SUL DIARIO FENOMENOLOGICO DI ENZO PACI

 

di  Roberto Taioli

 

 

     Scorrendo le pagine del Diario fenomenologico (1) di Enzo Paci si avverte tangibilmente la traccia di un pensiero che tende radicalmente ad essere sempre introduzione a se stesso, nel senso che l’autore  chiarisce nelle pagine introduttive al Diario. Il Diario, scrive Paci, non è ancora una fenomenologia ma può essere “l’introduzione ad una fenomenologia”(2) che trova il senso nel suo farsi ed incarnarsi e che mai si compie. Essa è sempre al di là dei risultati cui la ricerca perviene e sempre sospende gli esiti del lavoro del filosofo che non sono mai definitivi. Il filosofo stesso introietta lo stile della fenomenologia e sempre ritematizza il suo pensiero, pronto a ritornare da capo, a riconsiderarsi e a riconsiderare l’orizzonte della filosofia. Vita e pensiero non procedono mai separati ma si avvolgono e si contaminano in una feconda seppur sofferta osmosi:

 

Piazza Leonardo da Vinci, isolata, quasi chiusa. Le torri medievali, scabre, rosseggianti. Le rondini le circondano. Silenzio di secoli. Mi siedo su una panchina isolata, dopo le lezioni all’Università. Sento di dover ricominciare, di aver sbagliato, di non aver perseguito con chiarezza, con tenacia, con profondità quello che cercavo. E’ vero: in ogni fatto, in ogni cosa isolata, si rivelano legami con tutte le cose, con tutti gli altri fatti. Nel tempo, nel tempo della natura e della storia. Ed ogni fatto è individuato anche se ha la forma di tutti gli altri fatti del suo tipo. […] La filosofia comincia quando questo uomo-singolo scopre che ha in sé relazioni tipiche essenziali con tutto il resto (3)

 

     Nel Diario la scrittura di Paci (ancor più che in altri luoghi della sua produzione teorica) incarna e interiorizza lo stato del  trovarsi sempre ad una soglia iniziale della riflessione e della vita che si espande nel pensiero. Riprendendo l’amato Proust, Paci scrive di “ce plaisir special” (4) per indicare il legame che si dà tra noi e le cose, un legame misterioso, umbratile, mai evidente e che l’analisi fenomenologica tenderà a rischiarare. La fenomenologia agisce come un temps retrouvé, un risveglio dal sonno della sedimentazione e che dalla latenza tende all’espressione e manifestazione di un senso non ancora esaurito, non pienamente compiuto. L’evidenza, anche nel Diario, è sempre il frutto di un processo, di un manifestarsi attraverso l’ombra, l’opacità, il dubbio, nel riattuarsi e apparentemente ripetersi della vita quotidiana, secondo un telos risorgente come vita che vince la morte, nuova nascita, e in Rainer Maria Rilke (poeta tra i più cari a Paci) immer wieder, sempre di nuovo.  Così il Diario di Paci infrange il ripetersi di un tempo anonimo e astratto, restituendoci un tempo vissuto, scandito e ritmato, nel tempo della vita, nel paradosso dell’esistenza che si consuma e rincomincia. Tutta la traiettoria temporale del Diario fenomenologico (dal marzo 1956 al maggio 1961) riflette l’aprirsi del pensiero di Paci ai temi più vivi della fenomenologia, assunta non come mera adesione alla lectio husserliana, ma rivissuta in prima persona, in un forte impegno etico, nelle forme del modificarsi costante dell’orizzonte prospettico e nella problematizzazione della stessa nozione di filosofia. Paci nelle pagine dei Diario esprime più volte questo status inquieto del pensiero che è sempre labirintico, attraverso una scrittura nervosa che mai approda ad una conclusione. Ogni pagina va letta come profondamente incompiuta, abbozzata, che si prolunga non in quella immediatamente successiva secondo una ingenua linearità, ma disperde e ritrova  il suo senso incastrato in altri temi, in altre pagine, in altre parole. Ne esce, anche letterariamente,  una tessitura complicata di molte tonalità, affollata di svariate maschere della cultura, della vita. Il legame profondo che sostiene l’impianto delle pagine, agendo come un basso continuo sempre desto, è il senso dell’intersoggettività che Paci riprende e rimodula dalla Quinta meditazione cartesiana di Husserl. Senza intersoggettività l’ego vive nella condizione della solitudine, imprigionato nei dilemmi della propria costituzione autoreferenziale:

