MAX WEBER

"Il fortunato raramente si accontenta del fatto di possedere la fortuna. Egli prova inoltre il bisogno di averne anche il diritto" (Sociologia della religione)

A cura di Homolaicus.com

METODOLOGIA DELLE SCIENZE STORICO-SOCIALI

Premessa generale
W. ha contribuito anzitutto alla formulazione di metodi e compiti propri della sociologia borghese. Egli ha preso le mosse criticando la "Scuola storica" tedesca dell'economia che vedeva in ogni sistema economico la manifestazione dello "spirito di un popolo" (la posizione di Savigny, che si poneva sulla scia di Hegel, era stata ereditata da Roscher, Knies e Hildebrandt). W. rivendica, in questo caso, l'autonomia logica e teoretica della scienza. Lo "spirito del popolo" non è per lui che un prodotto culturale. In secondo luogo, egli critica il materialismo storico-dialettico in quell'aspetto che pone la sovrastruttura ideologica in stretta dipendenza dalla struttura economica. Per W. questo rapporto va determinato di volta in volta, perché può anche essere rovesciato (ad es. la religione può influire sull'economia in maniera determinante, come dirà nell'Etica protestante). In terzo luogo, W. critica il neo-criticismo e lo storicismo tedesco contemporaneo, rifiutando la riduzione della sociologia a scienza ausiliaria delle scienze storiche, ovvero negando che la psicologia sia la base della sociologia (in particolare W. rifiuta l'idea che con l'intuizione si possa comprendere e rivivere l'esperienza altrui. L'ERLEBNIS di Dilthey appartiene al sentimento non alla scienza controllata). Dello storicismo W. rifiuta anche l'idea che possa esistere un oggetto storico "individuale" in sé e per sé: esso -dice W.- esiste solo nella scelta individualizzante fatta dal ricercatore all'inizio dell'indagine, nel mentre considera certi oggetti più importanti di altri. L'oggettività per W. è un criterio molto relativo: non è possibile parlare della conoscenza come di una riproduzione integrale o definitiva della realtà, in quanto va affermata la relatività dei criteri di scelta della conoscenza storica nonché l'unilateralità dell'indagine storica che delimita di volta in volta, orientandosi verso un valore o verso un altro, il proprio campo di ricerca. Il destino dello scienziato è quello di venir superato continuamente in un lavoro senza fine. Sotto questo aspetto non esistono neppure per W. delle scienze privilegiate. Infine dello storicismo rifiuta la critica al positivismo. Per W. la visione del mondo positivista è fallita perché la realtà socio-culturale in cui gli uomini vivono è sempre diversa, non deducibile da leggi generali (il positivismo invece si era trasformato in una metafisica). Però W. resta fedele al concetto positivistico di scienza, secondo cui la validità delle affermazioni scientifiche si basa non su presupposti sovraempirici ma su dati empiricamente dimostrabili (i fatti vanno separati dai desideri). La "sociologia comprendente" di W. è il tentativo di conciliare storicismo e positivismo, cioè le connessioni storico-culturali con l'esigenza di una validità empirica. In questo senso W. tiene unito ciò che la sociologia precedente teneva diviso: ricerca empirica-elaborazione teorica-interpretazione generalizzante di formazioni sociali collettive. In Germania nessun altro seppe farlo e in Francia vi riuscì solo E. Durkheim. W. in sostanza cercherà di opporsi sia a quel "realismo" che attraverso organismi collettivi (come gruppi e istituzioni) voleva rendere indipendente le leggi sociali dall'individuo, sia quell'"idealismo" che voleva porre a fondamento della propria spiegazione i cd. "valori".

