AVERROE’ E L’AVERROISMO LATINO

 

 

E’ sempre ugualmente difficile parlare di razionalismo, e tanto più di illuminismo, anche per i maggiori filosofi arabo-ebraici, assai più riconosciuti e famosi nell’Occidente cristiano e nell’Islam. Ci si riferisce a Avicenna e Averroè, a Maimonide per i quali, pure senza una chiesa monarchica opprimente, gli equivoci erano più o meno i medesimi, perché l’impedimento comune era il (mono)teismo teocratico, brandito o meno dal potere politico: da qui le difficoltà, le torsioni e le compromissioni filosofico-mistiche, specialmente di Avicenna e Maimonide, oltre alle vicissitudini persecutorie del più "razionale" pensiero filosofico di Averroè, esiliato dalla corte marocchina e poi alla fine riaccolto, nella sua vecchiaia, sempre sotto vigile controllo e sospetto delle "autorità" politico-religiose. Anche questo filosofo, che coi suoi pluri-commentari di Aristotele, ebbe tanta influenza e celebrità universale nell’Occidente cristiano, suscitando in sviluppo postumo un indirizzo filosofico "razionalistico" affermato, e assai più combattuto come "averroismo", fu probabilmente frenato e represso se non proprio costretto alla "maschera", nella sua più rigorosa propensione "laica" a riconoscere la priorità della ragione sulla "fede", della "verità" filosofica su quella teologica.

Pure Averroè, che affermava la verità della dimostrazione "scientifica" e l’opinabi-lità della dialettica ("Torniamo alla Fisica!", quanto dire alla physis), però riteneva che la scienza ricongiunga a Dio: accolse la concezione aristotelica della eternità del moto, della materia e del mondo, ma la riconduceva ugualmente al Dio, sia pure a un dio primo motore e ordinatore del mondo, "legge eterna" e provvidenza cosmica (v. G.Quadri, La filosofia degli arabi, II. Il pensiero filosofico di Averroè, La Nuova Italia 1939, pp.32-33, 70ss., ottimo studio nemmeno citato nella bibliografia del vol.II della Storia della filosofia Laterza). Averroè polemizzò lungamente con La distruzione della filosofia del poeta mistico filosofante al Ghazali, opponendo una sua Destructio destructionis, ma insomma nemmeno Averroè, nel suo secolo XII, seppe e poté e volle liberarsi dall’ipoteca (mono)teistica, pure così spazieggiante e indeterminata.

Era lo stesso Averroè che storici francesi come L.Gauthier e J.I.Teicher riconducono alla sua fedeltà dichiarata al Corano, nel vano sforzo di conciliazione della filosofia con la religione, con la fede confermata [ma non è vero] nell’immortalità dell’anima, nella "rivelazione", nella "risurrezione" ecc., e nella contraddittoria o almeno ambigua affermazione che "scopo della religione è d’insegnare la vera scienza e la vera pratica" (J.I.Teicher nella lunga voce-saggio della Enciclopedia filosofica, Sansoni 1957, voI.I, col.511). Che può pure essere una mera petizione ideale, perché la religione assurdamente assuma questo.compito. Corbin, che nella sua Storia della filosofia islamica dedica più spazio alla cosmo-angelologia del "pio Avicenna" (tr.cit. Adelphi, pp. 177ss.),, sciita o ismailita, e specialmente all’anti-filosofia mistica di al Ghazali (pp.189ss.), riserva a Averroè poche pagine sbrigative, richiedendo una interpretazione contestuale e linguistica "islamica", non cristiana né quindi "occiden-tale" dei suoi testi.

