LA FILOSOFIA DEL 1800
“E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’umanità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere l’India, ma che fu il nostro destino a naufragare nell’infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure?” (F. Nietzsche, Aurora)
INTRODUZIONE GENERALE
Con la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, si apre una questione di gran rilievo per la storia del pensiero: il sistema hegeliano, organico ed estremamente compatto, trova nel fatto stesso di essere un sistema un punto di forza ma anche di debolezza. Infatti, non appena ne “crolla” una parte, anche il resto entra inevitabilmente in crisi. Ed è proprio quel che avviene negli anni Trenta dell’Ottocento; sorge dunque, presso il “popolo degli intellettuali”, l’assillante quesito: “come comportarsi nei confronti del sistema hegeliano?”. L’Hegelismo si manifesta pertanto, dopo la scomparsa del filosofo che l’aveva elaborato, in differenti forme e correnti, di cui se ne possono individuare essenzialmente tre. La prima corrente è quella che si muove, sia pur criticamente, nell’ambito dell’hegelismo, rimanendo fedele ad esso. Questa corrente seguace del sistema hegeliano si dividerà, a sua volta, in Destra e Sinistra hegeliana. Il motivo di tale scissione tra i sostenitori del sistema hegeliano sarà essenzialmente dato dal fatto che in Hegel convivono tranquillamente la sfera rivoluzionaria ( ciò che è razionale è reale ), secondo la quale tutto ciò che è giusto deve essere realizzato, e la sfera conservatrice ( ciò che è reale è razionale ), secondo la quale le cose così come sono vanno bene, in quanto manifestazioni di una razionalità profonda. La Sinistra coglierà nella filosofia di Hegel il continuo cambiamento dialettico della realtà, leggendo in chiave progressista e spesso rivoluzionaria il motto ‘tutto ciò che è razionale è reale’. La Destra, invece, guarderà con maggior simpatia al motto ‘tutto ciò che è reale è razionale’, dandone una lettura fortemente stagnante e conservatrice, ostile a cambiamenti di ogni sorta. E’ però opportuno ricordare che la scissione tra Destra e Sinistra nacque, ancor prima che sul versante politico, su quello religioso: la Destra, legata ai valori della religione e della Chiesa, tenterà di fondare una scolastica hegeliana, ovvero un tentativo di apologizzare la religione cristiana attraverso i concetti dell’hegelismo. Hegel aveva, infatti, insistito sul fatto che i contenuti della sua filosofia e quelli della religione cristiana coincidessero; e, tuttavia, aveva anche sottolineato la superiorità della filosofia sulla religione, sostenendo che la filosofia esprime gli stessi contenuti della religione cristiana, ma ad un livello incommensurabilmente superiore. Ed è su questo che si basa la Sinistra hegeliana, convinta che ormai la religione fosse stata definitivamente superata dalla filosofia. Abbracceranno la causa della Sinistra hegeliana pensatori del calibro di Feuerbach, Engels e Marx, sicchè non è sbagliato affermare che il marxismo è una sorta di “eresia” dell’hegelismo. Ma, accanto a questa corrente (divisa in Destra e Sinistra) che segue criticamente gli insegnamenti di Hegel, vi è anche un nutrito gruppo di pensatori che si ribella al panlogismo hegeliano, alla sua esasperata ricerca della razionalità, rivendicando la natura irrazionale della realtà: aderiranno a questa corrente di pensiero Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche. Sul versante opposto, vi è poi un anti-hegelismo di stampo razionalistico: in sostanza, questa terza corrente di pensatori rinfaccia ad Hegel di aver elaborato una filosofia razionale in cui però la ragione in questione non è quella della scienza di tipo illuministico, ma è quella dialettica, in grado di dimostrare solo e soltanto che ” il vero è l’intero ” o che ” il negativo è insieme anche positivo “. Questo terzo filone costituirà quella corrente di pensiero passata alla storia con il nome di Positivismo: tesi portante di questa corrente è l’identificazione totale della ragione e, in generale, di ogni conoscenza, con la scienza (a cui Hegel non aveva dato molto peso), come se ciò che esula dalla scienza non potesse costituire in alcun modo la conoscenza. Ricapitolando, le tre correnti che si affacciano sulla scena filosofica successiva ad Hegel possono essere così riassunte:
- prosecutori dell’hegelismo, seppur criticamente: Destra e Sinistra.
- anti-hegeliani sostenitori della superiorità della scienza in ogni ambito: Positivismo.
- anti-hegeliani avversi ad ogni forma di razionalità: Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche.DESTRA E SINISTRA HEGELIANE
Come abbiamo accennato poc’anzi, la Destra e la Sinistra hegeliane nascono all’indomani della scomparsa del filosofo: un esponente dell’hegelismo, Strauss, definirà le due correnti opposte nate nell’ambito dell’hegelismo come “Destra” e “Sinistra” richiamandosi esplicitamente al parlamento francese. La Destra hegeliana, detta anche dei “vecchi” per il carattere marcatamente conservatore che la contraddistinse, si opponeva alla “Sinistra”, detta anche dei “giovani” hegeliani in virtù del fatto che a comporla erano per lo più giovani progressisti: il primo motivo che portò le due “fazioni” a scontrarsi fu di materia religiosa. Hegel aveva, infatti, sostenuto che la filosofia e la religione esprimessero gli stessi concetti, ma aveva anche aggiunto che la filosofia li esprime in maniera decisamente migliore. Dall’ambiguità del discorso hegeliano, nasce la spaccatura tra Destra e Sinistra: la prima, tende a sottolineare l’identità di contenuti della filosofia e della religione, avvalorando in questo modo la religione; la Sinistra, dal canto suo, sottolinea come la filosofia sia per natura superiore alla religione, poichè quest’ultima, come aveva detto Hegel, può solo esprimersi attraverso narrazioni mitologiche. In altri termini, la Destra approva la religione poichè ne sottolinea l’identità di contenuti con la filosofia; la Sinistra, invece, è contraria alla religione poichè ne sottolinea l’inferiorità della forma rispetto alla filosofia. Ne consegue inevitabilmente che i seguaci della Sinistra si dedicheranno assiduamente all’indagine filosofica, mentre invece gli esponenti della Destra arriveranno ad anteporre la religione alla filosofia, cosicchè i loro contributi alla storia del pensiero sono pressochè irrilevanti. Ma la questione religiosa non è la sola a creare disaccordi tra gli hegeliani: se in Hegel convivevano ambiguamente la superiorità della filosofia rispetto alla religione in ambito formale e l’uguaglianza tra le due in ambito contenutistico, è anche vero che nel filosofo trovavano il loro spazio anche due concezioni della realtà contrapposte; da una parte, infatti, egli diceva che tutto ciò che è giusto perchè razionale deve essere realizzato, dando così una veste progressista al suo pensiero; dall’altra parte, invece, sosteneva che la realtà, così come è, è razionale e, in ultima istanza, giusta, dando così una colorazione conservatrice alla sua filosofia. Ora, come per quel che riguarda la religione, anche qui si crea una spaccatura: la Destra sostiene che tutto ciò che esiste è razionale e, pertanto, non deve essere cambiato; la Sinistra, invece, è del parere che tutto ciò che è razionale debba essere fatto diventare anche reale, in una prospettiva progressista e, talvolta, rivoluzionaria. Ricapitolando, i due punti di “disaccordo” tra Destra e Sinistra sono:
- il rapporto religione-filosofia
- il rapporto tra razionale e reale
Sul versante religioso, merita di essere ricordato DAVID FRIEDRICH STRAUSS (1808-1874), convinto sostenitore della Sinistra, il quale dà del cristianesimo e della figura di Gesù un’interpretazione molto particolare: nell’opera Vita di Gesù (1835), recante lo stesso titolo di quella pubblicata a suo tempo da Hegel, egli sostiene, in netto contrasto con la tradizione, che la figura di Gesù sia il frutto dell’elaborazione mitologica dei cristiani. Strauss non mette in dubbio l’esistenza di Gesù, ma ciononostante è convinto che, paradossalmente, sia Gesù come elaborazione mitologica a derivare dal cristianesimo e non viceversa, come invece aveva sempre sostenuto concordemente la tradizione. Con queste riflessioni, Strauss può a pieno titolo rientrare nella sfera della Sinistra hegeliana, rivelando, tra l’altro, una certa tendenza (che sarà meglio espressa da Feuerbach) a naturalizzare il concetto di spirito, a riportarlo ad una dimensione immediata e calata concretamente nell’umanità. Altro grande esponente della Sinistra, fu BRUNO BAUER (1809-1882), curiosamente partito da posizioni proprie della Destra: nonostante le posizioni iniziali, egli si “converte” alla Sinistra ed espone la sua concezione della religione in La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo (1841). Con quest’opera, pubblicata anonimamente, egli attua una finzione letteraria, presentandosi come pensatore iper-conservatore e religioso e polemizzando aspramente con Hegel, accusato di essere ateo e anticristo. Con questo gioco intellettuale, Bauer vuole mettere in luce le tesi della Sinistra, facendo notare come se si vuole essere hegeliani non si può essere religiosi, poichè ciò che dice Hegel è inaccettabile per la religione: è dunque impossibile essere al contempo hegeliani e religiosi, come invece fanno gli uomini della Destra, ed è per questo che Bauer si dichiara apertamente ateo. Del problema politico si occupano soprattutto Ruge e Heine, i quali sottolineano (riprendendo concezioni illuministiche) come la Sinistra privilegi l’idea di una razionalità che deve a tutti i costi diventare reale: in quest’ottica, viene anche recuperato Fichte (molto più rivoluzionario di Hegel) e la sua concezione dinamica della realtà come tensione costante. Il succo del discorso di Ruge e di Heine è che se la Germania ha già fatto una rivoluzione sul piano intellettuale con il percorso che da Kant giunge fino ad Hegel, ora non resta che fare la rivoluzione sul piano politico ed è per questo che i pensatori della Sinistra guardano con particolare simpatia al liberalismo e alla democrazia, in un periodo particolarmente oppressivo e conservatore (siamo all’incirca nei foschi anni che di poco precedono il rivoluzionario 1848). Ed è curioso ricordare che, quasi sempre, gli esponenti della Sinistra furono emarginati dalle università, poichè il mondo accademico tedesco restava saldamente nelle mani degli hegeliani di Destra: non potendo esporre il loro pensiero nelle università, i filosofi della Sinistra si scatenarono (Ruge in prima persona) nella pubblicazione di riviste e giornali, per coinvolgere in modo democratico la società; ed è in questo contesto che muove i suoi primi passi il giovane Marx. La più serrata critica alla religione e uno dei più sentiti inviti ad abbracciare la causa democratico-rivoluzionaria in questi anni provengono da FEUERBACH (1804-1872), convinto sostenitore della Sinistra. Il punto da cui egli muove è la filosofia hegeliana e, soprattutto, il momento della “coscienza infelice” (Fenomenologia), dell’uomo medioevale che si sente radicalmente contrapposto a Dio e ne soffre. Feuerbach estende quest’infelicità all’intera religione (e non solo a quella medioevale), criticandola aspramente. Verso Hegel stesso egli è critico, poichè non può in alcun modo accettare che con Hegel termini la storia della filosofia: si propone pertanto di presentare una “filosofia dell’avvenire”, ponendosi come superamento dialettico di Hegel stesso. Con queste considerazioni sullo sfondo, Feuerbach scrive la sua opera più importante, L’essenza del cristianesimo (1841): Schleiermacher aveva ragione, egli dice, a considerare la religione come sentimento di dipendenza dell’uomo nei confronti dell’Assoluto; ma tale Assoluto altro non è se non l’umanità stessa alienata. Infatti, non è vero (come invece afferma il cristianesimo) che Dio crea l’uomo a propria immagine e somiglianza; al contrario, è l’uomo che crea Dio a propria immagine e somiglianza, il che vuol dire (essendo Dio una “produzione” dell’uomo) che la teologia, cioè la scienza di Dio, è un’antropologia, ovvero una scienza dell’uomo. E perchè l’uomo “produce” un Dio a propria immagine e somiglianza? Feuerbach dice espressamente che l’uomo è dotato di qualità quali la potenza (il poter amare, agire, conoscere) e sente l’esigenza di prenderne coscienza; ma l’uomo di cui parla Feuerbach non è il singolo, ma è, molto hegelianamente, l’umanità, poichè l’uomo è davvero tale solamente in rapporto con gli altri, quasi come se, restando solo, egli non fosse davvero “uomo”. Quelle facoltà che riferite ad un uomo erano finite, se estese all’intera umanità si moltiplicano all’infinito, cosicchè l’umanità, volendo prendere coscienza di sè e delle proprie infinite facoltà, si deve oggettivare, deve cioè proiettare fuori di sè le proprie caratteristiche per poterle così osservare come oggetto. Ed è con questo processo di oggettivazione (per molti versi simile al confronto tra autocoscienze tratteggiato da Hegel) che l’uomo crea Dio. Dunque, Agostino sbagliava a dire che nell’uomo si possono trovare tre nature poichè in Dio vi sono tre nature; al contrario, è corretto affermare che in Dio ci sono tre nature poichè nell’uomo vi sono tre nature: in altri termini, la somiglianza tra Dio e uomo si spiega nel fatto che l’uomo crea Dio. Ma la religione, nota Feuerbach, è stato un momento necessario nella storia dell’uomo e, proprio in quanto necessario, è stato giusto, anche perchè ha permesso all’uomo di prendere coscienza di sè. Tuttavia, il lato negativo di tutto ciò risiede nel fatto che l’oggettivazione è anche alienazione, vale a dire che l’uomo, creando Dio, è come se si fosse privato delle proprie facoltà, poichè ciò che viene dato a Dio viene inevitabilmente tolto all’uomo. Il problema che il pensiero moderno deve dunque affrontare consiste nel recupero della dimensione antropologica della religione, partendo dall’alienazione originaria con cui si è creato Dio. Una tendenza in questo senso, Feuerbach la scorge a partire dalla Riforma Protestante: con Lutero, infatti, Dio cessa di essere importante in sè, e diviene importante per ciò che è per l’uomo. La storia di riappropriazione della dimensione antropologica, avviatasi con Lutero, prosegue e culmina in Hegel, che però non è stato in grado di riconoscere l’autentica natura dell’umanità, bensì si è limitato a parlare di spirito o, tutt’al più, di umanità in termini troppo astratti. Feuerbach, invece, è ostile ad ogni astrattismo e quando parla di umanità, si riferisce non all’umanità spiritualizzata di Hegel, bensì a quella caratterizzata dall’esistere concretamente, quella cioè da cui siamo circondati e con cui abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana. Ed è per questo che Feuerbach può affermare in modo provocatorio che ” l’uomo è ciò che mangia “, come recita il titolo di un suo scritto: bisogna recuperare l’uomo materiale e sensibile, non alienato in Dio, e la sensibilità stessa assume un valore gnoseologico profondo, poichè attraverso il corpo e il contatto con esso, dice Feuerbach, si penetra nell’essenza delle cose e delle persone. Il bisogno di rapportarsi materialmente con gli altri è naturale a tal punto che la dimensione sensibile diventa sensoriale, come se coi sensi si potesse conoscere profondamente la realtà, cosicchè nel rapporto “io-tu” che si instaura materialmente per recuperare l’umanità smarrita in Dio, il contatto fisico gioca un ruolo fondamentale e l’amore fisico diventa anch’esso una forma di conoscenza. Si potrebbe obiettare a Feuerbach il fatto che egli si sforzi di cercare la concretezza per poi fermarsi all’umanità, senza pervenire ai singoli individui (come faranno Kierkegaard o Stirner); la risposta a questa possibile obiezione è molto semplice: se Feuerbach avesse concentrato la sua attenzione sui singoli e non sull’umanità (che comunque egli intende nel più concreto dei modi possibili), non avrebbe potuto spiegare l’oggettivazione dell’uomo in Dio. Infatti, perchè vi sia un’oggettivazione in qualcosa di infinito (Dio), è necessario che ad oggettivarsi sia qualcosa di infinito, come è appunto la somma infinita delle facoltà dell’umanità, facoltà che se considerate finitamente nel singolo non potranno mai oggettivarsi in qualcosa di infinito. Non c’è poi da stupirsi se un acceso rivale della religione come è Feuerbach, finirà per dare una veste religiosa alle proprie idee: infatti, l’oggetto della sua religiosità resta sempre e comunque l’umanità concreta (mai Dio), immanente nella realtà, quasi come se l’oggetto della teologia diventasse l’umanità nel suo complesso. Le considerazioni religiose di Feuerbach si intrecciano con quelle politiche: egli sottolinea, infatti, il carattere pericolosamente conservatore della religione; in essa, l’uomo tende a diventare schiavo, a sentirsi dipendente da un’entità superiore, e uno schiavo incatenato nel “mondo delle idee” diventa inevitabilmente anche schiavo nella realtà materiale, quasi come se oltre ad essere schiavo di Dio diventasse anche schiavo di un padrone materiale. Ne consegue che la liberazione politica dell’uomo dovrà passare per l’eliminazione della religione: infatti, solo dopo la scomparsa della religione l’uomo cesserà di essere schiavo di Dio e, successivamente, dei padroni materiali. Diametralmente opposta sarà la concezione di Marx, secondo la quale ” la religione è l’oppio del popolo ” : secondo Marx, infatti, l’uomo ricorre alla religione perchè materialmente insoddisfatto e trova in essa, quasi come in una droga (“oppio”), una condizione artificiale per poter meglio sopportare la situazione materiale in cui vive. Per Marx, dunque, non è la religione che fa sì che si attui lo sfruttamento sul piano materiale (come invece crede Feuerbach), ma, al contrario, è lo sfruttamento capitalistico sul piano materiale che fa sì che l’uomo si crei, nella religione, una dimensione materiale migliore, nella quale poter continuare a vivere e a sperare. Ne consegue che se per Feuerbach per far sì che cessi l’oppressione materiale occorre abolire la religione, per Marx, invece, una volta eliminata l’oppressione, crollerà anche la religione, poichè l’uomo non avrà più bisogno di “drogarsi” per far fronte ad una situazione materiale invivibile. Si può anche fare un cenno al rapporto che intercorre tra Hegel, la Sinistra hegeliana e Marx: se Hegel vedeva i processi meramente a livello ideale, con la Sinistra hegeliana si afferma la convinzione che le idee servono per trasformare la realtà, nella convinzione che il razionale debba diventare reale; in altri termini, con la Sinistra la rivoluzione ideale diventa premessa per la rivoluzione materiale. Marx, invece, sostiene che si debba dialetticamente cambiare non il mondo delle idee (poichè, cambiate le idee, le condizioni materiali non cambiano), bensì bisogna cambiare il mondo materiale e, cambiandolo, cambieranno anche le idee. Marx non è d’accordo con quella che definisce “ideologia tedesca” (cioè con quel mondo che parte da Hegel e giunge fino alla Sinistra), poichè secondo lui le idee, di per sè, non sono in grado di cambiare le cose: al contrario, bisogna prima cambiare le cose, e poi cambieranno pure le idee; e il primo atto filosofico per costruire una “filosofia dell’avvenire” consiste nel mutare il mondo con la rivoluzione a mano armata, grazie alla quale spariranno le vecchie idee (tra cui la religione) e ne nasceranno di nuove. Ecco perchè Marx può dire che ” fino ad oggi i filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo, si tratta ora di cambiarlo ” e che ” bisogna sostituire alle armi della critica la critica delle armi “, nella convinzione che l’unica vera critica la si fa con le armi sulle piazze. Al di là delle posizioni appena tratteggiate, troviamo anche chi scorge nell’individuo la massima espressione della concretezza ed arriva a sostenere posizioni anarchiche: in questa prospettiva, troviamo le figure di MAX STIRNER (1806-1856) e MICHAIL BAKUNIN (1814-1876), accomunati dal concetto di “individualismo”; entrambi respingono tanto l’astratto spiritualismo hegeliano, quanto l’umanità di Feuerbach e la classe di Marx, ritenute anch’esse troppo astratte. Nelle filosofie di Bakunin e Stirner aleggia la convinzione che, in fin dei conti, a contare e ad aver diritti sia solo il singolo, per cui non ha senso parlare di “Stato etico” superiore ai singoli (come aveva fatto Hegel) o di “umanità” (come fa Feuerbach). Al contrario, solo il singolo individuo ha diritti ed è degno di essere indagato filosoficamente: se Bakunin si qualificò sempre come anarchico e partecipò perfino alla Prima Internazionale, Stirner, invece, non si è mai occupato di politica in senso stretto, anche se la sua filosofia ha ispirato maggiormente le ali di estrema destra per via delle posizioni accesamente individualistiche da lui propugnate. L’anarchia può infatti essere appannaggio tanto delle sinistre quanto delle destre ed è per questo che se la Sinistra, ispirandosi a Bakunin, mira all’individualismo come estrema libertà, la Destra, invece, (ispirandosi a Stirner) tende all’individualismo come superiorità del singolo sulle masse. In L’unico e la sua proprietà (1844), Stirner arriva a sostenere che ad esistere è solo l’individuo e ciò che per lui conta è, paradossalmente, solo lui stesso; tutto il resto (le cose, gli animali e perfino gli altri uomini) è solo uno strumento per l’affermazione di sè. Il mondo stesso viene concepito come strumento volto ad attuare la realizzazione del singolo. Sull’altro versante, Bakunin elabora anch’egli un anarchismo individualista, ma rimane nell’alveo dell’anarchismo di ispirazione socialista (proponendo, ad esempio, l’autorganizzazione), ma rispetto a Marx nutre molti sospetti verso la dittatura del proletariato, temendo che essa possa trasformarsi in stato autoritario. Infatti, Bakunin sostiene che bisogna abolire, anche violentemente, lo Stato, in quanto sinonimo di dominio coercitivo e di disuguaglianza; tutto ciò, portava Bakunin a privilegiare il sotto-proletariato, del tutto disorganizzato e per ciò in grado di agire spontaneamente in chiave rivoluzionaria e di rovesciare lo Stato. Marx, che nutriva profonda antipatia per Bakunin (peraltro cordialmente ricambiata), non esitò a definire utopistico tale progetto, contrapponendo ad esso il proprio, incentrato sulla dittatura del proletariato. Ma Bakunin ebbe ragione a temere una degenerazione autoritaria della dittatura del proletariato: la dittatura staliniana ne fu la conferma.
IL POSITIVISMO
Affermatosi già nella prima metà dell’Ottocento, ma sviluppatosi irresistibilmente soprattutto nella seconda, il Positivismo è un movimento culturale che, nato presso un gruppo elitario di intellettuali, tende sempre più a prendere piede presso la borghesia, a tal punto da caratterizzarsi come corrente di pensiero “di massa”; ma proprio quando comincerà a diventare un modo di pensare comune presso gli strati sociali più bassi, il popolo degli intellettuali l’avrà già abbandonato, preferendogli l’irrazionalismo e il decadentismo. Il paradosso di questa ambiguità culturale per cui le masse pensano in modo positivistico e gli intellettuali prediligono l’irrazionalismo verrà a galla nel concetto di razza, affermatosi prepotentemente nella seconda metà dell’Ottocento: si tenterà infatti di spiegare in modo assolutamente razionale (ricorrendo alla biologia) un qualcosa come la “razza” che, in realtà, sfugge ad ogni sorta di razionalità, e anzi si oppone ad essa. I tre eroi del pensiero positivistico sono il francese Auguste Comte (1798-1857) e gli inglesi John Stuart Mill (1806-1873) e Herbert Spencer (1820-1903): i Paesi d’origine sono particolarmente significativi se teniamo conto che l’uno è all’avanguardia sul piano industriale (l’Inghilterra) e l’altro sul piano dello sviluppo scientifico (la Francia) e il Positivismo altro non è se non la filosofia della rivoluzione industriale e della scienza. In particolare, nella Francia napoleonica era fiorita la scuola politecnica, caratterizzata da un orientamento spiccatamente tecnico-scientifico: in sostituzione alla Sorbona, che aveva il suo asse portante nell’insegnamento di teologia, era stata fondata l’Ecole normale e, in un secondo tempo, fu istituita l’Ecole politechnique, concernente le discipline fisiche. A testimonianza dei grandi successi ottenuti dalle scienze, si possono addurre parecchi esempi: il piemontese Joseph-Louis Lagrange (1736-1818) si era servito (in Meccanica analitica , del 1811) del calcolo infinitesimale per attuare una compiuta matematizzazione della meccanica, riformulando i concetti di velocità, accelerazione, forza e via discorrendo nei termini di derivate e integrali di funzioni; grandi conquiste furono anche realizzate da Joseph Fourier (1768-1830), il quale diede una formulazione matematica, attraverso equazioni e funzioni di coordinate spaziali e temporali, della propagazione del calore attraverso i corpi e il vuoto. La termodinamica, come calcolo della quantità di lavoro ottenibile da determinate quantità di calore, ricevette una sua prima formulazione da parte di Sadi Carnot (1796-1832), il quale individuò il presupposto del cosiddetto “primo principio della termodinamica”, ovvero il fatto che la trasformazione del calore in energia meccanica comporta una dispersione termica. Sul concetto di corrente elettrica come quantità misurabile, André-Marie Ampère (1775-1836) pose i fondamenti dell’elettrodinamica con la sua Teoria dei fenomeni elettrodinamici (1828). Particolarmente interessante e significativa, poi, è la figura di Pierre Simon de Laplace (1749-1827), il quale (in Esposizione del sistema del mondo , del 1796) elaborò, parallelamente a Kant, l’ipotesi dell’origine del sistema solare a partire da una nebulosa primitiva; alla base della sua cosmologia, basata sulla non-necessità di ricorrere all’ipotesi di un Dio che intervenga nel mondo, vi è una concezione rigidamente meccanicistica, secondo la quale ogni stato o evento dell’universo è conseguenza di stati ed eventi precedenti e, a sua volta, causa di quelli successivi; sicchè se si conoscesse lo stato di materia nell’universo in un dato momento, si potrebbero ricostruire meccanicamente tutti i momenti successivi e precedenti della materia. Ma Laplace è anche stato il fondatore moderno del calcolo probabilistico, il che sembrerebbe una contraddizione: come è possibile che, dopo aver sostenuto che tutto procede secondo il più rigido meccanicismo, egli ripieghi (in Teoria analitica delle probabilità , del 1812) su un calcolo basato non sulla certezza ma sulla probabilità? Tutto si spiega se teniamo presente che il meccanicismo e la conoscenza impeccabile che ne dovrebbe derivare funzionerebbe solo se fossimo dotati di una mente super-potente in grado di raccogliere e contenere tutti i dati possibili sullo stato della materia; ed è in assenza di questo strumento che bisogna accontentarsi non di verità inconfutabili, ma di probabilità. In altri termini, la necessità di formulare previsioni probabili dipende esclusivamente dall’ignoranza dei dati necessari per una previsione certa. Molto diverso sarà l’atteggiamento che assumerà su queste questioni il fisico novecentesco Heisenberg, il quale elaborò il “principio di indeterminazione”: esso prescrive che non si può calcolare contemporaneamente con precisione sia la posizione sia lo stato di movimento di una data particella. Ne consegue che se per Laplace tutto avviene in maniera rigorosamente meccanicistica ma si deve ricorrere al calcolo probabilistico perché non si hanno a disposizione strumenti adatti, per Heisenberg, invece, è assolutamente impossibile determinare insieme i due stati (posizione e movimento), indipendentemente dalle nostre facoltà. E Laplace, con la sua esasperata fiducia nel determinismo e nella scienza, rappresenta il modello positivistico e la formulazione più compiuta del meccanicismo come forma di conoscenza certa; è da queste considerazioni di carattere scientifico che muove i suoi passi il Positivismo, così battezzato da Comte (anche se il termine fu per la prima volta impiegato da Saint-Simon nel Catechismo degli industriali , del 1822). Il termine “Positivismo” viene con Comte a rivestire diversi significati, il che però non esclude la loro sostanziale convergenza: la polisemia del termine “positivo” non esprime altro che le differenti valenze, miranti tuttavia ad un unico scopo, del pensiero positivistico. In Discorso sullo spirito positivo (1844) Comte scrive che, nella sua accezione più antica e comune, “ la parola positivo designa il reale, in opposizione al chimerico ” , con la certezza (e per molti versi quasi l’illusione) che vi siano dati immediati assolutamente certi forniti dall’esperienza. Non a caso, il termine “positivo” deriva dal latino “ positum ”, participio passato del verbo porre e pertanto fa riferimento ai dati sensibili immediati, quelli contro i quali, nella Fenomenologia dello spirito , Hegel ci aveva messo in guardia, facendo notare come la certezza sensibile, ovvero il dato di fatto, se scavato un po’ più in profondità, è tutt’altro che una certezza. Quando percepisco una cosa, la mente non ha ancora cominciato a lavorarci sopra (e quindi non mi ha ancora potuto ingannare) e dunque parrebbe essere una vera e propria certezza. Tuttavia, fa notare Hegel, quando percepisco qualcosa, non posso ancora dire che percepisco una penna o una matita, ad esempio, ma devo limitarmi a dire che percepisco “un questo”, ovvero una singola cosa non meglio identificata: dire che percepisco una penna significa fare un passo avanti, significa inquadrare con l’intelletto quel qualcosa in una categoria. Potrò dire, per restare nella certezza sensibile, che percepisco “un questo” e nulla più: se ne evince che la conoscenza che in apparenza era la più solida ricca, si rivela invece, se meglio analizzata, esattamente il contrario, una vuota percezione. Ma i positivisti non sono affatto d’accordo con Hegel, e anzi vogliono porsi come recupero della scienza intellettuale illuministica, e non accettano la “banale” razionalità hegeliana. Nell’ambiente positivistico aleggia la convinzione che l’unico sapere valido sia quello scientifico e la scienza in questione è quella di matrice galileiana e newtoniana. Galileo stesso, del resto, aveva sottolineato come ci si dovesse occupare degli oggetti indagabili con certezza, rinunciando all’indagine di quegli aspetti della realtà non investigabili con altrettanto rigore: e i Positivisti, seguendo alla lettera l’insegnamento galileiano, dirigono le loro indagini sull’unico sapere certo possibile: la scienza, basata sui dati di fatto. Pertanto nel Positivismo è costante la fede (respinta da Hegel) nel dato di fatto, e proprio in virtù di questa fede si caratterizza per essere, in qualche misura, una filosofia un po’ ingenua e pronta ad accettare acriticamente il sapere scientifico. Ma il termine “positivo”, precisa Comte, designa anche il contrasto tra utile ed inutile: la filosofia positivistica, egli dice, deve essere volta “ al miglioramento continuo della nostra vera condizione, individuale o collettiva, invece che alla vana soddisfazione di una sterile curiosità ” . Con queste considerazioni, Comte riprende l’idea baconiana secondo cui “sapere è potere”, ovvero è del parere che un sapere, per essere degno di tale nome, debba dare certezze e che le uniche certezze conquistabili siano quelle della scienza (in questo, Comte rivela una certa adesione alle tesi cartesiane). Positivo, dunque, sarà anche ciò che è preciso e non vago: si dovranno pertanto rifiutare in modo sistematico tutti i concetti vaghi, che significano tutto e il contrario di tutto; ed era stato proprio Bacone stesso a mettere in luce come uno dei maggiori rischi per la conoscenza umana sia la vaghezza di certi termini del linguaggio comune. Infine, in una quinta accezione, il termine “positivo” viene da Comte contrapposto a quello “negativo”, facendo riferimento ad una forte valenza sociale: il compito fondamentale della filosofia, secondo il filosofo francese, è quello di organizzare la società e non di distruggerla, come credono altre correnti filosofiche. Anche in questo si può scorgere una netta antitesi rispetto all’hegelismo dilagante in quegli anni: se alcuni pensatori (Marx ed Engels) avevano reagito alle eccessive astrazioni di Hegel riducendo la dialettica ad un ambito meramente materiale, e altri (Schopenhauer in primo luogo) si erano opposti al panlogismo arrivando paradossalmente a negare ogni valore conoscitivo alla scienza, i Positivisti, dal canto loro, rivendicano il primato della scienza; il loro atteggiamento tende addirittura a sfumare nello “ scientismo ”, ossia nella convinzione che la scienza sia l’unico sapere valido. Naturalmente, non si tratta dell’atteggiamento scientifico di chi riconosce la fondamentale importanza della scienza, pur ammettendo altre forme di sapere: per i Positivisti l’unica forma di sapere è inequivocabilmente la scienza. Proprio in questo risiede l’opposizione positivistica a tutte le filosofie romantiche maturate in quegli anni e la forte simpatia per l’Illuminismo e per il suo interessamento per le conoscenze utili e precise. Tuttavia, vi è una differenza nettissima: sia l’Illuminismo sia il Positivismo sono espressioni filosofiche di quella borghesia tutta affaccendata nella produzione industriale e scientifica ( L’Enciclopedia degli illuministi si configurava, per molti aspetti, come una raccolta di dati tecini), tuttavia dal 5° significato (Positivo = organizzazione della società) del termine “Positivo” scaturisce l’inconciliabilità dei due movimenti. L’Illuminismo, infatti, era una filosofia radicalmente critica e rivoluzionaria, sempre pronta a mettere in discussione la società presente (e la Rivoluzione Francese ne è l’esempio lampante); viceversa, il Positivismo è funzionale alla società cui è contemporaneo, non vuole criticarla per guardare al futuro. Ecco perché Comte è, contemporaneamente, conservatore in politica e progressista sul piano scientifico: egli è il portavoce della borghesia del suo tempo, che dopo aver realizzato la sua rivoluzione, si era cristallizzata nel conservatorismo e nulla desiderava più del mantenimento delle forme politiche in vigore. In altri termini, tutte e due sono filosofie della borghesia, ma la borghesia del Settecento è, marxianamente, rivoluzionaria e interessata a spodestare l’aristocrazia, mentre la borghesia dell’Ottocento, realizzata quella rivoluzione tanto agognata e salita al potere, ha perso ogni spinta rivoluzionaria. E la condizione materiale della borghesia si riflette sulle filosofie che ne esprimono i valori: l’Illuminismo è rivoluzionario, il Positivismo è un illuminismo conservatore, che accetta acriticamente la società esistente (questo vale soprattutto per Comte). Merita di essere meglio analizzato il rapporto con le filosofie romantiche: quando Comte asserisce che il Positivismo è affermazione del reale in opposizione al chimerico, il chimerico in questione è proprio quello delle filosofie romantiche; tuttavia, nonostante l’accesa intenzione di distaccarserne, il Positivismo è pur sempre un figlio dell’era romantica e lo si può evincere dalla fede costante nell’Assoluto, inteso non come l’avevano inteso (in modo metafisico) Fichte, Schelling e Hegel; al contrario, l’Assoluto a cui aspirano i Positivisti è la scienza, che, non a caso, viene da loro assolutizzata e tende a scivolare nello scientismo che, come la religione, finisce per essere una fede. Resta da chiedersi quale posto occupi per i Positivisti la filosofia: avendo vivamente sostenuto che all’infuori della scienza non vi è vera conoscenza, pare che essi siano costretti dal loro stesso pensiero a sancire il rifiuto della filosofia in quanto sapere non scientifico. Il Positivismo in generale, sotto questo profilo, è una filosofia, per così dire, suicida, giacchè, nel proclamare la scienza unica forma di sapere, non fa altro che delegittimare il sapere filosofico. In realtà, quasi tutti i Positivisti, chi più e chi meno, riconoscono qualche campo di indagine alla disciplina filosofica (campo che varia da pensatore a pensatore), anche se, generalmente, si tratta di un margine piuttosto ristretto e subordinato alla scienza, di cui finisce per essere un completamento. Gli atteggiamenti adottati in merito dai Positivisti, sebbene piuttosto variegati, possono essere considerati tre. Il primo è quello proposto da Comte, secondo cui la filosofia altro non è se non una classificazione e una storia della scienza (ed è proprio ciò che egli fa nei suoi scritti), con l’inevitabile conseguenza che la filosofia si riduce ad epistemologia (studio della scienza e riflessione su di essa). E’ una concezione piuttosto riduttiva della filosofia, ma tuttavia si mantiene nell’alveo della tradizione platonico-aristotelica: ad esempio, se la matematica lavora coi numeri, spetta alla filosofia indagare sulla loro essenza. Del secondo atteggiamento è vessillifero John Stuart Mill: si tratta di un atteggiamento abbastanza simile a quello di Comte, ma comunque caratterizzato da una maggiore attenzione per i problemi logico-metodologici: la filosofia viene cioè ridotta a pura logica e metodologia, ovvero è tenuta a riflettere sui metodi e sulla logica dell’opera scientifica (e non è un caso che la principale opera di Mill si intitoli Logica ). Il terzo ed ultimo atteggiamento, proposto da Spencer, è quello che più di tutti dà peso alla filosofia, ma che tende anche di più a ridurla a scienza: in definitiva, per Spencer e per gli altri Positivisti che la pensano come lui, la filosofia è una specie di super-scienza; ciascuno di noi, infatti, ha le sue esperienze quotidiane e tende a generalizzarle per trarne delle regole di comportamento (e la scienza fa la stessa cosa, in maniera sistematica, per quel che riguarda la natura), ma poi, al di là delle leggi relativamente generali, è possibile individuare leggi generalissime che non valgono per un campo della realtà piuttosto che per un altro, ma, viceversa, valgono per tutta quanta la realtà. Proprio di queste leggi generalissime, valide per l’intera realtà, si occupa la filosofia. E proprio in virtù di questa concezione, Spencer e quelli del suo seguito tendono ad essere riduzionisti, ovvero a nutrire la convinzione che tutte le scienze siano riconducibile ad una sola scienza, la filosofia. Sono riduzionisti, in altre parole, perchè nutrono la convinzione che vi siano leggi generalissime valide per ogni realtà di cui le leggi studiate dalla scienza sono derivazioni particolari, come se, in ultima istanza, tutte le scienze fossero derivazioni particolari della super-scienza filosofia. La filosofia come la intendono questi pensatori , pertanto, svetta tra tutti i saperi, ma, qualitativamente, non è diversa dalle altre scienze. Con Spencer, poi, affiora l’elemento che forse più contraddistingue il Positivismo rispetto al razionalismo seicentesco e settecentesco: se è vero che in comune hanno il marcato interesse per le scienze (a tal punto da arrivare a considerarle spesso come unico sapere valido), tuttavia è diverso il tipo di scienza a cui fanno appello. Infatti, quando la filosofia prende come modello di indagine la scienza, tende sempre a scegliere quella più in voga al momento, cosicchè se ai suoi tempi Platone si era servito della scienza medica di matrice ippocratea, i filosofi del Seicento e del settecento, invece, avevano preferito la fisica matematizzata di stampo galileiano e newtoniano, e il “Discorso sul metodo” di Cartesio ne è una prova lampante, poichè il pensatore francese afferma esplicitamente di aver ravvisato nella matematica il vero modello conoscitivo. Spencer e i Positivisti, dal canto loro, vivono in un’epoca in cui sulla fisica newtoniana è prevalsa la biologia, maggiormente in sintonia con gli slanci vitalistici tipici dell’età romantica: ecco perchè, a differenza dell’Illuminismo e del razionalismo, il Positivismo sceglie la biologia e, in particolare, Spencer estende l’evoluzionismo biologico all’intera realtà. Finora abbiamo concentrato la nostra attenzione sul panorama positivistico francese; ma, come accennato, anche al di là della Manica la nuova corrente di pensiero andava sempre più affermandosi, tuttavia con un’enorme differenza: in Inghilterra il passaggio da Illuminismo a Positivismo è, più che da ogni altra parte, diretto. Certo, anche lì si era assistito al sorgere del movimento romantico, ma non in modo così radicale come sul continente: in tutta l’Europa continentale, infatti, il Romanticismo era nato come reazione all’illuminismo e al suo culto della ragione e, a sua volta, il Positivismo si era, hegelianamente, presentato come “negazione della negazione”, ossia come ripristino dell’Illuminismo ad un livello superiore (benchè, in realtà, l’Illuminismo fosse per molti aspetti, poc’anzi illustrati, superiore al Positivismo). Tutto ciò in Inghilterra è vero solo in parte, dove è come se dall’Illuminismo si saltasse direttamente al Positivismo, bruciando la tappa romantica. Questa continuità di pensiero che in Inghilterra lega le due età, quella dei lumi della ragione con quella dello scientismo, può anche essere scorta nelle vicende familiari di John Stuart Mill: suo padre, James Mill (1773-1836), vive a cavallo tra il Settecento e l’Ottoccento ed elabora una teoria della conoscenza come associazione di idee che inciderà in modo determinante sul pensiero del figlio. Un altro grande pensatore di quegli anni, Jeremy Bentham (1748-1832), dà una piena formulazione di quello che sarà uno dei capisaldi del Positivismo: l’ utilitarismo . Esso altro non è se non quella tesi etico-politica basata sull’idea che il fondamentale valore etico da perseguire sia la ricerca della felicità, intesa come somma dei piaceri; per raggiungerla, occorre effettuare, in una maniera che evoca l’antico epicureismo, un calcolo dei piaceri. Ma l’utilitarismo non implica puramente la ricerca del piacere immediato (ed è in questo che si distingue dall’edonismo), bensì sostiene la ricerca del piacere differito e, soprattutto, la felicità come somma di piaceri non viene intesa su un piano esclusivamente individuale, ma, al contrario, come felicità collettiva, destinata al maggior numero possibile di persone (quest’idea era vivissima anche nell’Illuminismo di Beccaria, ad esempio). In altre parole, si deve cercare di agire in maniera tale da promuovere la felicità massima per il maggior numero possibile di uomini ed è per questo che i sostenitori dell’utilitarismo si rifanno, oltrechè all’Illuminismo, al liberalismo. Si tratta però di un liberalismo concepito in maniera diversa da autore ad autore: il pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834), dopo aver sostenuto, a seguito di una lucida analisi, il crescente divario in atto tra la crescita demografica e quella delle risorse per la sussistenza, si faceva portavoce di un liberalismo radicale e sfrenato, secondo cui ogni singolo individuo è e deve essere libero e privo di assistenza e solidarietà, in modo tale che a prevalere siano i più forti, a soccombere i più deboli. Negli stessi anni di Malthus, un altro celebre pensatore, David Ricardo (1772-1823), era in disaccordo con l’estremismo del pastore anglicano e metteva in forse le teorie eccessivamente liberiste di Adam Smith: “sarà poi vero che esiste quella mano invisibile (ipotizzata da Smith) che, anche se ciascuno persegue legittimamente i propri interessi personali, alla fine aiuta tutti?” sembra chiedersi Ricardo. Da ultimo, John Stuart Mill presenta il liberalismo sotto una luce più progressista (e più umana), pur senza accostarsi al socialismo (che anzi criticherà aspramente): Mill nutre, infatti, la convinzione che si debbano orientare il mercato e la società in una direzione che possa realizzare la maggiore felicità possibile per il maggior numero di uomini (e le tesi di Malthus non spingono certo in tale direzione). In altre parole, l’economia, secondo i dettami del liberismo più genuino, va lasciata al suo corso affinchè produca il più possibile; ma poi, in ambito politico, bisogna invece intervenire per realizzare una più equa distribuzione delle ricchezze.
