Nature

MORTE

“La morte sovrasta l’esserci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta”. (M. Heidegger, Essere e tempo)






A cura di Diego Fusaro

Epicuro ci ha insegnato che essa non deve essere temuta. Perché, in fondo, quando c’è lei non ci siamo noi, e fintantoché ci siamo noi, lei non c’è. Alludo alla morte, che potremmo anche intendere come l’inappellabile fine di tutte le cose. Morendo, infatti, finisce ogni nostra possibile esperienza del mondo. E cessiamo d’essere. Non so fino a che punto l’argomento di Epicuro sia persuasivo, anche se capisco bene i motivi etici che lo hanno indotto a elaborarlo: la morte è la realtà che più ci spaventa. E pensare che in verità mai la incontriamo, può essere di grande conforto. Ma che cos’è, davvero, la morte? Nel suo senso più generale, penso la si possa concepire come il punto finale di quella lunga frase che, con le sue virgole e le sue parentesi, con i suoi punti esclamativi e i suoi interrogativi, è la nostra vita. È il viaggio finale e senza ritorno, un salto nell’abisso da cui nessun viaggiatore è tornato per raccontarci cosa realmente accada quando non siamo più. Per chi, come Epicuro, ritenga che non vi siano altre realtà oltre quelle materiali del mondo, essa è davvero la fine di tutto. Diversamente, per chi, come i cristiani, crede in un aldilà, essa è un passaggio: non fine di tutte le cose, dunque, ma inizio di una nuova vita, ancora più piena e più autentica di quella trascorsa su questa terra. In effetti, una cosa è certa: dell’intero creato, siamo i soli viventi che abbiano coscienza della morte. E, con essa, del nostro stesso stato di condannati, che solo ignorano il giorno dell’esecuzione. Trascorriamo l’intera nostra vita come una più o meno lunga preparazione alla morte, della quale siamo consapevoli. Sembrerebbe, a un primo sguardo, una vera e propria condanna: non solo moriamo, ma addirittura sappiamo che quello è, inaggirabilmente, il nostro destino. Ma il sapere di dover morire ci pone, davvero, in una condizione peggiore rispetto agli altri viventi, che pure, come noi, muoiono, ma non vivono con la coscienza di questo inevitabile evento? A me pare che, forse, il sapere di dover morire sia ciò che determina la nostra condizione privilegiata: non è, forse, solo la piena coscienza del fatto che disponiamo di un tempo limitato, dai confini precisi e invalicabili, a fare sì che possiamo progettare la nostra vita, attribuendole un senso compiuto? Se noi possiamo attribuire un senso preciso all’esistenza, ciò dipende, in fondo, proprio dal fatto che essa figura come un segmento delimitato, con un inizio e con una fine: al quale, per ciò stesso, possiamo assegnare quel senso compiuto (denso di progetti e aspettative, di sogni e di speranze), che, invece, sarebbe impossibile ove non vi fosse, ben chiara nel nostro immaginario, l’idea della fine. È per questa ragione, in effetti, che, prima di te, Omero, nei suoi poemi, rappresenta perfino gli dèi dell’Olimpo come invidiosi della condizione umana. L’immortalità dei divini impedisce loro di assegnare un senso compiuto al loro esistere: ciò che, invece, possono fare i mortali. La morte, dunque, non deve essere temuta: e non deve esserlo nemmeno qualora, dopo di essa, come tu ritieni, non vi fosse più nulla. Al suo cospetto, conviene assumere – impiego l’immagine del poeta Lucrezio – il contegno di chi, dopo un lauto banchetto, si alza pienamente appagato o del tutto insoddisfatto: in ogni caso, può ben dirsi contento di prendere congedo dalla tavola.

Citazioni

"Sono sempre piú indotto a credere che il filosofo, come uomo necessario del domani e del dopodomani, si sia trovato in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi: il suo nemico fu ogni volta l’ideale dell’oggi. Sinora tutti questi eccezionali fautori dell’uomo, ai quali si dà il nome di filosofi e che raramente si sentirono amici della verità, ma piuttosto sgradevoli giullari e pericolosi punti interrogativi – hanno trovato il loro compito, il loro duro, non voluto, inevitabile compito, e infine la grandezza del loro compito, nel costituire essi stessi la cattiva coscienza del loro tempo. Vivisezionando col coltello proprio il cuore delle virtú del tempo, tradirono quel che era il loro strano segreto: conoscere una nuova grandezza dell’uomo, una nuova strada non ancora mai battuta per il suo innalzamento". (F. Nietzsche, "Al di là del bene e del male")
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