Scopo e oggetto delle scienze storico-sociali
Oggetto e scopo delle scienze storico-sociali (in particolare della sociologia) è la comprensione oggettiva (in quanto "causale") dell'agire sociale (cioè dotato di senso). Queste scienze hanno il compito di descrivere e spiegare conformazioni storiche individuali e regolarità dell'agire sociale. La comprensione delle scienze storico-sociali è diversa da quella delle scienze naturali, poiché qui le regolarità osservate si possono cogliere ricorrendo a quantificazioni e misure (alla matematica), in quanto per comprendere i fenomeni vanno prima spiegati con proposizioni confermate dall'esperienza (metodo deduttivo). Viceversa, nelle altre scienze, che studiano il comportamento umano, la comprensione è più immediata/intrinseca, non nel senso che il ricercatore comprende intuitivamente determinati comportamenti (come nella psicologia diltheyana), ma nel senso che sulla base dei testi e dei documenti il significato di un comportamento soggettivo/individuale diventa immediatamente comprensibile senza che si debbano cercare ulteriori conferme per poter stabilire una regola generale. Questo perché tra soggetto e ricercatore c'è un elemento comune: la coscienza (il che implica sempre un certo margine d'insicurezza nell'interpretazione). Per W. esiste una sola scienza, perché unico è il criterio di scientificità delle diverse scienze: quello delle spiegazioni causali. Naturalmente è possibile la scientificità anche in presenza di una scelta/selezione operata dal ricercatore, relativamente ai settori d'indagine, ai fenomeni, ecc. La scientificità non sta necessariamente nell'universalità del sapere. La selezione si opera in riferimento ai valori. I quali non sono etici, né assoluti o incondizionati, né obiettivi o universali. Riferirsi ai valori per W. significa semplicemente operare una scelta tecnica fra diversi campi d'indagine, fenomeni, problemi... Si tratta, infatti, di determinare, tra gli elementi di una serie causale individuata, uno schema di rapporti che sia suscettibile di verifica/controllo. Di qui l'uso della nozione di possibilità oggettiva. Il ricercatore non emette giudizi di valore, semplicemente delimita la propria ricerca per garantirsi meglio un esito scientifico. Si potrebbe in un certo senso dire che W. ai "giudizi di valore" (che sono personali e soggettivi) preferisce l'espressione "rapporto ai valori", che implica un processo di selezione/organizzazione della realtà per ottenere una scienza oggettiva. Ad es. due soggetti storici possono esprimere giudizi di valore assai diversi sulla libertà politica: ebbene, compito del ricercatore è appunto quello di tener conto che tale libertà costituiva per quei soggetti un "valore", che le loro interpretazioni erano diverse e che l'affermazione di una invece che dell'altra ha determinato precise conseguenze. Compito del ricercatore non è dunque quello di esprimere un giudizio su questo valore o sull'interpretazione che ne davano quei soggetti. Lo storico deve evidenziare gli aspetti salienti, dominanti di un'epoca/civiltà/formazione sociale... e delinearne lo svolgimento logico. La spiegazione causale non consiste nel riconoscere un evento come necessariamente determinato dalla serie causale (altrettanto necessaria) degli eventi precedenti, ma nell'isolare, in una situazione storica determinata, un campo di possibilità, mostrando le condizioni che hanno reso possibile la decisione in favore di un'alternativa invece che di un'altra. Il significato di questa decisione può essere colto mediante il confronto con le altre possibilità/alternative (W. cita l'esempio della battaglia di Maratona, in cui si confrontavano due possibilità: la prevalenza di una cultura religiosa/teocratica e il mondo spirituale ellenico. Prevalse la seconda alternativa che, a sua volta, fu condizione di un corso di eventi di carattere universale). La sociologia deve costatare i fatti non deve esprimere giudizi di valore su queste alternative. Ovviamente accettando il fatto compie indirettamente un giudizio di valore, ma la sociologia non ha lo scopo di ritenere l'affermazione di un'alternativa come un fatto necessario, che doveva per forza accadere, essendo un'alternativa migliore dell'altra.