Nel suo studio M.Campanini, raro traduttore e introduttore italiano del Trattato decisivo di Averroè (Rizzoli 1994), sull’accordo fra religione e filosofia, sostanzialmente conferma, riportando il trattato alle sue condizioni storiche, cioè al suo antagonismo difensivo coi giuristi conservatori della corte, il suo protestare che la filosofia non è anti-religione, e la propria fede immutabile in Allàh. Campanini stesso definisce questo scritto "un libro disomogeneo e talora ambiguo, non certo quel testo di assoluto e indiscusso razionalismo cui concludeva l’interpretazione di Léon Gauthier" (p.14). E insiste: "Non si tratta, insomma, di razionalizzare la religione, ma piuttosto – se mi si consente l’iperbole – di santificare la filosofia" (p.15). Infatti Averroè vi ha difeso non solo la "religiosità" implicita della filosofia, ma la sua legittimità nel senso dell’osservanza della legge coranica. Il traduttore come altri continua a dire che Averroè fu "un buon musulmano", ma che significa essere "buon musulmano", "buon cristiano" ecc.? La qualificazione non ha senso, per la relatività dell’esserlo o non esserlo. Ridiciamo che pure il musulmano Averroè, proporzionalmente nella sua situazione, come tanti e tanti altri teo-filosofi ecclesiastici nel-l’Europa cristiana e cattolica, dovettero patire il conflitto fra il loro autonomo speculare e l’autorità politico-religiosa preposta alla tutela istituzionale del verbo, dei dogmi, delle scritture sacre, che fondano il loro potere. E d’altra parte tutti ripetevano e reagivano a una tradizione fideale, concettuale e di linguaggio, che era il loro habitat formale e anche ragionativo.

Così Averroè apre il suo libello con le formule coraniche: "Nel nome di Dio, clemente e misericordioso! sia lode a Dio, Signore del mondo! La pace e la benedizione di Dio siano sul nostro Signore Muhammad e su tutti i suoi compagni e i componenti della sua famiglia" (p.45). Formule di rito prima di avviare il suo discorso sul tema del libello, il cui fine è di "indagare, dal punto di vista dello studio della Legge religiosa, se la speculazione filosofica e le scienze logiche siano lecite secondo il shar [legge] o proibite o obbligatorie, sia perché commendevoli sia perché necessarie" (ivi). Ma tolte queste e altre espressioni marginali, il testo non è affatto intriso di "fideismo" come qui si dice, o caratterizzato da "doppiezza" (p.19). Anche quando cita i versetti del Corano, il "Libro di Dio Benedetto ed Eccelso", ricerca prioritariamente sollecitazioni alla riflessione, al "ragionamento intellettuale", congiuntamente a "quello giuridico-legale", insomma alla "indagine razionale", che per Averroè era una speculazione "sugli esseri esistenti", cioè sulla realtà. L’appello alla "dimostrazione" è esplicito, con tutta l’impostazione "logica" del metodo, l’analisi del ragionamento dimostrativo, ciò che lo distingue da quello dialettico, retorico o erroneo ecc. "In conclusione – scrive Averroè – è vincolante per chi crede nella religione e si conforma ad essa scegliendo di speculare sugli esseri esistenti che, prima di speculare, arrivi a conoscere quelle cose che, relativamente al pensiero, svolgono la stessa funzione degli attrezzi relativamente all’attività pratica" (p.49).

Il discorso di Averroè, dall’inizio alla fine del trattato, è serratamente "logico" nella rivendicazione ragionativa, anche polemica, e nella difesa determinata della filosofia, "la disciplina suprema" (p.55), insistentemente evocata, dinanzi ao contestatori giuridici. Lo stesso può dirsi delle questioni poste, anzitutto circa la verità unica e duplice o triplice, secondo i livelli socio-culturali della ricezione, della capacità di ricerca ecc., la massa che legge la lettera del racconto e accetta argomenti retorici, che si arresta alle interpretazioni dialettiche di opinioni per fede ecc.; i teologi e filosofi elitari, "i veri sapienti", che mirano alla "interpretazione vera", razionale, dimostrativa ecc. (pp.99-101).

Ma non è una frantumazione della "verità", se si riferisce realisticamente alle distinte capacità razionali di approccio conoscitivo. Mi pare che sia facile cogliere Averroè, quanto altri, in contraddizione su singole argomentazioni, come nel trattato quella che per i musulmani "il Vero non può contrastare il Vero" (p.61), cioè che la verità speculativa e la verità rivelata armonizzano, in quella che è tenuta per fede come "religione vera" (ivi). Affermazione sùbito argomentata, nel senso conclusivo che, se le scritture contrastano con la realtà ("degli esseri reali"), dovranno esservi adeguate con una lettura analogica ossia allegorica, come fa il giurista, e a maggiore titolo può fare il filosofo, cedendo alla "verità" della ragione dimostrativa. Per me quindi era nel giusto Gauthier a sostenere un "razionalismo" averroista, nel senso della preminenza della verità filosofica (cit. p.24), e non vedo contraddizione sostanziale, ma solo argomentazioni flessibili, in un contesto politico-religioso stringente.

