermetici, egli vuole eliminare il dualismo tra lirica e commento, fra poesia e preparazione della stessa; vuole creare una lirica che contenga dentro se stessa i motivi, senza però spiattellarli, immergendo il lettore non in un concerto di rime ma ponendolo di fronte a questioni che contengono al loro interno il significato ultimo, in un tentativo di non rappresentare, ma di far conoscere; in questo senso si fa sensibile la critica alla purezza di una poesia avviluppata in un analogismo sfrenato, che elimina la necessaria dose di impurità. La poesia per Montale dunque deve tendere alla semplicità e alla chiarezza, due attributi assenti nei poeti laureati; bisogna precisare subito che la “semplicità” deve essere “ricca e vasta”, “satura d’esperienze umane ed artistiche”, concentrate in formule essenziali spoglie da ogni residuo edonistico, prolisso e decorativo. Gli oggetti con la loro fisicità immediata, si devono caricare nello spazio rarefatto della poesia di significati metafisici, sino a racchiudere nella banalità crepuscolare delle cose minime e degli avvenimenti meno vistosi un’araldica del reale in cui nel “particolarissimo” si capti un valore “universale”. Montale vuole che la sua monodia sia in realtà un dialogo con le cose, convertite in emblemi correlativi di uno stato d’animo la cui carica emozionale resta però implicita. Un tema ricorrente nella poesia montaliana è quello del significato della memoria, della durata della stessa e del dolore per la sua perdita; in molte poesie contenute nella sua seconda raccolta scorgiamo questa paura, ne “La casa dei doganieri” è evidenziata la non comunicabilità del ricordo, che ancor più porta l’angoscia del sentirsi soli; la durezza del momento in cui il ricordo scompare è costruita magistralmente in un’altra poesia della stessa raccolta:

Non recidere, forbice, quel volto.

Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.


E’ forte il contrasto tra l’indefinitezza della nebbia, che rappresenta il calderone che contiene entro sé i ricordi svaniti, e il grande viso, presente con la sua nitida importanza. Nella seconda strofa quello che era il soggetto del ricordo si trasfigura in un guscio di cicala, essere indefinito, tristemente inanimato, che cade dall’alta acacia per mano di un netto, forte, preponderante colpo d’accetta; questo è il triste momento in cui la nebbia, accoglie nella sua umida indefinitezza quel volto, fino ad un attimo prima apice di un ricordo. Come abbiamo visto il tema dell’inconscio, pur sviluppato con dinamiche differenti, è onnipresente nella poesia di questi autori; sono inoltre molto importanti gli influssi filosofici che cercano di armonizzare lo studio analitico delle manifestazioni inconsce con un più profondo senso metafisico dell’esistenza.

La narrativa

Il romanzo ma più in generale la narrativa novecentesca compromette fortemente la sua fruizione borghese, usando una celebre asserzione di Giacomo Debenedetti si può affermare che “il romanzo non è più un’arte che puoi degustare in poltrona, con le pantofole”. E’ un’arte che provoca, chiama a guardarci dentro; è un arte che crea insicurezza. Il “vizio della lettura cessa di essere impunito”, anzi la sua abilità, seppur intrisa di sofferenza, è quella di permettere di dire, dopo la lettura, “mi conosco un po’ meglio”; riprendendo le parole di Ricoeur, usate per definire la psicoanalisi, si può dire che per intraprendere questa nuova avventura narrativa bisogna abbandonare ogni morale, ogni schema, e consegnarsi vergini alla lettura. Le prime avvisaglie di questo cambiamento letterario le si possono intravedere ad esempio in “Memorie del sottosuolo” (1864) di Dostojesvkij ; in esso ci sono clamorose anticipazioni della presenza, accanto ad un “io” tranquillo, di un “io” distruttivo, autodistruttivo; altrettanto importanti sono le anticipazioni presenti in un opera di Stevenson, datata 1886, “The strange case of Dr. Jeykyll and Mr. Hyde”. Le opere di Proust, Joyce, Kafka e di molti altri autori, che ridefiniranno il concetto stesso di romanzo, saranno, diretta