[Rilievi critici]
W. aveva preso da Rickert l'esigenza di selezionare, in quello che per entrambi era il caos della storia, determinati valori, ma se ne distacca quando vuole affermare una metodologia avalutativa. Paradossalmente, proprio mentre W. cercava di distinguere le scienze storico-sociali da quelle naturali, applicava il metodo di queste a quelle, limitandosi a un'analisi meramente descrittiva e lasciando alla coscienza dell'interlocutore la facoltà di esprimere giudizi di valore, che proprio per questa ragione diventano del tutto irrilevanti.

Teoria del tipo-ideale
Per essere riconosciuta oggettiva la possibilità/alternativa dev'essere fondata su fatti accertabili in base alle fonti del periodo storico in cui la possibilità s'è espressa. In secondo luogo la possibilità deve essersi espressa in modo conforme alle regole generali dell'esperienza (quelle che reggono la motivazione della condotta umana): è il cd. "sapere nomologico", che vale come criterio per l'autenticazione delle possibilità oggettive. Una semplice somma di fatti non porta con sé -dice W.- la conoscenza scientifica ("ingenuo empirismo"). Occorrono delle uniformità statistiche che corrispondano al senso intelligibile di un agire sociale. E comunque solo una parte limitata dell'illimitata quantità di fenomeni è per W. fornita di significato. W. in sostanza fa questo ragionamento: siccome l'atteggiamento altrui è definito secondo il carattere della problematicità e non della necessità (in quanto esistono sempre opzioni equivalenti che si possono scegliere), è impossibile delineare compiutamente, di questo atteggiamento, le caratteristiche, la natura, le modalità, per cui è preferibile individuare una gamma fluida di forme di atteggiamento, all'interno della quale sarà poi possibile definire una tipologia. In pratica W. enuclea, per astrazione, dei "tipi-ideali" di atteggiamento, costruiti accentuando unilateralmente uno o più punti di vista, in modo tale che ciascuno di essi presenti in forma "pura" determinate caratteristiche (di qui i concetti convenzionali di "economia cittadina" o "economia rurale", ecc., in cui non è dato riconoscere i regimi storici di produzione cui essi si riferiscono). I "tipi-ideali" non sono ipotesi sulla realtà ma devono guidare le formazioni ipotetiche in una direzione positiva. Sono punti di partenza non di arrivo, poiché il maturarsi di una scienza suppone il loro superamento. Questo quadro concettuale, pur non avendo riscontri nella realtà, può permettere al ricercatore -secondo W.- di avere un metro di paragone. E' un espediente euristico, uno strumento metodologico (i concetti "ideal-tipici" sono uniformità-limite) che si usa per misurare e comparare la realtà effettiva, controllando l'avvicinamento o la deviazione di questa al modello. W. in sostanza ha elaborato una vasta e complessa tavola sinottica comprensiva di tutte le fondamentali formazioni sociali, di ogni tempo ed epoca, disposte secondo criteri ordinatori rigorosamente definiti che le accomunano e le distinguono (le formazioni sociali per W. sono il frutto di determinati atteggiamenti: il capitalismo ad es. è frutto della razionalità connessa al profitto). In tal modo egli è convinto di poter trasformare una ricerca storica individualizzante (su un argomento specifico) in una di carattere generalizzante. Per spiegare i fatti storici -dice W.