L’EVOLUZIONISMO
Il grande impulso ricevuto dallo sviluppo delle scienze tra Sette e Ottocento non interessò soltanto le scienze esatte, come la matematica, la fisica, l’astronomia e la chimica, ma anche l’ambito delle scienze della vita: a questo sviluppo delle scienze naturali è strettamente connesso uno dei dibattiti scientifici che maggiormente influirono sulla cultura filosofica ottocentesca: la discussione sulla trasformazione della specie, ovvero il dibattito sull’evoluzionismo. E quando si parla di evoluzionismo, salta subito alla mente quello formulato da Darwin, ma in realtà si tratta di un qualcosa di più generale che investe anche la politica e la sociologia: infatti, l’idea dell’evoluzione delle cose nel tempo, per cui sopravvive solo ciò che è più adatto, ha molto influito sulle concezioni politiche del tempo, soprattutto in senso moderatore, poiché emerge la tesi secondo la quale anche nella società, così come nel mondo animale, vi sia una gradualità evolutiva che permette di giustificare il riformismo socialista. Ed è però anche vero che l’idea della selezione del più adatto ha molto inciso anche sulle concezioni politiche di colore opposto: soprattutto l’estrema Destra ha finito per cogliere nelle tesi evoluzionistiche una sorta di legge del diritto del più forte, per cui ha diritto a vivere solo chi si dimostra superiore agli altri. Dalla bislacca commistione delle tesi evoluzionistiche con quelle nietzscheane del superuomo, poi, nascerà un ibrido esplosivo che porterà molti pensatori schierati sull’estrema Destra a celebrare la guerra come strumento in grado di selezionare i “superuomini”. Sul versante comunista, invece, vi sarà chi vedrà evoluzionisticamente la classe operaia come la più adatta a sopravvivere e scorgerà nella rivoluzione il solo mezzo per realizzare la selezione. Ma che cosa si intende per “evoluzionismo”? Tale concetto si basa sulla convinzione che le specie viventi non siano immobili, ma in continua trasformazione nel tempo; opposta a questa teoria troviamo il “ fissismo ” , basato invece sulla convinzione che le specie siano sempre state così come oggi le vediamo. Sostenitore di questa tesi fu Aristotele, il quale concepì le specie animali come forme costitutive della realtà metafisica che, proprio perché strutture della realtà metafisica, non possono cambiare nel tempo. Oltre al fissismo, si contrappose all’evoluzionismo pure il “ creazionismo ”: esso si distingue dal fissismo poiché, a differenza di esso, non concepisce il mondo e le specie che lo animano come eterne; viceversa, i creazionisti credono, seguendo il verbo delle Sacre scritture, che Dio abbia creato il mondo (e che dunque esso non possa essere eterno) e le specie che lo abitano, le quali, diventando strutture della realtà, restano fisse. E nel corso della storia hanno nettamente dominato la tesi fissista (la tradizione aristotelica) e quella creazionista (il cristianesimo): solo in pochi hanno timidamente avanzato tesi evoluzionistiche e tra questi merita senz’altro di essere menzionato l’antico Anassimandro. Con la nuova temperie culturale, nell’Ottocento, il fissismo e il creazionismo entrano in crisi e si fa sempre più sentire l’ipotesi evoluzionistica: già Schelling aveva messo in luce l’esistenza di una sorta di gradualità della natura, la quale si articola secondo diversi livelli e gradini. In particolare, notava Schelling, vi è una sorta di scala per cui si procede dalle forme più semplici, meramente materiali, e ci si innalza sempre più verso forme gradualmente complesse e spirituali, fino ad arrivare all’uomo. Tuttavia, questo processo restava per Schelling puramente logico e atemporale. Un altro padre del tutto involontario dell’evoluzionismo è Linneo (1707-1778), che nel Settecento ha inventato la “tassonomia” ossia la tecnica di classificazione delle classi viventi, prospettando una parentela fra le specie. Pur essendo rigorosamente fissista, egli riteneva che le specie fossero in qualche modo imparentate fra loro, a tal punto da poter ipotizzare un gigantesco clan familiare delle specie: comincia ad affiorare, seppur implicitamente, l’idea che ci debba essere un antenato comune a tutte le specie. Fu poi il francese Buffon a prospettare apertamente l’evoluzionismo. E’ poi bene ricordare l’accesa disputa sull’embriologia divampata tra coloro che sostenevano la preformazione e coloro che invece difendevano l’epigenesi: i primi erano del parere che l’embrione fosse già, in sostanza, come l’animale sviluppato, anche se infinitamente più piccolo; a loro avviso, l’embrione del cavallo altro non era se non un cavallo minuscolo che si sarebbe poi ingrandito. Secondo i sostenitori dell’epigenesi, invece, nel corso dello sviluppo embrionale si passa da un tipo di forma ad un altro, cosicchè è scorretto affermare che l’embrione del cavallo è un cavallo minuscolo; viceversa, esso non è ancora un cavallo, è un’altra forma. La tesi epigenetica, risultata vera, non è di per sé evoluzionistica, ma tuttavia innesta nello studio della biologia un’idea di trasformazione, anche se all’interno dell’individuo singolo e non delle specie. Negli anni a venire si scoprì che l’ontogenesi ricalca la filogenesi, ovvero che il processo di formazione embrionale (ontogenesi) riproduce, per sommi capi, la generazione della specie (filogenesi): il che significa esattamente che esistono fasi in cui ciascuno di noi, in embrione, è più vicino ad un pesce che non ad un uomo, quasi come se stesse ripercorrendo in sé le grandi tappe dell’evoluzione della specie. Sempre in quegli anni si sviluppò un vivace dibattito inerente alla geologia: se si ipotizza l’evoluzione delle specie, si è costretti ad ammettere che essa avvenga in tempi molto lunghi, poiché la storia umana (dal paleolitico fino ad oggi) non attesta esempi di evoluzione. Infatti, da 2500 anni, per quanto ci è testimoniato, non abbiamo notizia di cambiamento alcuno e pertanto si deve ammettere che l’evoluzione avvenga in tempi estremamente lunghi. Ciò, tuttavia, era in contrasto con i Testi Sacri, secondo cui il mondo sarebbe stato creato da Dio 4004 anni prima della nascita di Cristo: l’evoluzione sembrava dunque impossibile, a meno che non si fosse messa in dubbio la veridicità dei Testi Sacri. Anche di fronte alla scoperta dei fossili nascevano comportamenti e interpretazioni ambigue: c’era chi, sulle orme di Aristotele, concepiva le conchiglie fossilizzate come errore di riproduzione dei pesci e non come esseri viventi rimasti intrappolati; vi era poi anche chi, pur riconoscendo che si trattasse di forme animali, sosteneva che fossero animali non ancora scoperti e un’ancora di salvezza era rappresentata dal diluvio universale, che permetteva di dire che, nonostante Dio avesse creato tutte le specie animali, molte di esse non eran riuscite a salire sull’arca di Noè e per questo eran sparite. Relativamente alla questione dei fossili, è molto interessante il dibattito intrapreso tra i trasformisti e i catastrofisti nel tentativo di spiegare la conformazione geologica della terra: secondo la tesi catastrofica, le imponenti modifiche che hanno coinvolto il nostro pianeta sono dovute a catastrofi naturali avvenute in un lasso di tempo assai ristretto; il che permette di spiegare il verificarsi delle trasformazioni in piena sintonia con i tempi riconosciuti dai Testi Sacri. L’ipotesi trasformista, invece, sostiene che la terra si è trasformata gradualmente e non concepisce le montagne come frutto di una catastrofe momentanea (come fa invece l’ipotesi catastrofica), ma come il risultato di un lento processo avvenuto, in condizioni tranquille, nel corso di millenni. Sempre i trasformisti settecenteschi (tra cui ricordiamo Buffon, Maupertuis, La Mettrie, Holbach, Diderot) erano del parere che gli esseri viventi avessero subito un processo di progressiva modificazione. Le posizioni dei trasformisti offrirono un notevole supporto alle tesi evoluzionistiche, come del resto lo offrì pure la nascita dell’anatomia comparata. Essa cominciava a scoprire che anche animali diversissimi tra loro presentano analogie ragguardevoli: mettendo a confronto un uomo ed un uccello, si può notare come, pur essendo radicalmente differente la struttura anatomica, esistano strutture di fondo analoghe come, per esempio, le braccia e le ali. Si intuisce facilmente come l’anatomia comparata abbia aperto spiragli verso l’evoluzionismo: in particolare, essa è una riproposizione della teoria di Goethe secondo la quale esisterebbe un essere comune di cui tutti gli altri sono derivati. Con tutte queste considerazioni sulle spalle, il primo a dare una formulazione organica dell’evoluzionismo fu Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), autore di una “Filosofia zoologica” (1809). Ciò che distingue l’evoluzionismo lamarckiano da quello darwiniano sono, essenzialmente, i diversi meccanismi secondo cui esso avverrebbe secondo i due pensatori: in particolare, Lamarck basa la propria teoria sui concetti di uso e non-uso. A suo avviso, le giraffe si sarebbero evolute da animali a loro simili ma aventi il collo normale; in altri termini, un tempo le giraffe non avrebbero avuto il collo lungo, ma poi, in virtù di una modificazione ambientale, gli alberi sarebbero diventati più alti e per potersi cibare delle foglie le giraffe dovevano sforzarsi allungando il collo: esso sarebbe stato sottoposto ad un graduale allungamento dovuto all’uso e tale trasformazione si sarebbe trasferita, per via ereditaria, di generazione in generazione. Secondo la teoria lamarckiana, sono gli animali a doversi adattare all’ambiente compiendo sforzi immani: tuttavia il punto debole del ragionamento di Lamarck consiste nel fatto che l’esperienza insegna che i caratteri acquisiti (come l’allungamento del collo) non si possono trasmettere ereditariamente, per cui se la giraffa, a furia di sforzare il collo, lo allunga, ciononostante i suoi figli nasceranno col collo normale, proprio come un uomo che abbia acquisito una massa muscolare ingente non potrà trasmetterla ereditariamente al figlio. E’ curioso notare come nell’Unione Sovietica fu adottata una forma di neo-lamarckismo e venne respinto il darwinismo: l’idea dello sforzo per adattarsi all’ambiente suggeriva una maggiore dignità dell’individuo che si deve adattare all’ambiente senza viverlo passivamente. L’evoluzionismo di Charles Darwin (1809-1882) infatti, pur identico nella sostanza, si differenzia da quello lamarckiano nelle modalità in cui avviene: non vi è assolutamente lo sforzo (ipotizzato da Lamarck) per adattarsi all’ambiente. Darwin ebbe un’intensa esperienza di naturalista girando per il mondo e potè notare come certi uccelli molto simili fra loro avevano sviluppato caratteristiche molto diverse (ad esempio, il becco adatto per nutrirsi di determinati insetti presenti nell’ambiente in cui vivevano) a seconda dei contesti ambientali in cui vivevano. Sul piano teorico, poi, egli sapeva che molti allevatori riescono ad ottenere, attraverso un processo di selezione, delle razze nuove; inoltre, aveva sotto gli occhi le teorie elaborate da Malthus secondo cui le risorse ambientali sono limitate e per ciò nasce una lotta per la sopravvivenza che dà la meglio ai più adatti. E grazie a queste tre considerazioni (selezione, lotta, uccelli con modificazioni funzionali al loro modo di vivere) diede la sua celebre formulazione dell’evoluzionismo, sostenendo che le specie evolvono non per adattamento all’ambiente (non è cioè l’ambiente che le stimola ad adattarsi, come credeva Lamarck), ma per selezione: l’ambiente seleziona gli individui più adatti ed elimina quelli inadatti; così la giraffa col collo corto, inadatta a cibarsi delle foglie poste in alto, e la gazzella lenta, facile preda del leone, non ce la fanno a sopravvivere e hanno la meglio le giraffe col collo lungo e le gazzelle veloci. Non è che, in virtù dell’uso, il collo della giraffa si allunga o le gambe della gazzella diventano veloci e nasceranno gazzelle più veloci e giraffe col collo più lungo; viceversa, per errori casuali di copiatura del DNA nascono giraffe con il collo più lungo delle altre e si rivelano più adatte per la sopravvivenza, per cui si riproducono e nascono nuove giraffe col collo lungo, mentre quelle dal collo corto tendono ad essere spazzate via dalla selezione. Naturalmente Darwin non aveva ancora queste nozioni di genetica e si limitava perciò a parlare “errori” per via dei quali gli individui non nascono del tutto identici ai genitori: questi “errori”, che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono dannosi, talvolta possono anche rivelarsi utili, come nel caso del collo lungo delle giraffe. Se lo slancio ipotizzato da Lamarck per adattarsi all’ambiente era di forte sapore romantico, il discorso di Darwin si inserisce pienamente nel quadro positivistico e materialista: infatti, nell’evoluzione darwiniana non vi è nulla di finalistico e, a rigore, non si dovrebbe nemmeno parlare di “evoluzionismo”, giacchè tale nozione presuppone che gli individui cambino in meglio, come se dovessero realizzare un fine. Al contrario, secondo Darwin, si tratta di una forma di selezione assolutamente necessaria e meccanica, indipendente da ogni forma di intelligenza della natura: se nel caso degli allevatori, la selezione avveniva in base alla volontà degli allevatori stessi, nel caso della natura, invece, non si muove verso fini prestabiliti ma secondo una meccanicità rigorosa. Darwin riprende le tesi di Malthus, ma non si sbilancia sul terreno sociale: si limita a parlare di evoluzione biologica, di animali e dell’uomo come animale, tant’è che fu messo alla berlina dalla Chiesa perché faceva derivare l’uomo dalla scimmia (“ nella sua arroganza l’uomo attribuisce la propria origine a un piano divino;io credo più umile e verosimile vederci creati dagli animali ” egli disse). Quando poi il darwinismo sarà impiegato come chiave di lettura della società darà vita al darwinismo sociale, anche grazie alla mediazione di Spencer, il quale arriverà ad estendere il discorso di Darwin all’intera realtà. A cavallo tra Ottocento e Novecento un cattolico, Teilhard de Chardin, interpretò la prospettiva evoluzionistica come processo governato da Dio, dando vita ad una specie di “evoluzionismo finalistico” che però non fu accettato dalla Chiesa (che anzi lo condannò severamente). Sarà invece Bergson ad accettare (con il concetto di “evoluzione creatrice”) l’evoluzionismo e a depurarlo dagli elementi di meccanicismo e anche da quelli finalistici. Una domanda curiosa che sorge spontanea è se l’evoluzionismo sia una dottrina scientifica: nel Novecento c’è stato chi ha detto che una teoria, per essere scientifica, deve essere verificabile e chi, come Popper, ha invece sostenuto che deve essere falsificabile; ma la cosa curiosa è che l’evoluzionismo non è così facilmente verificabile o falsificabile (ed è su questo che fanno ancora oggi leva i suoi oppositori) come possono esserlo le leggi individuate da Galileo. La paleontologia dovrebbe gettar luce in merito, ma nella maggior parte dei casi non ci riesce per via dell’incredibile difficoltà che implica la ricostruzione dell’albero genealogico. E poi vi è un aspetto teorico imprescindibile: oltre all’evoluzione per cui la giraffa si trova oggi ad avere il collo lungo, vi è anche un evoluzionismo più complesso, detto “macroevoluzionismo”, con il quale un organo che aveva una determinata funzione è passato, nel tempo, a svolgere mansioni di tutt’altro genere. Classico esempio di macroevoluzionismo è il passaggio da pesci ad esseri dotati di polmoni: i polmoni non derivano dalle branchie e perchè mai, del resto, una mutazione di tal genere dovrebbe essere selezionata? E’ forse utile? Le possibili risposte sono due: o si riconosce che le mutazioni non avvengono così gradualmente come sempre si è pensato, ma, viceversa, sono piuttosto rapide; oppure si ammette il finalismo e si riconosce che le fasi intermedie dell’evoluzionismo possano anche essere dannose, ma comunque in vista del risultato finale a cui si mira.
E’ curioso che, proprio quando Hegel riteneva di aver chiuso definitivamente la storia del pensiero ( la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo ) sostenendo che con l’autotrasparenza della realtà attuata nella sua filosofia terminasse la filosofia stessa e cominciasse la sofia, fioriscano ben tre correnti diverse che riaprono da capo il discorso che Hegel riteneva chiuso. Karl Löwith, nell’opera ” Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo ” ha scorto nella filosofia che da Hegel giunge fino a Nietzsche e alla fine dell’Ottocento un processo rivoluzionario e di “rottura”; tuttavia, dice Löwith, se è vero che dalla filosofia di Hegel muoveranno i loro passi filosofi che prenderanno le distanze dal “maestro” ed elaboreranno pensieri tra loro opposti, è anche vero che in questo processo di frattura rivoluzionaria vi è un filone unitario, che accomuna i vari pensatori. Il fatto stesso che per tutti questi filosofi Hegel resti il punto di riferimento avvalora la tesi di Löwith: infatti, per i Positivisti e per gli “irrazionalisti” Hegel costituisce (per motivi opposti) un bersaglio contro cui scoccare i propri dardi velenosi, mentre per gli hegeliani alla Marx, il filosofo del Sistema resta un maestro a cui ispirarsi, un maestro di cui si può magari anche compiere il parricidio, come aveva fatto Platone con Parmenide, ma non è questo ciò che conta. Affiora bene, in sostanza, come Hegel resti al centro della riflessione filosofica a lui successiva: anche per chi lo rifiuta e lo disprezza cordialmente, egli resta pur sempre l’idolo negativo combattendo il quale si costruisce la propria filosofia. Si può poi ravvisare un elemento di unitarietà, oltre che nel fatto che Hegel resti il punto costante di riferimento, anche nel senso della concretezza che pervade le filosofie tra loro opposte di questi pensatori. Se nella terminologia hegeliana, per “concretezza” si doveva intendere il privilegiamento per il saper cogliere le cose nelle loro relazioni reciproche, cosicchè il pensiero era più concreto della materia, la ragione più dell’intelletto, ora tale termine si colora di un nuovo significato, al quale anche noi siamo abituati: e così, paradossalmente, tutti i pensatori successivi ad Hegel possono accusarlo di “astrattezza”, quasi come se leggendo Hegel si avesse l’impressione che egli non stesse parlando di cose reali. Il termine “astratto” passa cioè a designare ciò che è sganciato dalla realtà, ciò che non è “concreto”. E’ quasi come se si attuasse un capovolgimento dialettico dei termini, per cui l’accusa infamante di “astrattismo” che Hegel muoveva all’Illuminismo, ora si ritorce contro di lui, seppur in una nuova accezione. Per citare degli esempi, in Marx “concretezza” vorrà dire che, pur accettando egli la dialettica hegeliana, la criticherà per il fatti di poggiare ” sulla testa “, cioè sulle idee: si tratta pertanto, dice Marx, di mantenerla valida così come è, rigirandola però in modo tale che poggi non sulla testa, ma sui piedi, ovvero sulle condizioni materiali ed economiche; ne scaturirà un processo dialettico che non si realizzerà astrattamente sulle pagine dei libri, come l’aveva inteso Hegel, ma, al contrario, si svolgerà concretamente e in modo rivoluzionario sulle piazze. Discorso simile sul versante positivistico, dove si esalta la concretezza del sapere scientifico e del dato di fatto ( ecco perchè “Positivismo”: dal latino positum , “ciò che è posto”, ovvero il dato di fatto); si tratta di una contrapposizione netta al pensiero di Hegel, il quale, nella Fenomenologia dello spirito , aveva posto il dato di fatto ( da lui definito certezza sensibile ) al gradino più basso. Anche tra gli irrazionalisti serpeggia l’aspirazione alla concretezza e, per addurre un esempio, Schopenhauer insiste sul fatto che l’uomo non è ” una pura testa alata d’angelo “, cioè non è puro spirito disincarnato, ma è essenzialmente un corpo e la natura di tale corpo consiste, soprattutto, nella volontà, nei desideri, negli istinti e nelle passioni, quelle cose, cioè, che Freud avrebbe più tardi definito come “pulsioni”; da notare che la rivendicazione che Schopenhauer fa della concretezza è in antitesi all’astrattezza hegeliana, come pure alla ragione, tanto cara ai Positivisti. Anche Feuerbach rivendica la matrice materiale e “concreta” dell’uomo, arrivando a sostenere che ” l’uomo è ciò che mangia “, facendosi latore di un materialismo di rottura, per alcuni versi molto provocatorio. Nel caso di Kierkegaard (che rimprovera a se stesso la sua breve adesione iniziale alla filosofia di Hegel dicendo ” Io, stupido hegeliano! “), poi, la ricerca esasperata della concretezza tenderà a manifestarsi come rivendicazione dell’esistenza singola: in Hegel si ha sempre l’impressione che, anche quando parla dell’uomo, in realtà non stia parlando di noi, sostiene Kierkegaard; da qui emerge il suo interesse per l’io come singolo, ovvero per l’io concreto, sganciato dalla nebulosa astrattezza in cui l’aveva avvolto Hegel. Del resto, osserva Kierkegaard, checchè ne pensi Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come umanità e spirito. Ed è con queste riflessioni maturate in Kierkegaard che comincia ad affiorare, seppur timidamente, il netto contrasto tra la concretezza dell’esistenza (l’io singolo) e l’astrattezza dell’essenza (l’umanità, lo spirito), contrasto già prospettato da Pascal e destinato a diventare centrale nella filosofia del Novecento con l’Esistenzialismo. Si può poi fare un breve cenno a Nietzsche, il quale in gioventù aderì alle tesi di Schopenhauer e, anche quando se ne distaccò, mantenne con esse un forte legame: infatti, il perno della sua filosofia è la volontà (concetto tipicamente schopenhaueriano) abbinata alla vitalità, contrapposte duramente al pensiero e, più in generale, alla ragione. Sempre Nietzsche rivendica anche quell’individualità già sostenuta da Kierkegaard: ed è per questo che Nietzsche è l’ultimo anello della catena che sancisce la frattura col pensiero di Hegel e, al tempo stesso, la sintesi delle concezioni più disparate emerse nel periodo post-hegeliano. Egli, da un lato, critica l’astratto in favore del concreto, salutando con entusiasmo la vitalità e la volontà di Schopenhauer (da lui cambiata nell’essenza e ribattezzata “volontà di potenza”), dall’altro lato pone l’accento sul problema dell’individuo sollevato da Kierkegaard, portandolo alle estreme conseguenze ed elaborando il mito del superuomo (con una bislacca commistione di elementi darwiniani). Tutte le riflessioni dei pensatori a lui precedenti, convivono in Nietzsche (spesso dando ibridi esplosivi quali il superuomo o la volontà di potenza) sotto un unico denominatore: la vitalità, il ” ritorno alla terra” che egli caldeggia così spesso nei suoi scritti, contrapponendosi bruscamente all’astrattismo hegeliano. Tuttavia, oltre agli aspetti che in qualche modo legano tra loro questi pensatori post-hegeliani, bisogna saper anche cogliere le numerose differenze che li separano: per dirne una, se Kierkegaard rivendica la concretezza come individualità, Marx, invece, molto più hegelianamente, la rivendica come umanità, come classe sociale. Sarebbe pertanto sbagliato ritenere che questi pensatori abbiano concezioni del tutto uguali tra loro; come sarebbe anche sbagliato illudersi che le loro filosofie maturino tutte dopo la morte di Hegel. In realtà, alcuni di questi filosofi cominciano ad elaborare le loro filosofie mentre Hegel è ancora in vita. La prova lampante di ciò è data da Scopenhauer, il quale compone la sua opera più famosa ( Il mondo come volontà e rappresentazione ) nel 1819, in un clima di pieno trionfo dell’hegelismo: ed è sintomatico il fatto che le idee di Schopenhauer hanno fatto breccia presso il pubblico solo dopo la morte di Hegel, tant’è che la prima edizione de Il mondo (composta quando Hegel era ancora in vita) andò al macero. Si può, tra l’altro, ricordare come Schopenhauer desiderasse tenere le sue lezioni universitarie in contemporanea ad Hegel, ma tuttavia non potè farlo per il semplice motivo che non aveva studenti: tutti, infatti, andavano ad ascoltare con entusiasmo Hegel, non tenendo in alcuna considerazione Schopenhauer.
SAINT-SIMON
Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon (1760-1825) é uno dei cosiddetti “socialisti utopistici”, come li definì Marx, per contrapporli al suo “socialismo scientifico”; i socialisti utopistici, infatti, non prevedevano il raggiungimento dei loro obiettivi sociali con la rivoluzione (come sosterrà invece il socialismo scientifico di Marx), bensì progettavano a tavolino delle società utopiche e le presentavano ai ceti dominanti, sperando che essi volessero metterle in atto: ovviamente si tratta solo di un’utopia, in quanto le classi dominanti non concederanno mai quanto richiesto da questi socialisti; tuttavia il motivo per cui questo socialisti non penseranno ad un’azione rivoluzionaria, come farà invece Marx, é piuttosto semplice: a quei tempi stava appena nascendo e non aveva ancora preso piena coscienza di sè l’attore principale della rivoluzione prevista da Marx: il proletariato. Saint-Simon nacque a Parigi da nobile famiglia e, dopo aver partecipato alla guerra d’indipendenza americana e alla rivoluzione del 1789, costituì una società d’affari con il conte di Redern, si arricchì, ma successivamente sperperò i suoi beni viaggiando per l’Europa. Ormai in povertà, iniziò a comporre scritti in cui formulò i suoi progetti di riorganizzazione della società. Nelle Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei , pubblicate nel 1803, enunciò la tesi che le rivoluzioni scientifiche sono la causa di quelle politiche e presentò un progetto di governo dell’umanità affidato a scienziati liberamente eletti. Successivamente, nell’ Abbozzo di una nuova enciclopedia (1810) sostenne che l’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert aveva distrutto il sapere proprio dell’epoca teologico-feudale, mentre una nuova enciclopedia sarebbe stata alla base della nuova società fondata sull’industria . A delineare i tratti di questa nuova società dedicò le sue opere successive, tra le quali Il sistema industriale (1821-1822) e il Catechismo degli industriali (1823). Secondo Saint-Simon la Rivoluzione francese ha seppellito il vecchio mondo dato che ha rappresentato un’ epoca critica che ha comportato la dissoluzione della precedente epoca organica , fondata sul sapere teologico e organizzata su basi feudali. La crisi é foriera non di morte, ma di salute, ovvero prepara il terreno alla costituzione di una nuova epoca organica, fondata su un corpo sistematico di credenze, diverso da quello che reggeva l’antica società: infatti il suo nucleo non può più essere fornito dalla religione; per riorganizzare la società, al posto della fede, deve subentrare la scienza . La società del passato trovava la sua legittimazione in un sistema di credenze teologiche, di cui era portatrice la classe che deteneva il potere spirituale: il clero. La società moderna é invece caratterizzata da un nuovo elemento, l’industria, sorta dal progresso scientifico e dalle sue applicazioni tecniche. Nella nuova epoca industriale, il cui scopo sono le attività produttive, la posizione che nelle precedenti società aristocratiche, fondate sulla guerra, era occupata dalla nobiltà feudale, é ora assunta dalle nuove classi produttive. Saint-Simon a tal proposito conduce un’aspra critica contro le vecchie classi oziose e parassitarie (clero, nobiltà, esercito), paragonate ai fuchi dell’alveare contrapposti alle api operose. Inoltre, va notato che per industria Saint-Simon intende qualsiasi attività produttiva e, pertanto, non solamente la manifattura, ma anche il commercio e l’agricoltura. Nella nuova epoca il potere temporale é destinato a passare nelle mani della nuova classe degli industriali, i quali essendosi mostrati capaci di dirigere la produzione nei vari settori ed essendo i legittimi rappresentanti degli interessi di tutte le classi produttrici, devono anche assumere la direzione della vita pubblica, in virtù di un potere fondato non sulla costrizione, ma sul consenso. Infatti, tra i membri delle classi produttive, Saint-Simon colloca anche gli scienziati (riprendendo in parte le teorie di Francesco Bacone), costruttori e portatori del nuovo sistema di credenze fondato sui metodi e sui risultati delle scienze positive: nelle loro mani é ora il potere spirituale, detenuto in precedenza dal clero parassitario. Ma la scienza é, per sua stessa costituzione, universale e pacifica, cosicchè la nuova società industriale fondata su di essa avrà anch’essa i caratteri dell’universalità, ossia sarà propria dell’umanità intera e sarà contrassegnata dalla coesistenza di ordine e di progresso, ovvero da una forma di progresso pacifico , senza violente fratture rivoluzionarie. Saint-Simon negava dunque al conflitto una funzione positiva e permanente all’interno della società, considerandolo soltanto un aspetto transitorio dello sviluppo storico, e faceva proprio un modello organico di società, contemporaneamente teorizzato da Maistre e da Bonald. Anche per lui si trattava di restaurare l’ordine sociale frantumato dalla rivoluzione, tornando a una forma di solidarietà reciproca e, insieme, gerarchica fra tutti i membri del corpo sociale, legittimata da un sistema di credenze condivise da tutti. Ma mentre per Maistre e Bonald il modello era dato dalla società organica medioevale, caratterizzata da una comune fede religiosa e da un’unica autorità suprema, il papa, capo della Chiesa, per Saint-Simon la scienza e l’industria erano destinate ad essere le nuove depositarie del potere temporale e spirituale. Si trattava però di un processo non ancora giunto a compimento, cosicchè diventava necessaria la costituzione di un partito industriale che operasse in vista della definitiva affermazione della società industriale, organizzata sulla base del sapere scientifico, inarrestabile e inattaccabile da crisi o conflitti. Ma nel tratteggiare la sua società tecnocratica, Saint-Simon commette un grave errore: egli infatti si scaglia contro i ceti parassitari e sostiene che la società debba essere amministrata dagli “industriali”, ovvero dagli imprenditori e dai lavoratori, senza differenza: Saint-Simon non vede quello scontro di classe tra proletariato e borghesia che sta alla base della società moderna e che Marx vedrà benissimo. Nell’ultima fase della sua attività, specialmente con Il nuovo cristianesimo (1825), Saint-Simon darà un’accentuazione religiosa alle sue teorie, interpretate come un ritorno al vero cristianesimo, fondato sull’amore del prossimo e particolarmente attento alla sorte delle classi meno abbienti. Era in qualche modo necessario competere con i forti appelli alla religione che provenivano dai pensatori tradizionalisti. Su questa linea, prettamente religiosa, ispirata ad una religione dell’umanità più che del singolo, si sarebbero mossi alcuni seguaci di Saint-Simon, soprattutto Barthélémy-Prosper Enfantin (1796-1866), che avrebbe organizzato addirittura una sorta di chiesa sansimoniana, con i suoi riti e una propria gerarchia. Ma il sansimonismo penetrò profondamente in Francia anche nella mentalità dei nuovi ceti imprenditoriali e finanziari, influendo così sulla costruzione di banche e sui progetti di costruzione di ferrovie e dei canali di Suez e di Panama.
CHARLES FOURIER
Anche Charles Fourier (1772-1837), insieme a Saint Simon e a Owen, é uno dei cosiddetti “socialisti utopistici”, come li definì Marx, per contrapporli al suo “socialismo scientifico”; i socialisti utopistici, infatti, non prevedevano il raggiungimento dei loro obiettivi sociali con la rivoluzione (come sosterrà invece il socialismo scientifico di Marx), bensì progettavano a tavolino delle società utopiche e le presentavano ai ceti dominanti, sperando che essi volessero metterle in atto: ovviamente si tratta solo di un’utopia, in quanto le classi dominanti non concederanno mai quanto richiesto da questi socialisti; tuttavia il motivo per cui questo socialisti non penseranno ad un’azione rivoluzionaria, come farà invece Marx, é piuttosto semplice: a quei tempi stava appena nascendo e non aveva ancora preso piena coscienza di sè l’attore principale della rivoluzione prevista da Marx: il proletariato. L’obiettivo perseguito da Charles Fourier é la riorganizzazione della società su nuove basi; queste nuove basi però non devono essere date dalla scienza, come riteneva Saint-Simon, quanto nelle passioni umane. Nato a Besancon nel 1772, rimasto presto orfano, per sopravvivere fu costretto ad impiegarsi in banca e in seguito a fare il commesso viaggiatore, l’agente di borsa e il dipendente di una ditta americana. Nel 1808 pubblicò anonima la Teoria dei quattro movimenti , che passò pressochè inosservata, e solamente nel 1822 fece comparire un secondo scritto, il Trattato dell’associazione domestica agricola , che nel 1842 sarà riedito con altri scritti sotto il titolo complessivo Teoria dell’unità universale . Nel 1825 intorno a Fourier si costituì un primo nucleo di seguaci, il più noto dei quali é Victor Considérant; l’anno seguente Fourier si stabilì definitivamente a Parigi e nel 1829 pubblicò Il nuovo mondo industriale e socioetario, o invenzione del procedimento d’industria attraente e naturale distribuita in serie passionali . Nel 1832-1834 il movimento fourierista fece apparire la rivista “Il Falansterio o la riforma industriale” , poi continuata con “La Falange” (1836-1840) , il cui motto era ” riforma sociale senza rivoluzione “. I seguaci di Fourier tentarono l’esperimento di organizzare un falansterio , ma esso fallì anche per mancanza di mezzi e Fourier, sempre più in disaccordo con essi, lo sconfessò. Il ragionamento di Fourier parte dalla constatazione che la società del suo tempo é un mondo capovolto ; infatti in essa l’ordine naturale delle cose é rovesciato, visto che vi regnano la miseria e la frode. Fourier ne trova la conferma evidente nel fatto che in un ristorante a Parigi una mela vale cento volte più che in Normandia. Rispetto a questa degenerazione prodotta dalla civiltà, la natura rappresenta, come già era avvenuto in Rousseau, il polo positivo, ma per Fourier ciò significa che sono buone tutte le passioni e le inclinazioni proprie della natura umana: esse devono pertanto essere assecondate e soddisfatte, mentre finora sono state considerate cattive e quindi da reprimere. Ma se le passioni non possono essere mutate, perchè sono quelle che sono, può essere mutato il loro orientamento, in modo da farne nascere l’ armonia generale dell’umanità. Il meccanismo che consente di raggiungere questo obiettivo é ravvisato da Fourier nella legge dell’attrazione universale , scoperta nel secolo precedente da Newton: il problema é ora di estendere questa legge all’intero mondo umano. Le passioni fondamentali sono l’amore per la ricchezza e l’amore per i piaceri; non a caso sono esse le passioni finora regolarmente represse dalla società. Se si desidera raggiungere un’organizzazione armonica della società, bisogna allora far leva su queste due passioni, anzichè reprimerle. Si tratta quindi di modificare le sfere del lavoro e dei rapporti sessuali, pertinenti ad esse. A parere di Fourier infatti sarà possibile aumentare la produttività del lavoro tramite l’ attrazione passionale , ossia l’impulso naturale tendente al piacere dei sensi nonostante l’opposizione dei doveri e dei pregiudizi. Il lavoro dovrà dunque essere suddiviso in funzioni differenti esercitate da individui differenti secondo i loro gusti, ossia le loro attrazioni passionali, e si dovranno formare gruppi in cui le passioni individuali siano armonizzate tra loro, in modo da evitare ogni conflitto e favorire al tempo stesso l’emulazione e la cooperazione. Le serie passionali così armonizzate troveranno applicazione nelle funzioni industriali , cioè nel lavoro domestico, agricolo, manufatturiero, commerciale, nonchè nell’insegnamento e nello studio. La passione più importante é il bisogno di varietà : saranno quindi necessari turni brevi di lavoro, per evitare che si cada nella noia, frequenti passaggi all’esercizio di funzioni differenti e mobilità da un gruppo all’altro; in tal modo, diversamente da quanto avviene nell’industria attuale, dove la varietà é repressa e il lavoro é uniforme, potrà costituirsi un’ industria attraente , capace di garantire il massimo della produttività. Su questa base si formeranno le falangi , ovvero gruppi di circa 1800 persone di entrambi i sessi, le quali vivono in falansteri economicamente e socialmente autosufficienti, anche se collegati tra loro: questi falansteri sono contemporaneamente abitazioni collettive, luoghi di lavoro e divertimento, circondati da aree coltivabili e foreste. In tal modo, l’utopia di Fourier arriva ad immaginare nuove forme di architettura e di urbanistica. Inoltre nei falansteri potrà trovare finalmente compimento la liberazione sessuale , sinora repressa attraverso l’affermazione del predominio maschile sulla donna e l’istituzione della famiglia monogamica : anche sul piano sessuale la regola sarà offerta dalla legge dell’attrazione, e si dovranno seguire le passioni: saranno dunque ammessi rapporti omosessuali. Fourier diede un’esposizione articolata delle sue tesi su quest’ultima questione in un’opera, rimasta inedita fino al 1967, intitolata Il nuovo mondo amoroso . L’idea generale che serpeggia nel pensiero di Fourier e che ne fonda l’adesione al socialismo (utopistico) é quella secondo la quale l’uguaglianza giuridica (data dal liberalismo) e quella politica (data dalla democrazia) non sono garantite se non é garantita anche l’uguaglianza sociale. E accanto all’uguaglianza sociale auspicata da Fourier troviamo uno spiccato spirito libertario : Fourier é convinto che ognuno debba gestire più liberamente la propria vita. Per quel che riguarda il lavoro , Fourier lo considera non come una condanna, bensì come un valore: tuttavia eseguire per un’intera vita lo stesso lavoro sarebbe tedioso, e quindi il pensatore francese prospetta un’alternanza dei lavori tra gli uomini: il lavoro deve infatti sempre essere un piacere, mai un peso e cambiare di continuo lavoro può essere un modo divertente di lavorare. Questo atteggiamento fourieriano lo si può evincere quando egli propone di usare per fare gli scavi i bambini: essi infatti si divertono sempre a scavare e a sguazzare nel fango e svolgendo tale lavoro potrebbero divertirsi essendo utili.
ROBERT OWEN
Robert Owen (1771-1858) esordì come operaio in un cotonificio. A vent’anni era direttore di una filanda a Manchester. A trenta era comproprietario di una fabbrica tessile a New Lanark e la trasformò in un luogo di produzione modello. A cinquanta riuscì a far passare una legge per la limitazione del lavoro di donne e bambini. A sessanta presiedette il congresso di fondazione della prima unione sindacale generale del mondo. Per tutta la vita si dedicò allo sviluppo del movimento cooperativo operaio. Catalogare Owen tra gli utopisti è certamente una forzatura, ma è certo che egli fu l’ultimo ad inseguire un modello sociale basato sull’idea e sulla morale. Negli Stati Uniti fondò una comunità basata sulla produzione e sul consumo sociale (New Harmony, 1826). La caratteristica principale dell’utopismo di Owen fu la prassi. Prima organizzò gli uomini, poi ne trasse degli insegnamenti e volle dare al tutto una veste di teoria sociale. Egli immaginò che qualcosa si poteva e si doveva fare per superare i problemi della società capitalistica. Cercò di mettere insieme delle forze reali che potessero giungere a risultati pratici. Fornì la prova, evidentemente non da solo ma con l’aiuto di elementi presenti nella società inglese dell’epoca, che la società capitalistica poteva essere superata. La sua sconfitta fu infatti dovuta esclusivamente a tre elementi: all’immaturità della situazione; alla lotta che la società borghese condusse contro di lui; all’impossibilità di legare il movimento sindacale ad un movimento politico rivoluzionario. Owen fu sempre contrario allo scontro di classe pur essendone un prodotto. Quel che ci interessa di Owen è che egli non riesce più a costruire un modello esclusivamente mentale, mentre la critica alla società non gli permette di rimanere al livello della satira. L’Inghilterra della sua epoca esigeva l’azione, mentre nella Germania era in gestazione la teoria e in Francia la politica. Owen capisce benissimo che col plusvalore estorto agli operai si potrebbero superare i problemi dell’indigenza di tutta la popolazione. Sa che è possibile un aumento programmato della produzione agricola e industriale tramite l’utilizzo generalizzato delle macchine. Sa che produzione controllata significa abbondanza e lo sa perché lo ha provato dirigendo una fabbrica di 2.500 operai e offrendo per la prima volta alle loro famiglie un’assistenza sociale. La potenzialità liberatoria che Bacone vedeva nella scienza e nella produzione sociale ancora a venire, per Owen era cosa che si toccava con mano, già realizzata. Occorreva soltanto risolvere il problema della distribuzione dei prodotti e dell’anarchia produttiva. Non sarebbe potuta esistere New Lanark se non fosse stato già sviluppato il lavoro sociale. E la fondazione delle Trade Unions era una conseguenza. Da questo punto di vista la cosa più interessante non fu la realizzazione di New Lanark e di New Harmony ma il loro fallimento. Le prime espressioni della lotta di classe avevano mostrato che la realizzazione delle istanze socialistiche non poteva passare attraverso modelli. Per quanto essi fossero concreti invece che immaginari, erano pur sempre modelli e non potevano rappresentare isole di un nuovo ordine sociale in un mare capitalistico proprio mentre i movimenti proletari abbandonavano il luddismo e le primitive forme per diventare movimenti di massa, anche politici, come il cartismo. Era materialmente inevitabile, per un personaggio coerente come Owen, passare dal fallimento dell’esperienza produttiva e sociale alla lotta di classe e alla fondazione del sindacato generale. Non ci interessa in questo momento sindacare sulla concezione di Owen che vedeva il sindacato come elemento di trasformazione graduale della società. L’importante è annotare come in ogni rivoluzione venga sconfitto l’elemento costruttivo e prenda il sopravvento quello distruttivo. Così dev’essere, anche se agli uomini piacerebbe di più assumere atteggiamenti costruttivi e quindi conservatori. Ma come avviene la distruzione rivoluzionaria che è nello stesso tempo costruzione?