 

Tutto è legato ad una prospettiva cosmica. L’universo emerge in me come un bisogno, come un progetto, come una via nella quale può procedere e nella quale, in quel punto focale di cui l’uomo costituisce la tensione e l’intenzionalità, pone in gioco tutto se stesso. L’uomo che si riconosce investito del significato del cosmo, che sente la propria responsabilità per il senso del processo universale, riconosce la dignità di ogni prospettiva e di ogni forma, dei minerali, dei vegetali, degli animali, delle cose e delle persone. E’ questa la pietas verso l’intenzionalità, l’accettazione del misterioso piacere che ci lega alle cose, nel quale vibra sempre la ricerca dell’essenza, della continua correzione, dell’armonia (5).

    

     Paci considera la fenomenologia come un radicale relazionismo che ricomprende la realtà come organismo  e processo (in ciò riecheggiando anche i temi del pensiero di Whithead che Paci ebbe sempre presente), e che evita le divisioni dell’atteggiamento dicotomizzante che ha come fine la separazione della parte dal tutto. Il Diario ci offre pagine dello sguardo di Paci sempre attento alla sintesi, alla interazione, alla osmosi che lo spettacolo del mondo esibisce impresso nella sua intelaiatura, anche se non sempre questa forma della relazione si legge evidente, ma  si occulta, si nasconde, pare addirittura non esserci. Ma non è l’occhio del filosofo che la applica dall’esterno artificialmente, il filosofo vede ciò che c’è già, che già esiste come tessuto fungente della natura e della vita e che sfugge alla visione ordinaria incardinata in un sapere categoriale. Per questo Paci con Husserl parlò dell’epoché come “nuova volontà di vita”(6), dopo la quale il mondo non è più come prima perché translucide si danno le relazioni, i nessi che prima erano confusi, nascosti. Lo stesso problema della tecnica già nel 1956 Paci lo vedeva all’interno di un processo ove tecnica e vita non sono separati, perché “nella tecnica si continua il processo della vita, l’emergenza dell’intenzionalità. L’errore della civiltà moderna è di aver separato la tecnica dalla vita, per non rispondere alla perentoria richiesta di giustizia e di armonia che la vita avanza proprio con la tecnica”(7). Dovremmo dire, di aver dimenticato e rimosso Leonardo e drammaticamente cancellato il senso del mondo, della visione, del tutto, dell’enciclopedia universale. La tecnica non può non porsi il problema del senso complessivo del mondo, del telos del tutto, dell’armonia universale. Le stesse forme in cui è depositata la vita e quelle modificate o artefatte dall’uomo, devono tendere a ricomporre uno sguardo universale ove razionalità e armonia non siano disgiunte. Questo senso dell’armonia, dell’ordine profondo riaffiora anche nella vita personale, in quanto il filosofo non smette di essere tale nelle contingenze del mondo:

 

     Sono le tre e mezzo della notte. Mi affaccio alla finestra. Rumorio lontano di camion. Le case sono incomprensibili. Mi sembra impossibile che restino lì, indifferenti, con tanta vita umana rinchiusa tra le mura. Passa un ubriaco. Grida. Il filosofo: non solo pensa sempre il mondo, ma lo vive, lo percepisce sempre di nuovo con tutti i suoi sensi, come un problema incombente. Parole e grida che vogliono una soluzione impossibile? Poi viene il silenzio. Un silenzio pieno, vibrante. Uno sfondo sul quale le cose si disegnano vergini, nate proprio ora, in questo momento. Ed acquistano un significato, diventano translucide, lasciano intendere il loro senso di verità. Perciò stai tranquillo. Non forzare le cose. Lascia che si presentino. Non sei il loro padrone (8).