Anche sulla questione della "eternità del mondo", se cioè "il mondo è eterno o crea-to" (pp.73ss.), la soluzione di compromesso, su un mondo che è "prodotto" e però "eterno" – ma si dice che nell’altra opera, la Destructio destructionis, tradotta incongruamente Incoerenza dell’incoerenza (UTET 1997) dallo stesso Campanini, avrebbe espressamente affermato la "produzione" eterna del mondo coeterno col Dio (Campanini, op.cit., p.141 n.45) –, attesta solo le difficoltà e il rischio del filosofo, conteso fra le "sacre scritture" e Aristotele. Averroè realisticamente riduceva il contrasto a una questione semantica, ponendo il mondo in mezzo "né creato né eterno" (p.75), ma generato e senza fine, a condividere i caratteri generativi (di natura prodotta) e l’illimitazione temporale, con ipotesi ovviamente approssimativa, perché non astronomica in senso sperimentale, ma cosmologica in senso congetturale e teorico. Così da dire, ancora con realismo possibilista, che "è verosimile concludere che coloro i quali nutrono opinioni differenti su questioni tanto astruse saranno premiati da Dio se hanno avuto ragione, ma ne saranno perdonati se avranno avuto torto" (p.79).

Occorre non prescindere mai dall’evidente intenzionalità difensiva del testo. E’ questo e solo questo che spiega, in tutto il Medioevo cristiano, l’impegno e assillo obbligato di conciliare filosofia e religione, anche da parte di tanti ecclesiastici cattolici, tanto più del laico Averroè musulmano. Non può sapersi né quindi può dirsi, non si saprà mai quanto spontaneo, quanto convinto, quanto devoto, quanto consapevole, quanto calcolato, fu il filosofo così avversato dal mistico al-Ghazzali, e così contrastato dalle "tolleranti" autorità integraliste musulmane. Quadri, nel prospetto razionalistico della sua lettura estesa dei testi averroistici, insisteva sul valore simbolico e pratico che Averroè attribuiva alla religione, e quindi sul valore allegorico dei dogmi, non esclusa l’immortalità dell’anima, riaffermata da Avicenna. I dogmi varrebbero unicamente "come mezzo di educazione del popolo non sufficientemente illuminato, di fronte alla filosofia il cui assoluto valore soltanto può elevare l’uomo all’apprensione delle forme astratte" (op.cit., p.173).

Nell’aspra polemica col mistico anti-filosofo al Gazhali, musulmano ortodosso, Averroè affermava "di essere lui e i filosofi i veri interpreti della Legge divina" (ivi), non i teologi fideisti confusionari, contestando fra l’altro la fiaba della "resurrezione dei (corpi) morti", e interpretandola allegoricamente come "una misteriosa rinascita in Dio" (ivi). Dello stesso testo coranico richiedeva una lettura allegorica, riservata agli uomini di "scienza" filosofica, asserendo che proprio il Corano lo dice. Quadri attribuiva a Gauthier il merito di avere "definitivamente risolto la questione" concernente l’accordo fra religione e filosofia in Averroè, nei tre trattati che sono dedicati al problema, e che "sono tali che non possono in alcun modo rappresentare una capitolazione della filosofia di fronte alla fede" (p.174).

Proprio la realistica distinzione citata in tre fasce categoriali degli uomini, secondo le loro capacità conoscitive e i loro strumenti logici, lo conferma a pieno: il che può pure implicare l’affermazione di una verità molteplice, ma questo poteva e può scandalizzare solo i possessori ecclesiastici di immaginarie verità assolute, "uniche e vere", non chi fa abituale esercizio di ragione. Ma dipiù, Quadri notava che Averroè "non parla mai della ‘Religione’, ma delle religioni, quasi che tutte le religioni in sostanza avessero lo stesso scopo, quello cioè di educare le masse alle esigenze della vita pratica" (p.175): pretesa anche questa a nostro avviso opinabile, ma in linea con la pragmaticità coranica. Lo strano è che Bréhier ricavava da Gauthier (in nota rapida) tutt’altre pie indicazioni, scrivendo con suo arbitrio che Gauthier "afferma il carattere profondamente religioso del pensiero di Averroè, per quanto come filosofo affetti un razionalismo integrale. La leggenda di Averroè libero pensatore è completamente sfatata", per l’intimo piacere di Bréhier (La filosofia del Medioevo, p.252). E’ la fede nel "mistero" cristiano che produce tali pietosi abbagli?

