La Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI

 

di Antonietta Pistone

 

 

Nell’ultima Lettera Enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI vi è un richiamo costante ai valori della verità e dell’amore già presenti nella precedente Deus caritas est. Dio è per sua stessa essenza amore,

scrive il Papa teologo. Pertanto ogni espressione dell’amore maturo è manifestazione certa della presenza di Dio tra noi. Adesso, suggerisce ulteriormente, questo amore caritatevole di Dio si rende evidente nella verità, perché Dio è verità. Perciò se Dio è amore, e se Dio è verità, l’amore di Dio coincide con quello per la verità di Dio. E tra amore e verità, in Dio, non può esserci esclusione, quanto piuttosto un rapporto di reciproca implicanza che dall’uno porta all’altro, proprio perché dall’uno discende l’altro. Rovesciando il detto di San Paolo «veritas in caritate» (la verità è nell’amore), Papa Ratzinger sostiene «caritas in veritate» (l’amore è nella verità). Quanto più ci si accosta, ricercandola, alla verità, tanto maggiormente ci si avvicina all’amore vero e profondo di Dio. Dunque caritas e veritas sono svelati nel loro reciproco rapporto di reversibilità non escludente, proprio come agápe e lógos sono l’uno il presupposto e la conseguenza dell’altro. Non vi è possibilità di amore senza parola, perché la parola è amore. Ma la parola è Dio, perciò Dio è parola, verità e amore. Eppure il lógos non si accontenta del suo essere monologo comunicativo nel linguaggio, e diviene diá-lógos, comunione nel dialogo, in cui si incontrano e si compenetrano due differenti identità, nella parola vera dell’amore di Dio. Avviene così il mutuo riconoscimento tra un io ed un tu, nell’attimo in cui si percepiscono entrambi carne viva della stessa storia dell’umanità. Figli di quell’amore che è dono e grazia al tempo stesso, e che si fa elemento sorgivo della vita sociale dei popoli. Perché non c’è amore senza giustizia, ma nemmeno senza la comprensione del significato e del senso del dono e del perdono. Nell’amore per la verità e la giustizia si uniscono così gli elementi più radicali del sentimento religioso della compassione per l’altro, con quello della lotta politica per il perseguimento degli ideali di uguaglianza tra gli uomini. L’amore si fa ricerca della verità e della giustizia nel rispetto del dono e del perdono, attraverso la grazia, in Dio. Ma va chiarito, inevitabilmente, che non può esservi alcuna verità senza l’amore, perché è dall’amore che la verità discende, nel senso più ampio del termine. Anche nella forma della giustizia e del bene comune che interessa di necessità tutto il consorzio umano. L’amore per la verità, lungi dall’essere mera espressione di sentimentalismo romantico, diviene lotta per i diritti, battaglia politica, impegno e sacrificio nell’interesse comune. È adoperarsi efficacemente per il bene dell’altro, di colui che si ama. Solo in questa direzione è possibile ipotizzare l’edificazione di quella città dell’uomo in vista della città di Dio di cui parlava Agostino. Quando Papa Paolo VI pubblica, nel 1967, la sua Lettera Enciclica Populorum progressio, fa costante riferimento allo sviluppo delle Nazioni che comincia, in primo luogo, dalla diffusione del messaggio evangelico, e continua attraverso la promozione dei valori umani, e la scoperta di un nuovo umanesimo integrale, che si avvicina all’immagine olistica di uomo, unità inscindibile ed indifferenziata di anima e corpo, che da Aristotele e da San Tommaso era approdata alla filosofia dell’umanesimo cattolico integrale del francese Maritain[1]. Non c’è sviluppo in cui l’uomo non passi da condizioni meno umane a condizioni più umane. «Tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo […] l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione». Queste le due grandi verità comunicate nella Lettera Enciclica da Paolo VI[2]. «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev'essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo. Com'è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: noi non accettiamo di separare l'economico dall'umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a comprendere l'umanità intera»[3]. Ma non è possibile uno sviluppo integrale della persona umana che non sia vocazione e incarnazione, perché queste due sole dimensioni dei figli di Dio li portano a