 

     Siamo al cuore di quel pensiero notturno (9) e di quella scrittura notturna che caratterizzarono non poco della riflessione di Enzo Paci che è anche  un modo di affidarsi senza riserve alla indistinzione del flusso della vita per poi riprendere in forma di pensiero quei tranches de vie che hanno animato la percezione. La scrittura del Diario fenomenologico (che raccoglie solo una parte dei quaderni paciani) si muove sul filo sottile del crinale tra oralità e appunto, in una sorta di stenografia filosofica che la pagina fissa davanti allo scorrere degli eventi, come un’agenda di appuntamenti interiori di cui il Diario a volte anticipa o prepara lo svolgimento. Su questa soglia mobile tra stato di veglia e sonno, il Diario fenomenologico gioca la sua cifra filosofica ed umana. Tutti i temi paciani vi sono riflessi, quasi ripescati dal denso tessuto precategoriale della coscienza e rimessi in superficie, rivisitati e riesplorati con l’inquietudine di una sonda mai ferma. Le pagine ci restituiscono molto del Paci uomo mai disgiunto dal pensatore. Sono le pagine di una philosophia perennis, come Paci soleva spesso dire, e che in ogni filosofo si configura e rivive con la presenza di un’ombra, di un dato non rischiarato, scriveva ricordando la morte di Merleau-Ponty:

 

In ogni filosofo c’è un orizzonte di pensiero che implica uno sfondo che non è stato reso esplicito, un’ombra. Anche noi dovremmo appellarci allo sfondo implicito nell’orizzonte filosofico di Merleau-Ponty. E’ lo sfondo assopito che sempre permane nel fondo della veglia, della ragione esplicita. La continuità degli ego ammette delle pause, delle interruzioni. Le pause del sonno, le pause della morte (10).

 

     L’ombra, il dato irriducibile a ragione, che sempre accompagna il cammino del pensiero, si esprime spesso nel Diario nel paesaggio e nel timbro della notte come estasi temporale e kairòs per il filosofo che recupera nel notturno il fluire della vita irriflessa, ma con la lentezza di un varco profondo che invece pare chiudersi nelle accelerazioni del tempo diurno. Tra oscurità e chiarità non si pongono solo i ritmi dell’avvicendarsi e alternarsi del chronos,  del buio e della luce, del giorno e della notte, ma più profondamente e fenomenoligicamente, si coglie la soglia sottile tra emergenza e permanenza, tra mithos e logos, tra vita e ragione. Alcune delle pagine più intense del Diario di Paci vibrano attorno a questo sfondo, a questo telos del tempo che pur incarnandosi non è mai reale, perché la presenza si decentra, si depresentifica, rendendosi recettiva, capace di captare i suoni, le voci, i rumori, i silenzi del mondo. La pagina risuona di una sinfonia e al suo fondo si percepisce un concerto, una germinazione comune. La scrittura fenomenologica (11) asseconda questo moto, ove il soggetto è ad un tempo sorgente e punto di incontro delle percezioni, interno ed esterno, una finestra aperta sul mondo:

 

Nel vento fresco che s’alza nella notte – e le nostre speranze e i nostri dolori son talvolta legati alla stagione e sembrano fondersi con la pioggia, con la neve, col risveglio della primavera – si ravviva  forse un filo di fiducia: che gli orrori della vita possano essere dimenticati, e i suoi problemi labirintici e tormentosi trasformati in valore, col passare del tempo, con la sopportazione, con la pazienza, nel lento e irreversibile cammino verso la morte. Un sorriso ti consola, un moto di affetto ti raggiunge, anche se ignora la tua angoscia (12).

 

Quando uso il verbo “sentire” penso all’Einfuhlung di Husserl. La filosofia nasce dallo stupore che l’Einfuhlung esista, dal fatto meraviglioso che noi viviamo negli altri e sentiamo il loro soffrire e tutta la loro vita che li conforma nel presente, nel loro percepire, vedere ed udire, nella loro Stimmung che si accorda con la nostra. Così noi viviamo  - con gli altri in noi. Si può non lasciare che in noi avvenga questa Stimmung, questo accordo profondo – si può farlo per difendersi, per non far nostro il dolore altrui. Forse l’ego è costituito anche dalla difesa? Oppure nel chiudersi all’Einfuhlung noi perdiamo, alla fine, noi stessi, così come ci perdiamo se ci annulliamo nell’altro? (13)

 