Forse uno dei livelli maggiori di debolezza della filosofia di Averroè, è nella famosa teoria (anch’essa allegorica?) dell’intelletto unico ovvero "mono-psichico", dedotta dal commento al De anima aristotelico, e con cui il filosofo tentava di interpretare l’universalità della ragione e della scienza. (v. Quadri, cap.IV, "L’entelechia razionale", pp.109-38; Bréhier pp.248ss.). Ricordo che era originariamente Aristotele nel De anima (tr.it. Movia, Rusconi 1996) a distinguere e separare, ma correlare intima-mente, un intelletto universale, "immortale e eterno", definito "produttivo" o "co-struttivo" (poietivhòn), come "causa efficiente" del pensare; e un intelletto materiale e potenziale, ricettivo e corruttibile, on cui si attuano i processi conoscitivi (430a,11-26, p.219). Nel De anima però che, come notava Düring, era "una ricerca di scienza naturale sui processi psico-fisici" (Aristotele, tr.cit., p.643), i due intelletti apparivano in definitiva solo come due livelli di elaborazione intellettiva distinti.

Nel commento e sviluppo (o inviluppo) di Averroè, non libero perché condizionato dalla religione, rischiavano di confondersi, in una sorta di astrazione comune, per cui negata l’immortalità dell’anima individuale, sembrava riaffermarla in aspirazione. affermando insieme l’unicità dell’intelletto agente incorporeo e separato, e dell’in-telletto materiale possibile individuale, nella sua predisposizione intellettiva "mate-riale", che muore col corpo ma è comune a tutti gli uomini. Ne conseguivano molte e discusse difficoltà di comprensione, già in Aristotele, né gli esegeti sono molto chiarificanti. Sembra di capire che il processo di astrazione agli universali si attui, da questa dispositio individuale, peraltro comune a tutti gli uomini, mediante l’illu-minazione dell’Intelletto agente sovrumano e immortale. Così dovrebbe procedere l’ascesa intellettiva verso l’universalità, che produrrebbe un "intelletto materiale" (hyle) potenzialmente non meno eterno e incorporeo, malgrado la denominazione. Le difficoltà maggiori sono con evidenza quelle relative alla partecipazione sensibile individuale, mediante l’elaborazione d’immagini, e ai gradi di accesso agli intelligibili o forme da potenziali rese attuali, con l’accordo oscuro di questi due intelletti "eterni" ecc. E’ una teoria e interpretazione "aristotelica" macchinosa, su cui qui non vale insistere: in sostanza, anche Averroè negava l’esistenza sostanziale degli "universali", senon come costruzione intellettiva, precisamente – parole di Averroè – "ciò che può essere predicato di parecchi individui" (cit. in Gilson p.438), come raggiungimento più alto del pensiero, che Averroè pareva rendere quindi accessibile all’intelletto umano.

Di fatto nella sua tesi su Averroè et l’averroïsme (1851), che si ristampa ancora fra le sue Oeuvres complètes (Calman Lévy, 1949, III), Renan formulava sui testi una enfatizzata interpretazione "laica", irripetibile al giorno d’oggi: leggendo per es. la discussione su "l’unità dell’intelletto" come affermazione della "universalité des principes de la raison pure", e l’immortalità dell’intelletto come "l’immortalité du genre humain", di una "humanité vivente et permanente" E ancora, "l’immortalità dell’intelletto attivo così non è altra cosa che la rinascita eterna dell’umanità e la perpetuità della civiltà" (p.117). Renan vi leggeva pure l’assolutizzazione della ragione: "La ragione è costituita come qualcosa di assoluto, d’indipendente dagli individui, come una parte integrante dell’universo, e l’umanità che non è che l’atto di questa ragione, come un essere necessario e eterno" (pp.117-18).

Oggi Georges Anawati (in Storia della filosofia Vallardi, vol.V, pp.331-32), consente con Gauthier che, come poi Quadri, si accordavano con Renan. Ma seppure fosse una interpretazione eccessiva, è un fatto che l’averroismo latino, protratto per secoli, ha sempre suscitato reazioni istituzionali, non come eresia cristiana, ma come pericolosa sopraffazione della fede. Gilson ha fatto notare che la stessa opzione ammirata per il pensiero di Aristotele, rispetto al platonismo, è dipersé una conferma: "le formule in cui egli esprime la sua ammirazione per lo Stagirita sono ben note, e bisogna in effetti conoscerle, perché il culto esclusivo di Aristotele è una nota distintiva della scuola averroista" (p.436). La formulazione latina è questa, che io traduco letteralmente: "La dottrina di Aristotele è somma verità, poiché il suo intelletto fu il termine (finis) dell’umano intelletto. Per cui si dice bene che fu creato e a noi fu dato dalla divina provvidenza, affinché sappiamo qualunque cosa può sapersi".