IL PENSIERO
Owen era convinto che “l’uomo è un prodotto dell’ambiente e che mutando l’ambiente si può mutare anche l’uomo”; assertore della possibilità di una più equa gestione dell’industria, egli partì come operaio in gioventù, poi divenne direttore di una filanda e, infine, fu imprenditore. Trasformò il suo cotonificio di New Lanarck in un’azienda modello, pagando – grazie alla maggiore efficienza tecnica – salari di gran lunga superiori alla media, risanando l’ambiente morale degradato della fabbrica e migliorando le condizioni generali di vita. Si trattava di un’utopia che diventava realtà. Tentò anche di fondare una comunità socialista negli Stati Uniti, New Harmony, ma essa fallì miseramente, anche perché – come è noto – negli Stati Uniti il socialismo e il comunismo non riuscirono mai ad attecchire, a scalzare il mito della possibilità di arricchirsi lavorando onestamente. Owen rientra nella schiera di quei socialisti che Marx etichetta come “utopisti”, ossia quei socialisti che a tavolino fanno progetti di società migliori (appunto utopiche) e poi le presentano ai governanti o agli industriali affinchè essi le realizzano; per Marx si tratta di utopia, di un qualcosa di inattuabile, poiché è impossibile convincere chi è al potere: secondo Marx, al contrario, non occorrono utopie da inseguire; bisogna, piuttosto, che la classe operaia imbracci i fucili e abbatta violentemente la classe nemica, che la sfrutta e la tiene schiava. Marx, però, guarda con simpatia ai socialisti utopisti e riconosce che se essi non sono arrivati a teorizzare la rivoluzione, ciò è accaduto perché ai loro tempi la classe operaia non era ancora “in sé e per sé”, ossia non si era ancora completamente formata e non aveva ancora piena coscienza di sé e dei suoi diritti. Il caso di Owen, però, è diverso, tende a sfuggire dall’utopia e a riversarsi sulla realtà, ad un miglioramento reale delle condizioni operaie: egli riesce a dimostrare che, in qualche modo, è possibile gestire il profitto eliminando gli aspetti più barbarici e duri nei confronti degli operai. Riguardo alla struttura della società Owen era contrario all’istituto del matrimonio e alla vita familiare, scostandosi nettamente anche su questo punto dalle idee di Fourier. A ogni coppia convivente, nelle sue comunità, era consentito di allevare un massimo di due figli, fino all’età di tre anni. Dopo tale età i bambini sarebbero stati trasferiti in dormitori comuni, assieme a coloro che, pur non avendo ancora questa età, erano nati in un nucleo familiare che già comprendeva due figli. A parte l’aspetto paradossale di questo progetto, in esso è da vedersi la superiorità che Owen attribuiva a una vita pienamente comunitaria. Sul piano pratico egli dovette subire delle profonde delusioni, che pero’ non incisero sul suo ottimismo circa la bontà intrinseca del sistema. Un primo fallimento di “villaggio della cooperazione” si registro’ negli Stati Uniti, a New Harmony, nell’Indiana, dove egli si era recato nel 1824 per realizzare i suoi progetti. Anche un secondo tentativo non ebbe sorte migliore. Gli scritti di Robert Owen contengono, sotto questo profilo, spunti interessanti che hanno attinenza, direttamente o indirettamente, con il problema della divisione del lavoro.
Natura umana e condizionamenti sociali
L’idea centrale di Owen è che
“è possibile plasmare una comunità, o anche il mondo intero, in mille modi diversi, dal migliore al peggiore, dal più ignorante al più illuminato, mediante l’uso di certi mezzi; questi mezzi in buona misura ricadono sotto il dominio, e il controllo di coloro che hanno una influenza sulle relazioni tra gli uomini”. [1813, Robert Owen]
Owen ritiene infatti che
“l’uomo è il prodotto delle circostanze, e che egli in realtà è, in ogni momento della sua esistenza, esattamente quale lo hanno reso le circostanze in cui si è venuto a trovare, combinate con le sue qualità naturali”. [1820, Robert Owen]
Nonostante questa possibilità di formare per il meglio il carattere degli individui e, attraverso ciò, promuovere il benessere di tutti, Owen ha davanti a sé lo spettacolo di abbrutimento della classe operaia, lo sfruttamento delle donne e dei bambini nelle fabbriche, in sostanza il disfacimento morale e fisico dei lavoratori.
“Nelle nostre fabbriche, che sono tutte più o meno nocive per la salute, si fanno lavorare bambini piccolissimi. Li si condanna a una routine di interminabile e invariabile lavoro al chiuso, in una età in cui il loro tempo dovrebbe essere diviso esclusivamente tra salubri esercizi all’aria aperta ed educazione scolastica. In tal modo … si blocca e si paralizza la loro forza intellettuale, come pure quella fisica, invece di permettere il corretto e naturale sviluppo, mentre ogni cosa intorno a loro cospira a rendere depravato e pericoloso il loro carattere morale”. [1818, Robert Owen]
L’educazione
Per risolvere questa situazione, apportatrice e perpetuatrice di guasti e malessere, Owen propone di estendere a tutti, attraverso un piano nazionale, le pratiche educative che egli, assieme ad altri, aveva promosso nella Contea di Lanark.
L’educazione è esplicitamente vista da Owen come mezzo per il superamento delle barriere di classe:
“con una giudiziosa educazione i bambini di qualsiasi classe possono divenire in breve tempo uomini appartenenti a qualsiasi altra classe”. [1813, Robert Owen]
Produttività dell’istruzione
Ma per fare accettare le sue proposte anche alla classe industriale a cui egli appartiene, Owen deve basarsi non su criteri umanitari, ma su parametri di profitto: e di produttività. Rivolgendosi ai sovrintendenti delle industrie e a tutti coloro che danno lavoro, egli fa vedere l’importanza, di tener conto anche delle macchine viventi che
“possono essere facilmente addestrate e dirette in modo da produrre un notevole aumento dei guadagni pecuniari”. [1813, Robert Owen]
Riferendosi all’esperienza di New Lanark, Owen dice:
“Ho investito molto tempo e capitale in miglioramenti del capitale vivente; e risulta che il tempo e il denaro cosi impiegati nell’industria di New Lanark, anche ora che questi miglioramenti sono ancora in fase di attuazione e che non si può ottenere che la meta dei loro effetti benefici, rendono più del 50% e in breve produrranno profitti pari al 100% del capitale originariamente investito”. [1813, Robert Owen]
Ecco allora che già incomincia a incrinarsi un mito consistente nel credere che vi sia una correlazione positiva tra spossessamento delle facoltà intellettuali e rendimento produttivo.
I rischi dell’istruzione per le classi dominanti
Ma che cosa é che cozza contro questo progetto socialmente vantaggioso per la generalità delle persone? Il motivo lo si può ricavare dallo stesso Owen, estendendo ad altri soggetti le critiche che egli rivolge alla chiesa:
“I dignitari della Chiesa e i loro fedeli hanno capito che, a meno che non sia posto sotto il controllo diretto e sotto l’amministrazione di persone appartenenti alla Chiesa, un sistema nazionale per l’educazione dei poveri minerebbe rapidamente alla radice non solo i loro errori ma anche quelli di ogni altra istituzione ecclesiastica”. [1813, Robert Owen]
E, si può aggiungere, svelerebbe anche gli errori delle attuali leggi che sono state
“poste dai potenti per accrescere la propria autorità, mantenendo gli inferiori in uno stato di soggezione al proprio potere”. [1836-1844, Robert Owen]
Ed e ancor più facile rendersi conto della giustificata presenza di questi timori nella classe dominante, esaminando più dettagliatamente lo schema di analisi e le proposte di Owen.
La divisione del lavoro
“Nel sistema attuale si ha tra le classi lavoratrici la divisione più minuta tra forza mentale e lavoro manuale; gli interessi privati sono sempre in contrasto con il bene pubblico, e in ogni nazione agli uomini si insegna di proposito fin dall’infanzia a credere che il loro benessere è incompatibile con il benessere e la prosperità di altre nazioni”. [1813, Robert Owen]
“Sarà ora chiaro comunque che questa minuta divisione del lavoro e divisione di interessi non rappresenta altro che termini diversi per indicare povertà, ignoranza, sprechi di ogni genere, un conflitto universale all’interno della società, crimine, miseria e una grande debolezza fisica e mentale”. [1813, Robert Owen]
Studio e lavoro
“Per evitare questi mali … ogni bambino riceverà fin dai suoi primi anni di vita una educazione generale che lo preparerà ad adempiere agli scopi propri della società”.
“Istruzione ed educazione vanno concepite come intimamente connesse con le occupazioni offerte dalla comunità”. [1813, Robert Owen]
L’elemento caratterizzante i criteri socio-pedagogici di Owen è appunto questa stretta. compenetrazione tra momento educativo e realtà esterna, tra studio e lavoro.
I bambini dai 5 ai l0 anni
“acquisteranno pratica secondo le loro forze e attitudini in qualcuna delle più facili operazioni degli affari della vita; operazioni che possano procurare loro molta più gioia e contentezza di quanta può derivare dagli inutili giocattoli del vecchio mondo”. [1836-1844, Robert Owen]
In seguito, crescendo, dovranno acquistare
“la conoscenza teorica e pratica delle arti più progredite e più utili alla vita”. [1836-1844, Robert Owen]
Attraverso le varie fasi dell’educazione corrispondenti alle differenti età della vita, si dovrà arrivare a far si che uomini e donne siano
“addestrati ed educati a sapere che cos’è la società, qual è il modo migliore per produrre, conservare e distribuire la ricchezza”. [1836-1844, Robert Owen]
Inoltre
“è necessario che sappiano anche come unire queste varie parti nelle dovute proporzioni in modo da formare un nucleo scientifico di società”.
“E tutti saranno perciò uguali per educazione e condizione e nessuna distinzione artificiale, tranne quella dell’età, sorgerà mai fra loro”. [1836-1844, Robert Owen]
La nuova società
È solo così che si può attuare il rovesciamento della vecchia società e far si che
“tutte le vecchie cose spariscano e tutto si rinnovi”. [1836-1844, Robert Owen]
Allora,
“al posto del malaticcio fabbricante di punte di spillo o di capocchie di chiodo, che come un ebete guarda il suolo o si guarda intorno, senza capire e senza riflettere razionalmente, sorgerebbe una classe lavoratrice piena di attività e di conoscenze utili, di abitudini, di informazioni, modi e tendenze che porrebbero anche chi è ultimo nella scala sociale molto al di sopra dei privilegiati di qualsiasi classe formatasi nelle circostanze offerte da società del passato e da quella attuale”. [1813, Robert Owen]
Secondo Owen, devono essere portati a conoscenza di tutti i principi
“resi semplici, adeguati a tutte le capacità mentali, di organizzazione dell’economia e della società, per cui la stessa categoria di persone che può essere istruita per mandare avanti una qualunque delle cose complicate della vita può facilmente acquisire quella competenza che gli permetta di prendere parte all’amministrazione e alla sovrintendenza di queste nuove aziende”. [1813, Robert Owen]
In questo modo tutti, secondo uno svolgimento che è rapportato unicamente all’età, saranno via via governati e governanti.
Owen dunque concepisce una società che supera fin dall’infanzia le barriere tra manualità e intellettualità, e si struttura in classi di età a cui corrispondono occupazioni differenti svolte via via da tutti gli individui nel corso della loro esistenza. Ma ciò che è importante cogliere, concludendo questa rapida analisi dello schema oweniano, e il posto centrale che egli assegna all’istruzione per la formazione di un “Nuovo Mondo”.
Istruzione che da una parte è ricchezza produttiva nel senso più lato nel termine (abilità materiale e intellettuale, scoperte scientifiche, ecc.); dall’altra è condizione indispensabile per il superamento dell’antitesi tra lavoro manuale e lavoro intellettuale in quanto universalizza le capacità di comprensione del processo direttivo.
PROUDHON
Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) elaborò una forma di socialismo antiborghese e anarchico; nato a Besancon, in un primo tempo lavorò in una tipografia, poi, nel 1840, pubblicò la prima memoria sulla proprietà ( Che cos’é la proprietà? ), dedicata all’Accademia di Besancon che la sconfessò, nel 1841 la seconda memoria, dedicata a Blanqui (che sarà esponente politico del movimento socialista nel governo provvisorio del 1848, sostenitore di una poletica in cui il giacobinismo era commisto al marxismo), e nel 1842 la terza, immediatamente sequestrata. Accusato di attentato alla proprietà privata e alla religione e di incitamento all’odio per i governi, fu assolto; nel 1844 a Parigi entrò in contatto con Bakunin e Marx, con il quale però tuttavia ruppe ben presto i rapporti. Nel 1846 pubblicò il Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria , a cui Marx non tardò a rispondere con la Miseria della filosofia. Nel 1848 Proudhon prese parte alla rivoluzione, fu redattore del giornale “Le Représentant du Peuple” e venne eletto nell’Assemblea costituente, ma l’anno successivo, avendo attaccato Luigi Bonaparte (il futuro Napoleone III), fu condannato a tre lunghi anni di prigione. Nel 1851 pubblicò la Filosofia del progresso e, nel 1859, Sulla giustizia considerata nella rivoluzione e nella Chiesa . Anche quest’opera, forse la sua più importante, fu immediatamente sequestrata ed egli fu di nuovo condannato a tre anni di prigione. Per evitarla si rifugiò a Bruxelles e solo nel 1862 tornò in Francia. Tra i suoi ultimi scritti vanno ricordati La guerra e la pace (1861) e Sul principio federativo (1864). La summa del suo pensiero politico si trova nell’opera “Del Principio Federativo “, pubblicata pochissimi anni prima di morire. In essa definisce il federalismo come teoria dello stato basato sul contratto politico (o di federazione). Afferma che lo stato, per essere coerente con il suo principio, deve equilibrare nella legge l’autorità con la libertà e che questo si ottiene ponendo a perno del loro equilibrio il contratto politico o di federazione fra le persone responsabili. Potrebbe essere questa la “religione civile dell’umanità” per i prossimi secoli. È cosiderato il padre del federalismo integrale. Nella Célébration du Dimanche definì la proprietà privata come l’ultimo dei falsi dèi, in quanto è un ostacolo all’uguaglianza fra gli uomini, cioè alla giustizia. In “Che cos’é la proprietà?” scrive poi la sua famosa frase, apprezzata anche da Marx: “la proprietà privata è un furto!”. In realtà ciò che Proudhon vuole combattere è soltanto la proprietà come mezzo di sfruttamento di altri uomini: i mezzi di produzione e la casa da abitare devono appartenere a chi li adopera, finché li adopera (“la casa è di chi l’abita”, dirà più tardi un famosissimo canto anarchico). Nella sua forma di governo ideale, egli rifiuta la presenza di uno stato perché considerato un’istituzione assurda, finalizzata semplicemente allo sfruttamento del lavoro altrui da parte di alcuni uomini. Egli rifiuta ogni tipo di potere al di sopra dell’individuo, ivi compreso Dio che, in ambito religioso, è esattamente come lo stato in ambito politico e la proprietà in quello economico: istituzioni illegittime finalizzate al controllo degli altri uomini ed al loro sfruttamento.
« L’anarchia è una forma di governo o di costituzione nella quale la coscienza pubblica e privata, formata dallo sviluppo della scienza e del diritto, basta da sola a mantenere l’ordine ed a garantire tutte le libertà. » (Pierre-Joseph Proudhon)
Per altri aspetti fu conservatore, ad esempio si dichiarò favorevole alla sottomissione della donna all’uomo e si scagliò contro le cosiddette perversioni sessuali. Il suo pensiero fu considerato inapplicabile e per questo quello che ipotizzò fu definito “socialismo utopistico” (dal greco “ou + topos”, “che non esiste in alcun luogo”).
ALEXIS DE TOCQUEVILLE
“Non c’è al mondo filosofo tanto eccelso che non creda a una miriade di cose sulla fede di altri, e che non supponga più verità di quante non ne stabilisca. “(La democrazia in America, libro II, parte I, cap.2)
“Vedo chiaramente nell’eguaglianza due tendenze: una che porta la mente umana verso nuove conquiste e l’altra che la ridurrebbe volentieri a non pensare più. Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere. Gli uomini non avrebbero solo scoperto, cosa invece difficile, un nuovo aspetto della servitù… Per me, quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge”. Sono parole di Alexis Clérel de Tocqueville (1805-1859), il saggista francese che conquistò la fama con due opere che, ciascuna nel suo genere, sono rimaste esemplari: “La democrazia in America” , scritta fra il 1832 e il 1840 e tuttora fondamentale per la comprensione dell’ideologia e della vita sociale degli Stati Uniti, e “L’antico regime e la Rivoluzione” , il volume pubblicato nel 1856, che trasformò radicalmente i criteri interpretativi della Rivoluzione francese. Diverse per il soggetto, le due opere principali di Tocqueville sono legate fra loro dalla visione politica dell’autore, che fu un liberale incline alla democrazia e, nello stesso tempo, un critico acuto e profondo dei mali di questa. Il problema dell’equilibrio fra la libertà individuale e il potere democratico (lo Stato di massa, si direbbe oggi), che egli studiò negli Stati Uniti e vide formarsi nell’Europa del suo tempo, è ora il problema di tutto il mondo occidentale. In Italia sono stati tradotti recentemente due libri che hanno acuito nuovamente l’interesse per questo genio della storiografia e della sociologia politica, seppure quest’ultima, ai suoi tempi, non esistesse ancora come scienza a se stante. Sono gli Scritti, note e discorsi politici 1839-1852 (Bollati Boringhieri, con un saggio di Umberto Coldagelli); e la biografia scritta da André Jardin, Alexis de Tocqueville (Jaca Book). Si è così riacceso il dibattito: quasi tutti ormai si dichiarano liberal-democratici e Tocqueville sembra essere il loro antesignano o, meglio, un liberale portato all’estensione dei principi liberali a tutti, quindi incline alla democrazia; ma, nello stesso tempo, Tocqueville è un critico acuto e preveggente dei mali democratici. Il brano riportato in principio d’articolo de La democrazia in America mette a fuoco la posizione di Tocqueville di fronte all’eguaglianza. Questo aristocratico era convinto, a differenza di tanti borghesi liberali, che la Rivoluzione avesse abbattuto il principio della libertà come privilegio di un’altra classe, ma per sancire il diritto di tutti alla stessa dignità umana. Lo Stato non era più concepibile senza libertà né la libertà senza l’eguaglianza. Ma Tocqueville era troppo intelligente per credere all’eguaglianza come realtà di fatto e non come ideale morale e come condizione giuridica; e se comprese che il garantismo oligarchico non esauriva le immense possibilità del liberismo, comprese pure che l’ideale democratico della sovranità conteneva il pericolo della dittatura della maggioranza o, peggio, di una tirannia in nome del popolo, purché questo delegasse il potere, o se lo lasciasse strappare. Andando in America nel 1831, Tocqueville ci vide qualcosa di più che l’America stessa, ci vide l’immagine della democrazia quale si stava formando anche in Europa. Negli Stati Uniti, insieme agli aspetti positivi della democrazia, notò anche, già operanti, i difetti dell’eguaglianza e della sovranità popolare. Il diritto della maggioranza a governare, egli scrive, le dà “un immenso potere di fatto e un potere d’opinione e nulla più, delle contee e degli Stati, dall’indipendenza della magistratura e dalla sua altrettanto grande mobilità” i cui effetti negativi sono l’instabilità governativa, l’onnipotenza dei governi, la scarsa garanzia contro gli abusi (perché l’opinione pubblica forma la maggioranza, il corpo legislativo la rappresenta e il potere esecutivo ne è lo strumento); e anche l’amore per il benessere, l’accentramento del potere, il conformismo: “Non conosco un paese dove regni meno l’indipendenza di spirito e meno autentica libertà di discussione che in America… Il padrone non vi dice più: “pensate come me o morrete”; ma dice: “siete libero di non pensare come me; la vostra vita, i vostri beni, tutto vi resterà, ma da questo istante siete uno straniero fra noi”. Dalla visione dell’America contemporanea dedusse un’agghiacciante ed esatta previsione del mondo futuro: “Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l’unico agente, l’unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?”. Triste e veritiera profezia: l’Europa del Novecento ha conosciuto e conosce queste tirannie, e anche i paesi che si credono liberi ogni giorno sprofondano sempre più nelle sabbie mobili, stranamente allettevoli, del paternalismo autoritario che nasce dalla stessa democrazia. Come non pensare, oggi, ai meschini piaceri della Tv e del fanatismo sportivo? Nell’America del suo tempo, Tocqueville vide che le garanzie contro la “tirannia della maggioranza” erano costituite da diversi fattori. Innanzi tutto, la tradizione protestante-puritana dava all’individuo la certezza del suo valore assoluto come persona, dotata di diritti inalienabili e fonte di ogni rapporto sociale. Questa consapevolezza individualistica era aiutata dal decentramento amministrativo dal moltiplicarsi delle autorità e delle associazioni locali, dall’autonomia dei municautorità sul potere politico: un’autorità costituita dal diritto di dichiarare incostituzionali le leggi, dalla diffusione dello spirito giuridico, dovuta anche all’istituto della giuria estesa agli affari penali, e della giuria estesa agli affari civili, e dalla libertà di stampa, giudicata “infinitamente preziosa”. Ma soprattutto l’esperienza americana l’aveva convinto, contro la tesi dell’Illuminismo, della stretta dipendenza del concetto di libertà dalla “rivoluzione cristiana”: “Dubito che l’uomo – scriveva Tocqueville – possa sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e una libertà politica senza limiti; sono anzi portato a pensare che, se non ha fede, sia condannato a servire e, se è libero, non possa non credere”. Per queste ragioni, l’America presentò a Tocqueville un equilibrio fra la fonte democratica del potere e il suo esercizio liberale, un equilibrio che egli intuì mancante all’Europa, anche per effetto della Rivoluzione francese. Si rivolse quindi allo studio di questa, ed ebbe la conferma di ciò che aveva scritto nell'”Introduzione” e La democrazia in America: la tendenza all’eguaglianza delle condizioni si era manifestata in Europa, e specialmente in Francia, già nel Medio Evo ed era progredita in modo formidabile negli ultimi tempi della monarchia francese. Così, sviluppando ne L’antico regime e la Rivoluzione i concetti espressi in uno studio pubblicato su una rivista inglese nel 1836, Tocqueville, contro tutti gli storici del suo tempo, quali che fossero le loro tendenze, mise in luce per la prima volta che la Rivoluzione non era stata una “catastrofe” radicalmente innovatrice che, operando un capovolgimento del mondo, avesse creato una realtà totalmente nuova: la Rivoluzione fu il logico proseguimento di un’evoluzione in corso da secoli, che tendeva a sostituire uno Stato fondato sull’eguaglianza e amministrato con uniformità dal centro a uno Stato fondato sul privilegio e la cui amministrazione era frazionata fra i feudatari, l’anzianità, la forza, gli stessi successi che la tendenza egualitaria e accentratrice aveva conseguito prima dell’89 spiegano perché questa tendenza prevalesse, durante e dopo la Rivoluzione, sull’orientamento liberale, più recente e meno diffuso. Quindi, anche in Francia, anche in Europa, il problema della democrazia è lo stesso che in America: La sopravvivenza della sua forma liberale è connessa più con l’educazione alla libertà e con le garanzie per l’autonomia dell’individuo che con la difesa della mera eguaglianza. È facile essere eguali nella servitù, più difficile, ma necessario, essere liberi nell’eguaglianza. Sui due volumi sulla “Democrazia in America” gli studiosi del più grande pensatore politico dell’800 (il giudizio è di Aron) da tempo ritengono che si tratti di due opere sostanzialmente diverse: la prima dedicata alla felice congiunzione, oltre Atlantico, della democrazia con il liberalismo; la seconda ai pericoli che uno Stato sociale, caratterizzato dall’eguaglianza delle condizioni, comporta soprattutto sul piano culturale e antropologico. De Sanctis è tra i pochi studiosi italiani che si siano cimentati nel compito di decifrare il mistero Tocqueville. Dietro la limpida scrittura dell’aristocratico francese, infatti, emergono ripensamenti e contraddizioni insiti nell’oggetto stesso della sua ricerca: la democrazia nei suoi rapporti con la rivoluzione, con la tradizione, con le istituzioni, con i costumi. “Soltanto in un’epoca in cui tutto vacilla”, rileva De Sanctis, possiamo comprendere il pathos della democrazia del 1840, la sua prefigurazione di “una società democratica in cui prevale una condizione umana atomizzata dall'”individualismo” ed estraniata dalla politica”. Tocqueville nella Democrazia dei moderni non teme l’anarchia, le grandi passioni collettive, la tirannia della maggioranza ma, al contrario, l’apatia, l’irresponsabilità individuale, la rinuncia alla politica e l’affidamento della res publica a un potere “onnisciente e dirigista”. Di qui il drammatico appello a riscoprire l’arte difficile dell’associazione. Scrive de Tocqueville: “ gli Americani di tutte le età, condizioni e tendenze si associano di continuo. Non soltanto possiedono associazioni commerciali e industriali, di cui tutti fanno parte, ne hanno anche di mille altre specie: religiose, morali, gravi e futili, generali e specifiche, vastissime e ristrette. Gli Americani si associano per fare feste, fondare seminari, costruire alberghi, innalzare chiese, diffondere libri, inviare missionari agli antipodi; creano in questo modo ospedali, prigioni, scuole. Dappertutto, ove alla testa di una nuova istituzione vedete, in Francia, il governo (…), state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione “. Così de Tocqueville, ne “La democrazia in America”, descrive il funzionamento, nella vita sociale, di quel principio che in seguito verrà chiamato “principio di sussidiarietà”. De Tocqueville ripercorre il senso della nascita di una maggioranza: “ la maggioranza è come una giuria incaricata di rappresentare tutta la società e applicare la giustizia che è la società “. E’ molto significativo il richiamo costante al rapporto fra attività di governo con un principio generale di giustizia: “ esiste una legge generale che è stata fatta, o perlomeno adottata, non solo dalla maggioranza di questo o di quel periodo, ma dalla maggioranza di tutti gli uomini. Questa legge è la giustizia “. E l’appello a considerare ” un potere sociale superiore “, che è poi il potere sovrano del popolo. Il richiamo a questo principio fondamentale di ogni forma di governo si apre nella forma democratica a ” qualche ostacolo che possa… dare il tempo per moderare ” il potere della maggioranza. L’ostacolo o opposizione è quindi strumento di “moderazione”, ha uno scopo sociale pari a quello della stessa maggioranza, in sintesi deve specchiarsi anch’esso in quello spirito di giustizia che sovrasta e “governa” tutta la società. L’opposizione è quindi un momento costruttivo della democrazia, perché elimina ogni rischio di tirannide, ma proprio per questa funzione deve affiancare la maggioranza in una forma di garanzia, non di ostilità. Lo strapotere della maggioranza è sempre pericoloso, ma altrettanto è il non armonizzare elementi omogenei: ” quando una società giunge ad avere veramente un governo misto, vale a dire esattamente diviso fra principi contrari, essa entra in rivoluzione o si dissolve “. Il de Tocqueville non ci ha lasciato nessuna indicazione sull’eventualità che sia l’opposizione a essere rappresentativa di una congerie di princìpi contrari e se, così mista, possa svolgere questo ruolo di garanzia della democrazia. E’ certamente un tema su cui riflettere, soprattutto quando una società sta percorrendo una via di mutamenti molto significativi che si propongono in tempi rapidi. Saggezza imporrebbe che le preoccupazioni espresse da de Tocqueville fossero presenti per raggiungere quell’equilibrio così sintetizzato per un buon governo: “ un corpo legislativo composto in modo tale che esso rappresenti la maggioranza senza essere necessariamente schiavo delle sue passioni; un potere esecutivo che abbia una forza propria e un potere giudiziario, indipendente dagli altri due poteri; avrete allora un governo democratico, ma non vi sarà più pericolo di tirannide “.
PASQUALE GALLUPPI
Nato, come Hegel, nel 1770 da nobile famiglia a Tropea, in Calabria, Pasquale Galluppi visse una vita raccolta di studi, lontana dalle vicende politiche del paese. Tuttavia non esitò ad aderire alla causa liberale quando, durante i moti degli anni ’20, abbracciò la riforma costituzionale dello Stato e protestò vivamente, in seguito, contro l’intervento repressivo degli Austriaci. Riaccostatosi nel 1830 alla monarchia borbonica, per via delle speranze che allora accese negli animi l’avvento al trono del giovane Ferdinando II, fu dall’anno successivo titolare della cattedra di logica e di metafisica nell’Università di Napoli. Terminò la propria esistenza nel 1846. Tra i suoi scritti meritano di essere ricordati il “Saggio filosofico sulla critica della conoscenza” (1819-32), gli “Elementi di filosofia” (1820-1826), le “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia relativamente ai princìpi delle conoscenze umane da Cartesio sino a Kant” (1827) e “La filosofia della volontà” (1832-40). Il merito maggiore di Galluppi risiede nell’avere, con gli “Elementi di filosofia” ma, soprattutto, con le “Lettere filosofiche”, introdotto nel nostro paese lo studio e la conoscenza della nuova filosofia europea, soprattutto quella kantiana: le “Lettere filosofiche” furono a ragion veduta definite il primo saggio in Italia di una storia della filosofia moderna, mentre gli “Elementi di filosofia” ebbero una larghissima diffusione nelle scuole. Le sue meditazioni sulla filosofia kantiana, però, di cui larga traccia è nel “Saggio filosofico sulla critica della conoscenza”, non potevano non risolversi anche in influenza di tale filosofia sulla formazione stessa del suo pensiero. E infatti, Galluppi comincia con l’essere, secondo la tradizione culturale ancora dominante ai suoi tempi, in cui vigeva l’empirismo illuministico, in particolare il sensismo formulato da Condillac. Ma ben presto Galluppi se ne discosta, rimproverando al sensismo di approdare, con le sue ultime considerazioni, allo scetticismo: di essere, cioè, un vano gioco di elementi soggettivi, incapace per questo motivo di dare al sapere un fondamento di oggettività. Ecco perché egli oppone a quel sensismo un suo sensismo personale, che è, per così dire, profondamente rivoluzionato nella sua essenza dalla presenza di un’esigenza critica, senza che se ne accorga pienamente. Il processo conoscitivo, osserva Galluppi, non è o non consiste nella pura e semplice sensazione: bensì, bisogna distinguere in esso dalla sensazione una coscienza della sensazione, che è qualcosa di più, almeno in quanto può considerarsi come sensazione della sensazione, ovvero come un senso più potenziato e riflesso. Attraverso questa distinzione, Galluppi si innalza alla distinzione, di sapore kantiano, tra la materia del conoscere, data da mere sensazioni, e la forma del conoscere, propria del soggetto conoscente e consistente nel ricevere sensazioni e nell’ordinarle e rielaborarle secondo leggi sue. Sembra dunque che la riflessione galluppiana slitti verso il kantismo e la sua concezione della sintesi a priori. Senonchè è proprio il valore della sintesi a priori che sfugge a Galluppi: egli è convinto che anche Kant resti, come gli altri sensisti, chiuso nel soggettivismo delle forme del senso e dell’intelletto; e quindi, secondo Galluppi, pure Kant scivola nello scetticismo, alla pari di tutti gli altri sensisti. Per non aver colto il valore della sintesi a priori, Galluppi è, in un certo senso, risospinto su posizioni lockeane; proprio in virtù del suo avvicinamento alle tesi di Locke, egli è indotto a porre la coscienza della sensazione (che per Kant non è più sensazione, ma pensiero) sul piano stesso della pura sensazione, attribuendo questa al senso esterno e quella al senso interno. Gli pare di aver superato per questa via il soggettivismo sia dei sensisti sia di Kant: ma, come abbiamo accennato, la conoscenza che Galluppi ha del pensiero kantiano è ancora imperfetta e risente della limitazione dovuta al fatto che all’epoca l’opera kantiana era in Italia nota solo indirettamente (in esposizioni francesi e in una versione latina). La coscienza che ho di qualunque sensazione, dice Galluppi, è coscienza immediata, a un tempo, del me e dell’altro da me, del non-me. Attraverso le modificazioni che il non-me produce sul me ho, vale a dire, la certezza dell’esistenza di una realtà oggettiva distinta dal soggetto. Ne deriva che conoscere significa analizzare, distinguere dal me le modificazioni che il me ha subito in rapporto con non-me. E, insieme, significa comporre in sintesi, nell’unità del me, del soggetto, l’articolarsi stesso di tali modificazioni. Il conoscere consiste, allora, nel procedimento insieme analitico e sintetico della coscienza: nel senso che condizione di ogni analisi e radice, ad un tempo, di ogni sintesi è, appunto, la coscienza, il me. Ora, le idee fondamentali mediante le quali il soggetto sintetizza le sensazioni che riceve dal mondo esterno, con cui ordina cioè e compone i dati dell’esperienza, sono per Galluppi quattro: sono le idee di sostanza, di causa, di identità e di differenza. Esse, in realtà, adempiono alla medesima funzione cui adempiono, nel criticismo kantiano, le forme a priori (categorie) dell’intelletto, anche se con una rilevante differenza: che per Kant le categorie (anche quelle di sostanza e di causa) sono pure funzioni dell’Io, sono funzioni sintetizzatrici dell’esoerienza meramente ideali, per cui risulta problematico il loro rapporto con la realtà in sé, con la realtà oggettiva delle cose; o, addirittura, si corre il rischio di giungere a negare l’esistenza stessa di tale realtà in sé (come in effetti è avvenuto con gli idealisti). Per Galluppi, invece, sintesi puramente ideali (esclusive cioè del soggetto) sono quelle che la coscienza compie mediante le idee d’identità e di differenza, mentre sintesi reali (ovvero oggettive, tratte immediatamente dai dati stessi dell’esperienza e da essi condizionate) sono quelle che la coscienza compie mediante le idee di sostanza e di causa: e con l’aver riaffermato la validità oggettiva delle idee di causa e di sostanza, Galluppi trova anche agevole riaffermare, in polemica con Kant, le tradizionali prove dell’esistenza di Dio (tratte dalla nozione di causa prima); l’essere mutabile del me, dice Galluppi, non può non rinviare, come a sua causa, all’essere immutabile, che è Dio. ” vi prego di porre attenzione alle seguenti dottrine, da me altrove stabilite: 1) La coscienza è un motivo infallibile de’ nostri giudizj; 2) Questa coscienza ci mostra l’io come una sostanza, ed una sostanza semplice; 3) Il principio: non vi ha effetto senza una causa, ha un valore reale ed assoluto; 4) Da questo principio segue, che l’esistenza di un essere assolutamente necessario, immutabile, e creatore del me, e di tutto il finito, è incontrastabile “. Galluppi fonda la sua dottrina morale sulla coscienza del dovere e sulla consapevolezza della libertà del volere: e in questo non si distacca molto dal Kant della “Critica della ragion pratica”. Attraverso la distinzione tra sintesi reali e sintesi puramente ideali, sembra a Galluppi di aver evitato il soggettivismo in cui è invece, a suo avviso, caduto Kant e di avere, come conseguenza, conferito al sapere un saldo fondamento di oggettività. Ma, in realtà, egli stesso resta nell’ambito del deprecato soggettivismo, perchèle idee di sostanza e di causa non sono, in definitiva, che idee della mente, di cui la validità oggettiva è asserita ma non provata. Questo, almeno, è il rimprovero che gli muoverà ben presto Rosmini, assorbito dalla ricerca di un più saldo fondamento del sapere.