- c'è bisogno di leggi e queste vengono offerte dalla sociologia. Naturalmente il carattere sinottico del suo procedimento non vuole escludere la dimensione evoluzionistica. W. pone in ordine gerarchico i tipi-ideali di atteggiamento, disponendoli secondo un criterio di crescente razionalità: 1) il minimo di razionalità si trova nell'azione dettata dalla fedeltà a tradizioni-abitudini-costumi-credenze, 2) poi si passa all'azione determinata da un sentimento/istinto/stato d'animo; 3) poi ancora all'azione razionale rispetto a un valore (p.es. il capitano di una nave che decide di affondare con essa); 4) infine vi è l'azione razionale in rapporto a un fine (p.es. l'ingegnere che costruisce un ponte). L'azione razionale in rapporto a un fine è definita in funzione delle conoscenze dell'agente piuttosto che dell'osservatore o ricercatore. W. non dice che è oggettivamente irrazionale l'azione nella quale l'agente sceglie mezzi inadatti a causa dell'inesattezza delle sue conoscenze. La razionalità dipende dal fatto che l'agente ha concepito come adeguati i mezzi per raggiungere determinati scopi. In un certo senso per W. il fine giustifica sempre i mezzi, se chi li usa li ritiene adeguati al fine (di qui i paralleli con la politologia del Machiavelli, di cui condivideva l'idea che la politica non poteva preoccuparsi della moralità delle proprie azioni)). Viceversa, l'azione rispetto a un valore è razionale non perché l'agente consegue un fine, ma per restare fedele all'idea ch'egli si è fatto di un determinato valore (ad es. abbandonare la nave che affonda sarebbe per il capitano un'azione disonorevole, anche se di fatto è "poco pratica"). Nell'azione di valore W. ha in mente gli ideali dell'aristocrazia, nell'azione finalizzata a uno scopo ha in mente gli ideali della borghesia. Per W. infatti la società che si fonda sul tipo di atteggiamento più razionale è quella del moderno capitalismo, che è culmine e chiave di volta dell'intero complesso delle formazioni sociali. Tale razionalità è possibile solo quando si postula una realtà priva di ogni senso magico e che presupponga, sotto il profilo religioso, l'assoluta trascendenza della divinità.

[Rilievi critici]
W. è partito dall'idea che nella lotta tra opposti valori che si verifica nel mondo sia impossibile esprimere un giudizio di merito, cioè trovare un criterio dirimente, per cui ha preferito costruire artificialmente uno schema di comportamenti in cui questo o quel valore possa trovare una certa corrispondenza. W. non tiene conto del fatto che eventi singoli, individuali (come ad es. la battaglia di Maratona) non possono modificare interi processi storici: possono al massimo rallentarne la marcia, deviarli momentaneamente ma non invertirli o distruggerli completamente. Se ciò accade è perché quei processi erano già in via di dissoluzione, per cui taluni fatti singoli possono come rappresentare il "colpo di grazia". In ogni caso la comprensione della dissoluzione non può essere dedotta dalle fonti dell'epoca, poiché non è possibile comprendere un'epoca dal giudizio che quell'epoca aveva di se stessa. Risulta atresì alquanto astratto il "sapere nomologico", poiché le regole di cui W. si serve sono quelle dedotte dalla sua stessa epoca, che è quella capitalistica, ch'egli non mette mai in discussione e che anzi cerca di considerare come modello per tutte le epoche passate. W. è partito da esigenze importanti, quale ad es. quella di analizzare la formazione sociale capitalistica, ma poi è deviato nelle astrazioni della sociologia formale. Criticando Comte, nonché le idee giusnaturalistiche e contrattualistiche, W. non è risalito a Saint-Simon né a Marx, ma al kantismo. La distinzione tra scienza avalutativa e morale/politica valutativa ha infatti le sue radici nel kantismo. Alla sociologia delle "leggi", nata direttamente dall'impianto positivista da Comte a Spencer, W. sostituisce la concezione del "tipo-ideale": questo probabilmente era il massimo di scientificità possibile, nell'ambito borghese, dopo la crisi metodologica delle generalizzazioni positiviste. Significativo inoltre è il fatto che in Germania la scienza veniva fatta nelle Università, ove vigeva il principio che la politica andava lasciata ai politici. W. ha cercato di superare questo dualismo, trasformandosi in ricercatore che s'interessa di fatti politici, ma la sua posizione, in politica, è sempre rimasta intellettualistica o comunque moderata.