Deve pure ricordarsi che le traduzioni latine dei commenti aristotelici di Averroè furono fatte da Michele Scoto, astrologo e medico alla corte di Federico II, e mandate dall’imperatore "ghibellino" in fama di "infedele" ai maestri dello studio bolognese, la prima università italiana, e da qui per attestazione di Ruggero Bacone arrivate a Parigi (A.De Stefano, La cultura alla corte di Federico II imperatore, Zanichelli, 1950, p.36). Merita pure segnalare, a proposito di Federico II, siculo-svevo "illumi-nato" e "illuminista", fautore e cultore di scienze e arti (malgrado le cupe riduzioni più recenti dello storico inglese David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, tr.it. Einaudi 1993), le sue note "Questioni siciliane", di cui parla il biografo tedesco E.Horst (Federico II di Svevia, tr.it. Rizzoli 1981, 1994), non quella più nota e ponderosa di E.Kantorowicz (1927, tr.it. Garzanti 1977, 1988), la più contestata da Abulafia, anti-fredericiano viscerale. Voglio pure premettere un accenno al- lo storico italiano Gabriele Pepe il quale, nella sua sintesi su Lo Stato ghibellino di Federico II (Laterza 1938, 1951), che studiava "la prima grande tirannide moderna" di Federico II, nel senso dell’organizzazione statuale accentrata, che prelude allo stato moderno, unitario, paternalistico ecc., parlava di "trionfo del laicismo".

Un "trionfo" politico-culturale che è nell’evidenza dei fatti, e che le svalutazioni puntigliose di Abulafia non valgono a sminuire. Pepe riassumeva così lucidamente – e perciò ne estendo la citazione – il suo giudizio sull’esperienza politica e culturale, anche contraddittoria, del tiranno siculo-tedesco, nella sua aspra complessa lotta politica, apparentemente sconfitta: "la politica di Federico non poté evitare la caduta dell’Impero, ma nella lotta contro il Papato la resistenza opposta a interdetti e scomuniche con la disciplina laica dei servizi religiosi, le vaste operazioni di polizia contro Minoriti e vescovi, la simpatia che verso gli ultimi anni ostentarono a Federico vari gruppi di eretici, l’intemperanza di linguaggio di cortigiani che chiamarono Anticristo il Papa e Dio l’imperatore furono, sì, causa a Federico dei più tristi momenti della sua vita (ché non si lotta impunemente contro nessuna Chiesa), ma nello stesso tempo lasciarono un’eredità di ideologie che, insieme ad altri movimenti del secolo, offrì materia alla formazione dello spirito scettico del Rinascimento e alla formazione dello Stato e della coscienza moderna. Vincitrice nel secolo XIII, la Chiesa sarebbe stata vinta nei secoli seguenti dalla corrosione che dei suoi istituti avrebbero fatta gli ideali laici, nati anche alla corte di Federico II" (pp.14-15).

Poi anche Morghen, con simpatia non celata, legava il nome di Federico a "Il crollo dell’impero medioevale", e alla sua transizione "moderna" all’assolutismo delle monarchie nazionali, che in opposizione alla teocrazia pontificia, con la rivendicazione dell’autorità sovrana, soggetta unicamente al Diosommo, doveva portare alla rottura definitiva dell’impero dalla chiesa (Medioevo cristiano, pp.184-86ss.). Interpretazioni che contraddicevano in pieno l’angusta e facile riscoperta della "medievalità" univoca, da parte dell’inglese, e che sia pure in riduzione nemmeno lui può ricusare. Per ciò che riguarda la cultura cortigiana, essa era nella tradizione della corte normanna, e particolarmente di Ruggero II, ma Federico II vi ebbe interesse diretto, partecipe su diversi piani, "naturalistico" filosofico letterario artistico. L’insistito rimpicciolimento, libellistico non storico, di Abulafia anche in questo (pp.211ss.), non riesce a dimostrare che i riconosciuti meriti storico-culturali di Federico II siano frutto di mero "incensamento" storico (per es. da parte dello storico inglese Ha-skins), e che il suo profilo di razionalista scettico sia "un personaggio costruito dagli storici" (ivi).