ANTONIO ROSMINI
Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) fu secondogenito di Pier Modesto e di Giovanna dei Conti Formenti di Biacesa del Garda. Della sua nascita, avvenuta il 24 marzo, Rosmini renderà sempre grazie a Dio poiché «Egli la fece coincidere con la vigilia della Beata Maria Vergine Annunziata». Viveva con sua sorella maggiore Margherita, entrata nelle Suore di Canossa, e con suo fratello più piccolo, Giuseppe. Rosmini compì gli studi giuridici e teologici presso l'Università di Padova e ricevette a Chioggia, il 21 aprile 1821 l'ordinazione sacerdotale. Iniziò a mostrare una profonda inclinazione per gli studi filosofici, incoraggiato in tal senso da papa Pio VII. Dal 1826 si trasferì a Milano dove strinse un profondo rapporto d'amicizia con Alessandro Manzoni che di lui ebbe a dire: «è una delle sei o sette intelligenze che più onorano l'umanità». Manzoni assistette Rosmini sul letto di morte, da cui trasse il testamento spirituale "Adorare, Tacere, Gioire". Gli scritti di Antonio Rosmini destarono l'ammirazione, tra gli altri, anche di Giovanni Stefani, Niccolò Tommaseo e Vincenzo Gioberti dei quali pure divenne amico. Nel 1830 fondò al Sacro Monte di Domodossola la congregazione religiosa dell'Istituto della Carità, detta dei "rosminiani". Le Costituzioni della nuova famiglia religiosa, contenute in un libro che curò per tutta la vita, furono approvate da papa Gregorio XVI nel 1839. A Borgomanero svolge la sua attività di insegnamento e di guida spirituale un collegio rosminiano, il "Collegio Rosmini", regolato dalla Congregazione delle Suore della Provvidenza rosminiane. Rosmini portò avanti tesi filosofiche tese a contrastare sia l'illuminismo che il sensismo. Sottolineando l'inalienabilità dei diritti naturali della persona, fra i quali quello della proprietà privata, entrò in polemica con il socialismo ed il comunismo[1], postulando uno Stato il cui intervento fosse ridotto ai minimi termini. Nelle sue teorie il filosofo seguì le concezioni di Sant'Agostino, e di San Tommaso rifacendosi anche a Platone. Gli esordi filosofici di Antonio Rosmini si ricollegano a Pasquale Galluppi, sia pure polemicamente, in quanto Rosmini avverte con ogni chiarezza come risulti insostenibile una posizione di integrale sensismo gnoseologico. La necessità di concepire una funzione ordinatrice dell'esperienza, e a questa precedente, porta Rosmini a guardare con interesse la filosofia di Kant. Tuttavia non è soddisfatto di ciò che lui chiama l'innatismo kantiano, legato ad una pluralità imbarazzante e precaria di categorie. Le quali, d'altra parte, gli sembrano fallire lo scopo di far conoscere il reale quale esso è, per la necessaria introduzione di modifiche soggettive nell'atto stesso del conoscere. Il problema filosofico di Rosmini si configurava perciò come quello di garantire oggettività alla conoscenza. La soluzione non potrà essere trovata, stante il rifiuto della trascendentalità kantiana e dei connessi sviluppi, se non in una ricerca ontologica, in un principio oggettivo di verità, che riesca ad illuminare l'intelligenza in quanto le si proponga con immediata evidenza, universalità ed immutabilità. Questo principio è per Rosmini l'idea dell'essere possibile, che da indeterminato contenuto dell'intelligenza, quale originariamente è, si fa determinato allorché viene applicato ai dati forniti dal senso. Essa precede e informa di sé tutti i giudizi con cui affermiamo che qualche cosa particolare esiste. L'idea dell'essere, dunque, costituisce l'unico contenuto della mente che non abbia origine dai sensi, ed è perciò innata (Nuovo saggio sull'origine delle idee, del 1830). Ma qui i problemi del kantismo, che sembrano superati o almeno messi da parte, si riaffacciano con urgenza. Di fronte al mero ricevere dati, di cui parlava il sensismo, Rosmini ha chiarito che la mente umana nel suo uso conoscitivo formula giudizi, in cui l'idea dell'essere ha funzione di predicato, cioè di categoria, e la sensazione è il soggetto, di cui si predica qualche cosa. Nel giudizio, inoltre, il predicato si determina e la sensazione si certifica. Se questa è la funzione propria del giudicare, ogni concetto non può sussistere che come predicato di un giudizio. Né a questa necessità sembra potersi sottrarre il concetto di essere, che è dato solo nell'attività giudicante, come forma del giudizio. Ma il Rosmini non accetta tale riduzione, ed esclude proprio il predicato di esistenza della funzione del giudizio, continuando ad attribuirgli una natura oggettive e trascendente. È l'essere trascendente che si rivela all'uomo, lo illumina e gli permette di pensare. Accanto a questa ontologia l'etica di Rosmini si sviluppa come etica caritativa (Principio della scienza morale, del 1831). Breve ma intensa la parentesi di Rosmini politico. Seguì papa Pio IX riparato a Gaeta dopo la proclamazione della Repubblica romana, ma la sua formazione attestatasi su ferme posizioni di cattolicesimo liberale era tale per cui fu costretto a ritirarsi sul Lago Maggiore, a Stresa. Tuttavia, quando Pio IX volle istituire dopo il 1849 una Commissione incaricata della preparazione del testo per la definizione del famoso dogma dell'Immacolata Concezione, nonostante ben due sue opere (Le cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale) fossero all'Indice, Rosmini fu chiamato a prendere parte a tale commissione. Continuò a vivere a Stresa, fecondo nel perseguire il perfezionamento del suo sistema di pensiero con opere come Logica 1853 e Psicologia 1855, sino alla morte, avvenuta a 58 anni il 1º luglio 1855. Giovanni Paolo II ha riabilitato la figura di Rosmini annoverandolo nella Lettera Enciclica Fides et ratio, «tra i pensatori più recenti nei quali si realizza un fecondo incontro tra sapere filosofico e Parola di Dio» e concedendo l'introduzione della causa di beatificazione, ormai conclusasi nella sua fase diocesana novarese il 21 marzo 1998. L'appoggio al Rosmini, oltre che da Giovanni Paolo II, non mancò anche dagli altri pontefici. Giovanni XXIII verso la fine della sua esistenza fece il ritiro spirituale sulle rosminiane "Massime di Perfezione Cristiana", assumendole come propria regola di condotta. Anche Paolo VI prestò interesse nel Rosmini: in occasione del 150º anniversario di fondazione dell'Istituto della Carità inviò un messaggio all'allora padre generale, in cui elogiava l'intuizione del Rosmini nel dare un grande peso all missione caritativa già nel nome del nativo istituto religioso, appunto l'Istituto della Carità. Inoltre, Paolo VI tolse il divieto di pubblicazione dell'opera Dalle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Alla morte di Paolo VI il collegio cardinalizio scelse il successore di Pietro nella persona di Albino Luciani, che si laureò in sacra teologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma con una tesi su «L'origine dell'anima umana secondo Antonio Rosmini». E' bene precisare che Luciani era fortemente critico nei riguardi del pensiero rosminiano, solo successivamente cambiò opinione, rivolgendo nei riguardi di Rosmini parole di ammirazione e stima. Il cardinale Joseph Ratzinger, il 18 Maggio 1985 (quando la questione rosminiana era ancora ben accesa), nell'ambito di una serata organizzata dal Centro Culturale di Lugano, disse: "Nel confronto con le parole classiche della fede che sembrano così lontane da noi, anche il presente diventa più ricco di quanto sarebbe se rimanesse chiuso solo in se stesso. Vi sono naturalmente anche tra i teologi ortodossi molti spiriti poco illuminati e molti ripetitori di ciò che è già stato detto. Ma ciò succede ovunque; del resto la letteratura dozzinale è cresciuta in modo particolarmente rapido proprio là dove si è inneggiato più forte alla cosiddetta creatività. Io stesso per lungo tempo avevo l'impressione che i cosiddetti eretici fossero per una lettura più interessante dei teologi della chiesa, almeno nell'epoca moderna. Ma se io ora guardo i grandi e fedeli maestri, da Mohler a Newman a Scheeben, da Rosmini a Guardini, o nel nostro tempo de Lubac, Congar, Balthasar -quanto più attuale è la loro parola rispetto a quella di coloro in cui è scomparso il soggetto comunitario della Chiesa. In loro diventa chiaro anche qualco'saltro: il pluralismo non nasce dal fatto che uno lo cerca, ma proprio dal fatto che uno, con le sue forze e nel suo tempo, non vuole nient'altro che la verità. Per volerla davvero, si esige tuttavia anche che uno non faccia di se stesso il criterio, ma accetti il giudizio più grande, che è dato nella fede della Chiesa, come voce e via della verità. Del resto io penso che vale la stessa regola anche per le nuove grandi correnti della teologia, che oggi sono ricercate: teologa africana, latinoamericana, asiatica, ecc. La grande teologia francese non è nata per il fatto che si voleva fare qualcosa di francese, ma perché non si presumeva di cercare nient'altro che la verità e di esprimerla più adeguatamente possibile. E così questa teologia è diventata anche tanto francese quanto universale. La stessa cosa vale per la grande teologia italiana, tedesca, spagnola. Ciò vale sempre. Solo l'assenza di questa intenzione esplicita è fruttuosa. E di fatto non abbiamo davvero raggiunto la cosa più importante se noi ci siamo convalidati da soli, ci siamo accreditati da soli e ci siamo costruiti un monumento per noi stessi. Abbiamo veramente raggiunto la meta più importante se siamo giunti più vicino alla verità. Essa non è mai noiosa, mai uniforme, perché il nostro spirito non la contempla che in rifrazioni parziali; tuttavia essa è nello stesso tempo la forza che ci unisce. E solo il pluralismo, che è rivolto all'unità, è veramente grande". Il 1º giugno 2007, papa Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto sul miracolo della guarigione di Suor Ludovica Noè, attribuito all'intercessione di Antonio Rosmini. Tra quelli portati dalla postulazione dei padri rosminiani, si è scelto di dare maggiore impluso a quello della Guarigione della suora sopracitata, poiché il medico che la curò, da non credente, passo ad vere fede. Si tratta quindi di un "miracolo nel miracolo". La cerimonia di beatificazione è avvenuta il 18 Novembre 2007 nella città di Novara. La celebrazione è stata officiata dal cardinale José Saraiva Martins, prefetto della congregazione per le Cause dei Santi e concelebrata da circa 400 sacerdoti, rosminiani (tra cui il preposito generale James Flynn e la madre generale Carla Catoretti) e non. Tra questi il cardinale prefetto della Sacra Congregazione per i vescovi Giovanni Battista Re, dal cardinale arcivescovo di Torino Severino Poletto, dal vescovo di Novara, mons. Renato Corti, dall'arcivescovo di Trento, mons. Luigi Bressan, dal vescovo rosminiano mons. Antonio Riboldi e fra gli altri anche da mons. Germano Zaccheo ( scomparso improvvisamente dopo due giorni), vescovo della Diocesi di Casale Monferrato, da mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, dal segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana Giuseppe Betori, da mons. Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato della Città del Vaticano, dal rettore della Pontificia Università Lateranense, mons. Rino Fisichella e dal preposito generale dei barnabiti, padre Giovanni Maria Villa. Tra i numerosissimi fedeli accorsi da diverse parti del mondo per presenziare alla celebrazione, hanno preso parte anche il senatore a vita, Oscar Luigi Scàlfaro, il presidente del Senato, Franco Marini, e il Ministro della Difesa Arturo Parisi. Rosmini è il primo beato della Provincia del Verbano Cusio Ossola. In occasione della beatificazione sono stati moltissimi i quotidiani e periodici italiani e esteri che hanno dedicato articoli, pagine e interi numeri alla figura di Rosmini.
VINCENZO GIOBERTI
La restaurazione non solo della religione in quanto tale, ma della religione cattolica come fulcro della civiltà e della filosofia ad essa connessa fu l'obiettivo perseguito da Vincenzo Gioberti (1801-1852), che a partire dal 1830 aderì con entusiasmo alle idee mazziniane. Nato a Torino, sacerdote e cappellano di corte dal 1826, nel 1833 fu arrestato e costretto ad andare in esilio prima a Parigi e poi a Bruxelles, dove visse insegnando filosofia e storia. Il fallimento dei moti mazziniani in Savoia e in Piemonte, nel 1833, lo indusse a maturare un diverso programma politico, il neoguelfismo, mirante alla costituzione di una confederazione degli stati italiani con a capo il papa. A Bruxelles Gioberti compose i suoi scritti filosofici più importanti: la Teorica del sovrannaturale (1838), l' Introduzione allo studio della filosofia (1840), le Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin (1840), Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (1841 e, in edizione più ampia, 1843), la Lettera sulle dottrine filosofiche e politiche di M. de Lamennais (1841) in francese, Del bello (1841) e Del buono (1843). Nel 1843 pubblicò il suo scritto più celebre, Del primato morale e civile degli italiani, nel quale sono delineati i presupposti teorici del programma politico neoguelfo: Gioberti è convinto, come Mazzini, che l'Italia abbia una missione da portare a termine, ma, a differenza di quanto pensava Mazzini, Gioberti è convinto che questa missione sia di stampo religioso. Accusato dai gesuiti di subordinare la religione ai problemi politici del momento, Gioberti rispose con i Prolegomeni al Primato (1845) e il Gesuita moderno (1846-47). Scoppiati i moti del 1848, tornò in Piemonte, fu eletto deputato e per breve tempo fu a capo del governo piemontese, ma dopo la sconfitta di Novara, nel 1849, tornò a Parigi, dove sarebbe morto poco dopo, lasciando vari inediti, tra i quali la Protologia e la Filosofia della rivelazione . Gioberti fu educato dai padri dell'Oratorio alla prospettiva del sacerdozio e ordinato nel 1825. All'inizio condusse una vita ritirata, ma gradualmente acquisì sempre più interesse negli affari del suo paese e nelle nuove idee politiche come anche nella letteratura del giorno. Parzialmente influenzato da Mazzini, la libertà italiana divenne per lui lo scopo principale nella vita, la sua emancipazione, non solo dai signori stranieri, ma anche da concetti reputati alieni al suo genio e sprezzanti della sua autorità europea. Questa autorità era associata nella sua mente alla supremazia papale, anche se in un modo più romanzato che politico. Si deve ricordare tutto questo quando si considerano quasi tutti i suoi scritti e anche quando si critica la sua posizione, sia in relazione al partito clericale al governo – i gesuiti — che la politica di corte piemontese dopo l'incoronazione di Carlo Alberto nel 1831. Fu perciò notato dal re che lo nominò suo cappellano. La sua popolarità e l’influenza in campo privato, tuttavia, erano ragioni sufficienti per il partito della corona per costringerlo all’esilio; non era uno di loro e non poteva dipendervi. Sapendo questo, si ritirò dal suo incarico nel 1833, ma fu improvvisamente arrestato con l’accusa di complotto e, dopo quattro mesi di carcere, fu bandito senza processo. Gioberti andò prima a Parigi e, un anno dopo, a Bruxelles dove vi restò fino al 1845 per insegnare filosofia e assistere un amico nella direzione di una scuola privata. Nonostante ciò trovò il tempo di scrivere diverse opere di importanza filosofica con particolare riferimento al suo paese e alla sua posizione. Essendo stata dichiarata un'amnistia da Carlo Alberto nel 1846, Gioberti (che era di nuovo a Parigi) divenne libero di tornare in Italia, o meglio, nel Regno di Sardegna, ma si rifiutò di farlo fino alla fine del 1847. Al suo ritorno a Torino il 29 aprile 1848 fu ricevuto con il più grande entusiasmo. Rifiutò la dignità di senatore che Carlo Alberto gli aveva offerto, preferendo rappresentare la sua città natale nella Camera dei Deputati della quale fu presto eletto presidente. Entro la fine dello stesso anno fu formato un nuovo ministero capeggiato da Gioberti, ma con l’incoronazione di Vittorio Emanuele II nel Marzo del 1849 la sua vita attiva giunse alla fine. Per un breve periodo infatti ebbe un posto nel consiglio dei ministri, anche se senza portafoglio, ma un diverbio irriconciliabile non tardò a venire e il suo trasferimento da Torino fu completato da un suo incarico in missione a Parigi, da cui non fece più ritorno. Rifiutò la pensione che gli era stata offerta e ogni promozione ecclesiastica, visse in povertà e passò il resto dei suoi giorni a Bruxelles, dove si trasferì dedicandosi all’ozio letterario. Morì improvvisamente di un colpo apoplettico il 26 ottobre 1852. Gli scritti di Gioberti sono più importanti della sua carriera politica; come le speculazioni di Rosmini-Serbati, contro cui scrisse, sono state definite l’ultima propaggine del pensiero medievale; anche il sistema di Gioberti, conosciuto come ontologismo, più nello specifico nelle sue più importanti opere iniziali, non è connessa con le moderne scuole di pensiero. Mostra un’armonia con la fede cattolica che spinse Victor Cousin a sostenere che la filosofia italiana era ancora fra i lacci della teologia e che Gioberti non era un filosofo. Il metodo per lui è uno strumento sintetico, soggettivo e psicologico. Ricostruisce, come afferma, l’ontologia e comincia con la formula ideale, per cui l’ Ens crea l’esistente ex nihilo. Dio è l’unico ente Ens; tutto il resto sono pure esistenze. Dio è l’origine di tutte le conoscenze umane (chiamate idee), che è una e diciamo che si rispecchia in Dio stesso. È intuita direttamente dalla ragione, ma per essere utile vi si deve riflettere e questo tramite i mezzi del linguaggio. Una conoscenza dell’ente e delle esistenze (concrete, non astratte) e le loro relazioni reciproche, sono necessarie per l’inizio della filosofia. Gioberti è da un certo punto di vista un platonico. Identifica la religione con la civiltà e nel suo trattato Del primato morale e civile degli Italiani giunge alla conclusione che la chiesa è l’asse su cui il benessere della vita umana si fonda. In questo afferma che l’idea della supremazia dell’Italia, apportata dalla restaurazione del papato come dominio morale, è fondata sulla religione sull’opinione pubblica; tale opera sarà la base teorica del neoguelfismo. Nelle sue ultime opere, Rinnovamento e Protologia si dice che abbia spostato il suo campo sull’influenza degli eventi. La sua prima opera, scritta quando aveva 37 anni, aveva una ragione personale per la sua esistenza. Un giovane compagno d’esilio e amico Paolo Pallia, avendo molti dubbi e sfortune per la realtà della rivelazione e della vita futura, lo ispirò alla stesura de La teorica del sovrannaturale (1838). Dopo questa, sono passati in rapida successione dei trattati filosofici. La Teorica è stata seguita dall’Introduzione allo studio della filosofia in tre volumi (1839-1840), dove afferma le ragioni per richiedere un nuovo metodo e una nuova terminologia. Qui riporta la dottrina per cui la religione è la diretta espressione dell’idea in questa vita ed è un unicum con la vera civiltà nella storia. La Civiltà è una tendenza alla perfezione mediata e condizionata, alla quale la religione è il completamento finale se portato a termine. È la fine del secondo ciclo espresso dalla seconda formula, l’ente redime gli esistenti. I saggi (inediti fino al 1846) su materie più leggere e più famose, Del bello e Del buono hanno seguito l’introduzione. Del primato morale e civile degl’Italiani e Prolegomeni sulla stessa e a breve trionfante esposizione dei Gesuiti, Il Gesuita moderno, ha senza dubbio accelerato il trasferimento di ruolo dalle mani religiose a quelle civili. È stata la popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri articoli politici occasionali e dal suo Rinnovamento civile d’Italia, che ha portato Gioberti ad essere acclamato con entusiasmo al ritorno nel suo paese natio. Tutte queste opere sono state perfettamente ortodosse e hanno contribuito ad attirare l’attenzione del clero liberale nel movimento che è sfociato sin dai suoi tempi nell’Unificazione italiana. I Gesuiti, tuttavia, si sono radunati attorno al Papa più fermamente dopo il suo ritorno a Roma e alla fine gli scritti di Gioberti furono messi all’indice. I resti delle sue opere, specialmente La filosofia della rivelazione e la Prolologia danno i suoi punti di vista maturi in molti punti. Tutti gli scritti giobertiani, tra cui quelli lasciati nei manoscritti, sono stati pubblicati da Giuseppe Massari (Torino, 1856-1861). Il Ministero dei beni culturali ha affidato la redazione dell'Edizione nazionale all'Istituto di Studi Filosofici "Enrico Castelli", presso l'Università La Sapienza di Roma.
JOHANN FRIEDRICH HERBART
Johann Friedrich Herbart (Oldenburg, 4 maggio 1776 – Gottinga, 14 agosto 1841) è stato un filosofo tedesco. È il maggior filosofo anti-idealista della Germania dell'idealismo. Con Herbart la linea di continuità dei grandi sistemi speculativi appare spezzata, tanto da suscitare già presso i contemporanei l'impressione di poter finalmente respirare "un'altra aria". Herbart si era cimentato fin dagli esordi con l'idealismo di Fichte, per smascherare il carattere contraddittorio del concetto di "Io" che, ponendo se stesso, diviene nuovamente oggetto dell'Io e porta così all'infinito la scomposizione in serie, senza mai raggiungere uno degli estremi della serie stessa. Per Herbart, l'io fichtiano possiede i tipici connotati di tutti i problemi speculativi, che sono appunto destinati a mettere capo a contraddizioni insolubili. E questo non significa che le contraddizioni possano essere superate per mezzo di un artificio del pensiero qual è costituito dalla dialettica categoriale di Hegel, nei cui confronti Herbart non è meno aspro di quanto lo sia con Fichte. Senza dubbio la contraddizione costituisce il terreno sul quale si innesta la riflessione filosofica in quanto "elaborazione di concetti"; ma il punto dal quale occorre partire è l'analisi dell'esperienza data, muovendo dalla quale si potrà mostrare – in polemica con l'accusa hegeliana a Kant di aver avuto troppa "tenerezza per le cose del mondo" – come "le contraddizioni non possono essere nelle cose, ma soltanto nella nostra insufficiente comprensione di queste". Il continuo richiamo a Kant non significa un ritorno alla filosofia critica. Anche se nel libro "Metafisica Generale" del 1828 Herbart dichiara di essere un "kantiano", lo dice con evidente tono polemico per contestare gli sviluppi idealistici della filosofia romantica. In realtà la rivendicazione dell'autorità dell'esperienza e i meriti riconosciuti a Kant per aver impostato il problema delle 'condizioni di possibilità dell'esperienza' mostrando che la cosa in sé non è conoscibile si coniugano con una decisa messa in questione della teoria della conoscenza kantiana, rivolta a colpirla nel punto "debole" costituita dalle forme a priori dell'intuizione e dall'apparato dei concetti puri dell'intelletto. Herbart, come sfondo delle sue teorie, muove a Kant due critiche. La prima è l'assunzione di 'mitologiche' facoltà dell'anima (la sensibilità, l'intelletto, l'immaginazione, la ragione): a questa concezione kantiana, che fa un passo indietro rispetto a Locke e a Leibniz, occorre invece contrapporre sia l'unità e la semplicità dell'anima sul piano metafisico. In secondo luogo, Herbart ritiene che su un punto cruciale la posizione di Kant vada sostanzialmente corretta: si tratta, cioè, di superare la soggettività delle forme dell'esperienza che Kant fondava nella facoltà conoscitiva e di mettere per contro in luce il carattere dato anche delle forme dell'esperienza. Per Herbart il dato è sempre costituito da ciò che viene percepito e dalla sua forma. Anche ammesso che spazio, tempo, categorie, idee siano le condizioni dell'esperienza che si radicano nell'animo, restano pur sempre da spiegare la determinatezza e la specificità delle singole cose che si manifestano nell'esperienza: perché, ad esempio, percepiamo qui una figura rotonda e là una figura quadrata? E non è dunque legittimo pensare che certe condizioni siano in realtà incluse nel dato? Proprio perché rifiuta l'idea di un'attività spontanea del soggetto che unifica il molteplice, Herbart non vede alcuna giustificazione di qualcosa come una sintesi a priori: la certezza della conoscenza dipende piuttosto dal suo contenuto, da ciò che accade e si dà. Già la teoria kantiana dello spazio e del tempo come forme a priori della sensibilità costituisce pertanto "una dottrina assai falsa", che ne disconosce la natura di forme seriali prodotte sulla base del decorso delle rappresentazioni. Non meno reciso è il giudizio di Herbart sulla teoria kantiana delle categorie, a suo avviso costruita su un illegittimo "salto" dalle forme del giudizio della "vuota logica" ai "concetti metafisici" della conoscenza. Per Herbart, più in particolare, la classificazione kantiana delle categorie richiede di essere disposta in maniera diversa se vuole avanzare qualche pretesa di effettiva connessione; e da questo punto di vista Herbart è persuaso che il gusto architettonico kantiano sia gravido di molti errori, come ad esempio di subordinare la categoria della realtà alla qualità, dal momento che realtà e qualità vanno se mai "collegate" per mostrare nella loro connessione che cosa una cosa sia e che essa sia. Soggetto a critiche è anche il concetto di Io puro kantiano che palesa tutte le contraddizioni di ogni principio assoluto ed è a fondamento dell'artificiosa sistemazione "nelle scatole quadrangolari delle cosiddette categorie". Per Herbart, al contrario, si deve partire dalla determinazione della categoria come indicazione del "conformarsi dell'esperienza ad una regola in base alle leggi del meccanismo psicologico": detto altrimenti, le categorie designano la forma che l'esperienza possiede e pertanto non sono forme del pensiero, bensì oggetti del pensiero. E poiché l'analisi dei concetti metafisici che sono alla base dell'esperienza parte dal concetto generalissimo di cosa e delle proprietà della cosa ne svolge le contraddizioni, illumina i rapporti tra i 'reali' in sé inconoscibili e ai quali rinviano le loro manifestazioni fenomeniche, si ottiene una sistemazione quadripartita delle categorie – ma in realtà lontana da ogni tentazione simmetrica e non esauribile in un elenco fissato una volta per tutte – che è al "servizio" della categoria di cosa. In questa prospettiva Herbart si dichiara molto più vicino ad Aristotele che a Kant e sottolinea come la domanda relativa al sorgere delle categorie debba trovare risposta da parte dell'indagine psicologica sulla "forma seriale" della rappresentazione spaziale, di cui tutte le altre forme (categorie comprese) sono solo "analogie". Herbart inoltre pone l'analisi dei dati dell'esperienza al servizio di una struttura metafisica dell'esperienza, fondata sull'assunzione di enti reali che possiamo cogliere solo nella oro 'traduzione' nel linguaggio delle manifestazioni fenomeniche. Ma il carattere controverso di una simile impostazione metafisica, l'influenza di Herbart sulla discussione filosofica tedesca si farà sentire a lungo: da un lato sarà uno dei grandi ispiratori della psicologia scientifica che si svilupperà nella seconda metà dell'Ottocento e che si servirà largamente del lessico psicologico herbartiano; dall'altro lato la visione genetico-psicologica dell'apparato categoriale costituirà la struttura portante delle indagini sulla "psicologia dei popoli".
JAKOB FRIEDRICH FRIES
A cura di G. Cambiano e M. Mori, "Storia della filosofia contemporanea" (ed. Laterza)
Jakob Friedrich Fries (1773-1844) insegnò a Heidelberg e a Jena. Tra le sue opere più famose ed importanti meritano di essere menzionate: Sistema di filosofia come scienza evidente (1804), Nuova critica della ragione (1807), Sistema di Logica (1811), Manuale di antropologia psichica (1820), Politica, o dottrina filosofica dello Stato (1848, postuma). Fries si propone di opporsi all'idealismosviluppando il pensiero di Kant in direzione diversa e quasi antitetica da quella seguita da Fichte, Schelling ed Hegel, sebbene anche il suo tentativo anti-idealistico non sia del tutto fedele all'insegnamento kantiano. Kant aveva insistito a più riprese sul fatto che la filosofia trascendentale, in quanto analisi delle forme a priori della conoscenza, non aveva nulla a che vedere con una semplice descrizione empirica, e quindi a posteriori, dei meccanismi psicologici dell'uomo. Contraddicendo apertamente questa prescrizione, Fries risolve invece la sua indagine sulle forme della conoscenza in un empirismo psicologistico . La sua " scienza dell'esperienza psicologica " intende infatti fornire, attraverso lo strumento dell' auto-osservazione introspettiva, un'analisi completa dell'esperienza interiore del soggetto, mettendo in evidenza le forme mediante le quali la conoscenza si sviluppa a livello empirico. La filosofia si risolve così nella psicologia, che Fries definisce " antropologia psichica ". Il metodo psicologico è dunque fondato sul principio dell'evidenza , ovvero sul presupposto che tanto i meccanismi psicologici che presiedono alla conoscenza quanto i risultati dei processi conoscitivi siano immediatamente evidenti all'auto-osservazione. Il problema kantiano della validità oggettiva della conoscenza, fondata su strutture trascendentali irriducibili a meccanismi psicologici, è un problema irresolubile per l'uomo. L'unico criterio di verità della conoscenza è l' autofiducia della ragione , che per Fries non è soltanto un principio, ma un fatto: in base ad essa, la ragione è certa di rappresentare gli oggetti e la loro esistenza così come sono. L'ambito della conoscenza, però, si estende (come per Kant) solamente entro i limiti della rappresentazione fenomenica: le essenze ultime delle cose non sono logicamente conoscibili e cadono nel dominio della fede . Solamente con un atto di fede sono attingibili anche le verità eterne, ossia le idee dell'assoluto, della libertà e dell'eternità, che stanno alla base della vita religiosa degli uomini. Proprio a scusa di questo riferimento alla fede come mezzo per afferrare la realtà assoluta, Fries (accanto a Jacobi e a Schelling, che non vengono tuttavia espressamente nominati) è oggetto della sarcastica critica all'intuizionismo che Hegel conduce nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito (1807). Importante è anche il pensiero etico e politico elaborato da Fries: esso è fondato sul principio (pur esso di derivazione kantiana) del valore assoluto della dignità umana : ogni uomo deve sempre e comunque essere considerato come "fine", cioè come un valore in sé, mai solamente come "mezzo". Il principio del valore assoluto della dignità umana è alla base di tutti i doveri morali e politici: la stessa costituzione dello Stato deve essere finalizzata esclusivamente alla sua promozione. Fries raccomanda, come concreti strumenti politici per la realizzazione della dignità umana, l'uguaglianza e la libertà dei cittadini. In virtù di queste sue dottrine marcatamente liberali, Fries venne sospeso dall'insegnamento dalle autorità della Prussia.
TRENDELENBURG
Non è possibile formulare un giudizio di realtà che per soggetto non abbia qualcosa di reale.
Friedrich Adolf Trendelenburg, nato nel 1802, elaborò una filosofia fortemente influenzata dalla sua formazione universitaria. Studiò nelle Università di Kiel, Lipsia e Berlino; si occupò soprattutto della filosofia di Platone e Aristotele, cercando, nel suo Platonis de ideis et numeris doctrina e Aristotele illustrata (1826) di ottenere una più precisa conoscenza del platonismo attraverso la critica aristotelica. Rifiutata l'offerta di una cattedra a Kiel, accettò un impiego, dal 1826 al 1833, di precettore del figlio di un amico del ministro prussiano dell’Istruzione, Altenstein. Pubblicate nel 1833 il De Aristotelis catogoriis e un’edizione critica del De anima di Aristotele, quello stesso anno il ministro Altenstein lo nominò professore straordinario a Berlino, divenendo nel 1837 professore ordinario. Nel 1836 pubblicò gli Elementa logices aristotelicae e nel 1842 le Erläuterungen zu den Elementen der Aristotelischen Logik; nel 1847 divenne membro dell’Accademia prussiana delle scienze di cui fu segretario, nella classe delle scienze storiche, fino al 1871. Insegnò per quasi 40 anni, esaminando anche i candidati insegnanti di filosofia e pedagogia in Prussia. Nel 1865 fu coinvolto in un’acrimoniosa controversia sull’interpretazione kantiana dello spazio con Kuno Fischer, che attaccò nel suo Kuno Fischer e il suo Kant (1869), ottenendone una replica polemica nell'Anti-Trendelenburg (1870) del Fischer. Il figlio Friedrich fu un noto chirurgo. La filosofia del Trendelenburg è condizionata dal suo studio di Platone e Aristotele, nei quali vede i fondatori dell'idealismo; la sua posizione è quella di un moderno interprete aristotelico. Negando la possibilità di un metodo filosofico assoluto, come rivendicato da Hegel, l'opera del Trendelenburg è volta alla dimostrazione della presenza dell'idea nella realtà. Il processo del pensiero è analitico, dalle realtà particolari all'universale nel quale esse hanno la loro spiegazione; anche se si intuisce il sistema del tutto dalle parti conosciute, il processo di ricostruzione rimarrà tuttavia approssimato. Invece di una costante atteggiamento speculativo, sarà nostro dovere rimanere fermi a ciò che può essere considerato il risultato acquisito di uno sviluppo storico. Trendelenburg trovò l'espressione classica di tali risultati nel sistema platonico – aristotelico. Il problema filosofico viene così posto: come il pensiero e l'essere sono uniti nella conoscenza, come il pensiero giunge nell'essere e come l'essere entra nel pensiero? Procedendo secondo il principio secondo il quale il simile può essere solo conosciuto dal simile, Trendelenburg ottiene una dottrina personale, da lui definita organische Weltanschauung, concezione organica del mondo – per quanto basata su Aristotele. Introduce il concetto di movimento costruttivo che unifica essere e pensiero, nel senso che il mondo esterno è oggetto a ogni istante di percezione e pensiero: quest'ultimo produce a priori le forme – il tempo, lo spazio e le categorie delle scienze naturali – ma le produce in concordanza con la realtà e pertanto esse sono insieme soggettive e oggettive. In questo modo Trendelenburg tenta di risolvere il problema della conoscibilità della kantiana cosa in sé. È vero che la materia non può così essere completamente risolta nella conoscenza ma la parte irriducibile può essere tratta, seguendo Aristotele, come astrazione a cui avvicinarsi indefinitamente. I fatti dell'esistenza non sono però spiegati compiutamente in modo meccanicistico. L'interpretazione decisiva dell'universo può trovarsi soltanto nella superiore categoria del fine o causa finale. Qui Trendelenburg trova la linea divisoria tra i sistemi filosofici: da una parte quelli che non ammettono finalità ma cause efficienti, i quali entrano nel gruppo del democritismo; dall'altra la concezione organica o teleologica del mondo, che interpreta le parti con l'idea del tutto e vede nelle cause efficienti il veicolo dei fini ideali. Questa può essere definita in generale un platonismo; un sistema come lo spinozismo, che sembra appartenere a un terzo gruppo, rientra in realtà nel democritismo, ossia essenzialmente in una concezione materialistica. L'ultimo aspetto, derivato dalle vicende della vita umana, attiene al mondo etico, che consiste in sostanza nella realizzazione dei fini. Il diritto naturale di Trendelenburg è il completamento del suo sistema: poiché il compito dell'uomo è attuare l'idea della propria umanità, non astrattamente come Kant, ma nel contesto dello Stato e della storia, il suo pensiero deve tendere a fini che la realizzino. Il diritto è il mezzo col quale si realizza l'esigenza etica: condizione della vita morale, nasce dallo scopo etico. Lo Stato, l'organismo etico in cui l'individuo – uomo in potenza – diviene uomo in atto, è esso stesso l'uomo universale nella forma del popolo.
SCHOPENHAUER
Per non diventare molto infelici il mezzo più sicuro è di non pretendere di essere molto felici.