L'etica protestante e lo spirito del capitalismo
Secondo W. alla razionalità del mondo moderno ha contribuito in misura determinante la religione protestante, che rappresenta il disincantamento dal mondo, cioè la fine delle illusioni (i grandi fini e valori del passato per W. vengono tenuti in vita solo dalla volontà degli uomini). Lo stesso capitalismo non è che l'effetto più rilevante del protestantesimo (da notare che il marxismo sosteneva il contrario). Si badi però: il capitalismo -per W.- non è nato dal protestantesimo tout-court ma dal razionalismo, di cui il protestantesimo è stato il veicolo più potente. Il protestantesimo (soprattutto nella sua variante calvinistico-puritana) è tanto ascetico sul piano religioso (in quanto rifiuta di darsi immagini della divinità, inoltre è essenziale nei riti, ha abolito molti sacramenti considerandoli magici, ha affermato il concetto di predestinazione e di sola fide/sola gratia...), quanto pratico e attivo sul piano economico. Il protestantesimo cioè avrebbe capito che all'uomo tutto è possibile se riconosce l'assoluta trascendenza della divinità (il che, in sostanza, è una forma di ateismo). Queste caratteristiche di praticità, razionalità hanno raggiunto il massimo di espressione nel capitalismo, che si è liberato di ogni riferimento alla religione. L'origine della volontà razionale, nell'ambito della religione, W. la fa risalire alla profezia israelitica, che predicando un dio temibile e inavvicinabile rendeva vani ogni magia e ogni misticismo. I profeti chiedevano un agire razionale in nome di Jahvè. La razionalità sarebbe dunque nata dall'alienazione, dall'acuta coscienza di un netto dualismo tra uomo e dio. La razionalità è la consapevolezza che non esiste un valore nel mondo, una legge o una "totalità simpatetica" che lo regoli per il bene dell'uomo. La razionalità è il tentativo di sopravvivere dandosi degli scopi, sulla base di interessi, il più delle volte contro gli interessi degli altri, poiché nella razionalità si afferma "la lotta dell'uomo contro l'uomo". W. definisce il capitalismo come l'esistenza di imprese che hanno come scopo il massimo profitto da raggiungere attraverso l'organizzazione razionale del lavoro, profitto che, a differenza delle epoche precedenti, non viene semplicemente goduto ma reinvestito. La razionalità del capitalismo si esprime secondo W.: 1) nello sviluppo di una rigorosa scienza della natura, 2) nello sviluppo di un forte apparato statale, amministrativo e burocratico, 3) nello sviluppo di un diritto razionale-formale. In particolare per W. la crescita della burocrazia costituisce il fenomeno principale della società moderna. Né il capitalismo né il socialismo possono sfuggire alla pressione burocratica, che secondo W. può essere attenuata democratizzando la società. Tuttavia, siccome nella società burocratica l'uomo rischia di annullarsi, W. non era contrario all'idea di un "capo carismatico" che sapesse stabilire tra sé e le folle una comunicazione immediata. Per quanto riguarda il marxismo, W. non esprime un giudizio del tutto negativo: lo considera uno dei punti di vista mediante cui può essere condotta un'analisi teorica (quella che appunto evidenzia i fattori economici). Egli però considera illegittima la pretesa di fare di un unico fattore degli eventi storici (l'economia) il principio di spiegazione causale di ogni altro fattore. Le forze economiche sono troppo "cieche" per potersi porre come causa di fondo dei processi storici: le cause di fondo sono di origine culturale. La storia per W. è tutta un fenomeno culturale (come in Rickert); l'uomo è un essere solo culturale; la struttura economica capitalistica è lo "spirito" del capitalismo e lo spirito è anzitutto razionalistico. W. ha riconosciuto vero il marxismo laddove afferma che la fonte principale della moderna alienazione sta nella "lotta dell'uomo contro l'uomo", condotta principalmente per motivi economici. Tuttavia, paragonando la libera concorrenza economica al processo darwiniano di selezione naturale, egli del marxismo non ha colto il momento "positivo", che è appunto quello di non considerare tale concorrenza come un fenomeno "naturale", cioè inevitabile. W. era spaventato dalla enorme avidità della borghesia tedesca, costretta a ciò a motivo della lentezza con cui si era incamminata sulla strada del capitalismo in Europa occidentale. Tuttavia W. era anche convinto che lo Stato tedesco avesse in sé forze sufficienti per tenere sotto controllo questo nuovo fenomeno. Secondo lui anzi doveva essere proprio l'imperialismo a far sì che l'idea di "nazione" sopravvivesse agli sconvolgimenti causati dalla libera concorrenza. La storia, la realtà sociale ha senso solo in quanto è l'uomo a dargliene uno consapevolmente. Ciò che conta non è ciò che l'uomo fa ma il modo in cui l'uomo considera ciò che fa. Oggetto della storia sono i comportamenti intenzionali degli uomini. L'oggettività sta nella volontà con cui si persegue uno scopo. La scienza può diventare scelta o atto di vita se si immedesima negli stessi fini, altrimenti è pura riflessione (astratta) su questi medesimi fini.