     Ma il Diario è anche, più strettamente in senso filosofico, un libro particolare di filosofia, ove apprendiamo lo scorrere della vita intellettuale, in un periodo cruciale per il rinnovamento della cultura italiana (14) che trovò in Paci un interprete sensibilissimo, capace di sentire e di aprirsi nel profondo alle linfe più vive di quel tempo che ancora non ha esaurito la sua influenza nella nostra epoca e nella nostra cultura. Vediamo così sfilare nel Diario alcune delle figure intellettuali più rilevanti del tempo, come Antonio Banfi  che introdusse in Italia la fenomenologia di Husserl, il maestro da cui Paci andò gradatamente differenziandosi in una dialettica di assunzione/superamento del suo pensiero ma nel riconoscimento della crucialità della sua riflessione:  (“Oggi è morto Banfi. Mi hanno telefonato all’improvviso. Ho trovato nella clinica gli altri amici. Pensavo a tutti noi – a tutti noi  di fronte a questa morte. Sarà difficile rendersene conto. Tutta la sua opera da ora cambia significato e sento che esige una nuova valutazione”) (15). Di Banfi Paci ricorderà in pagine successive l’insegnamento maieutico radicato nell’esperienza diretta, rievocando un incontro personale con il pensatore, sul senso profondo della fenomenologia e su come essa sia in qualche modo trasmissibile. Come insegnare la fenomenologia? Non certo solo sui libri “perchè le parole scritte (mito di Theut nel Fedro di Platone) hanno il lor lato negativo se non producono un discorso nuovo, se non vengono ridestate e rese presenti”(16). La fenomenologia è infatti, annota Paci, un “invito alla descrizione” (17) nel senso della domanda di Banfi posta a Paci (“Vede questo vaso di fiori? Provi a dire, a descrivere quello che veramente vede”) (18), una scienza delle modalità, del darsi, del come. Essa richiede una continua correzione del punto di vista e pertanto sempre si pone come infinita introduzione. E poi le annotazioni, quasi appunti di lavoro, note a margine, spunti e rilievi consegnati alla pagina per essere in altre sedi ripresi, come  per l’incontro con  il Sartre della Critique de la raison dialectique,  che Paci legge e vede opera profondamente innovativa che mette al centro della riflessione il concetto di insieme, ricavato dalla matematica, ma usato in senso tendenzialmente fenomenologico come insieme pratico, luogo radicale della soggettività e della intersoggettività.

     Nella rassegna di personaggi, con i quali Paci intrattenne feconde frequentazioni, ritorna poi il già citato Merleau-Ponty, il fenomenologo francese il cui pensiero Paci diffuse in Italia; ma nel Diario va ricordato il tono dolente e commosso con cui Paci parla della sua morte e del dialogo con i morti che non si interrompe:

 

Ieri è morto Merleau-Ponty. “La tradition est oubli des origines, disait le dernier Husserl. Justement si nous lui devons beaucoup, nous sommes hors d’état de voir au juste ce qui est à lui » . Con queste parole egli iniziava il suo bel saggio : Le philosophe et son ombre. Non sapevo che le avrei lette pensando, in un rapporto così diretto e concreto, alla comunicazione tra i vivi ed i morti, al “dialogo con i morti” di cui parla Husserl (19).    

 

     In questa sede di scrittura, Paci avverte il senso di una concatenazione, di una empatia tra tutti i filosofi che si rifanno in vario modo ad Husserl, come se, al di là delle diverse sensibilità, la fenomenologia fosse una stoffa comune e collegasse in un lavorio ininterrotto quanti si muovono nel suo solco: “In Husserl, in Merleau-Ponty, in noi, una continua correzione”(20). Husserl stesso nella Krisis e nelle Appendici alla sua ultima opera rimasta incompiuta, si interrogava problematicamente sul senso della storia della filosofia. Così emerge anche la figura di  Padre Hermann Leo Van Breda, il fondatore degli Archivi Husserl di Lovanio, cui si deve il primo fondamentale slancio nella conservazione e  pubblicazione degli inediti husserliani, che Paci incontrò nel giugno 1961 a Milano, annotando sul Diario il nodo teoretico dell’accordo tra i due sul tema centrale della fenomenologia come filosofia non dell’ens qua ens (che la sospingerebbe nel gorgo della metafisica) ma dell’ens qua verum, cioè del significato che non è dato in partenza; esso va riscoperto e risvegliato in uno sforzo per la verità che non trova fine (21).