conseguenza delle correnti filosofico-scientifiche a loro contemporanee. La ricerca dell’uomo in quest’”età dell’ansia” non è più mirata a capire “cosa c’è dietro”, cioè meccanicisticamente dagli effetti risalire alle cause, ma è traslata nell’intento di percepire “cosa ci sia sotto”, quale sia la “sub-stantia” nascosta sotto le apparenze, in definitiva quale sia il senso della realtà. In Italia, in questo periodo, è emblematica la figura di Ettore Schmitz, meglio noto come Italo Svevo . Triestino di nascita, già nello pseudonimo da lui scelto è presente la contraddizione dell’essere contemporaneamente italiano e tedesco, o forse, di non essere né italiano né tedesco. Lavora in ambito tecnico e la sua vita è tipicamente medio borghese; ha modo di aprirsi al mondo letterario e culturale solamente da autodidatta, tra le sue letture predilette ci sono quelle del filosofo Schopenhauer e dell’eclettico Darwin ; come avremo modo di capire in seguito egli resterà fortemente influenzato da loro. Le prime pubblicazioni, “Una vita” (’92) e “Senilità” (’98), le farà a spese proprie, senza per altro riscuotere grande successo; nel 1905 inizia l’amicizia con Joyce, dapprima suo insegnante privato di inglese, poi grande amico e compagno di discussioni; nel 1923 avviene la definitiva affermazione di Svevo con la pubblicazione di la “La coscienza di Zeno”, ma soprattutto grazie alla “promozione” avuta da Joyce stesso e da Montale. La narrativa di Svevo si colloca perfettamente sulla curva tracciata dalla nuova narrativa europea; “Cerchiamo il senso, l’immagine della trascendenza umana”, questa espressione usata da Sartre in un saggio su Baudelaire , può essere utile per capire i romanzi di Svevo, egli propone una narrativa interrogativa, contraria alla tradizione esplicativa, in cui l’uomo non sa più chi è, in cui l’uomo è schizoide nella accezione greca, ossia diviso, diviso tra apparenza e sostanza. Tra i primi due romanzi e la “La coscienza di Zeno” si può notare uno stacco formale, ma non sostanziale, della sua narrativa; egli passa dal verismo psicologistico alla psicoanalisi, in mezzo c’è l’incontro con le letture di Freud che influenzeranno moltissimo le opere. In quest’ottica avviene una introiezione della speculazione in cui il dramma è confessione, diario psicoanalitico, come dice il medico di Zeno. Zeno ricopre un ruolo fondamentale e presente in tutti i romanzi dell’autore triestino, quello dell’inetto; in questa figura si può dedurre l’influenza compartecipe di Darwin e Schopenhauer, infatti l’inetto è colui che ha preso coscienza dell’esistenza, al di sotto della rappresentazione, della realtà fenomenica, della “cieca” volontà, di cui si rifiuta di essere cieco esecutore: sarebbe quindi una sorta di eroe della noluntas, un “contemplatore” antitetico ai “lottatori”, gli esecutori della voluntas. Più acuto il rilievo dell’influsso di Darwin, sancito, per altro, da due saggi dello stesso Svevo: “L’uomo e la teoria darwiniana” e “La corruzione dell’anima”. L’uomo, dice Svevo, fra gli animali, è il vincitore dello “struggle for life”; mentre gli animali adeguano necessariamente i propri organi alle necessità ambientali, l’uomo, in quanto colpito dalla malattia dell’anima, che è la riflessione, l’ipertrofia della coscienza, è per eccellenza “malcontento”, e quindi sempre insoddisfatto, mai adattato, alla lettera “inetto” è colui che non si adatta, e quindi in grado di sopravvivere a tutti i cambiamenti di ambiente; paradossalmente l’inettitudine è sì tormento, insoddisfazione, ma anche garanzia di sopravvivenza. Curiosa ma estremamente interessante è una riflessione di Debenedetti sull’inetto sveviano; partiamo dalle caratteristiche di fondo dell’inetto: è un eterno adolescente, per il quale la vita resta sempre un indecifrabile enigma; per sopravvivere, si crea un rifugio dove nascondere il capo, come ad esempio la presunzione di valere di più nell’ambito della produzione spirituale, chiaro caso è Emilio; da questi dati certi il critico deduce, forse in modo un po’ ardito, che questa figura non sia altro