Arthur Schopenhauer rientra a pieno titolo nel filone di quei pensatori che si pongono in netta rottura con il sistema hegeliano e, insieme a tutti gli avversari del panlogismo di Hegel, tende a far prevalere l'irrazionalità della realtà: per Schopenhauer, come per Kierkegaard, Hegel è l'idolo polemico in antitesi col quale costruire la propria filosofia; diverso sarà, invece, il discorso di Nietzsche, il quale intraprenderà una lotta contro l'intera filosofia occidentale sviluppatasi da duemila anni a questa parte, e il bersaglio su cui si riverseranno le sferzate di Nietzsche sarà non Hegel, ma Platone, il fondatore del pensiero occidentale; ecco perchè, tra l'altro, quella nietzscheana può essere etichettata come "polemica inattuale". Tra i pensatori di questo periodo serpeggia l'aspirazione alla concretezza e, per addurre un esempio significativo, Schopenhauer insiste sul fatto che " l'uomo non è un angelo ", cioè non è puro spirito disincarnato, ma è essenzialmente un corpo e la natura di tale corpo consiste, soprattutto, nella volontà, nei desideri, negli istinti e nelle passioni, quelle cose, cioè, che Freud avrebbe più tardi definito come "pulsioni"; da notare che la rivendicazione che Schopenhauer fa della concretezza (e che trova conferma anche nella celebre espressione di Feuerbach: " l'uomo è ciò che mangia ") è in antitesi all'astrattezza hegeliana, come pure alla ragione, tanto cara ai Positivisti. Schopenhauer ha un periodo di produzione filosofica piuttosto lungo, che nel complesso dura una quarantina d'anni: la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione , risale al 1819 e negli anni a venire continuerà a comporre opere che però non introdurranno notevoli modifiche al suo pensiero. La data di pubblicazione del Mondo è particolarmente significativa perchè si colloca nell'era del dominio del pensiero hegeliano: ed è sintomatico il fatto che le idee di Schopenhauer hanno fatto breccia presso il pubblico solo dopo la morte di Hegel, tant'è che la prima edizione de Il mondo (composta quando Hegel era ancora in vita) andò al macero e Schopenhauer potè fare un'amara constatazione: " Io non ho scritto per gli imbecilli. Per questo il mio pubblico è ristretto " . Si può, tra l'altro, ricordare come Schopenhauer desiderasse tenere le sue lezioni universitarie in contemporanea ad Hegel, ma tuttavia non potè farlo per il semplice motivo che non aveva studenti: tutti, infatti, andavano ad ascoltare con entusiasmo Hegel, non tenendo in alcuna considerazione Schopenhauer, che si ritrovava così perentoriamente a tenere lezione a nessuno. Solo con la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, il pensiero di Schopenhauer cominciò a dilagare e Nietzsche stesso, nelle sue prime opere, si dichiarerà suo seguace; non solo, perfino Wagner rimase incantato dalla filosofia schopenhaueriana ed è importante ricordare l'interpretazione del De Sanctis in cui mette a confronto il pessimismo di Schopenhauer con quello di Leopardi. Sempre a dimostrazione del fatto che il successo di Schopenhauer arrivò solo dopo la morte di Hegel, si può anche ricordare come nel Novecento alcuni pensatori marxisti della "Scuola di Francoforte" opereranno una sintesi tra il pensiero marxista e quello schopenhaueriano; fatta questa carrellata di successi di Schopenhauer, si può in sostanza dire che Il mondo cominciò a riscuotere successo dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, quando comincerà ad essere letto come una valida alternativa all'hegelismo. Infatti, la filosofia di Schopenhauer altro non è se non un tentativo di schierarsi contro Hegel e al fianco di Kant, dando di quest'ultimo un'interpretazione opposta a quella data dall'idealismo. Fino agli anni '50 dell'Ottocento, anche Kierkegaard contribuisce alla lotta contro Hegel, aprendo spiragli verso l'anti-hegelismo ma anche verso le filosofie esistenzialistiche che fioriranno nel Novecento; ma Kierkegaard, ancora più di Schopenhauer, non avrà tempo di assistere al proprio successo perchè lo coglierà una morte prematura. Entrando nel senso del discorso schopenhaueriano, egli si pone in contrapposizione all'interpretazione che di Kant ha dato l'idealismo (i cui tre eroi sono Fichte, Schelling e Hegel, tutti e tre cordialmente odiati da Schopenhauer): se l'interpretazione idealista, infatti, si è limitata ad eliminare quella "cosa in sè" ammessa da Kant ma da lui stesso riconosciuta inconoscibile (seppur ineliminabile), la posizione di Schopenhauer spinge in direzione opposta, in quanto si risolve nel recupero della "cosa in sè" , tanto odiata dagli idealisti. Essa per Schopenhauer non solo esiste (come era in fondo anche per Kant), ma è addirittura attingibile e, dunque, conoscibile; è però bene fare subito una precisazione: una volta conosciuta, la "cosa in sè" non si rivelerà essere il principio della realtà come lo intendevano Hegel e Fichte, ovvero come principio essenzialmente razionale. Al contrario, la "cosa in sè" sarà sì il principio che governa la realtà, ma esulerà da ogni forma di razionalità e, anzi, sarà addirittura una sorta di principio maligno. Ed è per questo che si può essere indotti a leggere il discorso schopenhaueriano come un capovolgimento parodistico del neoplatonismo: dall'Uno deriva la molteplicità delle cose, ma, essendo l'Uno radicalmente negativo, anche ciò che da esso deriva non potrà essere positivo. In maniera analoga, il pensiero di Schopenhauer può essere inteso come stravolgimento speculare di quello di Bruno e di Spinoza: tutto ciò che ci circonda è manifestazione di un'unica realtà, ma quest'ultima è totalmente negativa. Per questa marcata convinzione che la realtà sia governata da un principio negativo, si può parlare di pandemonismo schopenhaueriano, in antitesi con il panlogismo hegeliano. E' curioso il fatto che una volta un editore che doveva pubblicare la Critica della ragion pura di Kant chiese a Schopenhauer un parere su quale delle due edizioni fosse meglio adottare: e il filosofo non esitò minimamente a scegliere la prima versione, poichè in essa la "cosa in sè" ha ancora quello spessore che, con la seconda edizione, Kant aveva sempre più limato. Fatte queste precisazioni, può essere utile, per capire a fondo il pensiero di Schopenhauer, analizzare un'opera precedente al Mondo e, più precisamente, risalente al 1813: Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente . Il principio di ragion sufficiente menzionato nel titolo è quello di matrice leibniziana: principio fondamentale della metafisica, esso prescrive, essenzialmente, che nulla avviene senza un motivo, cosicchè è lecito dire a priori che ogni avvenimento ha una sua motivazione. Schopenhauer riprende tale principio e coglie quelli che, a suo avviso, sono i quattro diversi modi ("quadruplice radice") in cui esso si manifesta: 1) la prima "radice" spiega la dimensione del divenire dei corpi naturali ( principium rationis sufficientis fiendi ) attraverso la connessione tra la causa e l' effetto fisici (necessità fisica); in altri termini, la prima manifestazione del principio di ragion sufficiente è la causalità, per cui, dato un evento, so con certezza che esso deve avere una causa e per questo è detto "del divenire". 2) La seconda spiega il conoscere razionale dell' uomo ( principium rationis sufficientis cognoscendi ) per mezzo della relazione tra antecedente e conseguente (necessità logica): se nella 1° radice si trattava della causalità fisica, ora la causalità in gioco è quella logica. Nel ragionamento concepiamo, cioè, il rapporto tra premessa e conseguenza come nel mondo fisico concepiamo quello tra causa ed effetto. 3) La terza giustifica l' essere ( principium rationis sufficientis essendi ) come definito dai rapporti dello spazio e del tempo, determinando così la concatenazione degli enti aritmetici e geometrici (necessità matematica). Con la terza radice, Schopenhauer interpreta kantianamente lo stesso principio di causa/effetto nella sfera matematica, poichè l'essere è ciò che si definisce nello spazio e nel tempo, i quali, a loro volta, sono i fondamenti della geometria. Tra l'espressione algebrica a sinistra dell'uguale e quella a destra (oppure tra il triangolo e i teoremi che da esso derivano), vige un rapporto analogo a quello causa/effetto del mondo fisico. 4) La quarta, infine, sta alla base dell' agire ( principium rationis sufficientis agendi ), in quanto stabilisce la connessione causale tra l' azione che si compie e i motivi per cui è compiuta (necessità morale). Il rapporto che si instaura tra il motivo di un'azione e la sua conseguenza è analogo a quello che intercorre tra la causa e l'effetto nel mondo fisico, sicchè non esistono azioni umane prive di motivi. Esaminate le 4 radici, si può notare come Schopenhauer dia un'interpretazione di forte sapore kantiano al principio di ragion sufficiente: tale principio, infatti, altro non è se non un nostro modo di conoscere (quasi una categoria kantiana), ossia siamo noi che in esso inquadriamo tutte le nostre conoscenze; il che comporta che, a livello di conoscenza intellettuale, tale principio aprioristico valga anche per la volontà umana (avendo ogni azione un suo motivo, ne consegue che non c'è spazio per il libero arbitrio, poichè ogni azione è rigidamente governata da cause deterministiche) e pertanto si è costretti a giungere alla conclusione che conosciamo tutta quanta la realtà (da quella fisica a quella matematica) in base ad un solo principio. Kant stesso era pervenuto a una concezione simile, ma per lui il livello noumenico delle cose in sè restava inconoscibile, o meglio, se ne poteva avere una sorta di conoscenza pratica (con l'esperienza morale, dove si sceglie liberamente seguendo l'imperativo categorico); ora, nel Mondo , Schopenhauer fa un discorso simile: con la quadruplice radice del principio di ragion sufficiente conosciamo il mondo così come esso ci appare (privo di libertà), ma nulla ci vieta di pensare che al di sotto di questa realtà ve ne sia un'altra in cui vige la libertà. Di questa realtà "nascosta" si può avere conoscenza in parte, come aveva detto Kant, attraverso l'esperienza morale, ma da sola essa non basta. La chiave per risolvere il problema è nel titolo stesso dell'opera: Il mondo come volontà e rappresentazione , diviso in quattro parti, di cui nella prima e nella terza si parla del mondo come rappresentazione, mentre nella seconda e nella quarta del mondo come volontà. Il titolo ci dice che il mondo, per un verso, è una nostra rappresentazione attraverso il principio di ragion sufficiente e, per un altro verso, è volontà; più precisamente, il mondo così come esso ci appare (il mondo come rappresentazione), ce lo rappresentiamo attraverso il principio di ragion sufficiente, mentre il mondo come è in sè è volontà. Certo, anche per Kant si entrava in un certo senso in contatto con il livello noumenico attraverso la "volontà buona", ma la nozione di volontà di Schopenhauer è nettamente diversa. E per comprenderla a fondo è opportuno addentrarsi nel Mondo come volontà e rappresentazione , il cui titolo, come abbiamo già detto, evoca in senso lato Kant: infatti il mondo fenomenico della rappresentazione viene contrapposto fin dalle prime pagine a quello noumenico, il mondo come volontà, il che vuol dire sia che esso viene attinto nell'atto di esprimere la volontà (come era in Kant) sia che la volontà, oltre ad essere strumento per attingere la "cosa in sè", è essa stessa la "cosa in sè". La partizione dell'opera, dicevamo, è in quattro libri: nel primo, viene delineato il mondo così come noi lo conosciamo attraverso le forme a priori della conoscenza (ovvero il principio di ragion sufficiente); nel secondo libro, invece, si vedrà come, al di sotto del mondo così come esso ci appare in prima analisi, esiste un altro mondo, cioè il mondo come effettivamente è e che, scoperto, si rivelerà come volontà. Nel terzo libro, poi, si ritornerà a tratteggiare il mondo come rappresentazione, ma non più come rappresentazione fenomenica, bensì artistica: verrà cioè delineato il mondo così come noi ce lo rappresentiamo esteticamente. Infine, nel quarto libro si torna a parlare della volontà, ma non come volontà affermativa (come era nel secondo libro): al contrario, se ne parlerà in termini negativi, la volontà cioè può volere il proprio annullamento o, in altre parole, può volere di non volere. L'argomento centrale del quarto libro sarà pertanto quella che Schopenhauer designa, con un neologismo, come "noluntas": così come esiste una "voluntas" (di cui si occupa il secondo libro), allo stesso modo c'è anche una "noluntas" (e ad essa è dedicato il quarto ed ultimo libro). Esaminiamo ora, singolarmente, le quattro parti che costituiscono il Mondo : il primo libro è quello che meno si allontana dal kantismo (di cui Schopenhauer si professò sempre seguace ortodosso); la frase che apre l'opera è " il mondo è una mia rappresentazione ", che suona kantiana all'ennesima potenza. Tuttavia si può notare come il significato profondo di tale frase presenti delle notevoli differenze rispetto al pensiero kantiano: infatti, Kant, dichiarando che percepiamo il mondo non come esso è ma come ci appare, non sottolinea l'aspetto di illusorietà del mondo così come ce lo rappresentiamo, ma, al contrario, attraverso la rivoluzione copernicana del pensiero ha fondato l'oggettività della conoscenza. Per Kant, infatti, è vero che percepiamo il mondo non come esso è in sè, ma come ci appare, però è anche vero che il fatto stesso di essere dotati tutti delle stesse categorie conoscitive fa sì che la conoscenza umana sia oggettiva (cioè universale) e dunque valida. In conclusione, quindi, anche per Kant il mondo è una nostra rappresentazione, ma non per questo tale rappresentazione è priva di valore conoscitivo, anzi è l'unica forma di conoscenza che possiamo avere del mondo, dal momento che per Kant la "cosa in sè", pur esistendo, resta inconoscibile. Ma, nel momento in cui Schopenhauer presuppone di poter conoscere la fantomatica "cosa in sè", allora è evidente che la conoscenza fenomenica venga proclamata illusoria, poichè impedisce di vedere il mondo come effettivamente è; parimenti, per Kant la conoscenza fenomenica non era un'illusione, ma anzi era l'unica conoscenza che si poteva avere, poichè con le categorie la "cosa in sè" restava inattingibile . Ed è bene notare come anche il Kant della Dissertazione del 1770 , ammettendo la possibilità della conoscenza della "cosa in sè", non aveva esitato a dichiarare illusoria la conoscenza fenomenica, proprio come, molti secoli prima, Platone aveva preferito, alla conoscenza del mondo sensibile, quella delle idee. Ed è nel secondo libro che Schopenhauer proclama la conoscibilità della "cosa in sè" attraverso la volontà ed è in virtù di questa considerazione che l'espressione " il mondo è una mia rappresentazione " si colorerà di negativo e finirà per suonare: " il mondo è una mia illusione". Schopenhauer cerca di avvalorare il proprio pensiero ripescando filosofi del passato: in particolare, egli si riaggancia a quella sfilza di pensatori che, nel mondo occidentale, rappresentano una specie di filo rosso minoritario e pessimistico. Infatti, se per lo più la filosofia occidentale è stata ottimistica ("l'essere e il bene sono interscambiabili" dicevano i filosofi medioevali), è anche vero che vi sono stati pensatori che si sono distinti per un marcato pessimismo e Schopenhauer ha soprattutto in mente, oltre al Platone della Diade, Anassimandro ("il venire alla luce è un peccato originale"), gli Orfici (il corpo tomba e prigione dell'anima), alcuni Neoplatonici (la decadenza dall'Uno verso il basso), e il misticismo cristiano (che trova in Jacopone da Todi il suo eroe) con il suo disprezzo per il mondo. Ma Schopenhauer si richiama anche alla letteratura ( " il peggior delitto dell'uomo è essere nato scrive in La vita è sogno , riprendendo la letteratura di Calderòn de la Barca) e, sull'onda dell'entusiasmo romantico per l'esoticismo, al mondo orientale, specialmente indiano; ma, nonostante il recupero del pensiero indiano, Schopenhauer è a tutti gli effetti un interprete dell'Occidente, poichè il suo pensiero matura nell'ambito della tradizione occidentale e i riferimenti alla cultura orientale gli servono solo per riscontrare analogie con il proprio pensiero. Ed è da queste civiltà tanto distanti dall'Occidente (e cordialmente detestate da Hegel) che Schopenhauer desume due concetti basilari nella sua filosofia: il Nirvana e il velo di Maya. Il velo di Maya è il velo dell'illusione: il pensiero orientale ha sostenuto che la nostra visione del mondo è ottenebrata da una sorta di velo che bisogna stracciare per poter così acquisire una prospettiva che non ci inganni. Ora, per Schopenhauer il mondo fenomenico altro non è se non un velo che deve a tutti i costi essere stracciato poichè impedisce di cogliere la realtà così come essa è effettivamente. Tale mondo fenomenico ha, kantianamente, le sue due forme sensibili a priori (spazio e tempo) e la sua forma a priori dell'intelletto (non più le 12 categorie, ma esclusivamente la causalità, come già si era prospettato nella Quadruplice radice): la ragione, però, non è più (com'era in Kant) la facoltà con cui si tendeva all'infinito, ma è semplicemente la facoltà di astrazione mediata dal linguaggio. Dunque, se la sensibilità e l'intellettività si giocano, rispettivamente, su spazio e tempo e sulla causalità, la ragione, dal canto suo, lavora sull'astratto attraverso il linguaggio; il che comporta un assottigliamento della distinzione tra uomo e animali. Infatti, per Schopenhauer, gli animali, oltre a percepire le cose nello spazio e nel tempo, sono anche in grado di cogliere i rapporti di causalità e dunque hanno un intelletto; ciò di cui sono sprovvisti è la ragione, in assenza della quale non possono pensare per concetti generali. Sul perchè gli animali non siano in grado di formulare astrazioni attraverso la ragione, Schopenhauer spiega che è il fatto stesso che essi siano privi di linguaggio che impedisce loro di ragionare per astrazioni; è proprio nel linguaggio, infatti, che si esprime l'universalità della ragione, e, non a caso, in esso troviamo per lo più nomi comuni, con i quali operiamo le astrazioni. Attraverso l'uso dei concetti elaborati con la ragione, l'uomo costruisce la scienza e la filosofia: ed è significativo il fatto che Schopenhauer non riconosca alcun valore conoscitivo alla scienza (accostandosi in questo modo alle future considerazioni epistemologiche del Novecento). Tuttavia, la scienza non è completamente inutile: infatti, pur non potendo essere d'aiuto nel processo conoscitivo, essa ha una grande importanza a livello pratico, dal momento che, essendo costruita sul mondo fenomenico (ed è per questo che non può aiutarmi a conoscere la "cosa in sè") mi permette di dominare tale mondo nella vita pratica. Nel secondo libro del Mondo , affiora il tema della volontà, di cui già abbiamo fatto alcune anticipazioni. Come nel primo libro, si parte da un discorso di forte sapore kantiano: il mondo, dice Schopenhauer, è una mia rappresentazione ma in essa rientra anche il soggetto conoscente; il che vale a dire che ciascuno di noi si percepisce fenomenicamente (e quindi illusoriamente), non come effettivamente è in sè. Tuttavia Schopenhauer prende subito le distanze da questo discorso (che troviamo quasi uguale in Kant) facendo notare che tra tutte le rappresentazioni possibili ve n'è una particolare e privilegiata ed è il nostro corpo, poichè, da un lato, lo percepiamo fenomenicamente in modo analogo a tutte le altre cose, ma dall'altro lato lo viviamo dall'interno in maniera assolutamente immediata, con una specie di autointuizione che ce lo fa conoscere noumenicamente. Infatti, percepiamo senza mediazione alcuna il piacere, il dolore e i desideri poichè li viviamo in maniera direttissima e ciò ci consente di scavalcare il mondo fenomenico e di entrare in contatto con la "cosa in sè", che ci si manifesta sotto forma di volontà. Il mondo, infatti, è, kantianamente, una rappresentazione ma attraverso il corpo ci è concesso di attingere la "cosa in sè" e la percepiamo come volontà, sicchè non è scorretto affermare che per noi la cosa in sè è volontà . E l'esperienza del volere è per Schopenhauer (come per il Kant della "volontà buona") il luogo in cui si entra in contatto con la cosa in sè, la quale, però, non è, com'era per Kant, un postulato della ragion pratica confinato all'esperienza morale (per Kant potevo dire di essere libero noumenicamente ma a livello fenomenico dovevo continuare a riconoscermi "servo"); Schopenhauer, invece, intorno alla "cosa in sè" costruisce la propria filosofia, che viene dunque a delinearsi come un tentativo di descrivere quella cosa in sè per Kant inconoscibile sul piano teoretico. Ed è per questo motivo che la filosofia di Schopenhauer si colloca a metà strada tra l'arte e la scienza: infatti, come l'arte, si fonda su un'intuizione profonda della realtà e ad essa dà quella veste razionale tipica della scienza; con questo, non si vuol dire che la filosofia è una sorta di scienza debole, poichè, al contrario, la scienza è per Schopenhauer addirittura inferiore all'arte, visto che quest'ultima, pur non essendo in grado di razionalizzare, sa comunque cogliere intuitivamente l'essenza profonda della realtà. La filosofia dunque è superiore alla scienza perchè, a differenza di essa, sa cogliere la "cosa in sè", ma è anche superiore all'arte perchè, oltre a cogliere la "cosa in sè", le dà una veste razionale. Ne consegue che per Schopenhauer, a differenza di Kant, si può costruire una metafisica (ed è ciò che egli fa nel Mondo ); ma non solo, emerge anche che, se per il pensatore di Königsberg la volontà era libera nella misura in cui era razionale (cioè in grado di obbedire alla legge morale) con la conseguenza che gli animali, in assenza della ragione, non erano liberi, per Schopenhauer invece la volontà esula da ogni forma di razionalità ed è sinonimo di desiderio e di impulso istintivo. Si tratta pertanto di una volontà irrazionale , che non consiste nel seguire la legge morale dettata dalla ragione, ma piuttosto nel desiderare cibo e bevande; e per questo è corretto affermare che il corpo, più che avere desideri ed impulsi, è lui stesso la somma degli impulsi e dei desideri, quasi come se esistesse in forma di concretizzazione dei medesimi. La volontà, in un certo senso, può essere letta come una sorta di desiderio mediato, poichè quando si vuole qualcosa è un modo mediato dall'intelletto per soddisfare i desideri irrazionali del corpo. Si può anche notare come il discorso di Schopenhauer rievochi fortemente quello di Cartesio: come il filosofo francese, dopo aver messo ogni cosa in dubbio, trovava una certezza (penso, dunque sono) nell'ambito della coscienza, in modo analogo Schopenhauer mette in forse il mondo intero e per agganciare la cosa in sè ricorre all'autointuizione dell'Io, anche se l'Io in questione non è più il mero pensiero Cartesiano (res cogitans), ma è piuttosto un "desidero, dunque sono", poichè capisco di esistere nel momento in cui entro in contatto con i miei desideri. E come Cartesio, del resto, Schopenhauer prova a fornire una chiave di lettura dell'intera realtà con questo ragionamento: io che mi sono colto metafisicamente diverso da come mi concepivo a livello fenomenico, posso tranquillamente pensare che tutti gli altri miei simili, che fenomenicamente mi sono uguali, lo siano anche sul piano noumenico, ovvero saranno anche loro (come me) volontà. Dopo di che, Schopenhauer (e qui sta il passaggio fondamentale) estende il discorso all'intero universo: dal momento che la mia essenza noumenica come volontà, nascosta da quella fenomenica, è uguale a quella di tutti gli altri uomini poichè sono a me simili, posso anche dire che gli animali, le piante e gli oggetti mi sono in qualche modo simili e che dunque, sotto il velo dell'apparenza, anche la loro essenza profonda è volontà, cosicchè tutto il mondo è volontà . Con questa considerazione Schopenhauer può riprendere le riflessioni ilozoistiche fatte dai Presocratici, dai Rinascimentali (Bruno in primis) e da Hegel stesso (la cui idea di "spirito del mondo" implica che l'intera realtà sia spirito nella sua essenza); però la grande novità è che, come vedremo meglio più avanti, questa volontà che permea il mondo dal suo interno è radicalmente negativa. Fatte queste puntualizzazioni, è bene ricordare come Schopenhauer cerchi di stroncare subito possibili fraintendimenti della sua filosofia: quando egli dice che la volontà che ognuno scopre in sè è uguale in tutto il mondo, non intende dire che gli oggetti inanimati hanno un qualcosa di analogo in tutto e per tutto alla mia volontà; il fatto è che, dice Schopenhauer, in assenza di una parola che possa designare questo principio che governa l'intera realtà, non resta che usare il nome della parte per nominare il tutto; vale a dire che quel principio, che nell'uomo si manifesta come volontà, lo chiameremo in generale "volontà" per indicarlo tanto negli animali quanto nelle cose, pur sapendo che non è la stessa cosa. Perciò anche gli animali, nel momento in cui tendono al cibo, hanno volontà e anche le piante quando si protendono per captare i raggi solari; perfino le cose quando, lasciate, cadono al suolo, rivelano una volontà. Il succo del discorso è che la volontà, principio negativo che permea la realtà, è una sola ed è la stessa e si estrinseca in modi diversi : ogni singolo fenomeno della realtà ne è una manifestazione particolare. Sorge spontaneo chiedersi come Schopenhauer possa affermare che la volontà è una sola: e il filosofo risponde introducendo quello che, nella filosofia aristotelica, è noto con il nome di "principio di individuazione". A far sì che una cosa sia se stessa e non le altre sono lo spazio, il tempo e i rapporti di causalità: posso infatti dire che il libro posato sul tavolo è se stesso poichè è in un tempo e in uno spazio diversi da quelli delle altre cose. Questo processo con cui l'intelletto inquadra nel tempo e nello spazio la realtà fenomenica non può valere per la realtà noumenica, in quanto essa è al di là dello spazio e del tempo, come già aveva fatto notare Platone (l'idea di cavallo, diceva, è una sola perchè il tempo e lo spazio non possono individuarla). Ne consegue che se la realtà fenomenica è molteplice, quella noumenica, invece, è unica e dunque, entrando in contatto dentro di me con la volontà, sono autorizzato a dire che essa (che costituisce la "cosa in sè") è una sola e si manifesta nell'illusoria molteplicità che caratterizza il mondo fenomenico. Ma tale volontà, oltre ad essere una, è anche irrazionale: e con quest'affermazione Schopenhauer capovolge l'atteggiamento tipico della filosofia occidentale, atteggiamento che trova la sua massima espressione in Hegel e nella sua convinzione che la ragione costituisca l'essenza profonda della realtà, per cui gli elementi irrazionali altro non sarebbero se non manifestazioni indirette e accidentali della razionalità stessa. Per Schopenhauer è l'esatto opposto: l'essenza profonda della realtà è irrazionale e gli elementi di razionalità che ci sembra di poter cogliere non sono null'altro che manifestazioni esteriori. La volontà sfugge ad ogni razionalità, poichè non vuole nulla che sia riconducibile alla ragione: vuole semplicemente vivere, esistere, e per far ciò cerca di utilizzare tutti gli strumenti possibili, tra cui l'intelletto e la ragione. In altri termini, gli istinti e gli organi di un animale sono espressione della volontà di vivere: le zanne e gli artigli delle tigri sono gli strumenti che la volontà usa nella tigre per esistere. E questa stessa volontà si manifesta diversamente a seconda dell'individuo in questione: nell'uomo, ad esempio, si manifesta nelle facoltà razionali, per cui ragione e intelletto sono gli strumenti da essa adottati per esistere. Il che significa che la natura profonda della realtà è una volontà priva di ragione e di scopi razionali ma che per poter sopravvivere, nell'uomo, si dota della razionalità. Da questa riflessione scaturisce un'altra importante considerazione: dal momento che solo razionalmente ci si possono porre degli obiettivi (ed è così appunto che la volontà si struttura nell'uomo), ne consegue che la volontà, irrazionale e quindi priva di obiettivi, non può mai essere soddisfatta , e si configura pertanto come un continuo tentativo di affermarsi, tentativo presente anche nell'uomo, il quale si pone degli obiettivi razionali ma, non appena li realizza, è preso dal desiderio di realizzarne di nuovi, quasi come se dietro questi obiettivi razionali si camuffasse la volontà irrazionale. E le riflessioni di Schopenhauer vengono a incrociarsi con quelle del suo contemporaneo Leopardi: per entrambi la vita umana (in Leopardi) e la vita universale (in Schopenhauer) è una continua altalena fra la noia e il dolore ; finchè non si è raggiunto l'obiettivo desiderato si soffre, quando lo si è raggiunto ci si annoia e ci si pone pertanto dei nuovi obiettivi. Occorre però fare una precisazione, poichè altrimenti non si spiega come la volontà sia una ma l'intelletto la veda molteplice: dobbiamo tener presente che l'intelletto stesso è, come ogni altra cosa, una manifestazione della volontà ed è, più precisamente, la volontà che grazie ad esso si illude, quasi come se vivesse uno sdoppiamento di personalità. In altri termini, il fatto che l'intelletto frammenti la volontà fa sì che, in un certo senso, la volontà sia per davvero frammentata e finisca per riconoscersi solo nelle sue manifestazioni, quasi come se si scordasse di essere un tutto; ne consegue che ciascuna manifestazione della volontà, non riuscendo a capire di essere solo una parte della volontà stessa, riconosce solo se stessa come volontà, mentre vede tutte le altre cose come strumenti per sopravvivere, non come altre manifestazioni della stessa volontà. La volontà, infatti, cerca di esistere in ogni singola manifestazione (dall'uomo alla pietra) e per vivere la volontà, ingannata dall'intelletto, lo fa a danno di tutte le altre manifestazioni, cosicchè ogni manifestazione danneggia le altre per il solo fatto di essere venuta al mondo; infatti, per affermarsi, ogni ente lotta e aggredisce tutti gli altri ( " gli amici si dicono sinceri, ma in realtà sinceri sono i nemici ") Da qui scaturisce il pessimismo schopenhaueriano, che affonda le sue radici nell'idea che la volontà è profondamente sofferente (e questo vuol dire che l'intero universo è sofferente) poichè non ha un obiettivo e si manifesta in tanti modi diversi che altro non sono se non illusioni. Si potrebbe uscire dalla condizione di dolore se si pensasse che la volontà è insita solo negli uomini e negli animali: basterebbe essere vegetariani; ma, poichè la volontà investe ogni realtà, anche chi mangia solo ortaggi è in lotta con la volontà. Ecco dunque che diventa drammaticamente cosmica quella guerra di tutti contro tutti prospettata da Hobbes: il mondo è una lotta di tutto contro tutto, e la vita stessa di un uomo è una specie di lotta per tenere insieme tutti i "pezzi". Si può dunque affermare che la volontà è cannibalica , poichè anche il leone che mangia la gazzella, in realtà, essendo una sola la volontà, sta mordendo se stesso. Nemmeno con il suicidio si può uscire da questa situazione di dolore: eliminare noi stessi come manifestazione della volontà altro non è se non ritornare alla volontà, sicchè il suicidio non è una rinuncia alla volontà, ma ne è anzi un'affermazione più potente. Chi si suicida, infatti, lo fa perchè è come se volesse qualcosa di diverso. In virtù di queste considerazioni, Schopenhauer può credere alla metempsicosi: ogni volta che si muore, subito si rinasce e la rinascita è una condanna, giacchè la cosa migliore sarebbe poter uscire dal circolo della volontà. La via d'uscita da questa situazione, dice Schopenhauer, consiste in un percorso di conoscenza che mi faccia capire che ciò che mi sembra altro rispetto a me in realtà non lo è; in fin dei conti, già quando tiro fuori di tasca una moneta per aiutare un bisognoso è come se provassi un senso di compassione, è come se capissi che chi soffre non è radicalmente diverso da me. Ecco perchè c'è stato chi ha sostenuto che il discorso di Schopenhauer è una "Gnosi moderna", poichè la salvezza deriva da una conoscenza dell'identità tra noi e tutto il resto. In altre parole, per Schopenhauer, se il mondo è un inferno in cui ciascuno è diavolo e dannato, ovvero soffre e fa soffrire, allora bisogna acquisire la convinzione dell'unità del tutto, presente nelle pratiche dei monaci buddhisti: essi, infatti, mettono gli uomini di fronte agli oggetti e li invitano a ripetere "questo sono io". Sempre mutuando riflessioni dal buddhismo, Schopenhauer dice che tre sono le cose da conoscere: 1) la sofferenza, 2) la causa della sofferenza, 3) le vie per uscirne. Egli afferma che l'umanità è esteticamente una serie di caricature, gnoseologicamente una banda di cretini e moralmente una banda di delinquenti. Dopo aver tratteggiato la sofferenza e le sue cause, resta ora da descrivere la via per uscirne: non può essere il suicidio, nè il vegetarianesimo e neanche la politica. Quest'ultima, infatti, non si occupa della condizione umana nello specifico, ma cerca solo di dare momentanei sollievi ed è per questo accostata da Schopenhauer alla Firenze di Dante, che, alla stregua di un malato sdraiato nel letto, cerca sollievo nel cambiar posizione: " … vedrai te somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in sulle piume, / ma con dar volta suo dolore scherma " (Purgatorio, canto VI). Così si spiega perchè Schopenhauer non nutrì mai grandi interessi per la politica (collocandosi però su posizioni conservatrici) e guardò sempre con sospetto il movimento socialista che stava allora nascendo. A questo punto si entra nel terzo libro del Mondo , in cui si delinea una nuova forma di rappresentazione del mondo: l'estetica. Schopenhauer risulta, in quest'ambito, particolarmente influenzato dal pensiero di Platone e dalla sua dottrina delle idee. L'esperienza estetica, infatti, nasce, secondo Schopenhauer, da una contemplazione delle idee che ciascuno di noi può avere , sicchè l'artista come l'uomo comune possono ugualmente contemplare l'idea del bello, che (come aveva sottolineato Platone) tende a filtrare più di tutte nel mondo sensibile, con la differenza quantitativa, però, che l'artista riesce a restare in tale contemplazione per più tempo. L'esperienza artistica è, infatti, momentanea, si protrae per pochissimo tempo e l'abilità dell'artista sta proprio nel farla durare più a lungo, in modo tale da poter fissare in termini sensibili l'oggetto di tale breve contemplazione: l'artista, dunque, con l'opera d'arte rende tutti gli uomini partecipi della sua contemplazione extrasensibile e li facilita a provare anch'essi tale esperienza. Ci troviamo di fronte ad un apparente paradosso, dal momento che da un lato Platone condannava l'arte e dall'altro lato in molti (tra cui Schopenhauer) si sono artisticamente ispirati a lui: il problema si risolve facilmente se teniamo conto delle modifiche apportate alla dottrina platonica da Plotino e dai suoi successori. Il limite dell'arte, secondo Platone, risiedeva nel fatto che essa non è imitazione dell'idea, ma del mondo sensibile (che dell'idea è pallida copia), cosicchè l'opera d'arte è copia di una copia; ma in realtà, è stato obiettato (da Hegel in primis), nell'opera d'arte si cala sensibilmente l'idea e non il mondo sensibile, non si imita cioè ciò che empiricamente ci sta di fronte, ma l'idea stessa di ciò che ci sta di fronte, per cui si scavalca definitivamente la sensibilità: ecco perchè per Hegel l'arte era rappresentazione sensibile dello Spirito. In effetti, una sorta di paradosso era già insito nella filosofia di Platone: egli infatti condannava l'arte e poi, soprattutto nel Fedro e nel Simposio, sottolineava come l'esperienza del bello fosse una specie di scorciatoia per giungere al mondo delle idee. Schopenhauer, dal canto suo, concepisce l'opera d'arte come rappresentazione dell'idea e non del mondo sensibile, accostandosi in questo modo ad Hegel e distanziandosi da Platone: resta ora da capire che cosa si debba intendere per "idea". Come abbiamo appreso, la realtà profonda è volontà e ciò che ci circonda ne è una manifestazione illusoria; e questa concezione schopenhaueriana secondo la quale, accanto ad una realtà profonda tendenzialmente unitaria, vi sia una realtà molteplice ed illusoria sa molto di platonico, pur essendo negativo il principio posto al vertice. Tuttavia, se per Platone la realtà era una piramide al cui vertice stava l'idea del Bene e più si scendeva e più la realtà tendeva a frantumarsi, per Scopenhauer, invece, al vertice della realtà c'è la volontà unitaria, alla base c'è la moltiplicazione indefinita e illusoria della volontà e a metà strada c'è una moltiplicazione parziale costituita dal mondo delle idee : infatti, a distinguere l'unica idea di cavallo dalla miriade di cavalli sensibili è che solo questi ultimi sono concretamente calati nello spazio, nel tempo e nei rapporti di causalità: ovvero, detto un pò banalmente, i cavalli sensibili sono tanti (mentre l'idea di cavallo è una) perchè esistono in tempi diversi, in luoghi diversi e in rapporti causali diversi. In altri termini, la volontà si oggettiva su due livelli differenti: ad un primo livello si oggettiva nelle idee (che Schopenhauer definisce " oggettità "), nel secondo livello si oggettiva nel mondo sensibile. Il discorso schopenhaueriano è talmente affine a quello platonico da farci presagire che, in fin dei conti, la volontà non può essere così malvagia intrinsecamente; più nello specifico, poi, ci aiuta a capire perchè l'esperienza estetica sia un primo modo per sfuggire al dominio della volontà e della sua sofferenza. L'esperienza estetica, infatti, diceva Kant, è caratterizzata dal fatto di essere disinteressata, per cui se vediamo una rappresentazione estetica del cibo possiamo provarne un piacere disinteressato, ovvero non legato al fatto che il cibo esista effettivamente e io possa nutrirmene. Schopenhauer concorda con Kant sul fatto che sia disinteressato, ma reinterpreta il tutto con categorie platoniche: quando contemplo il cibo nella misura in cui posso nutrirmene, bado all'esistenza effettiva del cibo stesso, ovvero contemplo la cosa empirica; quando invece contemplo il cibo in sè, indipendentemente dal fatto che essa esista e possa soddisfare il mio appetito, contemplo platonicamente l'idea. Ne consegue che nel secondo caso per Schopenhauer il piacere estetico è disinteressato perchè contemplo la cosa non nella sua esistenza, ma nella sua idealità , fuori dal tempo, dallo spazio e dai legami di causalità. E il cibo "empirico", invece, posso mangiarlo proprio perchè è calato in essi e solo di esso posso avere un desiderio, una volontà, ovvero un piacere interessato. Con le idee, dunque, ci si limita a contemplare e a provare piacere in modo disinteressato: e, nota Schopenhauer, il rapporto interessato col mondo non fa altro che generare di continuo desiderio e volontà, calandoci in continuazione nel ciclo della sofferenza (volere di continuo e senza scopo) da cui non si può uscire orientando la volontà su una cosa anzichè su un'altra o suicidandosi. L'unica cosa da fare per uscirne è annullare la volontà, ovvero trasformarla in nolontà (volontà capovolta) e per far ciò occorre trasformare quelle cose che ci fanno muovere come oggetti di desiderio (i "motivi") in "quietivi": tali quietivi servono appunto ad annullare la volontà e uno di essi è l'esperienza artistica, che ci consente di guardare alle cose non come a oggetti di volontà, ma ci fa diventare un primo "occhio sul mondo", ci fa cioè assumere un atteggiamento puramente contemplativo e sganciato dalla volontà; l'arte, infatti, mi fa guardare la realtà nella sua dimensione ideale e dunque non usufruibile. Ecco perchè è un quietivo che mi fa uscire dal desiderio e dalla volontà. Il grande limite dell'esperienza estetica, però, è di durare per troppo poco tempo, poichè l'uomo è pur sempre immerso nel mondo della volontà: dopo aver visto per breve tempo le cose in modo ideale e disinteressato, si è costretti a ritornare a vederle in modo interessato ed empirico. E' curioso il fatto che l'opera d'arte preferita da Schopenhauer sia la tragedia: e non a caso la prima opera del giovane Nietzsche, seguace per un pò di Schopenhauer, sarà proprio L'origine della tragedia . La seconda via per uscire dal circolo di sofferenza della volontà è data dalla morale: di per sè, ogni singola manifestazione individuale della volontà tende a riconoscere se stessa come unica e legittima espressione della volontà, vedendo erroneamente tutto il resto come mero strumento di cui servirsi. Ma non tutta la realtà funziona così: l'uomo, infatti, si distingue per essere in grado di rendersi conto, più o meno consciamente, che al di là di lui stesso esiste qualcosa di simile a lui. In altri termini, nessun uomo si comporta come fa il leone con la gazzella, trattando cioè gli altri come semplici oggetti, ma, al contrario, se può aiutare gli altri con un piccolo gesto non esita a farlo. Ed è proprio con l'esperienza morale che comincia a manifestarsi embrionalmente il "questo sei tu" dei monaci buddhisti, ovvero la coscienza che gli altri non sono radicalmente altra cosa rispetto a noi (questo è il messaggio cristiano delle origini, sostiene Schopenhauer). Affiora dunque il discorso kantiano secondo cui non bisogna mai trattare il prossimo come semplice strumento, ma anche sempre come fine in se stesso, senza fare agli altri ciò che non vorremmo che fosse fatto a noi. L'esperienza morale può, in altri termini, essere letta come presentimento che siamo tutti la stessa cosa e da cui scaturisce un rispetto che si manifesta a vari livelli , primo dei quali è il diritto. Esso mi impone di non nuocere agli altri e pertanto si configura, agli occhi di Schopenhauer, come una morale passiva, che non dice cosa fare ma cosa non fare (nuocere agli altri); e dando ragione ad Hobbes, egli può affermare che la società civile è solamente una forma di "egoismo intelligente", privo di morale, in quanto non si dice che è un male uccidere agli altri, ma semplicemente ciascuno si accorge che non gli conviene vivere nel selvaggio stato di natura e così ci si raggruppa nella società civile. Se il diritto impone di non nuocere agli altri, la morale, invece, comanda di venire in aiuto agli altri: ma in Schopenhauer sulla morale prevale la compassione , ossia la sofferenza insieme agli altri. La cosa fondamentale, infatti, non è di aiutare gli altri, ma di soffrire insieme a loro, cosa che in apparenza risulta totalmente passiva e negativa. In realtà, nella compassione si capisce che colui con cui soffro insieme non è altra cosa rispetto a me; il cristianesimo stesso, dice Schopenhauer (in modo scorretto), è una forma di compassione che non prevede l'aiuto per il prossimo. Ecco dunque che per Schopenhauer la morale si configura come compassione poichè il limite della morale in quanto tale è che, anche aiutando gli altri, non si riesce ad annullare la volontà e la sofferenza che ne deriva; si tratta pertanto di rintracciare una terza e più efficace via per uscire dal dolore. L'arte è troppo breve, la morale, pur essendo più intensa e duratura, non riesce a superare il problema, anche se mi fa capire che gli altri sono come me e che dunque la loro sofferenza è anche la mia. In altri termini, con l'esperienza artistica pervengo alla radice del problema, con la morale comprendo che siam tutti la stessa cosa e che dunque il problema non è di aiutarci ma di annullare in tutti la volontà, cosa di cui però la morale si rivela incapace, pur essendo anch'essa un quietivo: l'annullamento della morale a cui porta l'arte è momentaneo, quello a cui porta la morale è parziale. E l'obiettivo a cui si deve pervenire è proprio l'annullamento della volontà, ovvero il suo capovolgimento in nolontà: ma come si può realizzare ciò? Schopenhauer ne dà un'approfondita spiegazione nel quarto libro del Mondo : solo nell'uomo si può attuare il capovolgimento della volontà in nolontà e questo per un motivo molto semplice, dice Schopenhauer. Infatti, solo l'uomo è provvisto della ragione, ma essa è solo un aspetto marginale della vita umana (tema che verrà approfondito da Freud), poichè è un puro e semplice strumento di cui la volontà si avvale per affermarsi. Tuttavia, la ragione, il cui obiettivo consiste appunto nel far sì che la volontà possa affermarsi, non può essere relegata ad un solo obiettivo e tende anzi ad investirne il maggior numero possibile, proprio alla stregua della radio, per esempio, che, nata per realizzare obiettivi militari, si è poi estesa al soddisfacimento di bisogni dell'intera società. E così la ragione, nata come strumento in mano alla volontà, si è allargata ad una più ampia sfera di obiettivi e realizzazioni, delle quali le più raffinate sono la scienza e, soprattutto, la filosofia, superiore perchè legata, in una certa misura, all'arte (e tra le forme artistiche spicca la musica, che, col suo carattere fluido, non coglie l'idea, ma la volontà stessa: e Schopenhauer ha soprattutto in mente il don Giovanni di Mozart, caro anche a Kierkegaard). Ne consegue che la ragione ci fa conoscere cose che vanno al di là dell'obiettivo per cui essa era nata in origine e, addirittura, può consentire alla volontà di capovolgersi in nolontà. Infatti quella volontà che tende sempre ad affermarsi aumentando in tal modo la propria sofferenza, con questo proposito si dà come strumento la ragione, la quale però, se ben impiegata, porta l'uomo a comprendere le tre cose fondamentali (1 sofferenza, 2 cause della sofferenza, 3 vie per uscirne) : in altre parole, la ragione fa capire alla volontà che l'unica via da intraprendere è di decidere di uscire dalla volontà, diventando un puro "occhio sul mondo" (che vede tutto in modo distaccato, senza essere coinvolto), e decidendo di non stare più al gioco ma uscirne (cessando così il circolo vizioso per cui continuava ad affermarsi in tutti i modi). Ma per annullarsi, essa non può ricorrere al suicidio (equivarrebbe ad abbandonarsi ad un'altra forma di volontà), alla politica (cambia le cose solo in modo provvisorio e superficiale) o al vegetarianesimo (mangiando gli ortaggi non si esce dal cannibalismo della volontà): l'unica via possibile è allora quella dell' ascesi , ovvero del progressivo annullamento in sè della volontà che nasce dalla convinzione di essere uno col tutto; e se annullo in me la volontà, la annullo anche in tutti gli altri, visto che è una sola. In questa prospettiva, Schopenhauer ha in mente il mondo orientale dell'ascetismo, che vince la volontà di bere e di mangiare, mortificando così la carne e producendo un progressivo annullamento della volontà (la quale si capovolge in nolontà); lo stesso impulso sessuale viene da Schopenhauer condannato come delitto in quanto mette al mondo nuovi individui destinati a soffrire. Ma distruggendo la volontà di bere e di mangiare, come fanno gli ascetici, si arriva ad una sorta di lento suicidio e Schopenhauer, come abbiamo visto, condanna questa pratica. Però bisogna tener presente che se il suicidio in senso classico non è una soluzione per uscire dal dolore (e quindi Schopenhauer lo condanna), il suicidio ascetico è diverso, in quanto altro non è se non il traguardo di quel processo di ascesi che annulla gradualmente la volontà e le stesse funzioni vitali (tale suicidio è dunque accettabile perchè riesce ad annullare e a far estinguere la volontà). Schopenhauer nota però amaramente che l'annullamento della volontà non è ancora stato raggiunto da nessun uomo (sebbene i mistici ci siano andati vicini), altrimenti il mondo non esisterebbe più: infatti, annullare la volontà significa annullare il mondo, che di essa è rappresentazione fenomenica (e senza la "cosa in sè" non può nemmeno esserci il fenomeno). Come meta dell'annullamento della volontà si può pervenire ad una sorta di Nirvana , ossia al raggiungimento del nulla: ma Schopenhauer critica aspramente il Nirvana prospettato dai Buddhisti, in quanto, regalando una specie di beatitudine paradisiaca, sembra essere eccessivamente positivo. Il nulla così come lo intende Schopenhauer non vuol essere un paradiso, ma piuttosto un puro e semplice annullamento di questo mondo, senza con questo voler dire che tale annullamento coincida con il "nulla" come generalmente lo si concepisce: non si può infatti dire (non essendo ancora stato raggiunto) che tipo di nulla sarà quello successivo all'annullamento della volontà. E così Schopenhauer conclude il Mondo : " lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero ed assoluto nulla. Ma viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla "; come a dire che per chi è ancora nel circolo della volontà, la nolontà è il nulla; per chi invece la capovolgerà in nolontà, il mondo è il nulla. E' ora bene spendere qualche parola sul pessimismo che informa la filosofia leopardiana: che la tesi pessimista sia difficile da sostenere se n'erano già accorti, ad esempio, Agostino e i Neoplatonici, che si erano visti costretti a concepire il male come una pura e semplice assenza di bene. E infatti quando si finisce per dire che tutto è male, in qualche modo lo si fa in riferimento ad un qualcosa di opposto che è il bene. Questo emerge benissimo nella chiusura del Mondo , in cui Schopenhauer, dopo aver sostanzialmente dichiarato che tutto è male, apre un tenue spiraglio asserendo che tutto è male dal punto di vista in cui ci troviamo noi, ma ciò che per noi è il nulla, non è detto che nella realtà sia il nulla in assoluto: forse potrebbe esserci una dimensione positiva. Tutto ciò può essere d'aiuto per impostare un paragone con l'altro grande pessimista di quegli anni, Leopardi: se Schopenhauer ha una concezione profondamente metafisica della realtà, il poeta e filosofo marchigiano, invece, ha una concezione radicalmente meccanicistica. Questa differenza fa sì che per Schopenhauer il mondo è male, per Leopardi è la nostra condizione ad essere malvagia, non il mondo : esso, di per sè, è del tutto indifferente all'uomo e alle sue sorti, come si evince benissimo, ad esempio, nel Bruto minore , dove Leopardi immagina che Bruto, unico sopravvissuto al massacro della battaglia di Filippi, volga gli occhi in cielo e scorga la luna, nè benigna nè avversa all'uomo e alle sue disgrazie. Dunque, per Schopenhauer esiste una volontà maligna, per Leopardi il male non esiste o, meglio, esiste solo la tragicità dell'esistenza, tesi con la quale anticipa l'esistenzialismo e la sua tesi centrale secondo cui l'uomo è gettato nel mondo. Si può notare come Leopardi sia molto più pessimista di Schopenhauer, in quanto, nella misura in cui si concepisce una volontà maligna imperante nel mondo, si ammette anche una possibilità di capovolgerla, poichè ponendo il male si pone anche concettualmente il bene; Leopardi, invece, ponendo non il male, ma il nulla (tipico anche di Kierkegaard) e l'indifferenza della natura non lascia spazio alcuno al bene. Tuttavia, al di là delle differenze, vi sono anche punti in comune tra i due pensatori: sia Schopenhauer sia Leopardi sono convinti che il dolore aumenti con la consapevolezza (per cui l'uomo soffre più degli animali perchè sa già che dovrà morire) e che la vita sia un ondeggiare continuo tra il dolore e la noia. Ma Leopardi non dà quelle speranze che invece prospetta Schopenhauer: per quest'ultimo la compassione è un primo passo verso la salvezza, per il poeta marchigiano è un puro e semplice aiuto per meglio sopportare la sofferenza.
Opere Principali
- Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente) 1813
- Die Welt als Wille und Vorstellung (Il Mondo come volontà e rappresentazione) 18191, 18442, 18593
Vita
La sua famiglia era di origine olandese, il padre ricco commerciante di Danzica (ove Arthur nacque il 22 febbraio 1788)
il giovane Arthur viaggiò molto, per imparare le lingue e poter proseguire il lavoro del padre: fu così in Francia (Le Havre 1797/9), a Karlsbad, Praga, Olanda, Inghilterra, Svizzera, Austria, Slesia e Prussia.
Morto il padre per suicidio (1805) ereditò una fortuna cospicua, che gli permise di vivere di rendita, studiando: prima al ginnasio (di Gotha, e poi di Weimar), poi all'università di Gottinga (1809/11), dove conobbe G.E.Schulze, che lo introdusse a Kante a Platone, e Berlino (1811/13), dove seguì Schleiermacher, Fichte e il filologo F.A.Wolf.
Per la guerra, raggiunse a Weimar la madre, che (romanziera) vi teneva un salotto letterario, cui veniva anche Goethe, e si laureò a Jena nello stesso 1813, con una tesi Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, apprezzata da Goethe. Ivi conobbe anche l'orientalista Friedrich Mayer, estimatore delle Upanišhad.
Ruppe ben presto con la madre, Johanna Henriette, che aveva accolto in casa un amante, nel 1814.
Si trasferì così a Dresda e qui pubblicò Die Welt als Wille und Vorstellung, suo capolavoro, scritto nel 1818 e pubblicato nel 1819. Dopo un viaggio in Italia, ottenne la libera docenza a Berlino nel 1820, discutendo con Hegel, col quale venne a diverbio; e a Berlino rimase, frustrato per la concorrenza hegeliana, per cui le sue lezioni erano disertate, fino al 1831, quando vi si diffuse un'epidemia di colera.
Allora si trasferì a Francoforte, dove rimase fino alla morte, sopraggiunta nel 1860. Di tale periodo sono La volontà della natura (1836), I due problemi fondamentali dell’etica (1841) e il brillante e popolare Parerga et paralipomena (1851). Tali opere gli guadagnarono riconoscimenti pubblici e maggior successo delle opere precedenti.