     Anche riguardo a Paul Ricoeur il Diario ci apre qualche rapido ma vivo squarcio sul contatto tra i due fenomenologi. La annotazione del 30 marzo 1960 è quasi furtiva nel ricordo di un incontro precedente solo ora riannodato:

 

Ho trovato Ricouer alla Gare del Lyon. Non ci vedevamo da quindici anni. Da Wietzendorf era partito all’improvviso. Dormivo. Non volle svegliarmi e lasciò un pane sul mio giaciglio. Professore a Strasburgo  e io a Pavia. Poi a Parigi e io a Milano. Quindici anni fa stava traducendo Ideen I di Husserl e se oggi lo ritrovo è perché mi sono rimesso a studiare Husserl (22).

 

Ancora con Ricoeur,  a passeggio al  Bois de Boulogne:

 

Passeggiata con Ricoeur al Bois de Boulogne. Non è convinto del mio modo di ricostruire la fenomenologia. Letture diverse di Ideen I in Merleau-Ponty e in Ricoeur. Ricoeur mi sembra troppo legato a Ideen I. Ha una grande ammirazione e un grande rispetto per Sartre, ma è certo che non ama l’ontologia di Sartre (se si tratta della prima parte di L’etre et le néant, siamo d’accordo). Ipotesi su quello che ci sarà nella Critique de la raion dialectique. Problema dell’evidenza. Evidenza sensibile. Ricoeur mi ricorda questa frase di Nietzsche: “Un suono non si può confutare” (23).

 

     Lo stile diaristico favorisce il recupero del presente nel suo inesauribile scivolare nel passato. Esso ripresentifica non solo la presenza vivente degli interlocutori reali del dibatttito, dell’amicizia, dell’incontro, ma anche di quelli che non sono più e che parlano attraverso la loro opera, che vivono in noi in una esperienza non immediata, e che si installa come voce profonda del tempo che si è fatto significato, telos. Non solo Husserl, sempre presente anche quando non espressamente nominato, ma i grandi poeti e la grande musica, la pittura, l’arte che Paci interrogò non con le categorie del critico, in qualche modo già oggettivate e talora feticistiche; la scrittura del Diario, mai definitoria ma allusiva, maieutica, lontana da una scrittura specialistica, non si limita a registrare il presente, lo offre nella sua ambiguità, nel suo eterno impasto di temporalità e materialità. Le torri di Pavia si sedimentano come documenti viventi perché noi non siamo mai separati dalle cose:

          

Le torri. Il passato. Sentire il loro senso la loro ragione. La loro storia nel mondo nel quale hanno vissuto e vivono, nelle relazioni che le costituiscono e mi costituiscono. Lasciare che diventino documenti, che il loro silenzio maturi in un nome. Risvegliarle, risvegliarsi (24).

 

Quelle antiche torri medievali, questo solido passato. Dura ed impenetrabile alterità dell’oggetto. Sono irrisolvibili nella mia soggettività? Ma la natura e la storia non sono separate da noi. Siamo noi in esse, addormentati, oggettivati. Noi che attendiamo di svegliarci (25).

 

 

     La stessa poesia, movimento ed arte sottile di interiorizzazione della esteriorità e di esteriorizzazione dell’ interiorità, come Paci ebbe modo di sentirla (26), convoca in superficie il terreno del precategoriale su cui essa si costituisce prima di convogliarsi nel guscio della parola. E’ questo il terreno di fondo anche del Diario fenomenologico e del richiamo ai poeti che in alcune delle sue pagine risuona, come Valéry riaffiorato insieme a Schelling, a Bohme, a Husserl, in una fitta architettura di collegamenti e rilievi:

 