Ma se, per attestazione diffusa dei cronisti contemporanei (fra l’altro il ghibellino fra’ Salimbene), aveva fama di "epicureo", di "aristotelico" in suggestione averroistica, e si diceva che non credeva nell’aldilà e nell’immortalità dell’anima, e affermava l’eternità del mondo ecc., se ne deve prendere atto oltre gli eccessi psichiatrici delle infamazioni ecclesiastiche. Horst riporta largamente la prima lettera di Federico II a Scoto, con una quantità di domande anche ingenue, d’informazioni, dati metrici, tecnici ecc. Domande sui più diversi fenomeni naturali, di cui l’imperatore ave-va la più viva curiosità, e sull’"edificio della terra", sulle sue misure ecc., sui pretesi regni oltremondani (a confronto ironico?), sulle acque dei mari ecc.: e ricordo che Scoto era traduttore fra l’altro dei commenti aristotelici di Averroè.

Le documentate "Questioni siciliane" constavano di fatto di quesiti rivolti mediante lettere a dotti islamici e latini, dopo la morte di Scoto e dopo essere stato colpito dalla seconda fraterna scomunica papale: poi rivolte pure al sultano del Marocco al-Raschid, che le trasferiva al celebre seppure giovanissimo e dotto musulmano Sabin (Horst, pp.187-88), in fama di eresia islamica, e poi suicida "in conseguenza – fu detto – della sua filosofia negativistica" (ivi). Non importano le risposte ortodosse del personaggio, interessano gli interrogativi filosofici formulati da Federico II, che erano di questo tipo: 1) "Il saggio Aristotele in tutti i suoi scritti definisce l’esistenza del mondo semplicemente con l’espressione ‘da sempre’: non c’è dubbio che egli fosse di questa opinione. Tuttavia quali solo i suoi argomenti per provarlo, se mai egli li ha prodotti? E nel caso non li abbia prodotti, di che genere sono le sue convinzioni in proposito?". 2) "Quale è il fine della teologia e quali sono le indispensabili premesse di questa scienza, ammesso che ne abbia?". 3) "sulle categorie e sul loro ‘numero reale’". 4) "Come si dimostra l’immortalità dell’anima? E questa è davvero eterna? E in quale punto sono da ricercarsi le discrepanze tra il saggio Aristotele e Alessandro di Afrodisia?".

Da notare che Federico II era "l’imperatore dei cristiani", e certo era quasi sconcertante che andasse a porre quesiti così arrischiati agli amici musulmani. Al flagellum dei della velenosa polemica ecclesiastica si attribuivano, fra altri misfatti, anche la paternità del famigerato libello ateo De tribus impostoribus, che denunciava ai tre profeti fondatori e capi delle religioni (mono)teistiche, di data incerta probabilmente precedente (avrò occasione specifica di occuparmene). Mauthner, trattando diffusamente di varie edizioni e stesure, distanziate di secoli, di questo testo a lungo circolante clandestinamente, accoglie l’attribuzione a Federico II (I, pp.311-31), ma ritengo che improbabilmente sia attribuibile alla testa o alla mano (quasi sempre inibite all’ozio) del grande imperatore che, per evoluzione politico-culturale, forse era molto più che averroista, non tale però da ispirare un libello così radicalmente ateistico, comunque anti-monoteistico.

Tornando all’"averroismo latino", esso fu oggetto e materia di scontro e censure e divieti ecclesiastici per vari decenni all’università di Parigi, almeno fra il 1240 e il 1277, anche se divergendo dalla citata indicazione di Ruggero Bacone, Grant fa iniziare i bandi anti-aristotelici francesi (per le opere di filosofia naturale) addirittura dal 1210, poi 1215 e 1231 con una bolla papale, fino al 1255 quando tutte le opere di Aristotele furono introdotte nei corsi di Parigi (op.cit., p.36). Ma i santi dottori ecclesiastici Tommaso e Bonaventura combatterono strenuamente le aberrazioni naturalistiche e filosofiche autonome dell’università parigina, in particolare dei laici "maestri delle arti", le ipotesi assurde dell’intelletto unico in tutti gli uomini, del-l’eternità del mondo, dell’immortalità negata invece all’anima ecc. Nel 1270 il vescovo di Parigi Tempier si limitava a condannare 13 proposizioni centrali come quelle accennate, ma al culmine di tale aspra pugna tra il "vero" filosofico e le fiabe di fede teologiche ("doppia verità"), nel 1277 per intervento papale ispirato, ne furono condannate in crescita vertiginosa 219 (Grant, p.38ss.).