[Rilievi critici]
Manca completamente nella definizione di capitalismo il lato negativo e irrazionale di questo sistema, e cioè lo sfruttamento dell'uomo-proprietario dei mezzi produttivi sull'uomo-proprietario solo della propria forza-lavoro. Inoltre il marxismo non esclude l'influenza della sovrastruttura sulla struttura: afferma soltanto che in ultima istanza è la struttura che determina la sovrastruttura e che in ogni caso è nell'ambito della sovrastruttura che si prende consapevolezza delle contraddizioni della struttura e si organizza politicamente un modo (la rivoluzione) per superarle.
L'avalutatività delle scienze storico-sociali
W. ha cercato di fondare l'autonomia delle scienze culturali sulla base del concetto di "avalutatività". Egli afferma che queste scienze, come quelle naturali, si basano sulla spiegazione causale per descrivere i fenomeni. Ora egli specifica che il riferimento al valore (da non confondersi col "giudizio di valore", mai ammesso da W.), una volta costituito l'oggetto dell'indagine scientifica, deve sparire nella costruzione dell'edificio logico-concettuale, in modo che tutte le operazioni necessarie alla costruzione scientifica possano essere controllate da chiunque. "Descrizione" si oppone a "valutazione". La considerazione scientifica concerne la tecnica dei mezzi non la valutazione degli scopi. W. non nega l'importanza della valutazione, dice soltanto ch'essa, essendo una presa di posizione pratica, esce fuori dal compito descrittivo della scienza: "quando ciò che vale normativamente diventa oggetto di un'indagine empirica, perde, come oggetto, il carattere normativo: viene considerato come esistente non come valido". W. in sostanza rinuncia a una fondazione scientifica dell'atteggiamento etico o politico. Egli non ha mai cercato di trovare una legittimazione alle azioni etico-politiche, ma si è limitato a chiarire in che misura è possibile verificare se certe asserzioni scientifiche sono vere o false, se cioè esistono dei presupposti verificabili. W. afferma la relatività dei valori, che sono assoluti sono nell'epoca in cui sono stati vissuti. Non esiste tribunale -egli afferma- che possa decidere del valore relativo della cultura tedesca e della cultura francese. Ogni universo di valori comporta un senso proprio e obbedisce a proprie leggi. E' impossibile presentare in termini scientifici un atteggiamento pratico, "tranne il caso della discussione sui mezzi per uno scopo che si presuppone già dato". Relativamente alla scelta di un valore/fine/scopo il destino è superiore alla scienza. Le ipotesi sovraempiriche (vedi ad es. Rickert) in W. non sono mai valori validi assolutamente (o idee), ma prospettive della ricerca, in base alle quali si possono porre determinate questioni e costruire metodi, che devono trovare la loro giustificazione nelle loro stesse conseguenze pratiche non in altro. Il valore per W. sussiste solo nel momento in cui il ricercatore prova un interesse per un oggetto/problema specifico. Scienza e oggetti conoscitivi infatti non sono costituiti da connessioni obiettive di cose, valori o idee, ma da connessioni di interessi e problemi di ricerca.