riconoscersi in una missione di vita che supera nella trascendenza il momento dell’attimo dell’hic et nunc, il qui ed ora, inducendo l’uomo a dichiararsi fratello dell’altro uomo in Cristo. «Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo dell'educazione ricevuta dall'ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore. Dotato d'intelligenza e di libertà, egli è responsabile della sua crescita, così come della sua salvezza. Aiutato, e talvolta impedito, da coloro che lo educano e lo circondano, ciascuno rimane, quali che siano le influenze che si esercitano su di lui, l'artefice della sua riuscita o del suo fallimento: col solo sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più»[4]. Se tutti siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio, in Lui solo ci possiamo ritrovare nella comune e condivisa umanità di persone, alla ricerca di una vocazione esistenziale verso il trascendente. «Se il perseguimento dello sviluppo richiede un numero sempre più grande di tecnici, esige ancor più uomini di pensiero capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca d'un «umanesimo» nuovo, che permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso, assumendo i valori superiori di amore, di amicizia, di preghiera e di contemplazione. In tal modo potrà compiersi in pienezza il vero sviluppo, che è il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane»[5]. Continua Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, senza tuttavia discostarsi dal Magistero della Chiesa cattolica, dopo l’impostazione che si era data la cristianità durante il Concilio Vaticano II[6], ribadendo la sua vocazione all’ecumenismo e avvicinandosi con sensibilità sempre maggiore a tutte le questioni di natura sociale ed economica, che coinvolgessero i popoli e le nazioni. La dimensione dello sviluppo, fortemente legata all’idea filosofico-religiosa di uomo, piuttosto che alla sua distorta interpretazione in chiave economico-capitalistica, rappresentava un’innovazione rivoluzionaria all’interno della Chiesa romana, che rende ancora assai attuale il discorso politico della Populorum progressio, costituendo una svolta definitiva nell’orientamento dei cattolici, laici e religiosi, di tutto il mondo. Soprattutto, si faceva interprete fedele di quella nuova teologia della liberazione che incarnava gli ideali postconciliari di emancipazione sociale, a partire dalla considerazione della realtà dei preti operai. Con la Lettera apostolica Octogesima adveniens del 1971 Paolo VI trattò il problema della politica e del rischio di visioni utopistiche ed avveniristiche che esulassero da considerazioni di tipo etico, e al tempo stesso rinnovò le sue esternazioni nei confronti di quegli atteggiamenti sociali rivolti alla promozione della tecnica intesa in senso radicale come unica e sola possibilità di sviluppo umano. Con la Lettera enciclica Humanae vitae del 25 luglio 1968 Paolo VI aveva invece sottolineato il valore dell’amore sponsale, che si esplica in senso unitivo e procreativo nella sessualità della vita di coppia, rimarcato nella Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, del 25 marzo 1995. Nella Populorum progressio Paolo VI sottolinea come lo sviluppo dell’uomo sia questione non solo economica ma anche e soprattutto morale. Solo attraverso una filosofia dell’umanesimo integrale trascendente, che recuperi quei valori immortali di unità intrinseca, nella persona, di corpo e anima, è possibile comprendere la liberazione dell’uomo dalla schiavitù delle passioni e dei bisogni, alla luce della scoperta, in ciascuno, della individuale vocazione. «Non vi è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana»[7]. Sembra di rileggere le pagine del filosofo Mounier, quando ritrova nella persona, inscindibilmente unite, le tre dimensioni della vocazione ad essere, dell’incarnazione ad esistere, e della comunione a relazionarsi con gli altri, che si realizza, in ultima analisi, solo ed esclusivamente attraverso la condivisione dei vissuti psichici e fisici, entro la comunità. Anche per l’approccio del personalismo francese difatti la persona è concepita come prospettiva, sguardo in avanti, facendosi essenzialmente incarnazione dei vissuti. Allo stesso modo, la dimensione della vocazione cristiana della persona umana, in Paolo VI come in Benedetto XVI, passa inevitabilmente per la relazione