che la proiezione, inconfessata, della diversità ebraica; Otto Weininger definisce infatti l’ebreo come il diseredato, privo di ogni felice istinto del vivere: femminilmente passivo. Luigi Pirandello , al contrario di Svevo, ha modo di frequentare studi “classici”; prima all’università di Palermo, successivamente presso altri atenei, Bonn, Roma, dai quali trarrà preziose conoscenze delle nuove correnti di pensiero. La narrativa espressa ha forti connotazioni filosofiche; essendo la filosofia, come dice Hegel, figlia del proprio tempo, possiamo dedurre facilmente come le opere di Pirandello siano in stretta correlazione con la nuova visione antinaturalistica del mondo. In quest’ottica possiamo nuovamente rifarci a Sartre che definisce la vecchia filosofia come “fallimentare”, in quanto rispondeva alla domanda “chi sono io” dando da mangiare contenuti di conoscenza; Pirandello non accetterà questo lauto pasto, ma si spingerà oltre, prendendo spunto in modo significativo dalla “fenomenologia” di Husserl , che parla di coscienza di esistere come coscienza d’“altro da sé”, come un “esplodere verso”, andando al di là di me, non semplicemente mangiando libri, accumulando nozioni, ma per un’altra via, quella che con un termine tecnico si chiama “intenzionalità”. Pirandello riconosce come ci sia un ignoto nelle cose, così come negli uomini; l’uomo è un enigma, non sa perché c’è. Allora i personaggi, per lasciarsi vedere, dovranno “esplodere” verso il loro narratore; compito del narratore sarà lasciarsi ferire da quei personaggi, lasciarsi invadere, e trasferirli sulla pagina, cercare il segreto e il mistero dell’uomo sotto le maschere del visibile. Per Pirandello non ha importanza rappresentare la figura di uomo o di donna, solo per il gusto di farlo, non ha importanza raccontare una situazione solo per il piacere di descriverla, egli ha un profondo bisogno che queste figure si imbevano, per così dire, di un senso particolare della vita. Una delle opere più importanti dello scrittore siciliano è “Il fu Mattia Pascal”; Mattia eredita, assieme al fratello Berto, una cospicua somma dal padre, che aveva vinto al gioco; come vedremo anche Mattia s’arricchirà con una vincita, da qui una velata e ironica critica al concetto di ereditarietà; la vita scorre senza che il protagonista riesca mai ad afferrarla, finisce in misera con la moglie e la madre in casa, immerso nella mediocrità, arriva ad autodefinirsi “inetto”. Leggendo filosofia, si trova “solo mangiato dalla noia”, la stessa noia che ricorre in tutta la cultura del ‘900, la stessa “nausea” descritta magistralmente da Sartre. Giunto a questo punto decide di vivere alla giornata, ma ancora la mediocrità lo insegue, fintanto che, in seguito alla drammatica morte delle sue figlie, decide di fuggire; giunto a Montecarlo, gioca e vince “una somma veramente enorme”; si incammina sulla via del ritorno con un grande desiderio di rivalsa, quando sul treno apprende la notizia della sua morte, un cadavere trovato era stato scambiato per lui; Mattia si sente slegato da ogni vincolo ambientale, storico, spazio-temporale, è quel potenziale Superuomo che è artefice unico del proprio destino. Ma la sua storia non giunge a buon fine: Mattia Pascal cerca la felicità ma si accorge di non poterla raggiungere, questo è l’emblema dell’uomo moderno, invece d’andar dentro di sé, cerca di risolversi con un’operazione esteriore di “chirurgia plastica”, cambiandosi nome e connotati, ma la libertà non dimora lungo questa via; la libertà, come dice Debenedetti, è possibile solo in un incontro, in un lavoro, solo in un confronto con il male e la sofferenza, non fuggendo la realtà ma facendoci i conti. Mattia Pascal, nella sua nuova vita, è sempre più un “forestiero della vita”, “sospeso in vuoto strano”, la sua ricerca della felicità porta all’infelicità. La conclusione de “Il fu Mattia Pascal” è il ritorno di Mattia al suo paese, dove trova la moglie risposata con un amico di gioventù e madre di una bambina; non vuole disturbare il loro amore, semplicemente va ogni tanto a posare i