[Rilievi critici]
Nessuna ricerca scientifica è avalutativa. La scelta stessa di un determinato oggetto su cui indagare o di porre un determinato problema esige una valutazione. Non si garantisce la scientificità della scienza separandola dall'etica o dalla politica: la scienza che insegna come agire -dice W.- è una "fede": sì, ma esattamente come quella che pretende di non insegnare alcunché. La differenza sta nel fatto che sulla ragionevolezza dei criteri della prima scienza è sempre importante discutere, poiché essi riguardano la prassi. W. ha detto che "la verità scientifica vuole essere valida solo per coloro che vogliono la verità". Ma coloro che dicono di volere la verità potrebbero anche arrivare a credere in una verità non scientifica. W. dà per scontato che la conoscenza della verità sia possibile solo attraverso un atteggiamento onesto. E' vero che l'oggettività della verità non implica di per sé la sua accettabilità, ma tale accettabilità non aumenta facendo dipendere l'oggettività dalla soggettività del ricercatore e dell'interlocutore cui quello si rivolge. Una scienza di tal genere non è molto diversa dalla religione: nel migliore dei casi si tratta di una mera tecnica che chiunque può utilizzare per scopi diversissimi. Da questo punto di vista (che è squisitamente kantiano, in quanto si afferma il conoscere per il conoscere) sarebbe interessante esaminare il nesso esistente tra la razionalità avalutativa affermata in campo scientifico e la conseguenza irrazionale sul piano politico che tale affermazione più o meno direttamente può comportare. W. ha sempre sottovalutato il fatto che nella moderna alienazione della società capitalistica la razionalità può facilmente trasformarsi in irrazionalità. Al massimo si può accettare, di W., l'esigenza di tenere distinti il riconoscibile (da tutti) dal desiderabile (per il ricercatore), onde permettere un sapere verificabile intersoggettivamente. W. riflette l'esigenza di una borghesia emergente che non vuole confrontarsi politicamente sul problema dei valori, essendo convinta di non avere le forze sufficienti per farlo. Egli rappresenta una borghesia che vuole convivere con i valori tradizionali (aristocratico-feudali) in cui però non crede più e dai quali si difende mostrando il non-senso dell'esistenza umana. Per W. non ci sono leggi storiche: l'autore dell'azione è sempre e solo l'individuo, mentre il mondo non è che un immenso e caotico flusso di eventi, un'incessante lotta per la vita in cui l'uomo accetta la socializzazione solo per meglio sopravvivere. W. è ostile ai valori tradizionali (vuoti di contenuto in quanto non rispondenti alla realtà) in nome della libertà d'iniziativa del singolo borghese. Ciò che "deve essere" non è più un valore che può essere riconosciuto da tutti con ovvietà; esso anzi è divenuto problema della scelta/decisione individuale, del cui peso non si può essere alleggeriti dalla scienza, il cui compito non è l'apologia di valori/azioni ma la conoscenza di situazioni. Il carattere scientifico dev'essere motivato in modo strettamente soggettivo, in base alle scelte compiute, senza riferimenti a idee sovratemporali. La borghesia tedesca non era rivoluzionaria come quella francese: essa voleva soltanto affermare che nella società civile vi possono essere diverse alternative per l'uomo che deve scegliere. Questa borghesia vuole vincere sul terreno speculativo (filosofico-scientifico non filosofico-metafisico) la propria battaglia contro l'aristocrazia.