sociale, che rende operativa e concreta la individuale vocazione dello spirito, incarnata nella concretezza corporea dell’esistenza storica. Vocazione ed incarnazione sono possibili solo nella relazione sociale che si fa comunione totale in una dimensione dei vissuti capace di superare il momento transeunte della storicità, per farsi sguardo prospettico sulla trascendenza divina della dimensione ultraterrena. La vocazione umana, cioè, è richiamo ai valori che proiettano la persona verso orizzonti immortali dell’essere e dell’esistere, costituiti dalle frontiere dello spirito. L’uomo, come il popolo, che abbraccia interamente, perché la riconosce come propria, la sua vocazione, sa anche farsi autentico interprete della verità dell’amore, nella giustizia e nella libertà. Qui il discorso della Populorum progressio abbandona lo scandaglio delle ragioni intimistiche e spirituali della coscienza e del cuore, per approdare alla complessità delle questioni sociali e politiche, legate intimamente al mondo dei valori e delle scelte morali. La ripresa di questi temi dell’enciclica di Paolo VI in Benedetto XVI fa credere che vi sia una sintonia molto intima di intenti e di propositi nel pensiero di entrambi. Papa Ratzinger vuole, in sostanza, sottolineare il profondo significato della relazione autentica, che si fa amore e condivisione con l’altro, lungi dall’essere mero sentimentalismo romantico nella ricerca della verità e della giustizia per la persona umana e per i popoli tutti della terra. Se è vero che non esiste la possibilità di una relazione profonda, al di fuori dell’amore reciproco, è altrettanto vero che ogni relazione d’amore deve necessariamente nutrirsi della ricerca della verità, attraverso la libertà e la giustizia, per non sfociare nel banale sentimentalismo compassionevole. Ogni relazione autentica con l’altro è reciproco impegno per la giustizia e la verità, nell’esercizio individuale e collettivo della libertà responsabile che si prende cura e progetta l’avvenire, a partire dal passato e dalla considerazione attiva e pronta del presente. Un vero sviluppo umano, perciò, non può che essere ricerca di un umanesimo integrale trascendente, in vista dell’uomo e per tutto l’uomo, verso Dio. Gli uomini politici dovrebbero essere capaci di armonizzare doti di pensiero, di spirito e di cuore, per realizzare compiutamente quella fratellanza tra i popoli che oggi manca, la cui carenza è purtroppo alla base di grandi ingiustizie sociali che allontanano irrimediabilmente le nazioni del mondo dalla pace e dalla libertà. Sebbene sia, di fatto, aumentata la ricchezza del pianeta, si sono evidentemente accresciute insieme anche le disparità sociali e le disuguaglianze economiche, per il cattivo uso delle risorse disponibili, che ha sottratto beni di prima necessità, come l’acqua e il cibo ai popoli del mondo, determinando gravi condizioni di sottoviluppo in alcune aree geografiche, condannate ancora oggi a dover risolvere il problema della denutrizione e della fame. Ma per costruire quella civiltà dell’amore che riconosca il suo centro vitale nella persona umana e nei suoi valori, primo fra tutti quello alla vita, è necessario prendere in considerazione le situazioni difficili che si presentano anche nei cosiddetti paesi industrializzati, dove apparentemente non si dovrebbero determinare condizioni di sistematico bisogno. Si parla della mancanza di lavoro che affligge le nuove generazioni, insistendo pesantemente sulla condizione economica del paese, ma anche necessariamente sulla vita privata dei singoli, che faticano a formare famiglia. Di conseguenza si assiste ad un continuo decremento dei matrimoni, e ad una diffusa crisi dell’istituto familiare, proprio in un momento storico caratterizzato dall’incertezza generalizzata e dalla sfiducia nei valori della tradizione cattolica, e bisognoso pertanto di ritrovare nella comunità istituzionalizzata della famiglia un rifugio sicuro per arginare il rischio della devianza giovanile nell’uso e nell’abuso di stupefacenti, nella criminalità organizzata, in tutti quei fenomeni degenerativi della violenza individuale e di gruppo, che sostituisce semplicisticamente l’abitudine alla parola e al dialogo tollerante e costruttivo nel confrontarsi con gli altri. Così come l’unione sponsale dei coniugi nel matrimonio è il remedium concupiscentiae contro le esterne tentazioni