Nature

FENOMENO

“Nel nostro concetto, quando denominiamo certi oggetti fenomeni, enti sensibili (phaenómena), distinguendo il nostro modo di intuirli dalla loro natura in sé, c’è già che noi, per dir cosí, contrapponiamo ad essi o questi oggetti stessi in questa loro natura in sé (quantunque in essa noi non li intuiamo), o anche altre cose possibili, ma che non sono per niente oggetto dei nostri sensi, come oggetti semplicemente pensati dall’intelletto, e li chiamiamo enti intelligibili (noúmena)”. (I. Kant, Critica della ragion pura)






A cura di Diego Fusaro

Antica e veneranda è la storia del concetto filosofico di fenomeno. Lo si trova già tra i primi filosofi dell’antica Grecia. Diventa decisivo nella filosofia della modernità. E ancora oggi mantiene un suo ruolo niente affatto marginale nel dibattito filosofico specialistico, ma anche nell’ordine del discorso pubblico. Il concetto è quello di “fenomeno”. Il termine, come sai, deriva dalla vostra lingua greca, in particolare da “fainòmenon”, che è il participio sostantivato del verbo “fàinomai”. Quest’ultimo significa, propriamente, “mostrarsi” e “apparire”: nel suo senso più generale, il fenomeno è, dunque, ciò che appare, facendo mostra di sé e risultando conoscibile per il tramite dei sensi. Proprio del fenomeno è il suo carattere ambivalente: ciò che appare può, infatti, corrispondere all’essenza obiettiva o, invece, mostrarsi diverso da quello che realmente è. Siamo, così, giunti dinanzi al dilemma del rapporto tra apparenza e realtà. Le cose come si manifestano corrispondono davvero a ciò che esse sono in realtà? E, dunque, tra realtà e apparenza si dà piena coincidenza (nel senso per cui l’apparire rivela l’essenza del reale), totale opposizione (cosicché l’apparire nega il reale, distorcendolo) o una relazione elastica, che chiede di volta in volta di essere indagata? Il movimento scettico, ad esempio, si fondava sulla esasperazione della differenza tra fenomeno ed essenza: come il remo immerso nell’acqua si mostra spezzato, così i nostri sensi ci ingannano in tutte le altre occasioni. Il fenomeno non corrisponde mai all’essenza e dunque – questo il corollario scettico – occorre sospendere il giudizio, “fare epoché”. Diversa e, di più, opposta era stata, invece, la prospettiva dell’antico Anassagora. Questi intendeva, per fenomeno, ciò che appare ai sensi e che, per così dire, esorta il soggetto conoscente ad avventurarsi al di là di essi: “òpsis adelon tà fainòmena”, dice Anassagora, ossia “i fenomeni sono uno sguardo lanciato sulle cose che non si vedono”. Forse, lo si potrebbe anche tradurre con “i fenomeni sono uno sguardo lanciato verso le essenze”, alle quali alludono e rinviano. È con Platone, a ben vedere, che si avvia il processo di svalutazione di ciò che è fenomenico: il vero essere si manifesta non già ai sensi, bensì al pensiero. E coincide con il piano non sensibile, e dunque non fenomenico, delle idee. Tale svalutazione del fenomenico verrà esasperata dallo scetticismo, come ricordavo: e sarà anche, in certa misura, la base della svalutazione – pur non così radicale – operata dal cristianesimo, che al piano fenomenico contrapporrà la vera essenza del mondo sovrasensibile. Con Aristotele e con la sua usuale sensibilità per l’immanenza, il termine fenomeno viene riabilitato e, di più, assume una connotazione non distante da quello con cui ancora oggi lo troviamo nel vocabolario delle scienze: presso Aristotele, infatti, il fenomeno è l’ambito al quale deve attenersi la scienza. Se essa contraddice o supera il fenomeno, allora deve, per Aristotele, essere respinta. Nell’evo moderno, è stato Kant, più di tutti, ad affrontare in modo originale la questione del nesso tra fenomeno ed essenza. A suo giudizio – così egli sostiene nella Critica della ragion pura del 1781 –, ogni nostra conoscenza avviene nel tempo e nello spazio (le “forme pure della sensibilità”), dunque calata nel piano fenomenico: non conosciamo mai la “cosa in sé”, che è per noi solo un “nouemno” (ossia un “pensato”), ma sempre e solo il “fenomeno”, ossia l’apparire sensibile. Dopo Kant, il concetto di fenomeno verrà impiegato addirittura per assegnare il nome alla “scienza dell’apparire”, alla “fenomenologia”: così, nel 1807, Hegel intenderà il senso fondamentale del proprio capolavoro, la Fenomenologia dello Spirito, avente per oggetto il mostrarsi del sapere nel suo apparire. Diversissima, tuttavia, sarà l’accezione che la fenomenologia assumerà con Edmund Husserl, a cavaliere tra XIX e XX secolo: questi la intenderà, a differenza di Hegel, come la scienza “eidetica” e come l’esplorazione sistematica della coscienza trascendentale. Essa non studia i dati di fatto, ma le essenze, ossia le strutture invarianti e universali delle cose. Non ho qui la pretesa di ripercorre, nemmeno per sommi capi, l’avventura storia del concetto di fenomeno dai greci ad oggi. Mi limito a sottolineare come l’odierna società di massa oscilli tra due estremi opposti, che si rivelano tra loro perfettamente complementari. Per un verso, assistiamo all’apoteosi del postmoderno relativismo, che tutto tende a liquidare come fenomeno ingannevole: e da ciò fa seguire la pretesa di un congedo definitivo della ricerca della verità. Per un altro verso – ed è il fondamento della società dello spettacolo –, assistiamo al trionfo del fenomenismo assoluto. Ogni apparire viene assunto acriticamente come vero, quasi come se il fenomeno risolvesse in sé il reale: tutto ciò che appare sugli schermi televisivi o sulle pagine dei giornali è accolto come se nel suo apparire si esaurisse ogni realtà.

Citazioni

“Noi abbiamo bisogno della storia, ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere: ossia ne abbiamo bisogno per la vita e per l’agire, non per il comodo ritrarci dalla vita e dall’azione”. (F. Nietzsche, "Sull’utilità e il danno della storia per la vita")
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