fiori sulla propria tomba. Una significativa novella ci fa capire l’anziano Pirandello; questa intitolata “Una giornata” racconta di un uomo che salito su un treno non ricorda più nulla, nella memoria gli rimare impresso solo un lanternino cieco; la vita è, per lo scrittore ormai anziano, come un viaggio in cui non si sa da dove si viene e non si sa dove si va: ci si può contentare di analizzare il proprio scompartimento, piazzandosi nel modo più comodo possibile, oppure vivere drammaticamente questa visione della vita, mantenendo aperta la domanda di conoscenza. Molto importante per Pirandello è il valore dell’umorismo, da un certo punto di vista assume la stessa estrema importanza, quasi salvifica, dell’ascesi in Schopenhauer; l’umorismo, per lo scrittore agrigentino, “esprime un’istanza critica che introduce nell’arte la problematicità della vita” e consiste nel “sentimento del contrario” derivante dalla riflessione che scompone la realtà e oppone la distruzione alla costruzione, l’analisi alla sintesi; l’umorismo diventa così “sentimento del contrario”, in cui il soggetto è emotivamente compartecipe alla sofferenza per la quale amaramente ride.

Studiare l'Inconscio e la Coscienza oggi

Fin dall’anno della sua creazione, il 1956, il termine intelligenza artificiale sottolineò l’aspetto costruttivista della relativa disciplina. A volte i cultori dell’intelligenza artificiale si sono posti l’obiettivo conoscitivo di capire il funzionamento di menti e cervelli biologici, ma solo al fine di avere suggestioni e suggerimenti. Quando non l’hanno fatto sono rientrati nell’alveo di altre discipline quali la psicologia, la filosofia, la biologia, le scienze cognitive. La parola artificiale non è un semplice aggettivo, bensì implica un programma di lavoro di tipo ingegneristico nel settore della progettazione e costruzione di esseri artificiali dotati di intelligenza. Nel 1982, in Giappone, si diede inizio al programma di ricerca FGCS (fifth-generation computer systems) che aveva come obiettivo quello di sviluppare le applicazioni di intelligenza artificiale. Tuttavia, già nel Convegno IJCAI’87 tenutosi a Milano, ci si interrogava, a trent’anni della nascita della disciplina, sul futuro dell’intelligenza artificiale. Nello stesso anno il ritorno prepotente delle reti neurali apriva nuove prospettive alternative al classico approccio dell’intelligenza artificiale. La rivista Sistemi intelligenti, che nasce nell’aprile 1989, coglieva i fermenti di quel particolare momento storico e si proponeva come una rivista di scienza cognitiva e intelligenza artificiale, che aveva come obiettivo “lo studio dell’intelligenza, delle attività mentali e del loro supporto fisico, il cervello”. Ma l’intelligenza ha bisogno di una volontà che la guidi. La razionalità deve essere mossa da fini e motivazioni che non possono essere il prodotto delle elaborazioni interne di un sistema chiuso. Le attività mentali non possono essere esclusivamente attività cognitive nel senso di elaborazione razionale e meccanica dei simboli. L’esperienza empirica ci mostra che, anzi, questo tipo di intelligenza è semmai un prodotto ontogeneticamente e filogeneticamente piuttosto tardo. E così sono diventati ineludibili gli aspetti legati alla capacità del cervello di determinare un soggetto unitario, capace di fare esperienza di se stesso e del mondo circostanze, capace di genuine e primarie capacità semantiche intenzionali nei confronti di eventi esterni, passati e futuri; in grado di produrre motivazioni e fini, valori soggettivi e sensazioni. In poche parole, la coscienza. Per costruire artefatti coscienti, è necessario rivisitare l’immane lavoro preparatorio che migliaia di anni di storia hanno depositato nella cultura filosofica e psicologica. Un prerequisito per lo studio della mente, al fine della sua costruzione in strutture artificiali, è l’identificazione fra la mente e la mente cosciente. La precisazione può sembrare superflua, ma ciò dipende dal fatto che negli ultimi cinquant’anni, ossia dopo Wittgenstein, Skinner e Ryle (ognuno per