della carne. Ovviamente si vuole intendere qui, per famiglia, quella istituzione che si avvicini il più possibile al suo modello idealizzato di rifugio e porto della persona, lungi dal voler significare con questa terminologia le aberrazioni alle quali la degenerazione odierna dei costumi morali ci ha, purtroppo, dolorosamente abituato. Sebbene si debba fare i conti, ormai, con una nuova e variegata tipologia di famiglia, sempre più sovente così detta “allargata”, che comprende diversi nuclei, compreso i nonni e gli zii spesso conviventi, ma anche le nuove famiglie che si costituiscono dopo separazioni e divorzi. Oggi, come ieri, la famiglia è diventata spesso il luogo privilegiato della violenza taciuta. Certamente non è a questa degenerazione tipologica che Benedetto XVI si riferisce quando ne parla come di un antico baluardo da riscoprire e difendere strenuamente. Anche la globalizzazione ha contribuito a diffondere questo generalizzato clima di insicurezza che, ritengo, impedisce agli intellettuali di esercitarsi nella dialettica dei distinti di crociana memoria. Il fenomeno cui si assiste è quello doppio dell’eclettismo o dell’appiattimento culturale. In entrambi i casi, la cultura viene mercificata attraverso la semplificazione strumentale della complessità dei fenomeni da essa rappresentati. In un’ansia di omologazione che, nell’intento di omogeneizzare il tutto, banalizza le differenze per renderle irriconoscibili alla maggior parte della gente, vendendo il prodotto finito come standardizzato ed universalmente fruibile. Di questa deriva della cultura è responsabile, credo, anche la scuola, con i suoi diplomifici impegnati a distribuire titoli culturali spendibili sul mercato del lavoro, piuttosto che a generare crisi di coscienza, e a divenire davvero termostato della società, secondo le indicazioni del noto pedagogista Postman. Si finisce così per produrre un comune sentire, incapace di stabilire connessioni o differenze, in un mondo che ha semplificato ogni diversità, assimilando l’una all’altra le culture dei popoli, nell’illusione di creare una falsa integrazione, assolutamente irrealizzabile senza un minimo di conoscenza profonda delle specificità delle culture e delle civiltà differenti. La coesistenza che ne deriva è solo una mera apparenza di pace e di non violenza, sotto la quale si nascondono l’indifferenza per l’altro, la sua storia, le sue tradizioni. Anche l’intolleranza religiosa che ha da secoli prodotto le false utopie delle guerre sante di liberazione, è un ostacolo non indifferente che impedisce la costruzione della civiltà dell’amore. Il rispetto per l’altro non prescinde dall’amore, che è sempre una forma di intelligenza e di comprensione anche per la sua fede religiosa. L’odio separa e distrugge, laddove l’amore unisce ed edifica. Per questo motivo esso è inseparabile dalla ricerca della verità. Perché non è possibile un amore che sia privo di intelligenza. E l’intelligenza è commistione di mente e di cuore. L’amore, poi, in quanto intelligenza del cuore, è la più intima e profonda ricerca della verità, intuita attraverso tutta la persona, oltre che ragionata con gli strumenti propri dell’intelletto umano. Ma per realizzare questa civiltà dell’amore andrebbero riscoperti la logica del dono e della speranza cristiana, ed il conseguente principio di gratuità, come espressione della fraternità dei popoli. Dono è “ciò che è dato”. Ammettere il dono significa supporre l’esistenza di realtà indipendenti e al di fuori dell’umana capacità di disporre. Vuol dire entrare nell’ottica della trascendenza, per la quale e alla quale l’uomo deve concedere qualcosa a Qualcuno che gli è di fatto superiore. Il relativismo etico derivato dal crollo dei valori è una diretta conseguenza della fede totalizzante che l’individuo ha acquisito nei confronti di se stesso, sostituendosi a Dio in tutto e per tutto, anche nel ritenersi onnipotente. Questa presunzione di grandezza ha finito col determinare la fine della trascendenza, sostituita dalla logica del mercato, per la quale ogni bene è acquistabile attraverso il denaro-capitale, che è perciò divenuto il bene per eccellenza, calpestando anche i diritti umani della persona. La logica mercantile della giustizia commutativa è fondata sulla legittimità del contratto e del do ut des. Questa logica sterile ha immiserito i rapporti