Come scrive Abbagnano "nessun successo immediato arrise all'opera di Schopenhauer, che dovette aspettare più di vent'anni per pubblicare la seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione, edizione che egli arricchì di un secondo volume di note e supplementi. (…) Soltanto dopo il 1848, in concomitanza con un'ondata di pessimismo che colpì l'Europa, cominciò la "fortuna" della sua filosofia". E in generale la fortuna della sua filosofia tende ricorrentemente a coincidere con periodi in cui l'umanità occidentale avverte il bisogno di una spiegazione della realtà che ne evidenzi la tragicità.
la critica all'idealismo
Schopenhauer critica in generale "i tre grandi ciarlatani" idealisti, e in particolare Hegel, "sicario della verità", la cui filosofia è mercenaria, al servizio dello Stato:
"Hegel, insediato dall'alto, dalle forze al potere, fu un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato, che raggiunse il colmo dell'audacia scodellando i più pazzi e mistificanti non sensi"
il suo pensiero è "una buffonata filosofica".
i riferimenti del suo pensiero
Furono Kant, da cui prese la distinzione tra fenomeno e noumeno, interpretandola però in modo difforme dallo stesso Kant, attribuendo al fenomeno una valenza di illosorietà a quello sconosciuta (dato che al contrario per il filosofo di Koenigsberg proprio del fenomeno e anzi solo del fenomeno si piò dare conoscenza rigorosamente scientifica e valida), Platone (da cui trasse la concezione delle idee, anche qui però intese in modo originale, "forme eterne sottratte alla caducità dolorosa del nostro mondo" (Abbagnano) come strato ontologico intermedio tra il centro della realtà, che è cieca Volontà e l'apparenza fenomenica più superficiale), e la filosofia indiana, da cui appunto trae la decisiva convinzione del carattere ingannevole del mondo sensibile, che altri filosofi occidentali avevano sì in precedenza definito imperfetto, e al limite prossimo al nulla (Parmenide, Platone, Plotino), ma mai giudicato deformante inganno.
1a) il mondo come rappresentazione
Noi non conosciamo le cose in sé stesse ("vediamo non il sole né la terra"), ma in quanto sono rapportate al soggetto, dipendenti dal soggetto, "interne" ad esso (conosciamo "l'occhio che vede il sole, la mano che sente il contatto con la terra"), e il soggetto filtra la realtà con le tre categorie (una sorta di a-priori, che il soggetto pone mediante l'intelletto, analogamente a Kant, con la differenza che per Sch. le categorie hanno una matrice fisiologica, piuttosto che trascendentale)
la causalità a sua volta, in quanto principio di ragion sufficiente, assume quattro forme, ossia |
causa fiendi (cioè del divenire; regola i rapporti causali); causa cognoscendi (regola i rapporti tra i giudizi); causa essendi (regola i rapporti tra le parti del tempo e dello spazio); causa agendi (regola i rapporti tra le azioni); |
- (spazio e tempo (che rendono molteplice l'oggetto)
- la causalità (che lo rende un "cosmo conoscitivo"), poste come per Kant, dall'intelletto
Essa è perciò fenomeno, nel senso di apparenza, in parentela stretta col sogno, analogamente a Pindaro ("l'uomo è il sogno di un'ombra"), Sofocle, Shakespeare ("noi siamo di tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno"), Calderòn, o, con espressione di derivazione indiana, "velo di Maya".
- " è Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi nê che esista, nê che non esista; perchê ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente (Il mondo come volontà …, paragrafo 3)
ma c'è il modo per giungere alla realtà in sé stessa:
1b) e come volontà
esistenza della Volontà
Ne posso essere certo in quanto
a)ho accesso diretto alla mia volontà, che sperimento essere la mia più intima essenza, facente tutt'uno con il moto del mio corpo (che posso infatti conoscere o oggettivandolo, o dall'interno, come mosso dalla volontà).
Io sono volontà, Wille zum Leben, impulso prepotente;
b)per analogia estendo questo a tutto il reale:
osservando nei fenomeni naturali "l'impeto violento e irresistibile con cui le acque si precipitano negli abissi, … l'ansia con cui il ferro vola verso la calamita, la violenza con cui i poli elettrici tendono a riunirsi …[riconosciamo] quell'identica essenza che in noi persegue i suoi fini al lume della conoscenza, ma che qui non ha che impulsi ciechi, sordi, unilaterali e invariabili" (§ 23 Il mondo come volontà e rappresentzione)
sua essenza
La Volontà è inconscia…
Come ricorda Abbagnano: "essendo al di là del fenomeno, la Volontà presenta caratteri contrapposti a quelli del mondo della rappresentazione, in quanto si sottrae alle forme proprie di quest'ultimo: lo spazio, il tempo e la causalità. Innanzitutto la Volontà primordiale è inconscia, poichê la consapevolezza e l'intelletto costituiscono soltanto delle sue possibili manifestazioni secondarie. Di conseguenza, il termine Volontà, preso in senso metafisico-schopenhaueriano, non si identifica con quello di volontà cosciente, ma con il concetto più generale di energia o di impulso (e in questo senso si comprende perchè Schopenhauer attribuisca la volontà anche alla materia inorganica e ai vegetali)."
…unica…
In secondo luogo, la Volontà risulta unica, poichò esistendo al di fuori dello spazio e del tempo, che dividono gli enti, si sottrae costituzionalmente a ciò che egli chiama "principio di individuazione". Infatti la Volontà non è qui più di quanto non sia là, più oggi di quanto non sia stata ieri o sarà domani. Essa, dice Schopenhauer, "è in una quercia come in un milione di querce".
…eterna…
Essendo oltre la forma del tempo, la Volontà è anche eterna e indistruttibile, ossia un Principio senza inizio nè fine. Per questo, Schopenhauer scrive che "alla Volontà è assicurata la vita" e paragona il perdurare dell'universo nel tempo ad un "meriggio eterno senza tramonto refrigerante", oppure all'"arcobaleno sulla cascata", non toccato dal fluire delle acque (op.cit., paragrafo 54).
…assurda e cieca.
Essendo al di là della categoria di causa, e quindi di ciò che Schopenhauer denomina "principio di ragione", la Volontà si configura anche come una Forza libera e cieca, ossia come un'Energia incausata, senza un perchè e senza uno scopo. Infatti noi possiamo cercare la "ragione" di questa o quella manifestazione fenomenica della Volontà, ma non della Volontà in se stessa, esattamente come possiamo chiedere ad un uomo perchè voglia questo o quello, ma non perchè voglia in generale. Tant'è che a quest'ultima domanda l'individuo non potrebbe rispondere che "voglio perchè voglio", ossia, traducendo la frase in termini filosofici, " perchè c'è in me una volontà irresistibile che mi spinge a volere". Infatti, la Volontà primordiale non ha una mèta oltre se stessa: la vita vuole la vita, la volontà vuole la volontà, ed ogni motivazione o scopo cade entro l'orizzonte del vivere e del volere (op.cit., paragrafo 29).
consegnenze etiche
Vi è in Schopenhauer un rifiuto di ogni ottimismo:
"Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non ancora conosciuto. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole… bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento" (op.cit., paragrafo 38).
La realtà è una '"arena di esseri tormentati e angosciati, i quali esistono solo a patto di divorarsi l'un laltro, dove perciò ogni animale carnivoro è il sepolcro vivente di mille altri e la propria autoconservazione è una catena di morti strazianti"
"Se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, i campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, dove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch'egli con l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles. Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perchê il nostro mondo non offre materiale per un'impresa siffatta" (op.cit., paragrafo 59)
"A diciassette anni, ancora privo di ogni cultura, fui colpito dalla miseria della vita così profondamente come Buddha nella sua gioventù, quando vide per la prima volta la malattia, la vecchiaia, il dolore e la morte. La verità che del mondo mi parlava chiaro e tondo, ebbe presto il sopravvento sui dogmi ebraici che mi erano stati inculcati; e la mia conclusione fu che questo mondo non poteva essere l'opera di un ente assolutamente buono… "
"Verrà un tempo in cui la dottrina di un Dio come creatore sarà considerata in metafisica, come ora, in astronomia, si considera la dottrina degli epicicli"
“Dei mali della vita ci si consola con al morte, e della morte con i mali della vita. Una gradevole situazione”
“Noi ci consoliamo delle sofferenze della vita pensando alla morte, e della morte pensando alle sofferenze della vita”
“…alla fine tutti quanti siamo e restiamo soli”
“Alla natura sta a cuore solo la nostra esistenza, non il nostro benessere”
“Ogni sera siamo più poveri di un giorno”
“Dal punto di vista della giovinezza la vita è infinita; dal punto di vista della vecchiaia è un brevissimo passato”
“Si può dire quello che si vuole! Il momento più felice di chi è felice è quando si addormenta, come il momento più infelice di chi è infelice è quando si risveglia”
“A parte poche eccezioni, al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese”
“Se è stato un Dio a creare questo mondo, non vorrei essere lui: la sofferenza nel mondo mi spezzerebbe il cuore”
“Chi ama la Verità odia gli dèi, al singolare come al plurale”
in realtà la storia ci inganna facendoci credere che le cose cambino sostanzialmente, mentre ha ragione l'Ecclesiaste: non vi è nulla di nuovo sotto il sole in ogni tempo fu, è e sarà sempre la stessa cosa (Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 38)
"Mentre la storia ci insegna che in ogni tempo avviene qualcosa di diverso, la filosofia si sforza di innalzarci alla concezione che in ogni tempo fu, è, e sarà sempre la stessa cosa" (Supplementi, capitolo 38)
"Ogni giubilo eccessivo nasce sempre dall’illusione di aver trovato nella vita qualcosa che è impossibile trovarvi, e cioè la pacificazione definitiva del tormento"
"chi considera bene .. scorge il mondo come un inferno, che supera quello di Dante in questo, che ognuno è diavolo per l'altro."
"l'uomo è l'unico animale che faccia soffrire gli altri al solo scopo di far soffrire"
“Ciò che rende gli uomini socievoli è la loro incapacità di sopportare la solitudine e se stessi. […] Tutti i pezzenti sono socievoli, da far pietà”
"Vi è dunque, nel cuore di ogni uomo, una belva, che attende solo il momento propizio per scatenarsi ed infuriare contro gli altri" (Parerga, 2, 114)
"Come l'uomo si comporti con l'uomo, è mostrato, ad esempio, dalla schiavitù dei negri. Ma non v'è bisogno di andare così lontani: entrare nelle filande o in altre fabbriche all'età di cinque anni, e d'allora in poi sedervi prima per dieci, poi per dodici, infine per quattordici ore al giorno, ed eseguire lo stesso lavoro meccanico, significa pagar caro il piacere di respirare. Eppure questo è il destino di milioni, e molti altri milioni ne hanno uno analogo"
"la vita è un continuo oscillare tra dolore e noia"
- cosmico (quello delle religioni, con la loro idea di Provvidenza)
- storico (il progresso, come in Hegel, Comte, Marx e altri):
- sociale (secondo cui l'uomo è naturalmente buono verso gli altri):
2) la liberazione
/ Schopenhauer rifiuta il suicidio come via alla liberazione per due motivi : \ |
1) perchè "il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà, è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa" in quanto il suicida "vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate" (ivi, paragrafo 69), per cui anzichê negare veramente la volontà egli nega piuttosto la vita; |
2) perchê il suicidio sopprime unicamente l'individuo, ossia una manifestazione fenomenica della Volontà di vivere, lasciando intatta la cosa in sé, che pur morendo in un individuo rinasce in mille altri, simile al sole che, appena tramontato da un lato, risorge dall'altro." (Abbagnano) |
Essa ha come momenti principali
a)l'arte: "mentre la conoscenza, e quindi la scienza, è continuamente irretita nelle forme dello spazio e del tempo, ed asservita ai bisogni della volontà, l'arte, secondo Schopenhauer, è conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee, ossia alle forme pure o ai modelli eterni delle cose." (Abbagnano)
- "Mentre per l'uomo comune, il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina la strada, per l'uomo geniale è il sole che rivela il mondo".
b) la compassione, che rompe la catena di egoismi che mette ogni individuo contro l'altro, causando inutile e assurda sofferenza.
- “L’amore autentico è sempre compassione; e ogni amore che non sia compassione è egoismo”
c) l'ascesi
- essa nasce dall'"orrore" dell'uomo "per l'essere di cui è manifestazione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore" (ivi, paragrafo 68), è l'esperienza per la quale l'individuo, cessando di volere la vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere: "Con la parola ascesi… io intendo, nel senso più stretto, il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà" (ivi).
comporta la perfetta castità, la rinuncia ai piaceri, l'umiltà, il digiuno, la povertà, il sacrificio e l'automacerazione
Fino ad arivare alla noluntas
"il deliberato infrangimento della volontà,… per la continuata mortificazione della volontà"
"Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà – dice Schopenhauer alla fine della sua opera – è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà. Ma per gli altri, in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla" (ivi, paragrafo 71).
Note
- Nota 1
Secondo Abbagnano "dell'Illuminismo lo interessano il filone materialistica e quello dell'ideologia, da cui eredita la tendenza a considerare la vita psichica e sensoriale in termini di fisiologia del sistema nervoso. Inoltre da Voltaire desume lo spirito ironico e brillante e la tendenza demistificatrice nei confronti delle credenze tramandate. Dal Romanticismo Schopenhauer trae alcuni temi di fondo del suo pensiero, come ad esempio l'irrazionalismo, la grande importanza attribuita all'arte e alla musica, e, soprattutto, il tema dell'infinito, cioè la tesi della presenza, nel mondo, di un Principio assoluto di cui le varie realtà sono manifestazioni transeunti. Altro motivo indubbiamente romantico è quello del dolore. Tuttavia mentre il Romanticismo, sul piano filosofico, mostra una tendenza globalmente ottimistica, che si concretizza in un tentativo di dialettizzare o riscattare il negativo tramite il positivo (Dio, lo Spirito, la storia, il progresso eccetera) Schopenhauer appare decisamente orientato verso il pessimismo, di cui è uno dei maggiori teorici. Decisiva importanza, anche se indiretta, gioca pure l'idealismo, vera "bestia nera" e "idolo polemico" dello schopenhauerismo."
L'ARTE E LA MUSICA
" L'arte si deve necessariamente considerare come il grado più alto, come l'evoluzione più perfetta di quanto esiste; ci offre infatti essenzialmente la stessa cosa che il mondo visibile; ma più concentrata, più perfetta, con scelta e con riflessione: possiamo quindi, nel vero senso della parola, chiamarla il fiore della vita. Se il mondo come rappresentazione non è che volontà divenuta visibile, l'arte è precisamente tale visibilità resa più chiara; la camera oscura che abbraccia meglio e con una sola occhiata; è lo spettacolo nello spettacolo, la scena nella scena. "
L’arte ha per Schopenhauer un doppio valore. Valore teoretico . La ragione, la quale ci consente di raggiungere le alte vette ed astrazioni della matematica e della fisica, grazie alla quale abbracciamo gli infiniti spazi cosmici ed oltre, è tuttavia prigioniera del principium individuationis, non può squarciare il velo di Maya e fornirci una conoscenza concettuale di ciò che vi è al di là. Dunque il requisito per tale conoscenza è l’evasione, pur momentanea dalla volontà. Questa condizione è realizzata nella contemplazione, nel rapimento estetico visto che in questa particolare condizione ci liberiamo momentaneamente degli impulsi della volontà è ciò che l’arte rappresenta, il puro dato sensibile diventa simbolo, metafora della pura idea che vi soggiace. È evidente che, essendo la ragione esclusa da tale processo conoscitivo, ed essendo i concetti e le parole, i mezzi attraverso cui essa opera, non è possibile esprimere con i linguaggi tradizionali ciò che risiede oltre il mondo dominato dalla volontà. Il linguaggio dell’arte è invece un linguaggio allegorico, che si esprime per metafore, immagini delle idee. Tutte le arti sono rappresentazione dei diversi gradi di oggettivazione della volontà dai più bassi del mondo inorganico fino al più alto: l’uomo. Tuttavia come ribadisce lo stesso Schopenhauer negli ultimi periodi del §52 lo stesso mondo come rappresentazione visto dall’asceta che è riuscito a svincolarsi dalla volontà è una visione rasserenante di quest’ultima e delle sue oggettivazioni sensibili ed ideali. L’arte non fa che rendere ciò che nel mondo è già visibile (agli occhi dell’asceta) più chiaro ancora, concentrato nella purezza e perfezione dell’idea. Valore catartico . Partendo dall’assunto che il mondo mosso dalla volontà è dominato dalla guerra, dagli egoismi e dal dolore e che nessun essere (dal sasso, all’animale, all’uomo) ne è libero, bensì tutti sono ugualmente destinati alla sofferenza in modo proporzionale al grado di consapevolezza, la contemplazione estetica, in quanto consente all’uomo di liberarsi momentaneamente dalla volontà sottrae allo stesso tempo l’uomo alla sofferenza, al ciclo di dolore (desiderio), piacere (appagamento) e noia (assenza di desiderio) che contraddistingue la sua condizione. La musica occupa una posizione eccentrica rispetto alle altre arti. Infatti non è solo rappresentazione, immagine, allegoria di un’idea, ma è l’allegoria, l’immagine, la rappresentazione della volontà medesima di cui è oggettivazione al pari delle idee. Ad essa vengono dedicati il §52, ultimo del libro terzo “Il mondo come rappresentazione” nel capitolo “L’idea platonica: l’oggetto dell’arte” e nel capitolo 39 dei “Supplementi al libro terzo” intitolato “Sulla metafisica della musica”. Essendo l’immagine stessa della volontà ci consente di cogliere l’in sé di ogni fenomeno, la forma pura privata della materia (in abstracto). Ma cos’è la volontà se non impulso cieco e irrazionale, passione, sentimento? E proprio questo è il linguaggio della musica: il sentimento, contrapposto al concetto della ragione. Questo esprime la musica quando “parla”: ci racconta la vita più intima e segreta della volontà, attraverso i gradi della sua oggettivazione, dal mondo inorganico all’uomo, dalla forza bruta ai più delicati moti e sentimenti dell’animo umano. Schema che visualizza la concezione schopenhaueriana della musica come immediata oggettivazione della Volontà al pari delle idee rispetto alle quali si trova allo stesso livello. Così come poi le idee sono ordinate secondo una precisa gerarchia di consapevolezza che culmina nell’uomo (l’essere che, in quanto dotato di ragione è fra tutti il più consapevole) e si moltiplicano attraverso le dimensioni spazio-temporali e causali originando tutti i fenomeni esistenti, così la musica stessa è ordinata in una gerarchia di suoni di altezza crescente che sono in diretto parallelismo con le varie idee ed i fenomeni in cui esse si oggettivano e particolarizzano La musica nella sua struttura raccoglie perciò l’intero mondo. Di conseguenza Schopenhauer procede nella sua analisi metafisica della musica (che ripercorreremo nella pagine seguenti), instaurando una serie di parallelismi e analogie fra mondo e musica. Infatti al pari delle idee la musica è immediata oggettivazione e copia della medesima volontà e differisce perciò dalle idee solo nella forma. Al pari delle altre arti la musica è in grado di sottrarci momentaneamente alla sofferenza, ma non solo. Vista la sua natura è in grado di influire sulla volontà, riproducendo in noi gli infiniti moti di quest’ultima (ruolo che vedremo affidato alla melodia), il suo incessante ciclo di insoddisfazione e appagamento. Non è tuttavia da ritenere che per questo motivo perda il suo potere catartico. Infatti non è in grado di farci soffrire veramente essendo solo pura, distaccata, rappresentazione. Come tutte le arti anche la musica esige che “la volontà resti fuori dal gioco e che noi ci limitiamo ad essere puro soggetto conoscente” " Quando, invece, nella realtà con i suoi orrori, è la volontà stessa ad essere sollecitata ed angosciata, non abbiamo più a che fare con suoni e rapporti numerici, ma siamo noi in persona adesso la corda tesa, pizzicata e vibrante ".
IL COMICO
1. Le fonti. La teoria della comicità e dell'arguzia si trova nel § 13 dell'opera principale di Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). Il Mondo, tuttavia, non ebbe il successo sperato, e Schopenhauer mette mano a una riedizione dell'opera solo nel '44. La mole del libro cresce sensibilmente: Schopenhauer l'arricchisce di molti supplementi. Tra questi vi è anche un approfondimento della teoria del ridicolo (Supplementi, cap. VIII), volto più a chiarire che a correggere le pagine del 1818. Nel corso delle nostre considerazioni ci rifaremo, senza ulteriori indicazioni, alle pagine del Mondo e dei Supplementi.
2. Una premessa necessaria: intelletto e ragione nella filosofia di Schopenhauer. Le riflessioni di Schopenhauer sul riso si collocano nel primo libro de Il mondo come volontà e rappresentazione, e costituiscono una breve digressione volta a far luce su uno dei nodi centrali della sua filosofia: il rapporto tra intelletto e ragione. Di qui la necessità di premettere alle nostre considerazioni una breve esposizione del senso che Schopenhauer attribuisce a queste due facoltà che, a partire almeno dalla Critica della ragion pura, diventano centro di interpretazioni contrastanti.
Per Schopenhauer come per Kant, l'intelletto ha una funzione trascendentale: permette di passare dall'ambito delle sensazioni alla sfera degli oggetti della nostra esperienza. Il rimando a Kant, tuttavia, non deve impedirci di cogliere una differenza sostanziale: per Schopenhauer, e non certo per Kant, l'intelletto fa tutt'uno con l'intuizione e non deve essere inteso alla luce della forma logica del giudizio. L'esperienza non assume validità obiettiva grazie alle categorie della logica trascendentale: se dalle sensazioni come modificazioni della nostra corporeità risaliamo agli oggetti non è perché i dati sensibili vengono connessi nell'unità di un giudizio, ma è solo in virtù dell'interpretazione tanto irriflessa, quanto istintiva che ci costringe a pensare alla causa dei nostri stati psicologici. L'intelletto non è allora, per Schopenhauer, la kantiana facoltà di pensare i fenomeni, ma è ciò che permette all'uomo e agli altri animali di orientarsi nel mondo e di intuirlo come una concatenazione di eventi causalisticamente connessi.
Diversamente stanno le cose per la ragione. La ragione è, per Schopenhauer, la facoltà che ci permette di risalire dalla rappresentazione al concetto e di cogliere le relazioni che tra i concetti sussistono. L'uomo non si limita a operare nell'esperienza, ma riflette anche sull'esperienza: la ragione ci permette di riflettere sulla realtà, di raccogliere nell'unità di una rappresentazione di secondo grado (di una rappresentazione di rappresentazioni) una molteplicità di rappresentazioni individuali tra loro per qualche aspetto simili.
E tuttavia, nella natura mediata del concetto, Schopenhauer non coglie soltanto la definizione logica del pensiero razionale, ma anche la sua più generale collocazione metafisica:
come dalla luce diretta del Sole si passa a quella riflessa della Luna, così ora passeremo dalla rappresentazione intuitiva che si afferma e garantisce da sé, alla riflessione, ai concetti astratti della ragione (Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., p. 75)
– così scrive Schopenhauer, e di quest'immagine che apre le sue considerazioni sulla ragione non si può rendere conto solo richiamandosi alla tesi di sapore empiristico secondo la quale il piano concettuale non fa che rispecchiare in forma attenuata la ricchezza del mondo intuitivo. Dietro quell'immagine vi è altro: il Sole è calore, luce, vitalità, mentre la Luna è un valore notturno, e brilla di luce fredda nella sua lontananza dalle vicende umane.
Sono proprio questi valori immaginativi che Schopenhauer intende proiettare sulla nozione dio ragione. Finché si muove sul terreno dell'intuizione concreta, l'uomo è interamente immerso nel presente, ed è tutt'uno con la natura e con il mondo e quindi anche con la volontà che lo anima. La ragione strappa l'uomo da questo sicuro (e ingenuo) sentimento della vita e lo getta in una nuova dimensione dell'esistenza, più fredda e priva di colore e di vitalità. In altri termini, la ragione ci distacca dal flusso dell'esperienza, ci permette – per così dire – di contemplare dall'alto ciò che accade. I concetti, proprio perché ci permettono di avanzare previsioni raccordando il presente all'esperienza passata, ci strappano dal dominio che l'attimo esercita su di noi, disponendoci in una dimensione diacronica e quindi storica. La ragione è dunque ciò che allontana l’uomo dalla vita, che cancella la sua piena e spontanea adesione al mondo, separandolo dalla natura e dal suo continuo fluire.
Questa separazione ha il suo suggello nella paura della morte che è così tipica dell’uomo e che dipende dalla sua razionalità: solo perché la ragione strappa l’uomo dalla sua immediata e vitale adesione al mondo, solo perché lo toglie dall’attimo presente in cui è la vita, per disporlo nella prospettiva della storia, solo per questo può insinuare nel suo animo la paura per ciò che ancora non è, ma verrà – la morte.
3. Il riso come rivincita della vita: la teoria schopenhaueriana del ridicolo. Sullo sfondo metafisico che abbiamo delineato si colloca la dottrina schopenhaueriana del ridicolo. Si tratta di una teoria molto semplice che tuttavia pretende di avere validità universale:
Il riso – osserva Schopenhauer – proviene sempre da un’incongruenza subitamente constatata fra un concetto e l’oggetto reale cui quel concetto, in un modo o nell’altro, ci fa pensare; e non è appunto se non l’espressione di questa incongruenza (ivi, p. 109).
È facile suggerire degli esempi che mostrino concretamente il senso di questa definizione. Di un predicatore noiosi può dire "Bav è il buon pastore di cui la Bibbia parlava / quando il suo gregge dormiva lui solo vegliava" (ivi, p. 854), così come nell’epitaffio di un medico si può scrivere "egli giace qui, come un eroe circondato dalle sue vittime" (ivi), ed in entrambi i casi il riso nasce perché ciò che si adatta bene al concetto (il pastore che si preoccupa delle sorti di un’umanità ignara e il combattente caduto dopo aver fatto strage del nemico) si dimostra invece del tutto incongruente non appena ci poniamo sul terreno dell’oggetto concreto (ivi).
Da questa base semplicissima, Schopenhauer muove per caratterizzare ulteriormente il fenomeno che gli sta a cuore. Un’incongruenza tra conoscenza astratta e conoscenza intuitiva può avere luogo in due diverse forme:
o sono dati nella conoscenza due o più differenti oggetti reali, due o più rappresentazioni intuitive che identifichiamo arbitrariamente nell’unità di un concetto comune […]. Oppure, viceversa, c’è dapprima nella conoscenza il concetto, dal quale passiamo in seguito alla realtà, cioè alla pratica: oggetti radicalmente differenti sotto ogni altro aspetto, ma che il pensiero abbraccia sotto un solo concetto, vengono trattati e considerati tutti allo stesso modo; finché da ultimo la grande divergenza che li separa finisce per dare nell’occhio con grande sorpresa e meraviglia di chi opera (ivi, p. 109).
Schopenhauer propone di chiamare arguzia il primo genere del ridicolo, per riservare al secondo il nome di buffoneria. Questa classificazione del ridicolo può essere ulteriormente arricchita, e Schopenhauer si muove in questa direzione quando illustra brevemente la natura del calembour, dello scherzo, dell’ironia, dell’umorismo. Tuttavia, piuttosto che soffermarci su queste nozioni che possono essere desunte facilmente dalle pagine schopenhaueriane e che restano comunque in ombra nella sua teoria, vorremmo soffermarci un poco sulla distinzione principale che Schopenhauer propone: quella tra buffoneria e arguzia. L’arguzia, egli osserva, è sempre volontaria: sorge quando intendiamo mostrare l’incapacità di un concetto di dominare la ricchezza di senso del materiale intuitivo. Al contrario la buffoneria è sempre involontaria, e ha la sua origine nella convinzione, che si mostrerà poi erronea, di avere nella ragione una guida sicura per le nostre azioni. Così, seppure da prospettive diverse, buffoneria ed arguzia ci mostrano uno stesso stato di cose: ciò che l’uomo arguto ci fa comprendere e che traspare nel gesto del buffone è di fatto
l’incapacità della ragione con i suoi concetti astratti ascendere fino all’infinita molteplicità e alle infinite sfumature dell’intuizione (ivi, pp.860-1).
Del resto, è proprio in questo incrinarsi del dominio della ragione sulla vita che consiste la forma del piacere che proviamo ridendo:
è questa vittoria della conoscenza intuitiva sul pensiero che ci rallegra. Intuire è infatti il modo primitivo di conoscere, inseparabile dalla natura animale, un conoscere in cui si presenta tutto ciò che dà soddisfazione immediata alla volontà: è l’intermediario del presente, del godimento, della gioia […]. Con il pensiero accade sempre il contrario: pensare è il conoscere alla seconda potenza, che esige sempre qualche sforzo, spesso anche considerevole; suoi sono i concetti, che così spesso si oppongono alla soddisfazione dei nostri desideri immediati, giacché tali concetti, come intermediari del passato, del futuro e della serietà, fanno da veicoli ai nostri timori, ai nostri rimorsi e a tutte le nostre preoccupazioni. Dev’essere perciò un godimento scoprire una buona volta l’insufficienza della ragione, di questa governante severa, instancabile e opprimente. Per questo dunque l’espressione del riso e quella della gioia si assomigliano tanto (ivi, p. 861).
L’immagine della ragione come una governante opprimente e saccente indica del resto la via per comprendere quell’accostamento tra pedanteria e buffoneria che, a prima vista, può stupire, ma che è in realtà perfettamente coerente con l’approccio schopenhaueriano. Il pedante ha poca fiducia nelle sue capacità intuitive e teme l’urgenza e la complessità dei problemi che il presente gli pone: si arma per questo di un insieme di regole che gli permettono di cancellare la novità del presente, riconducendolo (e quindi riducendolo) a ciò che è già stato. Il pedante abbandona la vita in concreto per rifugiarsi nella vita in abstracto, in un’esistenza, dunque, nella per ogni problema quale vi è già una soluzione collaudata. Ma il corso della vita e dell’esperienza non sono proni ai dettati della pedanteria: il concetto – di cui il pedante fa la sua unica guida –
Non discende mai fino al particolare e […] la sua universalità e la rigidezza della sua determinazione non gli permettono di esprimere esattamente le sfumature, le svariate modificazioni della realtà (ivi, p. 110).
Per quanto fitta, la rete delle regole non aderisce mai perfettamente alla realtà, ed il pedante diviene così preda del ridicolo. E se le cose stanno così, il riso non è che il gesto liberatorio nel quale la vita si affranca dalle forme morte in cui la ragione la costringeva: sullo sfondo della dottrina schopenhaueriana della comicità si deve dunque leggere una rivendicazione esplicita dei diritti della vita e dell’immediatezza sulle forme astratte e rigide della ragione.
4. Lo spirito della storia e lo spirito della terra. Le nostre considerazioni sulla teoria schopenhaueriana del ridicolo potrebbero chiudersi già qui. e tuttavia è forse opportuna una breve digressione volta a far luce su un passo del Mondo in cui Schopenhauer tocca, seppure di sfuggita, l’argomento del riso. Si tratta di un passo molto impegnativo dal punto di vista metafisico: Schopenhauer intende infatti liberarsi con poche parole delle concezioni razionalistiche della storia, ed in particolare di quella hegeliana, tutta volta a cercare nella concatenazione degli eventi il dipanarsi necessario dello Spirito. Ora, la prima mossa in questa direzione consiste, per Schopenhauer, nel sottolineare come la storia non sia affatto il processo necessario in cui lo Spirito si rivela, ma sia piuttosto il regno del caso:
Se, per ipotesi, ci fosse dato di gettare uno sguardo luminoso nel regno della possibilità e sulla completa catena delle cause e degli effetti, lo Spirito della Terra sorgerebbe, e ci mostrerebbe in un quadro gli uomini più eminenti, i luminari del mondo e gli eroi che furono rapiti dal destino prima che l’ora delle rispettive missioni fosse suonata. Ci mostrerebbe quindi i grandi avvenimenti che avrebbero cambiato aspetto alla storia del mondo, e arrecato ere di luce e di suprema civiltà, se il caso più cieco e l’accidente più futile non li avessero soffocati sul nascere (ivi, p. 271).
Ora, di fronte a questo spettacolo, noi uomini abituati a comprenderci come frutto della storia non potremmo probabilmente sottrarci ad un senso di raccapriccio, e ci dispereremmo per le crudeli scelte operate dal caso. E tuttavia all’uomo che piange il mancato progresso dell’umanità e lamenta l’assenza di una Ragione nella storia, lo Spirito della terra potrebbe rispondere con un sorriso (ivi, p. 271), poiché a chi ha compreso che i fenomeni nel loro mutevole esserci altro non sono che manifestazioni di un’identica volontà, non può che apparire ridicola la pretesa razionalistica di scorgere nel fluire del tempo il progresso della storia degli uomini.
IL MONDO COME VOLONTA' E RAPPRESENTAZIONE
Primo libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Gnoseologia. Schopenhauer aveva definito nella Quadruplice che le categorie kantiane potevano essere ridotte alla sola causalità, unita alle forme di spazio e tempo. La gnoseologia esposta nel Mondo riprende i concetti di fenomeno e noumeno. Ma per Kant il rapporto fra fenomeno e noumeno è adeguato, in quanto il fenomeno è il reale modo di conoscere il noumeno; al contrario, per Schopenhauer il rapporto è inadeguato, in quanto il fenomeno è pura apparenza. Infatti, La Volontà, che determina tutto il mondo, non vuole altro che realizzarsi, in qualsiasi forma essa possa farlo; un modo è anche attraverso l'uomo, entità superiore che permette forme di realizzazione superiori, più ardite; la capacità conoscitiva dell'uomo serve all'uomo per muoversi nel mondo, ma alla Volontà serve che l'uomo possa muoversi per realizzarsi di più. Alla Volontà non interessa il fatto che l'uomo conosca in sé e per sé, ma gli interessa perché essa si possa realizzare meglio. Dunque, i fenomeni non hanno un valore in sé, ma solo in rapporto all'uomo come mezzo della Volontà. Per Schopenhauer il fenomeno è apparenza, il velo di Maya, mentre il noumeno è la realtà vera sottostante e nascosta. Il mondo in quanto fenomeno lo conosciamo come rappresentazione, che è composta da un soggetto rappresentante ed un oggetto rappresentato. Il soggetto conosce con le forme a priori che però distorcono la sua visione, e dunque la vita è sogno.
Secondo libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Mondo come volontà e come rappresentazione. Se il soggetto conoscente guarda all'esterno, non vede che il mondo come rappresentazione, e si ferma all'aspetto fenomenico; ma c'è un modo per raggiungere l'ambito noumenico dell'essere, ed è il guardare in sé stessi. Visto che non è possibile raggiungere il noumeno degli oggetti, ma lo stesso soggetto è un noumeno, guardando in sé lo si può trovare. L'analisi del proprio corpo è illuminante: il corpo può essere visto come fenomeno, ma anche come manifestazione di un'altra realtà: la volontà. Il corpo è oggettivazione della volontà, dunque il noumeno dell'uomo è la volontà. Guardando in sé, si scopre un'altra dimensione dell'uomo e del mondo: la volontà. Il mondo come rappresentazione ha come principio l'Io penso, come volontà l'Io voglio.
Caratteri, assolutezza ed oggettivazioni della volontà. La scienza non può arrivare a spiegare le forze naturali, e questo lo può fare la metafisica, che sarà empirica e procederà per analogia. La Volontà è presente in tutto il mondo, con gradi di coscienza diversi, fino all'uomo in cui è autocoscienza. la Volontà nel resto è inconscia, è un impulso di energia, è unica (non soggetta alle categorie di spazio e tempo, essendo un noumeno), eterna, incausata, senza scopo. La Volontà dapprima si oggettiva nelle idee, archetipi a cui si rifà per determinarsi nelle cose; fra idea e fenomeno sta la legge naturale (esplicazione necessaria della forza in relazione ad una situazione empirica). Dietro al fenomeno c'è la forza irrazionale che non vuole che affermarsi in qualsiasi modo.
Terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Caratteri di metafisica ed etica. Se la volontà è il principio del mondo, la metafisica si identifica con l'etica, il piano teoretico porta al piano pratico immediatamente. L'etica come la metafisica dev'essere descrittiva. Per capire il comportamento della volontà bisogna definire la libertà della volontà.
Rapporto di volontà ed intelletto. La volontà, che è in genere inconscia, nell'uomo produce il fenomeno coscienza, divisibile in intelletto (capacità di intuire il nesso causale) e ragione (capacità di pensare in modo astratto); quindi l'intelletto è al servizio della volontà, non viceversa, e il comportamento morale non sarà sottomesso all'intelletto ma alla volontà stessa.
Estetica. L'intelletto si pone allo stesso livello della volontà nell'esperienza estetica. L'arte è una forma di conoscenza: attraverso essa, visto che si guarda la bello disinteressato, cioè che non ha alcuna utilità nel mondo fenomenico, si attraversa il mondo fenomenico per mirare le idee della volontà, le oggettivazioni pure. Come l'oggetto della rappresentazione diventa l'idea, così il soggetto, da soggetto immerso in un ambiente fenomenico, si eleva ad universale e in un ambito noumenico. L'arte non è uno schermo alla volontà come gli altri fenomeni, ma uno specchio della volontà, che appare come idea, o nella musica, come sé stessa. Con l'arte ci si libera dal dominio della volontà.
Quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Libertà e liberazione. L'etica è possibile solo se esiste la libertà; per Schopenhauer la libertà è assenza di necessità, e questo lo si ha quando l'intelletto, l'uomo si eleva dal mondo fenomenico al mondo noumenico, in cui non vige il determinismo imposto dalla volontà. Quindi l'etica è il processo di liberazione dell'uomo dal dominio della volontà. Un primo momento di liberazione è durante l'esperienza estetica, in cui l'uomo, posto alla pari della volontà, è nel mondo noumenico. Ma solo l'etica permette una permanenza stabile in tale ambito.
Scelta di carattere intelligibile. L'azione è sicuramente determinata dal carattere empirico dell'individuo, in quanto si dà nel mondo fenomenico; ma l'uomo ha la possibilità di scegliere il proprio carattere intelligibile, di scegliere il proprio comportamento etico una volta per tutte. Per liberarsi dal dominio della volontà, o ci si pone al suo stesso livello, ci si identifica con essa, e si afferma la vita e la volontà, cosicché si posa stare nell'ambito noumenico dove non esiste la necessità, o si nega la volontà, poiché la volontà non è altro che dolore. L'uomo può quindi scegliere la direzione del proprio comportamento, alla quale adeguerà le sue proprie azioni.
Fonti dell'etica e sue caratteristiche. L'etica non nasce da un imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un sentimento di compassione, dal patire le sofferenze altrui come proprie; non appena si sente la sofferenza altrui (non basta sapere che c'è), si sente l'unità noumenica della realtà. La morale ha come virtù la giustizia che è un freno all'egoismo, ed è una virtù negativa ("non fare il male"), mentre la carità è positiva ("allevia il male"). Con la pietà si vince l'egoismo, ma non ci si libera totalmente della vita e dunque della volontà.
Ascesi. La morale della compassione porta all'ascetismo, un insieme di pratiche che mortificano la volontà, che fanno capire come la volontà sia causa di sofferenza e sia l'essenza del mondo, cosa che fa desiderare la mortificazione della volontà. La voluntas, quando si autoriconosce, ha coscienza di sé, tende a farsi noluntas, a negarsi, e l'asceta tende a quello che, per persone normali, parrebbe il nulla, ma in verità è il tutto, mentre nulla è il mondo fenomenico. l'asceta nega la volontà, non vuole il nulla, ma vuole trasformare la volontà in non-volontà.
Pessimismo
Dolore, piacere, noia. Volontà è desiderare, e si desidera quello che non si ha; quindi volere è soffrire, alla base della volontà c'è la sofferenza, e la volontà provoca la sofferenza; se si appaga un desiderio, altri rimangono inappagati, e inoltre la fine del desiderio appagandolo, non dà la felicità, ma la mancanza di dolore, cessazione del dolore. Quindi non esiste il piacere ma la cessazione del dolore, e il piacere esiste se c'è il dolore, mentre il dolore non presuppone il piacere per necessità. Quando non c'è più desiderio subentra la noia; la noia è l'assenza di tensione, e come assenza alla fine dà dolore.
Pessimismo cosmico. Il dolore nell'universo si dà per la mancanza e per la sopraffazione nei confronti degli altri; il dolore è di tutti, ma l'uomo soffre di più perché ne è più cosciente.
Eros. L'eros è tanto forte perché è uno strumento della volontà per giungere alla riproduzione; quindi l'uomo, credendo di fare una cosa umana che lo realizza, è strumento della volontà; l'amore è sentito come un peccato poiché produce altri individui destinati a soffrire.
Critiche
Alla filosofia di Stato. Chi è pagato non può pensare liberamente.
All'ottimismo cosmico. Il mondo non è un organismo perfetto governato dall'assoluto, ma un'esplosione di forze irrazionali.
All'ottimismo sociale. Naturalmente, i rapporti fra gli uomini sarebbero di sopraffazione; gli uomini vivono insieme per limitare il bellum omnium contra omnes .
All'ottimismo storico. La storia non è scienza, poiché cataloga gli individui, non usa concetti; studiando l'uomo, si capisce che questo non muta essenzialmente.
FRASI SIGNIFICATIVE
“Chiunque noi siamo, e qualunque cosa possediamo il dolore ch’è essenza della vita non si lascia rimuovere”
“L’infelicità è per il nostro animo il calore che lo mantiene tenero”
“La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare.”