Riflessioni stranamente collegate. Il richiamo di Schelling a Bohme non è il richiamo ad un fondamento ambiguo dove bene e male, luce e tenebre, si confondono? La libertà dell’uomo è la possibilità di vincere l’ambiguità? Su questo fondo ambiguo mi appare il senso positivo della Lebenswelt di Husserl in quanto congiunta, nella presenza, con l’evidenza. Trasformazione del mondo in essenze visibili nelle quali tutto, anche il fantastico, anche il sogno, può diventare verità.  Forse sono stati questi pensieri che mi hanno fatto ritrovare l’eco del Cimetière Marin di Valèry: “Le temps scintille et le songe est savoir”. Il piccolo cimitero di Sori, presso Camogli, felicità del mare: “changement des rives en rumeur”. Connessione di queste impressioni coi i miei pensieri sulla vita come  risposta ad un problema inesauribile. Valèry reagisce all’idea che la vita nasca dalla morte. Non dunque la “magre immortalité noire et dorée”, ma il senso che ogni risposta viva, proprio nella sua finitezza e nella sua temporalità, proprio perché è irripetibile, è eterna. Passione per il mare. Non solo “ricompense après une pensée”, ma rottura, epochizzazione del sistema, dei libri, della cristallizzazione del mondo in pensieri astratti:

                                              

                                Envoulez-vous, pages toutes éblouies

                                Rompez, vagues ! Rompez eaux réjoies,

                                ce toit tranquille ou picoraient des focs (27).

 

     I libri sono, come per Sartre la sua autobiografia Les mots (28), non la vita ma una forma della vita; così la fenomenologia non si trova soltanto nelle pagine. E’  prima e oltre e semmai confina con le pagine di un diario che ritrova nel succedersi ritmato della vita e del tempo il suo fondamento. Il diario infatti non è mai concluso, anche quando subisce una interruzione o sembra esaurirsi nell’orizzonte di un problema o nei confini labili di un giorno. Epochizzare il sistema dei libri, sembra voler dire Paci, non per negarli ma per ritrovare la loro inerenza nella carne del mondo, per radicarli nell’interoggettività. I libri, le opere dei poeti e degli scrittori, dei pensatori non sono staccati dal mondo anche se isolandoli e atomizzandoli lo sembrano. Il Diario li ricongiunge e riconnette al l’insieme vasto e sempre incompiuto delle relazioni, agli incroci e alle linee oblique della vita, della cultura, dell’umanità. E’ possibile una nuova enciclopedia (29), (tema al quale Paci lavorò convintamene) se ogni scienza, ogni sapere, pur non venendo meno alla propria specificità, rinuncia ad ergersi isolato ed autonomo, refrattario a contaminarsi e ad incontrarsi con altre forme e figure della cultura, della civiltà, della storia, disponendosi nella correlazione universale, le cui leggi e segreti non sono completamente evidenti. Chi crede di vedere, forse non vede, annota Paci riprendendo il vangelo giovanneo (IX, 41) nelle parole di Gesù “ ’Se voi foste ciechi non avreste alcun peccato, ma voi dite vediamo, e perciò il vostro peccato rimane’.  Aprire gli occhi. Imparare a vedere. Non credere di vedere già”(30).

     Il Diario di Paci nell’insieme svela la fenomenologia nel suo proporsi come introduzione al vedere, ad un senso che esiste e che si cela e  che ci manca perché rifiutiamo di apprenderlo tra le  maschere labirintiche del quotidiano. La vita quotidiana nel suo anonimo reiterarsi, nel suo affollarsi e riempirsi di oggetti, di volti e di gesti, sembrerebbe cacciare indietro la nostra lotta per il senso, per il significato. Ne usciremmo sconfitti, schiacciati e talora ciò sembra il nostro destino, la nostra condanna. Avremmo quindi perduto il senso del risveglio e della nascita, del riaprirsi  e del riaffiorare anche dentro le viscere del torpore, della luce anche nel buio della cecità. Ma la seconda nascita, come Paci scrisse sull’episodio evangelico dell’incontro tra Gesù e Nicodemo a proposito della nascita dall’alto, non solo è possibile ma è reale. Ci è data la possibilità del riscatto, di fermare il raggrumarsi dell’inerzia e della passività in noi e fuori di noi, di una conversione alla vita:

 