la sua parte), si è cercato di spiegare la mente senza far uso della coscienza: un esito estremo delle contraddizioni interne del dualismo seicentesco. Nell’ambito delle tematiche della coscienza artificiale ci si deve interrogare su cosa s’intende per coscienza? Non la coscienza morale o etica, bensì quella che gli anglosassoni definiscono “consciousness” e che corrisponde alla capacità di un soggetto umano di fare esperienza dei propri pensieri, di se stesso e del mondo. Una possibile soluzione del problema, soluzione che potrebbe trovare conferma nella costruzione di un soggetto artificiale, nasce da un’analisi e revisione delle categorie ontologiche fondamentali. D’altronde l’idea che la realtà sia composta da oggetti e dalle loro proprietà è stata messa in discussione in ambiti tra loro molto diversi (Davidson, 1980; Smith, 1998; Stapp, 1998; Whitehead, 1925, 1927). Sono così state proposte ontologie alternative più aderenti agli ultimi esiti della fisica che vedono, quali componenti elementari della realtà, gli eventi. In quest’ottica un soggetto cosciente corrisponde a un complesso articolato e dinamico di eventi; i cervelli umani sono gli oggetti fisici in grado di permettere a questi eventi di verificarsi. Per esempio un embrione, prima della comparsa del sistema nervoso, non può essere considerato un soggetto cosciente (come d’altra parte una persona anencefalica); dopo un sufficiente lasso di tempo, l’essere umano risultante sarà cosciente. La mente non è più una scatola vuota che riceve suoni e immagini dal mondo esterno, ma è una porzione del mondo esterno che trova in se stessa la propria unità. In realtà non si può fare a meno di rivisitare, attualizzandole, quelle teorie filosofiche che dovrebbero suggerire agli ingegneri i processi metodologici e tecnici per realizzare uno dei più affascinanti obiettivi proposti dalla scienza nel secolo XXI: capire chi siamo attraverso la costruzione di una macchina che potrà comunicarci quello che avviene dentro di lei allorché, analogamente a quello che avviene in un essere umano, proverà una sensazione. Sulla base della teoria presentata per costruire una macchina di questo tipo non occorre nessuna ulteriore innovazione tecnologica, né che si deve attendere la scoperta di qualche misterioso fenomeno fisico o biologico finora completamente sconosciuto, né che si deve fare ricorso a elementi organici, quali proteine o biochip. E’ necessario sottolineare che l’essere coscienti è completamente separato dall’essere vivi. Essere vivi significa essere costituiti da molecole basate sulla replicazione del DNA, essere coscienti significa essere in grado di fare esperienza del mondo. Il fatto che, per ora gli unici esseri sicuramente coscienti siano anche esseri vivi non deve precludere il tentativo di costruire esseri coscienti senza fare ricorso a strutture biologiche viventi. In base alle conoscenze odierne, niente lega la struttura del DNA o dell’atomo di Carbonio al nostro essere coscienti. E se questo fosse vero significa che è possibile supporre e immaginare il modo in cui una struttura artificiale possa produrre un soggetto dotato di esperienze coscienti. Non perché tale macchina o sistema sia in grado di compiere quel miracolo che un’insufficiente ontologia ci costringe a supporre, ma perché la sfida che ci pone la comprensione della coscienza ci costringerà a mettere in crisi luoghi comuni consolidati ma insufficienti; a rigettare ontologie autorevoli ma eccessivamente semplici; a creare nuovi metodi per descrivere eventi e fatti oggi al di fuori del dominio scientifico. In sintesi, è possibile che il secolare empasse in qui si è imbattuta la scienza, nello spiegare la natura della mente cosciente, sia causato non tanto dalla natura della problema in sé quanto dalle ipotesi che acriticamente si sono accettate sulla natura della realtà. Cambiando queste, e sottoponendole al vaglio dell’evidenza è possibile che si guadagni una migliore comprensione tanto della coscienza quanto della realtà.

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