umani, facendoli dipendere esclusivamente dalla natura e dalla tipologia dello scambio, entro il quale si è configurata l’esistenza individuale del capitalismo post-moderno, di stampo individualistico ed utilitaristico. L’edonismo ne è il frutto degenerato. La logica della giustizia commutativa andrebbe, invece, sostituita da quella della giustizia sociale distributiva, che dà secondo necessità e bisogno ai poveri, piuttosto che continuare a rimpinguare le casse già sonanti dei ricchi. Alcune distorsioni economiche e morali generate da questo sistema di cose sono rinvenibili dal pontefice nel trasferimento dei capitali all’estero, nei paradisi fiscali, nell’individualismo edonistico ed utilitaristico già detto, nella pratica dell’eutanasia, dell’aborto, della contraccezione, nel controllo delle nascite, nel concepimento artificiale in tutte le sue forme, nella ricerca scientifica sugli embrioni umani, nello scarso rispetto per l’ambiente, per la distribuzione delle risorse e per la salvaguardia del clima contro l’inquinamento atmosferico. L’etica personalistica, al contrario, rivaluta l’uomo in tutte le sue attribuzioni, ponendo la vita al centro di ogni questione, laddove oggi è il denaro nelle forme del capitale ad aver surclassato la persona umana. Un’etica che recuperi la persona non può che osservare alla luce della legge morale anche i fatti economici, di cui resta protagonista sempre e comunque l’uomo, lungi dal rappresentarsi come oggetto succube e passivo. La persona umana al centro consegna nuova dignità all’istituzione del matrimonio e alla famiglia, fondata sull’unione sponsale dei coniugi che si amano e che, desiderandosi, generano la vita. L’uomo, per la teologia cattolica, è immagine e somiglianza di Dio. Il volto, che si fa prospettiva e sguardo in avanti nel personalismo filosofico, diventa espressione della storia del singolo individuo come di tutta l’umanità in cammino verso Dio. Partecipare, come genitori, alla mirabile opera del Creatore, è contribuire fattivamente al progetto di Dio per l’uomo. La natalità diventa così una benedizione celeste. La morale cattolica è alimentata da valori ontologicamente fondati nella trascendenza di Dio e dello spirito umano, che si riconosce nell’anima di ciascuno. Perciò, anche i valori sono intramontabili e trascendenti. L’uomo, poi, ha ricevuto, con il dono della vita, anche quello della natura, che gli è stata affidata da Dio perché se ne nutra, proteggendola, attraverso il rispetto per l’ambiente, le risorse, il clima. Tuttavia l’uomo deve amministrare con grande devozione la natura, senza infierire su di essa, come oggi avviene, perché disponendone a suo piacimento, senza regole morali, finisce col distruggere il rapporto equilibrato degli esseri, inquinando l’ambiente e autodistruggendo se stesso. Un altro spettro della contemporaneità con il quale si deve doverosamente lottare è la solitudine, un male di cui soffrono ormai quasi tutti per l’impossibilità di costruire rapporti e relazioni autentiche che vadano oltre la dimensione del contratto economico e della logica dello scambio. La solitudine si configura come una nuova forma di povertà: «Paolo VI notava che il mondo soffre per mancanza di pensiero. L’affermazione contiene una constatazione, ma soprattutto un auspicio: serve un nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l’interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l’integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione. Un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo. La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio»[8]. La solitudine è determinata anche dall’intolleranza religiosa propria del fondamentalismo come del laicismo, dell’indifferentismo religioso come dell’omologazione culturale che appiattiscono tutte le religioni facendole sembrare uguali tra loro. Ma anche la superstizione impedisce un dialogo sereno, che è invece simbolicamente espresso e significato dalla compenetrazione delle tre persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella Trinità di Dio. Il vero dialogo, come la vera relazione, lascia sbocciare il meglio di ciascuno. Come in famiglia, così nella Chiesa cattolica, ogni individualità è esaltata dentro la comunità, non umiliata e oppressa come avviene invece nei totalitarismi. Perché la comunità che rispetti l’individuo è profondamente