Gilson ripercorre con attenzione questo "movimento", citando con Ruggero Bacone (geniale assertore dell’unità della sapienza cristiana nella "rivelazione"), pure Alberto Magno che sfruttava le traduzioni e i commento aristotelici, per i suoi interessi naturalistici (pp.677ss.). Ma mi piace ricordare qui gli studi di un mio maestro, Bruno Nardi, su Sigieri di Brabante, fra cui Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano (Ed. Italiane 1945). Era il più eminente averroista latino dell’uni-versità parigina, sostenitore dell’eternità del moto e della materia, quindi del mondo, e della teoria dell’intelletto separato e unico in tutti gli uomini, che distruggeva l’individualità intellettiva e quindi l’immortalità dell’anima individuale. Combattuto da Bonaventura e Tommaso, colpito dall’autorità ecclesiastica, nonostante le successive ripetute "correzioni" compromissorie delle sue tesi dottrinali; malgrado la sua notevole obbligata prudenza dichiarativa, nei contrasti fra ragione e fede, con l’affer-mazione dei due livelli di verità, filosofica (verità di ragione) e "rivelata" (verità "di Dio"); non evitò né le confutazioni di Tommaso in Contra averroistas, né le condanne del vescovo di Parigi nel 1277 (Gilson, pp.672ss.; Nardi, Studi di filosofia medievale, Ed. Storia e Letteratura, pp.59ss.). Perdipiù, mentre a Orvieto presso la Curia era in attesa del verdetto papale, fu pugnalato dal suo stesso segretario chierico (solito accesso improvviso di follìa…).

E’ noto che fra le risoluzioni più anti-conformistiche di Dante, nel suo poematico "giudizio universale", vi sono quelle relative al filosofo "depravatore" Averroè (per Tommaso), situato fra gli "spiriti magni" nel nobile castello del suo Limbo dei "pagani" non battezzati, e Sigieri addirittura nel suo Paradiso e proprio nel cielo del Sole, a fianco di Tommaso! Lo ricordava Nardi studiando "L’origine della anima umana secondo Dante", una dottrina di "significato ben altrimenti profondo", anche rispetto alla teoria tomistica dell’anima intellettiva individuale, a cui l’universalità propria di Dio è inattingibile. Per Dante "neoplatonico" invece, nelle belle enunciazioni del Convivio III, la mente umana partecipa "de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; però che l’anima è tanto in quella sovrana nobilitata e denudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è l’uomo divino animale da li filosofi chiamato"; "onde si puote omai vedere che è mente: che è quella fine e preziosissima parte de l’anima che è deitade" (v. Nardi, pp.67-68).

Renan d’altra parte scriveva, nella sua intelligente opera giovanile di tesi su Averroè e l’averroismo, che "le condanne del 1277 ci mostrano già le proposizioni averroiste associate all’incredulità, e tale incredulità è manifestamente ricollegata dal vescovo Tempier allo studio della filosofia araba. Noi siamo nel tempo in cui Averroè non è più, agli occhi dei più, che l’autore di uno spaventoso blasfemo, e in cui tutte le sue opere si riassumono nel detto dei "tre impostori’". Renan ricomponeva una sintesi di storia dell’averroismo, fino allo studio di Padova, nel duplice profilo in cui lo valutava storicamente, cioè nel riflesso culturale del suo tempo medioevale, di Averroè commentatore di Aristotele, ammesso e studiato pure nelle scuole cattoliche, e di bestemmiatore delle religioni, padre dell’incredulità che veniva condannato con scomuniche. E notava bene che nell’età della "fede assoluta" ciò non appariva contraddittorio, in quel Medioevo si trovava deltutto naturale chiedere lezioni di filosofia a coloro che la "fede" obbligava a "dannare" (pp.244ss.) Era delresto nella tradizione, dalle origini fino a Agostino, nella quale dei "padri" filosofanti avevano dannato e sepolto l’intera cultura "pagana", a un tempo e in parte assimilandola e appropriandosene strumentalmente, secondo le rispettive (in)capacità intellettive, e le loro comuni inibizioni culturali insuperabili.