“L’amore autentico è sempre compassione; e ogni amore che non sia compassione è egoismo”
L’uomo è l’unico animale che provoca sofferenza agli altri senza altro scopo che la sofferenza come tale”
“Il giudizio universale è il mondo stesso”
“La vita umana è un continuo oscillare fra il dolore e la noia”
Ogni giubilo eccessivo nasce sempre dall’illusione di aver trovato nella vita qualcosa che è impossibile trovarvi, e cioè la pacificazione definitiva del tormento”
“Nella monogamia l’uomo ha troppo sul momento e troppo poco nel tempo; per al donna è il contrario”
“Il perpetuarsi dell’esistenza dell’uomo non è che una prova della sua lussuria”
“Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell’istinto sessuale. […] Se la passione del Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito”
“La malinconia attira, il tedio respinge”
“La vera vita del pensiero dura soltanto fino al confine delle parole: oltre il pensiero muore”
“Ciò che ha valore non viene stimato, e ciò che è stimato non ha alcun valore”
“Dei mali della vita ci si consola con al morte, e della morte con i mali della vita. Una gradevole situazione”
“Si può essere saggio solo alla condizione di vivere in un mondo di stolti”
“…alla fine tutti quanti siamo e restiamo soli”
“Io non ho scritto per gli imbecilli. Per questo il mio pubblico è ristretto”
“È la cattiveria il collante che tiene insieme gli uomini. Chi non ne ha abbastanza si distacca”
“Il filosofo non deve mai dimenticare che la sua è un’arte e non una scienza”
“Gli uomini completamente privi di genio sono incapaci di sopportare la solitudine”
“Se noi potessimo mai non essere, già adesso non saremmo”
“Alla natura sta a cuore solo la nostra esistenza, non il nostro benessere”
“Più si invecchia, meno quel che si vede, si fa e si vive lascia traccia nello spirito: non fa più alcuna impressione, siamo ormai insensibili”
“Più ristretto è il nostro campo di azione, di visuale e di relazioni, e più siamo felici”
Veniamo adescati alla vita dall’illusorio istinto del piacere: e veniamo mantenuti in vita dall’altrettanto illusoria paura della morte”
“Ogni sera siamo più poveri di un giorno”
“Dal punto di vista della giovinezza la vita è infinita; dal punto di vista della vecchiaia è un brevissimo passato”
“Si può dire quello che si vuole! Il momento più felice di chi è felice è quando si addormenta, come il momento più infelice di chi è infelice è quando si risveglia”
“A parte poche eccezioni, al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese”
“Per non diventare molto infelici il mezzo più sicuro è di non pretendere di essere molto felici”
“Tutti gli uomini vogliono vivere, ma nessuno sa perché vive”
“L’amicizia, l’amore e l’affetto degli uomini li si ottiene solo dimostrando loro amicizia, amore e affetto. […] Per sapere quanta felicità può ricevere una persona nella sua vita, basta sapere quanta ne può dare”
“La solitudine rende oggettivi; la compagnia rende sempre soggettivi”
“Il giustificato sprezzo degli uomini ci porta a rifugiarci nella solitudine. Ma il deserto di questa a lungo andare dà angoscia al cuore. Per sfuggire al suo peso, dunque, bisogna portarsela in società. Bisogna cioè imparare ad essere soli anche in compagnia, a non comunicare agli altri tutto ciò che si pensa, (a non) prendere alla lettera quello che dicono, al contrario, ad aspettarsi molto poco da loro, sia moralmente che intellettualmente”
“La malvagità, si dice, la si sconta nell’altro mondo; ma la stupidità in questo”
“Ciò che rende gli uomini socievoli è la loro incapacità di sopportare la solitudine e se stessi. […] Tutti i pezzenti sono socievoli, da far pietà”
“Il denaro è la felicità umana in abstracto; perciò chi non è più capace di goderla in concreto si attacca al denaro con tutto il suo cuore”
“Dopo che ogni sofferenza fu bandita nell’Inferno, per il Paradiso non restò altro che la noia: ciò dimostra che la nostra vita non ha altre componenti che la sofferenza e la noia”
“Se ad un Dio si deve questo mondo, non ci terrei ad essere quel Dio: l'infelicità che vi regna mi strazierebbe il cuore ”
“Chi ama la Verità odia gli dèi, al singolare come al plurale”
“Il grande dolore che ci provoca la morte di un buon conoscente e amico deriva dalla consapevolezza che in ogni individuo c’è qualcosa che è solo suo, che va perduto per sempre”
“Chiunque ami un altro essere quasi come se stesso, sia il figlio, la moglie o un amico, se questo essere gli sopravvive muore solo a metà: chi invece non ha amato altri che se stesso vuota il calice della morte fino in fondo”
“Che cosa si può pretendere da un mondo in cui quasi tutti vivono soltanto perché non hanno il coraggio di suicidarsi!”
“Ciò che rende gli uomini socevoli è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi. ”
“Il suicida è uno che, anziché cessar di vivere, sopprime solo la manifestazione di questa volontà: egli non ha rinunciato alla volontà di vita, ma solo alla vita. ”
“La salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente ”
“Le religioni sono come le lucciole: per splendere hanno bisogno delle tenebre. ”
“L'intelligenza è invisibile per l'uomo che non ne possiede. ”
“Noi ci consoliamo delle sofferenze della vita pensando alla morte, e della morte pensando alle sofferenze della vita”
SØREN KIERKEGAARD
Se mi etichetti mi annulli.
L’opera di Kierkegaard si colloca negli anni immediatamente precedenti il 1850 e, benchè il filosofo sia morto prematuramente, ci ha lasciato un numero cospicuo di scritti. Importante nella sua formazione è il luogo di nascita, la Danimarca, che in quegli anni si configurava come una sorta di periferia del mondo intellettuale tedesco e, proprio per questo, risentiva molto del pensiero hegeliano. E non a caso Hegel sarà l’idolo polemico contro il quale Kierkegaard costruirà il proprio sistema filosofico, pur avendo in gioventù aderito all’hegelismo (cosa di cui si pentirà esclamando ” io, stupido hegeliano “). Nella sua formazione culturale ha molto peso la famiglia, in particolare il padre, che trasmette al figlio l’attaccamento alla religione luterana (in particolare il forte senso del peccato). Di Kierkegaard possediamo un diario, nel quale trovano spazio, e anzi vengono ingigantite, anche le situazioni più banali, quale ad esempio la rottura del fidanzamento. Ed è nel diario che troviamo narrato un episodio, riguardante il padre, che sconvolse indelebilmente il giovane Kierkegaard: racconta di aver visto il padre commettere uno di quei peccati che lui stesso sempre condannava e quest’esperienza rappresentò un vero trauma, poiché vide crollare una figura austera nella quale nutriva fiducia. Fin dalle pagine del diario, ci si può rendere conto di come in Kierkegaard sia costante l’idea che, al di sotto della superficie, anche quando tutto sembra andar bene, vi sia in realtà un tarlo profondo che corrode ogni cosa di nascosto: ed è proprio questo tarlo che Kierkegaard si propone di indagare con la sua filosofia. Tornando alla formazione del giovane filosofo, il padre lo spinse a seguire gli studi di teologia per poter diventare pastore protestante, ma tali studi si protrassero troppo a lungo per via di quell’incapacità di prendere decisioni che ben si evincerà dagli sviluppi della sua filosofia: è come se Kierkegaard volesse prolungare in eterno la propria adolescenza, senza mai diventar uomo. Questa fase corrisponderà ad uno dei tre “stadi della vita” (estetico, etico, religioso) che il filosofo delineerà nella sua riflessione: anzi, si potrebbe dire che in fin dei conti i tre stadi della vita umana altro non sono che i tre stadi della vita personale di Kierkegaard. Altro episodio centrale nella vita del pensatore danese è un lungo fidanzamento che, in prospettiva, avrebbe potuto rappresentare quella vita adulta, tanto temuta, che continuava a rinviare; e proprio per questo vi sarà la rottura del fidanzamento. Ma non per questo Kierkegaard dovrà fare il pastore protestante per guadagnarsi da vivere: infatti, egli, dopo la morte del padre, ereditò un patrimonio tale da potersi permettere di vivere di rendita; e così, senza inserirsi nella vita matrimoniale o in quella lavorativa, egli si dedicherà a quello “stadio” da lui definito come religioso, entrando in conflitto con la Chiesa luterana della Danimarca: ad essa rimproverava aspramente il fatto che andasse sempre più istituzionalizzandosi. La religione di Kierkegaard sarà, infatti, drammatica e sofferta e, in tale prospettiva, inconciliabile con quella della Chiesa danese, che con il suo eccessivo adattamento alla società (“teologia liberale”) ben poco aveva di drammatico. E, a tal proposito, Kierkegaard gioca la carta di Lutero contro il luteranesimo stesso: in Lutero, infatti, convivono due aspetti contrastanti, per cui, da un lato, troviamo una religiosità profonda e drammatica, caratterizzata da un disperato tentativo di rispettare la regola, e, dall’altro lato, un costante invito ad inserirsi nella società civile, nella convinzione che un vero cristiano debba inquadrarsi nella società attraverso il lavoro e la famiglia. Ecco perché Lutero appare nel contempo come uomo medioevale (per la sua religiosità disperata) e moderno (per la centralità della società e del lavoro). E proprio l’invito luterano ad inquadrarsi nella società sarà accettato da Kierkegaard nel secondo stadio della vita, quello etico (invito già peraltro accettato da Hegel nel momento dell’Eticità). Ed è però per colpa di Hegel e del suo abbandono della drammaticità religiosa che la Chiesa luterana è diventata quel che è diventata, dice Kierkegaard: adagiatasi sulle posizioni hegeliane, essa si è scordata dell’aspetto drammatico della religione in Lutero e si è concentrata solamente sull’inserimento nella società così come essa è (e proprio questo porterà la Chiesa luterana ad aderire al nazismo). Kierkegaard, a differenza delle tendenze hegelizzanti, fa prevalere di Lutero la sfera drammatica e disperata, occupandosi principalmente di problematiche esistenziali. Infatti, non gli interessa come sia fatto il mondo, ma il destino dell’uomo di fronte alle proprie scelte, ed è in virtù di questo interessamento che Kierkegaard può essere considerato un esistenzialista , collocandosi in quel filone di pensiero destinato a riscuotere così grande successo nel Novecento. E da vero esistenzialista, mira a comprendere l’uomo nella sua individualità, poiché gli uomini non sono nulla all’infuori che nella loro individualità; gli interessi di Kierkegaard vertono (a differenza di quelli di Hegel) sull’esistenza e non sull’essenza e l’esistenza in questione è quella del singolo. Ed è proprio su queste considerazioni che matura l’avversione di Kierkegaard nei confronti di Hegel, accusato di voler inquadrare ogni cosa (compreso l’uomo) in categorie troppo astratte e sganciate dalla realtà: e infatti Hegel non parla mai del singolo uomo, ma sempre del popolo o dell’umanità. E anche quando parla dell’uomo, in realtà sembra che non stia parlando di noi, sostiene Kierkegaard; da qui emerge il suo interesse per l’io come singolo, ovvero per l’io concreto, sganciato dalla nebulosa astrattezza in cui l’aveva avvolto Hegel. Del resto, osserva Kierkegaard, checchè ne pensi Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come umanità e spirito. Prima di addentrarci nel merito della sua filosofia, passiamo in rassegna gli illustri antecedenti di Kierkegaard: in primo luogo, come abbiam visto, troviamo Lutero, da cui mutua il concetto di fede e di angoscia (per Lutero la paura è paura di qualcosa, l’angoscia è paura del nulla); accanto all’eroe della Riforma protestante, troviamo Blaise Pascal e il suo disinteresse per i discorsi teologici su Dio; a Pascal interessava non tanto se Dio esistesse, quanto piuttosto che senso avesse per l’uomo credere in Dio. E’ curioso notare come sia Lutero sia Pascal non siano filosofi in senso stretto: in loro la filosofia è al confine con la religione e anche in Kierkegaard, in qualche misura, sarà così; il suo pensiero, non a caso, dopo una sepoltura durata mezzo secolo, verrà ripreso e fatto rinascere da un nutrito gruppo di teologi (tra cui Barth). E in effetti si può ben capire perché un pensiero interessato all’esistenza tenda a scivolare nella religione: Aristotele aveva fatto notare che la scienza è sempre scienza dell’universale e che l’individuale esula da essa. Infatti, posso dire che cosa è l’uomo o che cosa è il triangolo solo dopo che li ho definiti, ma il singolo uomo (Socrate, Gorgia, Platone, ecc.) non è definibile, ma sfugge ad ogni forma di inquadramento intellettuale (e dunque ad ogni forma di filosofia), cosicchè per indagare l’esistenza dei singoli è necessario percorrere strade alternative. E così l’esistenzialismo di Kierkegaard, di Lutero e di Pascal prova la via religiosa, mentre quello del Novecento prova quella del teatro e della letteratura (Sartre e Camus), poiché il teatro, la letteratura e la religione consentono di presentare situazioni concrete ed individuali. Ecco perché Kierkegaard è un pensatore religioso che cerca di incarnare in persone concrete le sue categorie generali (questo spiega anche perché scrivesse spesso sotto pseudonimo): troveremo pertanto personaggi desunti dal mito, dalla tradizione letteraria e religiosa, che rappresentano costantemente il singolo; Don Giovanni rappresenterà l’incarnazione estetica, Guglielmo e Agamennone quella etica, Adamo e Abramo quella religiosa. Entriamo ora nel merito della filosofia kierkegaardiana: esistenza, possibilità e singolarità sono le tre categorie con cui la filosofia esistenzialista del pensatore danese si oppone alle filosofie tradizionali, in particolare a quella di Hegel, vista come eccessivamente astratta e per questo incapace di cogliere la realtà. Queste stesse accuse venivano in quegli anni mosse all’hegelismo da pensatori come Marx, Feuerbach e Schopenhauer: ma Kierkegaard si differenzia da essi in quanto prova a recuperare la concretezza dell’esistenza dei singoli, nella convinzione che la realtà non sia l’essenza dell’uomo (lo Spirito hegeliano), ma l’esistenza effettiva. E Kierkegaard vuole proprio indagare il singolo, caratterizzato dall’essere irriducibile all’universalità. Ecco dunque che la categoria di esistenza viene contrapposta a quella hegeliana di essenza; e per far ciò, il pensatore danese si riaggancia alle riflessioni dello Schelling maturo che aveva rinfacciato ad Hegel di aver elaborato una filosofia “negativa”, cioè incapace di cogliere, al di là dell’essenza, l’esistenza dell’uomo. E infatti, l’errore imperdonabile di Hegel sta nell’aver fatto derivare in modo necessario l’esistenza dall’essenza (la Natura come derivazione necessaria dall’essenza dell’Idea), senza accorgersi dell’incapacità dell’essenza di spiegare l’esistenza. Tuttavia Kierkegaard, pur apprezzando Schelling per queste riflessioni, ne critica l’eccessiva nebulosità del discorso, come se dietro ad essa si nascondesse troppa astrattezza. Dunque, abbandonato Schelling, cerca conferme dell’irriducibilità dell’esistenza all’essenza in altri pensatori e le trova in Kant: quest’ultimo, infatti, aveva smontato la prova ontologica dell’esistenza di Dio elaborata da Anselmo di Aosta mettendo in evidenza come l’esistenza sia un qualcosa di sganciato ed indipendente dall’essenza, cosicchè (diceva Kant) dall’essenza del concetto di Dio non se ne può dedurre l’esistenza. In altri termini, per Kant l’esistenza era una “posizione” assoluta che esulava completamente dall’essenza. E Kierkegaard, riprendendo queste considerazioni, conduce un’analisi della categoria di esistenza che fonderà la riflessione degli esistenzialisti novecenteschi: essi faranno, infatti, notare che esistere (dal latino existo , “vengo fuori”) significa venir fuori dal concetto, ossia non essere riconducibili ad essenza, riconfermando la tesi kantiana secondo cui l’essenza e l’esistenza sono indipendenti. Sempre nel Novecento, si farà notare che l’esistenza è un venir fuori nel senso che, in fin dei conti, ciascuno di noi non è mai tutto in se stesso, ovvero non si è mai solamente ciò che si è, ma anche ciò che si sta decidendo progettualmente di essere, con la conseguenza che l’uomo non è tanto quel che è nel presente, quanto piuttosto ciò che verrà ad essere in seguito alle sue scelte. L’accezione di esistenza colta dall’esistenzialismo ,dunque, è duplice: implica il venir fuori dal concetto e da se stessi (e il venir fuori da se stessi in Kierkegaard è solo implicito). Centrale nel pensiero di Kierkegaard è, accanto alla categoria di esistenza, quella di futuro : Hegel individuava come dimensione temporale fondamentale il passato, facendo notare che “essenza” vuol dire “ciò che è stato” (come già aveva mostrato Aristotele), cosicchè il pensatore tedesco non si lasciava mai andare a descrizioni del futuro, ma restava saldamente ancorato al presente e, soprattutto, al passato. Ma, dice Kierkegaard, la nostra categoria è quella del presente che si proietta nel futuro, poichè ciascuno di noi esiste come singolo e progetta la propria vita affacciato sull’avvenire. E così il futuro viene contrapposto al pasato, come l’esistenza è contrapposta all’essenza; allo stesso modo Kierkegaard contrappone la singolarità indagata dalla sua filosofia all’universalità del pensiero hegeliano. Infine, alla necessità tipica del sistema hegeliano, egli contrappone la possibilità : se la scienza e la filosofia cercano di scoprire le leggi necessarie del funzionamento della realtà, l’esistenza, dal canto suo, sfugge alla necessità; ciascuno di noi, infatti, per quel che riguarda l’essenza è necessariamente uomo, ma per quel che riguarda l’esistenza è libero di effettuare le proprie scelte guardando al futuro e le scelte non possono che farsi nella possibilità. Dalla categoria della possibilità si passa così a quella della soggettività , ossia della verità soggettiva: infatti, l’analisi che Kierkegaard vuole fare della realtà non è oggettiva, ma dell’uomo singolo nella sua soggettività. Kierkegaard, da buon cristiano, è convinto che vi sia oggettivamente una religione vera (quella cristiana) e una miriade di religioni false; ma, da vero esistenzialista, più che occuparsi della verità universale di tali religioni, si occupa del modo in cui ciascuno si rapporta soggettivamente ad esse. Ciò equivale a dire che a Kierkegaard, pascalianamente, interessa non tanto se Dio esista, quanto piuttosto che importanza abbia per l’esistenza soggettiva credere o meno nell’esistenza di Dio. ” E’ più facile che sia salvato un persecutore di cristiani che non un insegnante di teologia ” egli afferma, a sottolineare che il persecutore ha vissuto autenticamente (anche se in modo sbagliato) le proprie convinzioni, mentre l’insegnante fa il proprio lavoro in maniera puramente oggettiva, senza partecipazione soggettiva; allo stesso modo, la verità scoperta da Galileo era oggettiva, mentre quella di Giordano Bruno era soggettiva e, pertanto, doveva essere vissuta fino alla morte. Ed è dentro queste categorie che Kierkegaard costruisce (in Aut-aut e Timore e tremore ) quelli che lui chiama ” stadi della vita ” (estetico, etico, religioso): Aut-aut segna il passaggio dal primo stadio (estetico) al secondo (etico), mentre Timore e tremore (espressione desunta da san Paolo) segna il passaggio dal secondo (etico) al terzo stadio (religioso). Gli stadi della vita sono tre modelli generali di vita che, tipicamente, l’individuo può scegliere nella sua esistenza e queste scelte sono, tendenzialmente, in sequenza, per cui si tenderà a partire dallo stadio estetico per poi passare gradualmente agli altri due. Ne consegue che lo stato etico nasce come superamento di quello estetico, e quello religioso come superamento di quello etico: tuttavia, non si tratta di un superamento di matrice hegeliana, cioè retto dalla necessità (altrimenti tutte le categorie esistenzialiste perderebbero di significato); al contrario, il passaggio da uno stadio all’altro è dettato da una libera scelta del singolo. Certo, il pieno sviluppo di uno stadio può creare condizioni favorevoli per il passaggio allo stadio successivo, ma, in ultima analisi, spetta sempre al singolo scegliere se compiere il ” salto mortale “, ossia uscire da quello stadio e passare al seguente o rimanervi. Un’evidente analogia con la dialettica hegeliana sta nel fatto che anche qui ci troviamo di fronte ad un procedimento triadico: tuttavia il procedimento kierkegaardiano si differenzia perchè, oltre ad avvenire liberamente e non secondo necessità, riguarda sempre e solo i singoli e non l’universale; inoltre, la logica hegeliana era quella dell’ “et-et”, dove cioè valeva tutto e il contrario di tutto, visto che l’intelletto coglieva le contraddizioni e la ragione le ricuciva mettendo in evidenza come esse si richiamassero a vicenda: in altri termini, Hegel coglieva le contraddizioni solo per negarle e superarle, cosicchè, detto banalmente, il nero era sempre anche bianco e pertanto si trattava di una logica dove valeva sia A sia B (“et-et”). E questo, nota Kierkegaard, è un procedimento corretto solo se riferito alla sfera dell’astratto: se passiamo all’esistenza, la logica dell’et-et perde di significato, in quanto quando il singolo sceglie una cosa, per questo stesso motivo ne esclude altre. Ne consegue che se per la logica vale l’et-et, per l’esistenza vale invece l’aut-aut (come recita il titolo dell’opera di Kierkegaard): si sceglie o questo o quello, e la scelta dell’uno implica l’esclusione dell’altro. Detto questo, Kierkegaard cala i tre stadi della vita in personaggi concreti: l’eroe del momento estetico è il Don Giovanni, personaggio desunto dall’omonima opera di Mozart (riconosciuta da Kierkegaard, come da Schopenhauer, capolavoro assoluto della musica). Don Giovanni è il seduttore che mira a conquistare tutte le donne che gli capitano sotto mano ed è per questo il simbolo della vita estetica, ovvero del vivere le sensazioni che il mondo fornisce; l’esperienza estetica è prevalentemente di tipo quantitativo (alla qualità delle donne Don Giovanni preferisce la quantità) e consiste, essenzialmente, nel vivere dell’istante, godendo in maniera puntiforme di ogni sensazione che la realtà offre. La prima caratteristica dell’esteta sarà pertanto di presentarsi come spirito assolutamente libero: ma in realtà egli è tutto fuorchè libero. E’ infatti il mondo che sceglie per lui: l’unica scelta che egli fa è di non scegliere, ossia di scegliere che sia il mondo a scegliere per lui. E infatti Don Giovanni, scegliendo tutte le donne, non ne sceglie nessuna: è il mondo che gliele offre; la libertà di cui l’esteta si vanta è allora una mancanza di libertà, la dominazione della realtà di cui si sente capace è solo apparente, e la sua soggettività è del tutto inesistente visto che non compie scelte. Accanto alla seduzione fisica incarnata dal don Giovanni, Kierkegaard propone, con la figura di Johannes (che compare in alcune lettere), il seduttore intellettuale, capace di sedurre attraverso le epistole. La vita dell’esteta, che sembrava traboccante di libertà, si rivela invece essere tutto l’opposto (capovolgimento più hegeliano del previsto): l’esito di questa rinuncia alla libertà di costruire la propria vita nel tempo è la disperazione . Infatti, in una situazione in cui il soggetto si smarrisce e si trova privo di libertà, non può non nascere la disperazione. E’ un esito necessario: ma non è necessaria (bensì è libera) la scelta di uscire da questa disperazione. La figura dell’esteta, nota Kierkegaard, è cosciente della disperazione, ma spesso sa metabolizzarla vivendola esteticamente: un pò come l’ape che si sposta di fiore in fiore e carpisce nell’istante ciò che le è offerto, quando perviene alla disperazione può viverla esteticamente (un pò come il protagonista de Il piacere di D’Annunzio), in modo aristocratico, dicendo di aver capito che la vita non ha un senso e, proprio in virtù di questa scoperta, rivendicando una presunta superiorità. Dunque, la disperazione è il risultato necessario della vita estetica: ma poi sta all’uomo scegliere se vivere esteticamente anche la disperazione o passare allo stadio successivo, quello della vita etica. Ecco dunque che è la disperazione a portare al superamento del momento estetico, un pò come in Lutero era la desperatio fiducialis a portare alla salvezza. Analogamente a come era in Hegel, anche in Kierkegaard lo stadio della vita etica si caratterizza come dimensione in cui l’uomo vive calato nei valori della collettività: la figura che meglio incarna tale stadio è quella del consigliere di stato Guglielmo, classico burocrate statale. Egli viene presentato come corrispondente epistolare che si rivolge tramite lettera ad un amico più giovane che si trova in difficoltà suilla strada da scegliere, indeciso tra vita estetica e vita etica. E Guglielmo, con forti richiami alla tradizione luterana, gli illustra i valori positivi della vita matrimoniale (che rientra nello stadio della vita etica), invitandolo a calarsi professionalmente e matrimonialmente nei valori della vita etica. Se la scelta della vita estetica è, paradossalmente, di non scegliere, quella della vita etica consiste invece nello scegliere di scegliere: si è consapevoli di scegliere e di portare fino in fondo tali scelte. Se poi la dimensione temporale della vita estetica era puntiforme, quella della vita etica si configura piuttosto come una linea retta, ovvero come scelta che avviene nel tempo del progetto: non avendo un progetto, la vita estetica viveva nell’istante; avendocelo, quella etica progetta nel tempo. L’uomo etico vuole infatti cambiare continuamente e per questo l’etica vive nella ripetizione, cioè nel desiderare di continuo la scelta fatta a suo tempo: la vita matrimoniale e quella lavorativa ne sono il simbolo. Tuttavia, anche l’atteggiamento etico entra in crisi: pur essendo superamento di quello estetico, ha il limite di mancare di valore assoluto, dal momento che la vita umana è finita e l’uomo etico è privo di un aggancio con l’Assoluto; da ciò scaturisce una crisi che travolge la finitezza dell’uomo etico ed è simboleggiata dal pentimento, ovvero dal rendersi conto della propria finitudine che rende insignificanti le scelte etiche. Scatta a questo punto la possibilità di una nuova dimensione, quella della vita religiosa, che trova in Abramo il suo eroe. Dio gli chiede di sacrificare suo figlio Isacco e, proprio quando sta per farlo, viene bloccato da un messo divino. L’accettazione totale della volontà divina simboleggia l’uomo religioso, che si caratterizza anche per il fatto di essere completamente solo nel suo agire e, anzi, in conflitto con la comunità che condannerebbe l’uccisione del figlio. Dunque Abramo è solo e va contro l’eticità: ecco perchè nella Bibbia l’uomo religioso è spesso solo nel deserto, dove può parlare a tu per tu con Dio stesso. Questo rappresenta quell’aggancio con l’Assoluto di cui la sfera etica manca: inoltre, il Dio di Abramo non è (come già aveva detto Pascal) quello dei filosofi, degli scienzati e dei teologi, ma è il Dio persona con cui si può dialogare abbandonando la civiltà. E Kierkegaard nota che, a differenza di quella di Abramo, la scelta di Agamennone, il quale, per poter salpare con la flotta, deve ingraziarsi gli dei sacrificando la propria figlia Ifigenia, è una scelta etica, che non viene compiuta in solitudine a tu per tu con Dio (infatti Agamennone è attorniato dal coro, emblema del popolo greco e quindi dell’eticità). Succede (un pò come nella scommessa di Pascal) che chi si è giocato tutto puntando su Dio ha fatto la scelta più libera che si potesse fare e, oltre a riavere tutto ciò che era disposto a perdere (Isacco), ci ha anche guadagnato (diventando capostipite del popolo eletto). L’uomo religioso vive nel “momento”, ovvero nella riproposizione dell’istante, ma è un istante dotato di senso assoluto, poichè, se l’estetica è mancanza di tempo e l’etica è tempo lineare, la religiosità è inserzione dell’eternità nel tempo , ovvero è l’eterno che si cala nel tempo (anche in Hegel l’idea atemporale si calava nello spazio della natura e nel tempo dello spirito). Qui però non c’è mediazione tra eternità e tempo, in quanto è l’eternità che irrompe nel tempo facendone saltare le regole, idea che ben si accosta a quella cristiana di Dio che si incarna in Cristo e nella storia. Se Hegel insisteva che tale calarsi di Dio è una metafora usata dalla religione per esprimere il calarsi dell’Idea nella natura, per Kierkegaard non è così ed egli infatti si riaggancia al cristianesimo radicale, caratterizzato dal fatto che non si concepisca come continuazione e completamento della tradizione classica, ma come opposizione ad essa (Tertulliano rientrava in quest’ambito): il comportamento di Abramo, dice Kierkegaard, è assurdo agli occhi della filosofia, è un paradosso; lo stesso san Paolo (che dapprima fu persecutore dei cristiani) definì la croce come “follia per i pagani”, a sottolineare l’assurdità dell’eternità che irrompe nel tempo. Ecco perchè per Kierkegaard il cristianesimo è la religione del paradosso che fa saltare le categorie della tradizione classica. E così la filosofia kierkegaardiana sfia kierkegaardiana si avvita sulla riflessione religiosa, la cui categoria principale è quella di angoscia : il concetto, che sarà ripreso dagli esistenzialisti del Novecento, fu esaminato dettagliatamente per la prima volta da Lutero, che definì l’angoscia come paura del nulla, ossia paura priva di un oggetto. Kierkegaard la riprende in quest’accezione e si può notare come essa e l’angoscia siano facce della stessa medaglia: la disperazione, infatti, è quel senso del nulla interiore che l’esteta prova nel rendersi conto che la vita estetica è nulla; si tratta di una sorta di tarlo interiore che mette in luce la nullità di fondo che caratterizza l’esistenza umana. L’angoscia, dal canto suo, è esteriore rispetto alla disperazione ed è legata alla categoria di possibilità: infatti, nota Kierkegaard, la categoria di possibilità è ambigua, poichè da un lato è positiva ( ” ciò che l’uomo desidera sempre e comunque è una possibilità “) perchè rende possibile la libertà e l’allontanamento dalla disperazione, ma, dall’altro lato, è negativa, in quanto possibilità vuol sempre anche dire possibilità di cadere nel nulla ed è per questo accostata al senso di vertigine che si prova a guardar giù dalle alture. Infatti, quando si sceglie si ha sempre l’impressione di poter essere risucchiati dal vuoto e di poter piombare nel baratro del nulla. Dunque, se l’essere in senso hegeliano è sempre necessario, l’esistenza, invece, è libera di scegliere bene o male e proprio per questo è strutturalmente legata al senso di angoscia, ovvero alla paura di precipitare nel nulla. Ed è dalle vicende di Adamo e del suo peccato originale che affiora la bivalenza della possibilità: ma se la paura è una condizione accidentale (che si verifica cioè solo in presenza dell’oggetto che incute timore), l’angoscia, invece, è costitutiva dell’esistenza umana proprio perchè l’esistenza è possibilità e la possibilità genera angoscia. L’unica paura necessaria, esulante da ogni accidentalità, è la morte: ma la paura della morte, nota Kierkegaard, è essa stessa angoscia, in quanto è timore del nulla. Alla categoria di angoscia è indisgiungibilmente connessa quella di fede : la fede è la sola cosa, aggrappandoci alla quale, possiamo compiere quel salto decisivo che ci consente di uscire dall’angoscia. Finchè restiamo nella nostra condizione umana, il timore del nulla non può essere debellato (nell’estetica per la sua non-libertà di scelta e nell’etica per la sua finitudine), ma non appena optiamo per la scelta religiosa (abbracciando la fede), ecco allora che sfuggiamo all’angoscia e alla disperazione e troviamo un riparo da essi nell’Assoluto. Nel Novecento, accanto agli esistenzialisti credenti e a quelli difficili da catalogare, come Heidegger (Vattimo dà di lui un’interpretazione non-religiosa), vi saranno anche esistenzialisti atei che riprenderanno le riflessioni di Kierkegaard, rimproverando però al filosofo danese e, in generale, all’esistenzialismo religioso di aver tradito l’istanza esistenzialistica originaria ricorrendo a Dio: infatti, l’esistenzialismo è tutto incentrato sulla possibilità ed essa, per essere tale, non può agganciarsi a Dio, perchè così facendo si approda al porto sicuro della fede e si tappa l’enorme falla del nulla, tipica della ricerca esistenzialista. Camus, ad esempio, insisterà vivamente sul concetto di assurdo e sull’accettazione da parte dell’uomo dell’assurdità dell’esistenza; l’uomo di Camus saprà dunque vivere fino in fondo la condizione di ineliminabile assurdità dell’esistenza. Tuttavia, contro la critica mossa dall’esistenzialismo ateo, si può spezzare una lancia in favore di Kierkegaard, facendo notare come per lui la fede non rinneghi la matrice esistenzialista: infatti, egli non la concepisce in modo tranquillo e sereno, come un porto in cui trovar riparo; al contrario, la vive in modo drammatico e problematico (l’immagine della fede è per lui Abramo), come l’avevano vissuta Tertulliano, san Paolo, Lutero e Pascal, non in modo tranquillo e sereno come Erasmo e Tommaso.
GRIGLIA RIASSUNTIVA
Esposizione sintetica
Vita
K. nacque a Copenaghen il 5 maggio 1813, ultimo di sette fratelli, dalle seconde nozze del padre (con la domestica). Quando Søren nasce il padre aveva 56 anni e la madre 44; cinque suoi fratelli morirono prima di lui. Di temperamento malinconico, introverso e riflessivo, K. ebbe dal suo ambiente familiare un senso di maledizione incombente, e non ebbe una giovinezza spensierata.
La sua fede, molto forte, si ispirò più alla drammaticità del Crocifisso che alla letizia dell'incontro cristiano. Come ricordano dei suoi studiosi gli furono da subito familiari concetti come il dolore, il peccato, il sangue. Traumatica poi fu per lui la scoperta di una colpa paterna, di cui egli non precisa gli esatti contorni.
Importante nella sua vita fu anche la rottura del fidanzamento con Regina Olsen (da lui descritta con toni angelicati): fu lui a non voler concludere il matrimonio, per motivi anche qui non del tutto precisati (vuoi la sua malinconia, vuoi una, variamente interpretata, "spina nella carne", vuoi per potersi dedicare interamente alla sua missione intellettuale, da lui vista con toni fortemente religiosi); ma il suo ricordo continuò potentemente ad agire in lui. K. decise di vivere da penitente, dedicandosi tutto al rapporto con Dio e alla sua vocazione di scrittore.
Nel 1841 ascoltò Schelling a Berlino, rimanendone dapprima entusiasta (era lo Schelling della filosofia positiva, con la sua sottolineatura dell'esistente), poi deluso.
opere
Pubblicò, spesso con pseudonimi, tra l'altro le seguenti opere:
Sul concetto di ironia | 1841 |
Aut-aut | 1843 |
Timore e tremore | 1843 |
Il concetto dell'angoscia | 1844 |
Briciole filosofiche | 1844 |
Stadi sul cammino della vita | 1845 |
Postille conclusive non scientifiche alla Briciole filosofiche | 1846 |
La malattia mortale | 1849 |
suoi bersagli polemici:
a) la Cristianità stabilita
- Kierkegaard critica il Cristianesimo intiepidito quale era vissuto dalla Chiesa luterana del suo tempo, che aveva dimenticato la portata radicale del Vangelo, il suo essere scandalo e paradosso e ne aveva fatto una comoda religione del buon senso comune, una moralità fatta di massime razionalmente condivisibili. In particolare nel 1846 va segnalata la sua polemica con Il Corsaro.
b) Hegel
la verità soggettiva
Da Hegel lo differenzia il concetto di soggettività della verità, da intendersi non nel senso di soggettivismo, ma come valenza esistenziale del vero: la filosofia non deve rimanere fredda e astratta sintesi sistematica, ma deve illuminare l'esistenza.
"la via della riflessione oggettiva trasforma il soggetto in qualcosa di accidentale, e quindi riduce l'esistenza in qualcosa di indifferente, di evanescente", "porta dunque al pensiero astratto". "Al suo culmine la soggettività è svanita" .
"la passione è precisamente il culmine dell'esistenza (..). Se ci si dimentica di essere un soggetto esistente, la passione se ne va (..), ma il soggetto (..) diviene un'entità fantastica." (Postilla)
"succede alla maggior parte dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello, e poi se ne andasse a vivere in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell'enorme costruzione sistematica." (Diario)
Invece la verità che interessa K. è quella che fa "comprendere se stesso nell'esistenza" (Postilla)
"se stesso": a) singolo irriducibile all'organismo storico-statale, irriducibile a momento dello sviluppo dialettico dello Spirito; e b) chiamato a scegliere (aut-aut), per il quale dunque la verità non è scindibile dal bene personalmente voluto e attuato (a differenza di Socrate);
K. interpreta anche la celebre definizione tomista di verità come adaequatio intellectus ad rem:
- l'intellectus, che si "adegua" alla realtà, non è nè la Ragione trascendentale, nè un Ragione astratta, ma il "pensiero soggettivo" del concreto esistente;
- a cui preme non l'essere-in-sé, un essere astratto, conosciuto sistematicamente, ma la propria esistenza (a cui è "infinitamente interessato", Postilla), fatta di eventi contingenti, non deducibili dalla necessità dell'Idea, dunque drammatica. In ciò polemizza tanto contro la tranquillità della coscienza hegeliana, per la quale tutto è necessario e razionale, quanto contro la Cristianità stabilita, che non coglie il carattere drammatico della vita).
Palando del Giudizio Universale K. immagina che su quattro che si presenteranno al Supremo Giudice, tre non cristiani, ma con sofferente ricerca, e uno cristiano, anzi professore universitario, ma animato dalla presuntuosa convinzione di aver spiegato il Cristianesimo, sarà proprio quest'ultimo ad essere nella situazione peggiore.
la dialettica
Hegel, con la sua dialettica dell'et-et, sintetizzava gli opposti: per lui non c'è antitesi che non possa essere riassorbita e riconciliata in una sintesi. Parallelamente tutto il cammino della vita umana, personale e collettiva, si snoda secondo una logica necessaria: senza che vi sia responsabilità della libertà personale.
Kierkegaard invece sottolinea con forza appunto una prospettiva incentrata sulla persona, che si caratterizza per la possibilità di scelta libera, e di scelta tra alternative inconciliabili. Non un et-et, che dispensa dalla scelta un singolo visto come trascinato dall'inesorabile flusso della collettività storica, ma un aut-aut, che impegna la persona nella sua indelegabile, indemandabile libertà personale, in un dramma assolutamente personale, in cui ne va del proprio destino eterno.
gli "stadi" dell'esistenza (in aut-aut)
La filosofia deve interessarsi essenzialmente dell'esistenza, e l'esistenza può, in ultima analisi, avere tre forme, o stadi: estetico, etico e religioso. La tripartizione kierkegaardiana può trovare delle analogie, oltre che con il ritmo ternario che Hegel aveva ripreso da una tradizione medioevale, con la teoria dei tre ordini di Pascal: la materia (estetica), lo spirito(etica), la carità (religiosità). Tra uno stadio e l'altro il passaggio non è necessario automatismo, ma salto, effettuabile solo dalla libertà del singolo.
1. estetico [tesi / pura particolarità /sensibilità ]
L'uomo che vive in questa forma, l'esteta, rifiuta tutto ciò che è impegnativo, ripetitivo, serio:
"chi vive esteticamente vive sempre solo nel momento"
L'esteta ricerca sensazioni sempre nuove, idolatrando l'istante fuggevole che non affondi radici nel passato e non costruisca impegnativamente il futuro. Per questo "la sua vita si disfa in una serie incoerente di episodi" senza senso ultimo; analogamente egli rifiuta ogni legame stabile, tanto a livello affettivo, quanto a livello sociale.
Figura-simbolo della vita estetica è il Don Giovanni, il seduttore, che non si lega mai ad una donna, ma passa senza sosta da una donna all'altra, nessuna amando mai veramente, senza vera storia e senza prospettiva.
L'esteta in tal modo fugge continuamente da sé stesso, distraendosi nell'esteriorità (in una esteriorità alienante, si potrebbe dire), ed è contrassegnato dalla noia (come dice Kierkegaard in Aut-aut), ed è in fondo, lo sappia o no, disperato.
2. etico [antitesi / pura universalità /ragione ]
È caratterizzato da stabilità, fedeltà, ripetitività: figura-simbolo ne è il matrimonio; in questo stadio l'uomo si sottopone a una forma, a una regola, a un impegno costante nel tempo, sceglie insomma l'universale. Ma non si tratta ancora dello stadio che vede la realizzazione piena dell'umano.
Un uomo che voglia essere davvero serio, e non rigoristicamente e farisaicamente serioso, deve infatti riconoscere che nella sua vita c'è il peccato e ci sono quella angosce e quella disperazione che la semplice razionalità e l'osservanza pur meticolosa di regole universali non bastano a sanare; anzi in questo stadio l'uomo non riesce a guardare in faccia davvero la Medusa terribile del suo proprio male. Per raggiungere la verità di sé e della propria vita bisogna andare oltre: solo se amato da un Altro, che sia Infinita Misericordia l'uomo può guardare davvero a sé come a un "io". Perciò il passo ultimo della vita etica è il pentimento , il porsi di fronte al Dio personale che si rivela in Cristo, ma questo lo spinge a trapassare nello stadio religioso.
c. religioso [sintesi / di universale e particolare/ fede ]
In questo stadio soltanto l'uomo affronta fino in fondo sé stesso, quell'io di cui finora aveva censurato quegli aspetti che non riusciva a capire e a risolvere, ossia l'angoscia e la disperazione.