Osservazioni sulle concezioni politiche di Weber
W. scrisse poco sulla lotta tra gli Stati, sulle nazioni e sugli imperi, sulle relazioni tra cultura e potenza. Praticamente egli accettò il nazionalismo della Germania guglielmina per pura tradizione, cioè senza mai metterlo in discussione. L'altro aspetto che gli sembrava del tutto naturale, cioè assolutamente immodificabile (e in questo egli si era lasciato influenzare dalla visione darwiniana della realtà sociale) era la lotta tra le classi (e gli individui) per il potere. W. aveva saputo cogliere l'asprezza delle contraddizioni dell'epoca borghese nel suo stadio di capitalismo-monopolistico e imperialistico, ma si era fermano semplicemente a contemplarla. Ai suoi occhi un popolo o un individuo privi di "volontà di potenza" (e in ciò egli si avvicinava a Nietzsche) si trovano automaticamente fuori della politica. Egli infatti disse che "soltanto i popoli superiori [il primo dei quali ovviamente era quello tedesco] hanno la vocazione di dare una spinta allo sviluppo del mondo". La superiorità dei tedeschi, in questo senso, si manifestava -secondo W.- nella "cultura": "Prestigio culturale e prestigio di potenza sono strettamente congiunti, ogni guerra vittoriosa promuove il prestigio culturale...". W. avvertiva questa caratteristica dell'epoca moderna con un senso di attrazione/repulsione: era convinto che sulla base di essa la persona umana o la nazione potesse esprimere il meglio di sé, ma nel contempo si rendeva conto del pericolo opposto, quello di affermare i lati peggiori delle cose. Tant'è che ad un certo punto arrivò a sostenere che i veri valori possono realizzarsi in nazioni prive di "potenza politica", cioè in comunità che rinunciano a fare politica tout-court. In questo senso W. non è mai giunto a sostenere delle posizioni nichiliste o irrazionali, ma non poche sue tesi vi conducono. Di qui i lati contraddittori di certe sue prese di posizione: si oppose all'idea di un accordo di compromesso con la Francia a proposito della Lorena e considerò ridicola l'idea di un plebiscito in Alsazia, eppure fece di tutto per convincere la Francia a coalizzarsi con la Germania contro la Russia; non voleva assolutamente l'assorbimento nel Reich delle popolazioni non-tedesche o di quelle ostili, ma ha sempre rifiutato l'idea di suddividere l'Europa centrale in Stati nazionali che comprendessero minoranze nazionali; avendo stabilito che la Russia era il nemico principale del Reich, raccomandò a più riprese, nel 1914-18, una politica tedesca favorevole alla Polonia, la quale avrebbe potuto fare da cuscinetto all'imperialismo panslavo, eppure non ha mai voluto ammettere l'idea di riconoscere piena indipendenza allo Stato polacco (il massimo che fece fu di smettere di protestare contro l'immigrazione in Germania dei lavoratori polacchi e abbandonò completamente le antiche idee di colonizzazione tedesca verso est). Alla lotta interna fra le classi e gli individui, W. ha sempre preferito la lotta esterna fra le nazioni, in quanto ha sempre sostenuto il primato della politica estera e l'obiettivo di fare di una Germania unita e forte una nazione capace di "politica mondiale". In tal senso W. ha sempre cercato di combinare il parlamentarismo con il nazionalismo imperialistico, anche in funzione anti-nobiliare e anti-monarchica: egli non ha mai risparmiato le critiche alla Germania guglielmina e all'autorità patriarcale degli junkers. Non a caso considerava i funzionari dei di governo dell'imperatore dei burocrati privi di senso della lotta politica. W. ha sempre contestato la politica di potenza che si presentava in maniera superficiale, senza professionalità e competenza, il che implica rischio, morale della convinzione (quella di chi obbedisce agli imperativi della propria fede, quali ne siano le conseguenze) e soprattutto etica della responsabilità (quella con cui si accetta la realtà con le sue regole dure e spietate, che spesso portano a drammi e tragedie). W. non è mai stato un politico "puro" della borghesia, ma solo un suo intellettuale, che il più delle volte è insofferente ai compromessi del potere, alla logica delle "correnti".

INDIETRO