Sono temi di caratterizzazione storica attuali, che ci saremmo aspettati di trovare nella Storia della filosofia islamica di Corbin, che si conferma una specie di storia incantata della mistica islamica. Basti dire che esordisce con una cosiddetta "filosofia profetica" sciita, e avanza sempre fino a oggi secondo tradizione islamica, nel presupposto "orientale" del servizio religioso, che cioè la "filosofia islamica" sia "l’opera di pensatori appartenenti a una comunità religiosa", di "un popolo che possiede un Libro santo, un popolo cioè la cui religione è fondata su un libro ‘disceso dal cielo’, un Libro rivelato a un profeta e che questo profeta gli ha trasmesso" (p.19). Non è mai dunque la storia di un’emancipazione speculativa, di un impegno crescente alla "auto-nomia" del pensiero, pure nella "filosofia naturale" di cui si dà vanto. L’ori-ginaria (quindi antica) ideologia (mono)teistica del "Libro santo", che si mitizzava come "disceso dal cielo" con la "rivelazione", come per gli altri "su-periori" privilegiati popoli (mono)teisti, il piccolo ebraico e il grande cristiano, predomina sempre. Perciò la "filosofia" non è la ricerca del "senso vero" di questi libri sacralizzati di "rivelazione", prodotti in terra da uomini di servizio religioso, per il governo politico (mediante inganno) delle rispettive comunità.

E’ vero che nell’Islàm – come dice anche Corbin e giova ripetere – non esiste "il fenomeno chiesa", come "non esiste un clero detentore dei ‘mezzi della grazia’", e "non esiste un magistero dogmatico, né un’autorità pontificia, né un concilio che definisca i dogmi" (p.20), privilegi di poteri assoluti solo rapinati da cristiani. Ma esiste ugualmente – e Corbin non lo dice – un potere politico-religioso che gestisce la religione e l’intera cultura nello stato, ora flessibilmente ora spregiudicatamente e violentemente: l’abbiamo storicamente e attualmente sotto gli occhi nel mondo odierno. Li accomuna quindi per analogia, questi "regimi" (mono)teistici, il medesimo quadro storico non evolutivo, che Corbin scrive essere (per l’Islàm) "di progressione dall’Ori-gine e di ritorno all’Origine", in una seducente prospettiva mitica e meta-storica. L’abuso è nel termine, una "progressione" che realmente è "stasi", soverchiata tuttalpiù (in pochi) dalla mistica "ascensione". Tutto il resto, l’apparente e anzi millantato "sviluppo dogmatico" ecc., non è che compromissione politica, come l’intera storia ecclesiastica cristiana dimostra: storia anti-storica di conservazione autoritaria, di false "verità" arcaiche, di finte assimilazioni e adattamenti appropriativi nella cultura, perfino e ancora di basse speculazioni utilitarie su "miracolose" apparizioni di madonne, su "miracolose" guarigioni e "profezie" in ricchi "santuari", su beatificazioni e santificazioni a getti crescenti, di cui è maestro prodigo il vecchio inesausto papa in felice ebrietà regressiva.

Perciò nella Storia consensuale di Corbin, Averroè non può che apparire una figuretta sbiadita, e l’averroismo latino una inesistenza: ma un "averroismo" esistette davvero nell’Occidente cristiano? Come sempre, i nostri "ismi" nominali – simili agli dèi – sono appena "voci" lessicali, non "esistenze" reali e nemmeno storiche: ciò che esiste sono le istanze e le iniziative degli uomini che producono passioni, idee e azioni. L’"averroismo" aristotelico non fu che il veicolo di poche fondamentali idee "liberatorie", sul mondo-natura "eter-no" e sull’uomo-natura mortale, che originate nell’Ellade si tentava pateticamente di riconoscere e riaffermare nell’Occidente culturalmente regresso, precipitato sotto una spietata dominazione politico-religiosa, nella prigione ecclesiastica della chiesa cattolica. Così la "scolastica", come "metodo scientifico", assimila e si appropria pure l’averroismo, cioè i suoi temi più pericolosi debitamente anestetizzati; e – come ho detto – Grabmann nel vol.II della sua opera storica può mettere in rassegna tutti in una magnifica "rinascita" teologico-"scientifica". E così, nella sovrana saggezza politica, che governa le iniziative conflittuali dei maggiori, fioriscono le culminanti Summae domenicane, quella di Alberto e quelle forse superiori di Tommaso, in cui l’aristotelismo ha i suoi trionfi cristiani. Così pure nasce quella "nuova scienza" durevole nei secoli chiamata "tomismo", cima della "filosofia cristiana", su cui ancora oggi impavida pontifica la cadente ecclesia, col suo magistero di cultura perenne.


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