democratica. Dio deve, perciò, trovare un suo spazio nella sfera pubblica. Uno stato, qualunque esso sia, per quanto si dica laico, non può non tener conto degli orientamenti religiosi dei suoi cittadini, che per di più dettano le norme del loro agire morale. Lungi dalle possibili interpretazioni di orientamento confessionale, a questa riflessione di Benedetto XVI va posta la giusta attenzione, ponderando anche i suoi possibili risvolti dogmatici e teocentrici nell’attuale delicato momento storico-politico internazionale. Nel vuoto di potere che ci rende profondamente carenti di figure di spicco e di rilievo, con uno spessore culturale ed un impegno serio e responsabile, è piuttosto facile che una presenza così forte come quella del nostro pontefice Benedetto XVI possa finire per “dettare legge” anche in sede civile. Lo Stato laico, però, ha il dovere di conoscere gli orientamenti della chiesa cattolica, come di tutte le altre confessioni, per arginare ogni eventuale tentativo della religione di oltrepassare i leciti confini dello spirito, nell’intento di imporsi a governare in sede politica. Ritengo, ad ogni modo, che questa considerazione del Pontefice si proponga come lo specchio fedele dei rapporti da sempre intercorsi tra Chiesa e Stato, esemplificando espressamente come le vicende storico-politiche siano strettamente connesse a quelle della fede religiosa dei popoli, divenendo in tal modo la religione uno degli aspetti preminenti e più inquietanti, unitamente a quelli economici, che ogni storico che si rispetti deve prendere seriamente in considerazione nella ricostruzione di un’epoca. L’identità e la cultura di un popolo sono, difatti, intimamente legate anche e soprattutto alle sue scelte di natura religiosa. Già Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, invertendo il rapporto dialettico marxista tra struttura e sovrastruttura, riconosceva il valore primario delle scelte morali e religiose su quelle di natura prettamente economica. La religione, dunque, in quanto espressione della cultura e della storia dei popoli, è un elemento fondamentale per l’approfondimento dei valori e della moralità, dell’agire e del comportamento sociale, quando si vogliano studiare gli elementi complessi di una civiltà. Essa è, difatti, distinta dalla religiosità, come sentimento privato ed intimistico, laddove la religione comprende l’insieme delle pratiche comportamentali e rituali che necessariamente finiscono per riversarsi sul sociale, sul pubblico e, in ultima analisi, sul politico. Ciò che, in effetti, colpisce di questa enciclica è la novità del porgere il pensiero su due fronti distinti, sebbene convergenti. Da una parte si osserva la speculazione filosofica sui temi del personalismo cattolico, con afferenze dirette alla religiosità dello spirito umano. Dall’altra, l’approccio personalistico si socializza nelle riflessioni di natura economico-politica, divenendo ampio sguardo critico della realtà internazionale, a partire dalla questione religiosa. Quella che Papa Benedetto propone in Caritas in veritate è un’analisi spietata della contemporaneità, segnata dallo smarrimento dei valori etici e dalla perdita di centralità della persona umana in ogni ambito. Solo il recupero di questa priorità potrà garantire, nella prospettiva del Pontefice, un nuovo orientamento mondiale in vista della pace universale e della fraternità dei popoli tutti. Lo sviluppo economico politico è ciò che seguirà necessariamente una rivoluzione dello spirito di tale portata. Senza la quale null’altro ci è, tuttora, permesso di sperare. Ragione e fede non sono tra loro in contrasto, ma necessitano di dialogare in modo fecondo per affermare nella comunità una collaborazione attiva tra credenti e non credenti, alla luce del principio di sussidiarietà contro ogni forma di assistenzialismo paternalistico. La sussidiarietà è l’unico modo per gestire responsabilmente la globalizzazione, in vista di un’operosa e solidale cooperazione tra i popoli. In questa prospettiva, gli aiuti internazionali allo sviluppo non devono favorire situazioni di dominio. La cooperazione allo sviluppo deve invece saper gestire le risorse umane, divenendo luogo di incontro tra le culture. Bisogna lavorare al recupero dei valori della persona umana anche per risolvere i problemi relativi all’educazione dei bambini, che non può più essere affidata ad