Non la vita, non la vita semplicemente subita, la vita prima della riduzione, ma il significato della vita. Ogni giorno questo significato si perde e deve essere riconquistato. Non si perde soltanto per mancanza di attenzione e di riflessione. Si Perde nei compiti minori che crediamo decisivi, nella lotta stupida, nel compromesso, nella “malafede”. Continuo riscattarsi. C’è una specie di ardore nel voler bruciare l’errore. Un senso di ribellione per l’ipocrisia, per l’illusione quotidiana, per il bisogno di possedere le cose, le idee. Noia, stanchezza. Se il senso. Se il senso intenzionale della verità non vivifica i nostri gesti, la stanchezza li consuma. Le ambizioni, nella loro vera natura, sono noiose. Il cielo è indifferente, gli alberi diventano figure approssimative, tutto perde la sua espressione. Poi sopravviene il senso del rifiuto, il bisogno di un atto che faccia scaturire nuovi colori, che faccia vivere le cose, trasformandole in sensazioni vere, in percezioni vere, in figure vere, in espressioni del logos (31).

 

     Le maschere del negativo sono incombenti ma non invincibili; nell’introduzione al Diario Paci parla di salvezza possibile per l’umanità, possibile come la sua distruzione;  “il diario è un modo individuale per vivere la crisi e per trovare le direzioni della dialettica. E’ una critica della comunità, ma è una critica di ciascun individuo. […] E’ una riflessione vissuta che ha i suoi limiti, ma che cerca un incontro e vuol realizzare concretamente una via” (32).

 

 

N O T E

 

 

 

1. E. Paci, Diario fenomenologico, Milano, Bompiani, 1973. D’ora in poi riportato con la sigla DF.

2. p. 6. Il tema dell’introduzione come stile della fenomenologia ricorre frequentemente nel pensiero di Paci. La filosofia  stessa va intesa con una continua preparazione e mai come risultato. Essa si offre in un orizzonte aperto e detotalizzato. In particolare vedasi la voce introduzione che Paci elaborò per la rubrica Il senso delle parole  della rivista “aut aut” da lui fondata. La fenomenologia “è per essenza introduttiva. Come riflessione sulla realtà, o sull’esperienza nella quale noi siamo sempre, la fenomenologia è la ricerca del senso e del fine delle situazioni che via via concretamente si determinano nell’esperienza stessa, senso e fine che, pur essendo specifici, si ordinano rispetto ad un orizzonte infinito”. Essa si dà come una perenne ascesi, un esercizio che non è mai precostituito e “non è mai nei libri o nelle parole dei libri” (in E. Paci, Il senso delle parole (1963-1974), a cura di Pier Aldo Rovatti, Milano, Bompiani, 1987, pp. 74-75). Originariamente le note paciane uscirono in “aut aut”, n. 83/1964.

3. Pagina datata Pavia, 14 marzo 1956, DF, p. 11. I corsivi sono di Paci.

4. L’espressione di Proust si riconnette ad un’ampia citazione dello scrittore francese ripresa da Paci nelle note diaristiche del 12 aprile 1956; parlando dei campanili di Martinville, Proust osserva: “En constatant, en notant le forme de leur flèche, le déplacement de leurs lignes, l’ensoleillement de leur surface, je sentais que je n’allais pas au bout de mon impression, que quelque chose était derrière ce mouvement, derrière cette clarté, quelque chose qu’ils semblaient contenir et dérober à la fois », in DF, p. 13.

5. p. 14 (15 aprile 1956). I corsivi sono di Paci.

6. E. Paci, Epochè, in Il senso delle parole, cit., p. 30. Originariamente in “aut aut”, n. 73/1964.

7. DF, p. 15 (26 aprile 1956).

8. p. 25 (18 maggio 1957).

9. Di questa peculiarità dell’atteggiamento di Paci e del suo pensiero ha parlato Pier Aldo Rovatti

nella sua  Introduzione a Il senso delle parole, cit., facendo riferimento a tre livelli o strati del lavoro filosofico di Paci, il primo raccolto nei libri e nei saggi pubblicati,  il secondo consistente nell’attività maieutica orale delle lezioni, delle conversazioni, il terzo condensato  nell’attività “notturna” di scrittura e di incessante ripensamento dei temi filosofici, propria degli appunti, delle pagine di diario, delle note brevi. Scrive Rovatti a proposito: “Chi ha avuto modo di ascoltare qualche lezione di Paci, ricorderà come l’argomento di partenza lasciasse filtrare ogni volta molteplici trame, rimandi, deviazioni: come se Paci non potesse trattenersi dal far irrompere il denso pensiero notturno, che ancora lavorava in lui e forse era appena stato interrotto, nella comunicazione diurna rivolta ai suoi studenti” (p. 5).