etiche relativistiche; quelli derivanti dal turismo sessuale, dai flussi migratori, dalla povertà e dalla disoccupazione dei giovani, dalle divisioni politiche delle organizzazioni sindacali di categoria, dall’usura, dai consumatori e dalle loro associazioni, che dovrebbero assumersi il compito di segnalare criticamente il significato dell’acquisto e dell’uso di un bene. Pagine che dovrebbero leggere con attenzione critica tutti i nostri politici. Questa enciclica sembra, difatti, più un manifesto programmatico che un invito spirituale rivolto alla salvezza delle anime. Il pericolo che corre, attualmente l’Occidente, è sicuramente quello di perdere ancora di vista la distinzione tra Stato e Chiesa, già riconosciuta nel 1250 dal re svevo Federico II. La concezione di uno stato laico, sebbene tollerante in materia di professioni religiose, è il primo basilare pilastro dello stato moderno, sorto da tante sanguinose rivoluzioni come quella americana, che dette origine agli Stati Uniti d’America, e quella francese, fondata sugli ideali di uguaglianza, libertà e fraternità dei popoli. Il Risorgimento italiano ha rappresentato la continuità con queste rivoluzioni. Alessandro Manzoni, Antonio Rosmini, Giuseppe Mazzini, pur essendo cattolici, hanno strenuamente combattuto per uno stato laico, che distinguesse le sue posizioni politiche dalle scelte morali della chiesa cattolica. C’è da augurarsi davvero che i politici del mondo siano in grado di capire ed interpretare con intelligenza le parole del Papa, che suonano come un monito, ma anche come una minaccia per l’umanità. Così gli intellettuali e i pensatori dovrebbero soffermarsi a leggere e riflettere le considerazioni del Pontefice sulla conoscenza. «Conoscere non è un atto solo materiale, perchè il conosciuto nasconde sempre qualcosa che va al di la` del dato empirico. Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perchè non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo. In ogni verità c’è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati, nell’amore che riceviamo c’è sempre qualcosa che ci sorprende. Non dovremmo mai cessare di stupirci davanti a questi prodigi. In ogni conoscenza e in ogni atto d’amore l’anima dell’uomo sperimenta un «di più» che assomiglia molto a un dono ricevuto, ad un’altezza a cui ci sentiamo elevati. Anche lo sviluppo dell’uomo e dei popoli si colloca a una simile altezza, se consideriamo la dimensione spirituale che deve connotare necessariamente tale sviluppo perchè possa essere autentico. Esso richiede occhi nuovi e un cuore nuovo, in grado di superare la visione materialistica degli avvenimenti umani e di intravedere nello sviluppo un ‘‘oltre’’ che la tecnica non può dare. Su questa via sarà possibile perseguire quello sviluppo umano integrale che ha il suo criterio orientatore nella forza propulsiva della carità nella verità»[9]. Politica e scienza non possono procedere autonomamente l’una dall’altra, e indipendenti dalla legge morale e religiosa. Perché ogni tentativo in questo senso rappresenta il più profondo tradimento dell’uomo a se stesso. Solo un nuovo umanesimo, un umanesimo cristiano, potrà trasformare i “cuori di pietra” in “cuori di carne”. Implicita si scorge qui la critica al machiavellismo politico, come al tecnicismo esasperato che culmina nella cecità dello scientismo odierno, con cui il Pontefice conclude la sua lettera enciclica, prima dell’invocazione alla Vergine.

 

Studio pubblicato sulla rivista Pianeta Cultura.



[1] J. Maritain, L’umanesimo integrale, Parigi 1936.

[2] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 14: l.c., 264.

[3]Cfr. Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 14.

[4] Cfr. Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 15.

[5] Ivi, 20.

[6] Il Concilio Vaticano II venne convocato da Papa Giovanni XXIII nel 1959 per dare la parola ai Vescovi di tutto il mondo; furono creati il sinodo dei Vescovi, la Conferenza episcopale italiana (Cei), il collegio dei Cardinali, e venne rinnovata la Curia. In epoca postconciliare gli succedette nel 1963 Papa Montini, noto come Paolo VI.

[7] Cfr. Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 42: l.c., 278.

[8] Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate, pag. 90.

[9] Benedetto XVI, Caritas in veritate, pagine 22 e 23.



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