10. DF, p. 115 (4 maggio 1961).

11. Sul tema della scrittura in Paci, vedasi il mio saggio,  R. Taioli, Scrittura, pensiero, vita in Enzo Paci, “Bloc notes”, n. 35, 1996, pp. 61-79.  

12. p. 52 (3 giugno 1958).

13. p. 46 (16 marzo 1958).

14. Vedansi a questo proposito i volumi: F. Papi,  Vita e filosofia. La scuola di Milano. Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Guerini, Milano, 1990 e G. Scaramuzza, Crisi come rinnovamento. Scritti sull’estetica  della scuola di Milano, Edizioni Unicopli, Milano, 2000 e i saggi  di Silvia Arzola, Il “bisogno d’arte” nel pensiero del primo Enzo Paci,  pp. 172-190, Davide Malvestiti, Paci e l’idea di rinascita, pp. 231-244 in La vita irrimediabile. Un itinerario tra esteticità, vita e arte, a cura di G. Scaramuzza, Alinea Editrice, Firenze, 1997. Vedansi inoltre in “Materiali di Estetica”, n. 9/2003 i saggi di G. Scaramuzza, Letture di Dostoevskij nella Scuola di Milano, pp. 53-87, e di  R. Taioli, Il problema del significato nella filosofia di Enzo Paci, pp. 230-255.

15. DF, p. 36 (22 luglio 1957).

16. p. 84 (30 0ttobre 1958).

17. ibidem.

18. p. 84.

19. p. 114 (4 maggio 1961).

20. p. 115.

21. p. 115 (10 giugno 1961). Della figura di Hermann Leo Van Breda Paci scrisse, poco dopo la sua morte nel 1974 alcune  pagine dal titolo Husserl e il cristianesimo apparse nella rubrica Il senso delle parole nel n. 141/1974 di “aut aut”, poi confluite  nel volume, cit, pp. 296-298. Le riflessioni paciane, condotte con senso interrogativo e dilemmatico, si pongono il problema che aveva assillato Van Breda per tutta la sua vita, cioè l’inerenza del cristianesimo alla fenomenologia, soprattutto sulla crucialità del legame cristiano Padre/Figlio. Paci annota: “Husserl fonda la sua filosofia sulla presenza. Ma Van Breda si chiedeva: fino a che punto la presenza del Figlio è anche la presenza del Padre e fino a che punto ciò esige la crocifissione e cioè una funzione del negativo? Per quanto riguarda il Padre, Husserl lo sentiva certamente come il logos del Vangelo di Giovanni. Ma tutta la fenomenologia teorizza il problema della creatività divina, il problema della origine paterna. […] La dipendenza dal Padre è intesa dalla fenomenologia come un dato da porre sotto epochè e forse è proprio questo che Van Breda non poteva accettare” (p. 296).

22. DF, p. 96 (30 marzo 1960- Parigi).

23. p. 97 (3 aprile 1960 – Parigi).

24. p. 13 (2 aprile 1956).

25. ibidem, (10 aprile 1956).

26, E. Paci, Dialettica e intenzionalità nella critica e nella poesia, in E. Paci, Relazioni e significati, vol. III, Lampugnani Nigri, Milano, 1966, p. 300.

27. DF, pp. 57-58 (1 luglio 1958 – Camogli ). I corsivi sono di Paci.

28.Sul tema dell’alienazione delle parole e dei libri, vedasi il saggio di Paci dedicato all’autobiografia sartriana Les mots; Le parole, in  “aut aut”, n. 82/1964.

29. Sul tema della nuova enciclopedia vedasi il volume di Paci, Idee per una enciclopedia fenomenologia, Bompiani, Milano, 1973.

30. DF, p. 45 (14 marzo 1958).

31. p. 90 (4 giugno 1959).

32. DF, Introduzione 1973, cit. , p. 9.



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