Tali aspetti non sono, per Kierkegaard, stati d'animo eccezionali e propri di certi temperamenti al limite della patologia, ma sono intrinseci strutturalmente al modo con cui ogni soggetto umano guarda a sé e al mondo.
a. ex parte obiecti l'angoscia (trattato ne Il concetto dell'angoscia)
L'angoscia è strutturale in ogni essere umano, in quanto radicata nella sospensione della conoscenza umana (riferita essenzialmente al futuro) tra il sapere del puro immediato (tipicamente animale) e il sapere della totalità concreta (angelico-divino): non è angosciato chi del futuro sa tutto (Dio) o chi non ne sa nulla (l'animale, che vive esaurientemente nell'istante presente). Il suo oggetto è l'indeterminatezza del futuro, il futuro in quanto indeterminato, e in tal senso l'angoscia, il cui oggetto è appunto l'indeterminato, differisce dalla paura, che è sempre paura di un determinato.
b. ex parte subiecti la disperazione (trattato ne La malattia mortale)
Se l'angoscia è relativa a ciò che potrebbe accadere, e di cui sappiamo/non-sappiamo, nell'ambito della oggettività dei rapporti intersoggettivi, la disperazione è riferita alla nostra stessa soggettività. Essa significa che l'uomo non riesce ad accettare sé stesso: dispera di essere sé stesso. Essere sé stesso infatti non è automatico, dato che la nostra natura è complessa, è sintesi di fattori tra loro in dialettica, la finitezza e l'infinitezza, la necessità e la possibilità. Normalmente gli uomini soni disperati, perché rinunciano ad essere integralmente sé stessi, rinunciano al loro vero io, e puntano solo su quel fattore del proprio io che meglio riescono a controllare: chi punta sulla finitezza (/necessità) e chi sulla infinitezza (/possibilità), gli uni buttandosi nella sola materialità, gli altri in uno spiritualismo disincarnato e puramente intellettuale/sentimentale.
La sua vera soluzione è solo il Cristianesimo, che permette all'uomo di guardare alla verità, complessa, di sé. Esso ci si presenta come ineludibile problema: quell'Uomo, Cristo, pretende di essere la mia felicità, la risposta al mio bisogno più urgente e fondamentale: non posso ignorarlo, devo sapere se dice il vero o no.
Kierkegaard insiste nel presentare la fede come scandalo e paradosso: è un salto reale oltre la semplice razionalità.
Si cresce nella verità, e nella verifica della fede, rischiando per essa, non pretendendo di conservarla per così dire in freezer, come pensava l'intellettualismo socratico.
INTERPRETAZIONI E EREDITÀ
L'interesse per K., dapprima limitato all'area scandinava, si sviluppò subito dopo la Prima Guerra mondiale, ad esempio nella cultura filosofica di indirizzo esistenzialista (come Karl Jaspers), che a lui si ispirò, e nella "teologia dialettica".
Lucacs se ne interessò: dapprima valorizzandolo (ne L'anima e le forme, 1911), poi (ne La distruzione della ragione, 1954) criticando in lui un irrazionalismo di stampo borghese-reazionario.
Karl Löwith (Da Hegel a Nietzsche) vide in lui al contempo la crisi del mondo cristiano-borghese, e il ritorno al Cristianesimo primitivo.
Jean Wahl (Etudes kierkegaardiennes, Parigi 1938) può essere ricordato per il suo bilancio sull'influenza di K. nella cultura francese.
In Italia K. è stato studiato con attenzione, tra gli altri, da Enzo Paci e da Luigi Pareyson (Esistenza e persona, 1950; Studi sull'esistenzialismo, 1971); un confronto positivo col la tradizione tomista è stato sviluppato da Cornelio Fabro.
Segnaliamo, tra le altre, l'interpretazione di Abbagnano, insigne studioso, da cui dobbiamo in questo caso dissentire. Inaccettabile ci appare la sua lettura di Kierkegaard come di uno che per sondare tutte le possibilità avrebbe rinunciato a scegliere, optando per una "condizione eccezionale di indecisione e di instabilità", per cui "il centro del suo io è di non avere un io" (3°vol. Filosofi e Filosofie nella storia, Paravia, Torino 1986, 165); secondo Abbagnano la sua scelta di nascondersi dietro pseudonimi starebbe ad indicare il suo non impegno a scegliere tra le diverse possibilità.
Ma in Kierkegaard troviamo un continuo invito alla scelta, da lui vista come la cosa più fondamentale della vita. Che poi il suo temperamento fosse sensibile e malinconico, e in qualche modo poco portato ad adottare decisioni nette nella propria vita, è altra questione.
A cura di Giuseppe Modica
DON GIOVANNI
1.
Nel delineare la figura del Don Giovanni mozartiano Kierkegaard conferisce all'estetica una purezza che ne rivaluta lo statuto non solo nei riguardi dell'etica, ma anche nei riguardi della stessa estetica del seduttore psichico, il confronto con il quale è rivelativo delle ragioni d'una siffatta rivalutazione. Infatti è qui che viene smascherato il responsabile dell'inquinamento dell'estetica e individuato in quel pensiero riflesso che rompe l'immediatezza e la naturalezza dell'aisthesis, il suo fluire spontaneo e inarrestabile, capovolgendone la leggerezza nel pesante andamento della strategia e del calcolo, dell'interesse e del ripensamento.
Il seduttore psichico (1) mette infatti in atto una seduzione mediata poiché ha bisogno di «tempo» per predisporre i suoi piani, e anzi egli fa del tempo stesso uno strumento di seduzione. Il suo obiettivo non è tanto quello di possedere una donna fisicamente, quanto quello di possederla psichicamente. Il suo godimento è frutto d'un egoismo raffinato e sottile in quanto consiste non già nel far godere la donna ma, viceversa, nel condurla a uno stato di soggiogamento totale, senza essere a sua volta soggiogato in quest'opera di seduzione.
Per mettere in atto il proprio progetto egli si mostra alla sua preda ora distaccato e assente, ora interessatissimo e presente, ora furioso come un temporale d'autunno, ora dolcissimo come uno strumento musicale ricco di armoniche (2). Il suo obiettivo è infatti di rendere la relazione «interessante» (3), ed essa è tale quando, lungi dal rinchiudersi nel vincolo delle decisioni e delle scelte, rimane sospesa sull'indeterminato, sul regno dell'«infinita possibilità» (4). Perciò, quando una relazione è compiuta e determinata, essa smette d'essere interessante e allora bisogna trovare ogni mezzo per mollare la preda, giacché «introdursi in immagine nell'intimo d'una fanciulla è un'arte, uscirne fuori in immagine è un capolavoro» (5).
Tuttavia, lungi dal trovare libertà, in quest'opera di liberazione il seduttore psichico rimane schiavo e vittima dei suoi stessi intrighi e dei suoi conflitti. E infatti il gioco perverso cui egli mette capo rende la sua esistenza costantemente inquieta, preda d'una «consapevole follia». E però «la sua condanna ha un carattere puramente estetico» (6). Sicché Kierkegaard sottomette l'estetica del seduttore psichico al giudizio negativo pronunciato nei confronti del giovane estetico de L'equilibrio, con la differenza, tuttavia, che, seppure si sia in entrambi i casi in presenza d'una instabilità psicologica ed esistenziale, ne L'equilibrio tale instabilità rimanda ipso facto all'etica poiché è denunciata come perniciosa nei confronti dell'attuazione della «scelta di sé» e quindi della formazione della «personalità» come «unità dell'universale e del singolo» (7), laddove ne Il diario del seduttore essa resta come prigioniera della sua stessa dimensione estetizzante, quasi che l'estetica trovi già in se stessa la chiave per intendere il proprio fallimento, precisamente nell'indebito esercizio della riflessione ancor prima che questa assuma le sembianze e la consistenza della coscienza morale.
2.
La seduzione sensuale, emblematizzata da Don Giovanni, si presenta invece come la chiave di volta che indica la possibilità di sottrarre l'estetica tanto alla determinazione del pensiero quanto alla giurisdizione dell'etica per restituirle una dignità che solo allora essa può legittimamente ostentare.
Non a caso, a differenza del seduttore psichico, il seduttore sensuale è presentato da Kierkegaard come colui che «non ha bisogno d'alcun preparativo, d'alcun progetto, d'alcun tempo […]» (8). Egli infatti seduce con l'immediatezza del proprio desiderare, sicché vedere, desiderare e amare per lui non sono tre momenti distinti in successione logica e temporale, bensì le tre facce d'uno stesso atto – la seduzione – compiuto immediatamente (9).
Ora, soltanto la musica può, secondo Kierkegaard, esprimere adeguatamente l'erotismo immediato, la «genialità sensuale», in quanto essa – nota Kierkegaard con felice ossimoro – è il «medio dell'immediato» (10). La genialità sensuale è infatti «l'idea più astratta che si può immaginare» (11); e, dal momento che la musica è la meno storica fra tutte le arti, un'idea come quella della genialità sensuale non può essere espressa pienamente che attraverso la musica. Non a caso – come egli specifica più con la forza dell'intuizione che con i passaggi dell'argomentazione – la musica «ha […] in sé un momento di tempo, e tuttavia non scorre nel tempo se non in senso figurato» ,tant'è che essa non riesce ad esprimere la successione temporale degli accadimenti, ovvero «ciò che nel tempo è storico» (12).
Di qui l'irriducibilità della genialità sensuale a qualsiasi altra forma d'arte. Per un verso, essa non può essere rappresentata né dalla scultura – e ciò in quanto la genialità sensuale è «un tipo di determinazione in sé dell'interiorità», è cioè qualcosa di troppo intimo per poter essere espresso spazialmente o plasticamente -, né dalla pittura – «poiché [la genialità sensuale] non è fissabile in contorni determinati» (13) -. Quel che impedisce che la genialità sensuale possa essere scolpita o dipinta è, in altri termini, il fatto che essa non risiede in un momento, bensì in una successione frenetica di momenti che non possono essere fermati in un'immagine scultorea o pittorica. Non a caso Kierkegaard la descrive come qualcosa di assolutamente lirico: «una forza, un respiro, insofferenza, passione, ecc.» (14).
Che l'eros istintivo e immediato della genialità sensuale sia esprimibile pienamente soltanto dalla musica è ribadito da Kierkegaard attraverso il paradosso per cui «Don Giovanni non dev'essere visto, ma ascoltato!» (15). Vederlo presupporrebbe infatti una sua dimensione fisica e temporale. Ma ciò significherebbe tradire l'essenza di Don Giovanni, che non si lascia ridurre a nessuna determinazione spazio-temporale. E infatti Don Giovanni non seduce per la sua bellezza o in virtù di un qualsiasi altro suo attributo fisico (16).Egli seduce piuttosto in virtù del suo spirito, ossia in virtù del suo stesso desiderare. Perciò chiedersi che aspetto abbia Don Giovanni è come voler ridurre a un elemento esteriore una forza che è, invece, tutta interiore. E anzi, proprio perché è una forma dell'interiorità, «una determinazione verso l'interno […]» (17), Don Giovanni non può adeguatamente essere rappresentato nemmeno dalla danza, in cui, pure, le movenze del corpo si fondono con la musica, ché proprio quelle movenze esteriorizzerebbero e ridicolizzerebbero Don Giovanni (18).
Che la genialità sensuale sia qualcosa di assolutamente lirico non deve però indurre a credere che essa possa essere espressa dall'«epica» e dalla «poesia». Queste, infatti, si esprimono in parole, ossia ancora nella mediazione e nella riflessione, laddove – come s'è detto – la genialità sensuale si muove costantemente nell'immediatezza. E' per questo che né il Don Giovanni di Byron né quello di Molière possono adeguatamente rappresentare Don Giovanni: essi gli danno la parola e, dunque, gli conferiscono una «personalità riflessa» che lo nega come «idealità» (19). Sicché, nella misura in cui seduce con l'astuzia della mediazione razionale, il Don Giovanni «in prosa» è da rapportarsi piuttosto ai modi del seduttore psichico. Perciò soltanto il Don Giovanni musicale, di cui il Don Giovanni mozartiano rappresenta per Kierkegaard la più emblematica incarnazione, può esprimere adeguatamente l'essenza della genialità sensuale.
Se a questo punto si vuol formulare attraverso un'unica categoria la differenza di fondo tra il seduttore psichico e il seduttore sensuale, essa non può che essere ravvisata nella temporalità, nel senso che è pur sempre in riferimento al «tempo» che le due forme di seduzione vengono sbozzate. E però, se la prima è tutta calata nella temporalità del processo seduttivo, sicché l'intero dramma della seduzione psichica è gestito all'insegna della caducità, la seconda, viceversa, è un'autentica trasfigurazione della temporalità, propriamente una divenienza senza tempo, ché Don Giovanni «non ha […] una sua sussistenza, ma urge in un eterno sparire […]» (20), e perciò la dialettica della seduzione sensuale mette capo all'inesauribilità. Ne consegue che mentre su quella incombe la morte, in questa trionfa la vita. Non a caso Don Giovanni è definito da Kierkegaard come indefinibile e come incompibile: «un'immagine che […] non acquista mai contorni e consistenza, un individuo che è formato costantemente, ma non viene mai compiuto», e perciò non già un «individuo particolare, ma la potenza della natura, il demoniaco, che non […] smetterà di sedurre come il vento di soffiare impetuoso, il mare di dondolarsi o una cascata di precipitarsi giù dal suo vertice» (21), come quel 1003 «che dà l'impressione che la lista non sia affatto finita […]» (22).
Certo, l'epifenomeno dell'inesauribilità di Don Giovanni è costituito dall'inappagabilità e dall'insoddisfazione: nessuna donna soddisfa pienamente Don Giovanni, com'è mostrato appunto dallo stesso numero indeterminato delle sue conquiste. Ma sarebbe errato chiedersi se Kierkegaard faccia dipendere tale insoddisfazione da un limite di Don Giovanni o piuttosto da una sua esorbitanza d'essere, da una sua strisciante impotenza o piuttosto da una sua irrefrenabile potenza. Ciò infatti presupporrebbe ancora che Don Giovanni sia un individuo in carne ed ossa, laddove, in quanto espressione esemplare dell'erotico musicale, egli è «idealità»: non «persona o individuo, ma […] potenza» (23). Vero è che Kierkegaard avverte che Don Giovanni incarna la costante «oscillazione tra essere idea, vale a dire forza, vita, e essere individuo. Ma – come egli subito precisa – quest'oscillazione è la vibrazione musicale» (24), tant'è che appena Don Giovanni «diventa individuo, l'estetico avrà tutt'altre categorie» (25), ripiomberà cioè nel flusso di quell'esistenza estetica che inevitabilmente cade sotto il severo giudizio dell'etica.
3.
Don Giovanni incarna insomma quell'«amore sensuale» che, in quanto «somma dei momenti» che costituiscono un solo unico «momento» che «si ripeterà all'infinito» (26) e, dunque, in quanto è «sparizione nel tempo» e un calarsi interamente nella «concrezione dell'immediatezza» (27), è sicuro di sé e «assolutamente vincitore» (28). Di contro, l'«amore psichico» – proprio in quanto si nutre della mediazione razionale – vive nel dubbio e nell'inquietudine e anzi, poiché tale stato permane anche se «vedrà soddisfatto il suo desiderio e sarà amato», esso «ha in sé il dubbio e l'inquietudine […]» (29) non essendo che «sussistenza nel tempo» (30).
Di qui la differenza da Faust (31) e il possibile accostamento di Faust al seduttore psichico. Anzitutto «Faust […] è il dubbio personificato», e anzi dubbio che «crebbe a dismisura» essendosi Faust abbandonato «nelle braccia del diavolo» (32); «maestro del dubbio», e perciò «scettico» (33), Faust quindi «nel sensuale non tanto cerca il godimento quanto una distrazione […] dalla nullità del dubbio. La sua passione non ha perciò la Heiterkeit che distingue un Don Giovanni. Il suo volto non è sorridente, la sua fronte non è senza nubi, e la gioia non è sua compagna» (34). Per di più Faust coltiva un dubbio che conduce alla disperazione poiché non si tratta di un dubbio puramente intellettuale, ma d'un autentico «dubbio della personalità» (35). Egli infatti «sta agli antipodi di cotesti dubitanti scientifici che dubitano una volta al semestre sulla cattedra […]» (36) e che – dimentichi dell'«interiorità» – rendono il de omnibus dubitandum una mera «filastrocca» (37). Ne consegue che in Faust «l'erotico è già riflesso, qualcosa a cui egli s'abbandona spinto dalla disperazione» (38). Non a caso Faust – a dispetto della sua irrequietezza – è seduttore statico e cerebrale: non solo seduce una sola donna, ma compie la sua opera attraverso la sola forza del «discorso» e della «menzogna» (39). Di contro, Don Giovanni è seduttore dinamico e istintivo: non solo seduce tutte le donne, ma compie la sua opera attraverso la sola forza del «desiderio sensuale» (40).
Da queste premesse si comprende in che senso Kierkegaard consideri Faust espressione del demoniaco spirituale – che, come tale, è una sorta di variazione del seduttore psichico del quale anzi ribadisce la peculiarità -, laddove Don Giovanni è l'espressione del demoniaco sensuale, «del demoniaco determinato come il sensuale» (41). Il che è decisivo per introdurre il secondo essenziale elemento di discriminazione nei confronti del seduttore psichico e in favore della purezza dell'estetica: la coscienza morale.
4.
In proposito occorre soffermarsi sul paradosso cui ricorre Kierkegaard per suffragare e sviluppare la tesi del rapporto privilegiato tra eros e musica: la sensualità nel mondo è stata introdotta dal cristianesimo proprio perché ve l'ha esclusa. Infatti, in nome dell'assunto dialettico per il quale «ponendo una cosa, indirettamente si pone l'altra che si esclude» (42), il cristianesimo avrebbe introdotto la sensualità nell'atto stesso in cui l'ha negata e condannata attraverso lo spirito che esso ha direttamente introdotto nel mondo.
Ma in tal modo il cristianesimo ha fatto della sensualità una «forza» e un «principio» (43), e quindi una realtà positiva. Vero è che la sensualità esisteva anche prima del cristianesimo, ma essa non era – e non poteva essere – determinata spiritualmente, cioè per contrasto con lo spirito, e dunque non era «principio», ma semplice armonia: come in Grecia, dov'essa non era una «pericolosa nemica da soggiogare» (44), ma un elemento armonicamente presente ovunque, tra gli uomini come tra gli dei. E però, non esistendo come principio, non esisteva neppure una rappresentazione simbolica di essa. Vero è che Eros, dio dell'amore, potrebbe essere considerato un principio. Ma Eros, nel mondo pagano, è raffigurato non come innamorato a sua volta, bensì come un fanciullo ignaro dell'amore (45), il che «è più un'oggettivazione che una rappresentazione dell'amore» (46).
Soltanto col cristianesimo la sensualità può venire rappresentata in un «unico individuo» (47). E' da qui che nasce Don Giovanni. Il grembo dal quale egli viene alla luce è propriamente «il dissidio tra la carne e lo spirito», sicché egli è «l'incarnazione della carne» (48) attuata grazie allo spirito, per contrasto con esso. E però, dal momento che lo spirito è il regno della riflessione e del peccato, la carne, in quanto è il suo opposto – o, se si vuole, il principio che lo spirito pone nell'atto in cui lo nega -, non può che essere di qua da quel regno. Perciò Don Giovanni vive la seduzione nell'«indifferenza estetica»: egli è propriamente il «primogenito» del «regno» del «Monte di Venere», dove non hanno diritto di cittadinanza né la «ponderatezza del pensiero né il travagliato acquisire della riflessione» e, di conseguenza, neppure il peccato: vi abitano soltanto la «voce elementare della passione, il giuoco dei desideri […]» (49).
Perciò, se eros qui sta per genialità sensuale, musica sta per ludicità, ed entrambi – nella loro coessenzialità -stanno per trionfo del dionisiaco, del demoniaco sulla serietà dell'etica e sulla sistematicità della logica (50). E Kierkegaard ha talmente a cuore il concetto per cui Don Giovanni non «cade affatto sotto determinazioni etiche» che egli si spinge a dichiarare la difficoltà di chiamarlo «seduttore» o anche «impostore», epiteti che implicano l'esercizio della riflessione e, di nuovo, della coscienza morale. Don Giovanni andrebbe piuttosto qualificato come desideratore: a Don Giovanni manca il tempo per essere un vero seduttore: «gli manca il prima, in cui elaborare il suo piano, e il poi, in cui rendersi cosciente della propria azione» (51). Egli insomma non seduce toutcourt, ma anzitutto «desidera, ed è questo desiderio ad avere un effetto seducente». E d'altra parte egli, certo, inganna, ma senza premeditazione, «senza organizzare il suo inganno in precedenza» (52).
Ne discende coerentemente che neanche il pentimento in Don Giovanni ha diritto di cittadinanza. Pur «affaticato» dagli stessi intrighi che costituiscono l'ordito della sua vita erotica (53), Don Giovanni è tutt'altro che pentito del proprio operato. Lo stesso banchetto che precede l'entrata del Commendatore – entrata su cui Kierkegaard significativamente sorvola – suona come un atto di sfida contro quella «coscienza» (54) che il Commendatore incarna, la conferma che il credo di Don Giovanni non è mai la meditatio mortis – ciò che piuttosto si potrebbe dire di Faust -, ma, nonostante egli sia ora «stato spinto fino alla punta estrema della vita» (55), una «"gaiezza esuberante di vita"» (56) di cui sono altrettanti simboli «l'inebriante conforto dei cibi, il vino spumeggiante, le note festose della musica sullo sfondo […]» (57). A dispetto di Freud, in Don Giovanni il circolo eros-thanatos non si chiude: il thanatos è e resta evento esterno all'eros in quanto sopraggiunge come punizione d'una colpa di cui Don Giovanni non ha alcuna consapevolezza ed è lungi dall' essere l'ombra cupa e minacciosa che inesorabilmente incalzerebbe le imprese del seduttore immediato. Insomma, solo quando «interviene la riflessione» il regno di Don Giovanni «si presenta come il regno del peccato; ma allora Don Giovanni è stato ucciso, allora la musica tace […]» (58). In tal senso si può ben dire che Don Giovanni è non solo il discrimen tra l'immediatezza e la mediazione, ma anche l'estremo baluardo dell'innocenza della natura (59), il topos ideale in cui finisce la spontaneità dell'avventura sensuale e iniziano l'exacerbatio dell'erotismo intellettuale e le vessazioni della coscienza morale.
Don Giovanni è, sì, angosciato, ma quest'angoscia – precisa Kierkegaard – non è mai «disperazione», bensì, ancora, la sostanza stessa del «demoniaco desiderio di vivere» (60). Don Giovanni, insomma, è la stessa forza cosmica, perciò naturale, della sensualità: in lui c'è piuttosto l'immediatezza della natura che il peccato della coscienza e la coscienza del limite. Farne un simbolo della solitudine e della caducità del finito rispetto all'infinito, dell'uomo «crocifisso sulla contraddizione insopprimibile tra la sua natura finita e l'infinito delle sue aspirazioni», farne insomma un «eroe della privazione» e perciò negativo, piuttosto che un «eroe dell'incontinenza» e perciò positivo, significa sposare il mito romantico di Don Giovanni (61), farne l'incarnazione dello Streben e la controfigura di Faust, con ciò tradendo la lettura musicale di Kierkegaard che ne fa, invece, «l'incarnazione della carne» rappresentata come principio.
5.
In una prospettiva più ampia le considerazioni de Gli stadi erotici contribuiscono a chiarire il senso del giudizio limitativo sull'estetica formulato ne L'equilibrio. Tale giudizio non risulta più meramente fondabile sull'affermazione per la quale l'estetica rappresenta la dimensione per cui ciascuno «è immediatamente ciò che è», rispetto alla dimensione, propria dell'etica, in cui ciascuno «diventa ciò che diventa» (62). E infatti proprio questa naturalità dell'estetica è l'elemento vincente delle riflessioni su Don Giovanni. Quel giudizio è piuttosto fondato sul fatto che tale naturalità è in ultima analisi vista come fissità e cristallizzazione, e perciò assimilata alla «necessità» (63), laddove in Don Giovanni essa è intesa come divenire incessante e inesauribile, e perciò assimilata alla connotazione spontanea e istintiva della libertà: purché – beninteso – si tenga presente che Don Giovanni è un'idea musicale, un principio, un mito, e anzi, proprio per questo può realizzare compiutamente la purezza della sfera estetica che invece è destinata ad inquinarsi non appena si cala in un'esistenza temporale.
Questa osservazione può contribuire a sua volta a chiarire come sia possibile che Kierkegaard inneggi all'estetismo demoniaco e naturalistico di Don Giovanni e poi condanni – come fa ne L'equilibrio – l'intera dimensione estetica dell'esistenza come velleitaria ed astratta, capricciosa e discontinua, incoerente e dispersiva, volubile ed eccentrica. La risposta va possibilmente ricercata nella diversa prospettiva dalla quale viene pronunciato il giudizio rispettivamente su Don Giovanni e sul giovane esteta de L'equilibrio. Quest'ultimo giudizio è pronunciato da una prospettiva etica, che è quella in cui si trova il magistrato Wilhelm, incarnazione stessa del matrimonio e dell'amore coniugale, della responsabilità e del dovere, della continuità e della durata, della centricità e della coerenza, insomma, d'una coscienza morale che non può che condannare l'esistenza di chi, dei balli della vita, conosce soltanto il «valzer dell'istante» e anzi rifugge da quell'atto gravoso e decisivo che è la «scelta di sé» attraverso cui soltanto sarebbe possibile compiere il salto nella sfera etica. Il giudizio su Don Giovanni è invece pronunciato da una prospettiva a sua volta estetica e, dunque, nell'indifferenza etica. Lungi dall'essere quello del Commendatore, il punto di vista di Kierkegaard qui infatti è il medesimo di Don Giovanni, come dire del demoniaco, del dionisiaco, del ludico, di quella forza cosmica della natura che – come tale – è spontanea e immediata (64).
In tal senso si può ben dire che il Don Giovanni di Kierkegaard rappresenta una sorta di deontologia della sfera estetica, ossia la sfera estetica così come dovrebbe essere, vissuta pienamente e interamente sul piano dell'aisthesis senz'alcuna interferenza della riflessione, dello spirito, della coscienza, elementi che, mentre ne turbano la gioiosità e la schiettezza, ne compromettono l'immediatezza poiché vi insinuano l'angosciante senso del peccato.
Certo, Don Giovanni realizza compiutamente la purezza della sfera estetica in quanto egli è fondamentalmente un'idea musicale, un principio, un mito. E anzi, volerne fare «un'idea storica» significherebbe assimilarlo di nuovo e indebitamente a Faust (65). Ma, a ben vedere, è proprio il carattere mitico di Don Giovanni che, lungi dal rinchiudere l'estetica dentro un alveo incapace d'ogni crescita che non sia quella che passa attraverso il salto nella sfera etica, conferisce all'estetica una interna teleologia di cui Don Giovanni è il paradigma mai raggiungibile ma perciò stesso trainante, una sorta di idea regolativa in grado, unatantum, di far compiere all'estetica un'autentica ripresa, una Wiederholung laica e, perciò stesso, ancora una volta, paradossale.
Il che trova conferma proprio nell'evento che sembrerebbe compromettere quella natura di Don Giovanni che è «essenzialmente vita» (66), ossia nel fatto che Don Giovanni è sí un eroe positivo, ma è un eroe che, per vivere in eterno come un'idea musicale, deve morire. Ve ne è come un presentimento nel rilievo per il quale, che egli sia «assolutamente vincitore […], è un motivo d'indigenza» (67), dal momento che resta preda d'una ripetizione all'infinto di cui il «catalogo» delle conquiste è emblematica misura: se una donna vale l'altra, la seduzione è sostanzialmente lo specchio su cui Don Giovanni riflette narcisisticamente, e quindi in maniera sterile e inerte, la propria genialità (68). Don Giovanni muore infatti per mano dell'etica, ma non ne è – data la sua costitutiva immediatezza – consapevole, sicché – com'è stato prima evidenziato – l'etica e la morte che essa porta con sé gli restano sostanzialmente estranee: «perciò è […] stato saggiamente disposto» – osserva Kierkegaard – che il Commendatore «stia al di fuori» dell'opera, di cui egli costituisce «la premessa piena di forza e l'ardita conclusione tra le quali sta il termine medio di Don Giovanni […]» (69). Insomma, la stessa dialettica che pone in essere Don Giovanni nell'atto in cui l'esclude è, per cogenza interna, costretta a ucciderlo per farlo vivere in eterno, ossia per consacrarlo esemplarmente a quel piano mitico grazie a cui egli può operare appunto una ripresa della sfera estetica.
Note
(1) Cfr. S. KIERKEGAARD, Il diario del seduttore, in Enten-Eller, a cura di A. Cortese, III, Milano, Adelphi, 1978.
(2) Cfr. ivi, p. 22.
(3) Cfr. ivi, pp. 61 ss.
(4) Cfr. ivi, p. 89.
(5) Cfr. ivi, p. 84.
(6) Cfr. ivi, p. 21.
(7) Cfr. S. KIERKEGAARD, L'equilibrio tra l'estetico e l'etico nell'elaborazione della personalità, in Enten-Eller, cit., V, 1989, p. 159.
(8) S. KIERKEGAARD, Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico, in Enten-Eller, cit., I, 1976, p. 171.
(9) Cfr. ivi, pp. 163-64.
(10) Ivi, p. 135.
(11) Ivi, p. 118.
(12) Ivi, p. 119.
(13) Ivi, p. 118.
(14) Ibidem.
(15) Ivi, p. 173.
(16) Cfr. ivi, p. 172.
(17) Ivi, p. 178.
(18) Ivi, p. 177.
(19) Ivi, p. 178.
(20) Ivi, p. 172.
(21) Ivi, p. 161.
(22) Ivi, p. 162.
(23) Ivi, p. 178.
(24) Ivi, p. 161.
(25) Ivi, p. 166.
(26) Cfr. ivi, p. 164.
(27) Ibidem.
(28) Ivi, p. 163.
(29) Ibidem.
(30) Ivi, p. 164.
(31) Sul mito di Faust in Kierkegaard Cfr. S. SPERA, Il pensiero del giovane Kierkegaard, Padova, CEDAM, 1977, pp. 11-47.
(32) S. KIERKEGAARD, Diario, Brescia, Morcelliana, 1980(3) ss. [12 voll.], vol. II, IA 72, pp. 32, 33.
(33) S. KIERKEGAARD, Silhouettes, in Enten-Eller, cit., II, 1977, pp. 102, 103.
(34) Ivi, pp. 100-101.
(35) «Il dubbio è la disperazione del pensiero, la disperazione il dubbio della personalità» (L'equilibrio tra l'estetico e l'etico, cit., p. 90).
(36) S. KIERKEGAARD, Timore e tremore, in Opere, a cura di C.Fabro, Firenze, Sansoni, 1972, p. 94.
(37) S. KIERKEGAARD, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia», in Opere, cit., p. 403.
(38) Diario, cit., vol. II, IA 227, p. 71.
(39) Gli stadi erotici immediati, cit., p. 169.
(40) Ivi, p. 170.
(41) Ivi, p. 158.
(42) Ivi, p. 124.
(43) Ibidem.
(44) Ivi, p. 125.
(45) Cfr. ivi, p. 126.
(46) L. PAREYSON, L'etica di Kierkegaard nella prima fase del suo pensiero, Torino, Giappichelli, 1965, p. 5.
(47) Gli stadi erotici immediati, cit., p. 127.
(48) Ivi, p. 156.
(49) Ivi, p. 158.
(50) Il tema dell'inconsistenza logica ed etica dell'eros è d'altra parte motivo ricorrente di In vino veritas. Cfr. in proposito R.CANTONI, La vita estetica nel pensiero di Kierkegaard, Saggio introduttivo a S. KIERKEGAARD, Don Giovanni. La musica di Mozart e l'eros, Milano, Mondadori, 1976, p. 27.
(51) Cfr. Gli stadi erotici immediati, cit., pp. 168-69.
(52) Ivi, p. 168.
(53) Ivi, p. 211.
(54) Ivi, p. 201.
(55) Ivi, p. 211.
(56) Ivi, p. 172.
(57) Ivi, p. 210.
(58) Ivi, p. 158.
(59) Naturalmente si tratta d'una innocenza – come ha opportunamente precisato R.CANTONI (La coscienza inquieta. Sören Kierkegaard, Milano, Il Saggiatore, 1976, pp. 39-40) – «da intendersi in senso relativo e dialettico, ché l'uomo l'ha da tempo perduta».
(60) Gli stadi erotici immediati, cit., p. 206.
(61) M. Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Torino, Einaudi, 1988, p. 8.
(62) Cfr. L'equilibrio tra l'estetico e l'etico, cit., p. 46.
(63) Cfr. ivi, p. 108. Sostenere che l'estetico è «immediatamente quello che è» non significa – precisa Kierkegaard – che egli «non abbia uno sviluppo; ma egli si sviluppa con necessità, non con libertà, con lui non ha luogo nessuna metamorfosi, in lui non ha luogo nessun infinito movimento grazie a cui giungere al punto partendo dal quale egli diventa quel che diventa» (ibidem).
(64) Anche a voler condividere la lettura dialettica di E. PACI (Kierkegaard e Thomas Mann, Milano, Bompiani, 1991, p. 16) in base a cui Kierkegaard «ama l'estetico nel momento stesso nel quale vorrebbe superarlo e vincerlo», resta che qui Kierkegaard «è un innamorato, un innamorato del Don Giovanni di Mozart, ma, soprattutto, un innamorato dell'immediatezza erotica, dell'infinità della passione, della sconfinata ed irresistibile potenza dell'eros, del selvaggio ardore del desiderio» (ivi, p. 20).
(65) Gli stadi erotici immediati, cit., p. 119. In proposito Cfr. J. COLETTE, Kierkegaard et la non-philosophie, Paris, Gallimard, 1994, p. 179. Del medesimo autore si veda anche Musique et érotisme, in AA.VV., Kierkegaard et le Don Juan chrétien, Monaco, Edition du Rocher, 1989, pp. 117-133.
(66) Gli stadi erotici immediati, cit., p. 193.
(67) Ivi, p. 164.
(68) Non a caso, anche presso la critica più recente, è ricorrente il rilievo per cui, in proposito, si è in presenza d'una cattiva infinità
1. Le fonti. Kierkegaard affronta il problema dell’ironia nella sua tesi di laurea, pubblicata nel 1841 con il titolo Il concetto di ironia in costante riferimento a Socrate. Si tratta di un’opera ricca di riferimenti al dibattito letterario e filosofico, poiché l’ironia – a partire dall’età del romanticismo – era diventata un tema particolarmente vivo ed aveva attirato su di sé l’attenzione di autori come Tieck, Schlegel e Solger. È tuttavia Hegel l’autore cui il giovane Kierkegaard si sente più vicino: nelle pagine della sua tesi di laurea, il filosofo danese ha infatti ben chiara davanti agli occhi la riflessione hegeliana sulla valenza soggettiva e negatrice dell’ironia, ed una delle mete cui il suo lavoro approda può essere forse indicata proprio nell’acquisizione di una prima parziale autonomia del giovane filosofo dalla pagina hegeliana.
2. L’ironia: una caratterizzazione per contrasto. Il primo passo per venire a capo dell’ironia è, per Kierkegaard, di natura descrittiva: occorre infatti cercare di caratterizzare questa forma del comportamento, indicando quali sono le differenze strutturali che ci permettono di distinguerla da altri atteggiamenti della soggettività.
Osserveremo allora che, da un punto di vista descrittivo, l’ironia si rivela come quella forma del discorso “la cui caratteristica è di dire l’opposto di quello che si pensa” (ivi, p. 192). Parlare significa dare al pensiero un’apparenza sensibile, e ciò è quanto dire che “mentre parlo, il pensiero, l’opinione è l’essenza, la parola l’apparenza” (ivi). Nell’atteggiamento ironico, tuttavia, la parola cessa di essere manifestazione del pensiero: il fenomeno non ci conduce più alla sostanza che in esso dovrebbe farsi visibile, ma ci vincola apparentemente ad un pensiero che è per noi del tutto privo di verità e di sostanza. L’ironia è dunque una sorta di sovversione del rapporto tra fenomeno ed essenza, ed appartiene proprio per questo alla famiglia dei fenomeni “doppi”: nell’ironia il fenomeno diviene infatti un’apparenza ingannevole che allude ad una realtà che deve essere tuttavia negata. L’ironia sembra essere dunque una peculiare forma di ipocrisia: le cose, tuttavia, non stanno affatto così, perché – come nota Kierkegaard –
L’ipocrisia pertiene di fatto all’ambito della morale. L’ipocrita si sforza in continuazione di sembrare buono, pur essendo cattivo. L’ironia, per contro, si situa in un ambito metafisico, e per l’ironista si tratta sempre solo di sembrare diverso da come veramente è, sicché, come nasconde il suo scherzo nella serietà, e la sua serietà nello scherzo […] così può anche venirgli di passare per cattivo, pur essendo buono (ivi, p. 199).
Del resto, la differenza tra ironia e ipocrisia traspare già nel fatto che l’ipocrita non vuole che il suo pensiero sia colto e lo dissimula quindi interamente, mentre chi fa dell’ironia lascia trapelare nel riso la sua vera opinione. L’ipocrita, dunque, non dice ciò che pensa perché non vuole essere giudicato: l’ipocrita dunque nega se stesso perché non intende confrontarsi con la realtà che lo circonda, perché non se la sente di contrastare un’opinione che gode di credito nel mondo. L’ironia segue una strada diversa: chi nel sorriso ironico riconosce la distanza che lo separa da ciò che ha detto, non nega sé, ma la sua adesione ad una realtà che appare per qualche verso priva di valore (ivi, p. 102). L’ironia, dunque, permette al soggetto di prendere le distanze da ciò che ha detto, liberandosene, tagliando i ponti che lo vincolano ad una realtà che è riconosciuta priva di valore.
Ora, proprio in questo suo far “piazza pulita” della molteplicità dei legami che stringono l’uomo alla realtà che lo circonda, l’ironia sembra inaugurare un nuovo cominciamento per il soggetto. La battuta ironica, che fingendo di confermarla, nega l’adesione del soggetto ad un mondo dato, libera di fatto l’io da una realtà cui non crede, ed è proprio questo senso di liberazione che si esprime nel riso dell’ironia:
Ma quanto in tutti questi casi ed altri simili emerge dell’ironia è – nota Kierkegaard – la libertà soggettiva che tiene ad ogni istante in suo potere la possibilità di un cominciamento senza l’intralcio di legami anteriori. In ogni cominciamento c’è qualcosa di seducente, poiché il soggetto è ancora libero, e questo è il piacere desiderato dall’ironista (ivi, p. 196).
La funzione di cominciamento dell’ironia, il suo porsi come uno strumento per mettere tra parentesi una realtà ritenuta inessenziale, traccia una chiara linea di demarcazione tra l’ironia e l’ipocrisia, ma sembra riconnetterla al dubbio, poiché anche nel dubbio – come Cartesio insegna – il soggetto si libera dai vincoli di un sapere tradizionale per inaugurare un nuovo cominciamento.
Il rapporto tra ironia e dubbio ha del resto più di una ragione per essere istituito: anche il dubbio ci dispone in un atteggiamento di natura negativa rispetto alla realtà e ci libera dalle convinzioni cui eravamo precedentemente legati. Anche in questo caso, tuttavia, al momento della somiglianza si deve affiancare quello del contrasto: nel dubbio il soggetto vuole penetrare nell’oggetto, vuole appunto conoscerlo, ma l’oggetto gli sfugge, proprio perché il dubbio non permette mai alla soggettività di riposarsi e di stare ben salda sulle sue acquisizioni conoscitive. Nell’ironia invece il soggetto non vuole affatto cogliere l’oggetto, non intende penetrare nella sua intima essenza: intende piuttosto prenderne le distanze. In altri termini: chi dubita, crede di non conoscere la realtà, ma è certo che valga egualmente la pena di comprenderla, ed è per questo che cerca di farsi presso la natura intima delle cose; chi fa dell’ironia, invece, crede di conoscere la realtà, ma è certo che non valga la pena di soffermarvisi, e nel sorriso ironico prende commiato da un mondo che gli appare privo di valore.
L’ironia, infine, deve essere colta anche sullo sfondo della relazione che la lega al raccoglimento religioso. Come l’ironia, anche l’atteggiamento religioso del raccoglimento mette tra parentesi il mondo circostante, riconoscendone la vanità. Tale riconoscimento, tuttavia, si affianca alla negazione del sé: il gesto del religioso che allontana da sé il mondo colpisce in eguale misura la persona del fedele che riconosce se stesso come “cosa miserrima fra tutte” (ivi, p. 200).
Nell’ironia, invece – nota Kierkegaard – mentre tutto si fa vano, la soggettività diviene libera. Quanto più tutto si fa vano, più leggera vuota di contenuto e fugace si fa la soggettività. E mentre tutto diventa vanità, il soggetto ironico, invece di diventare vano a se stesso, salva la sua vanità (ivi, p. 200).
Dal naufragio del mondo che essa stessa provoca, l’ironia salva lo spettatore – l’io che si fa ironista.
3. L’ironia: una personcina invisibile. Sin qui ci siamo mossi all’interno di un’analisi prevalentemente descrittiva, volta a chiarire quali fossero i tratti distintivi che caratterizzano l’ironia come comportamento soggettivo. Il compito che dobbiamo ora svolgere è diverso: si tratta infatti di comprendere quale sia la funzione generale dell’ironia, quale sia – in altri termini – la funzione metafisica che all’ironia è affidata.
Questa funzione può essere colta se dall’ironia come gesto occasionale passiamo all’ironia come atteggiamento generale verso il mondo. Proprio come il dubbio da empirico si fa filosofico quando Cartesio lo estende al di là dei limiti cui la quotidianità lo vincola, così anche l’ironia guadagna una sua dimensione metafisica non appena si solleva al di sopra dei singoli casi empirici per diventare un atteggiamento generale della soggettività:
L’ironia sensu eminentiori non si rivolge contro questo o quel singolo esistente, bensì contro tutta la realtà data in un determinato tempo e sotto determinati rapporti (ivi, p. 197).
Ora, ciò è quanto dire che “a essere considerato sub specie ironiae non è questo o quel fenomeno, ma la totalità dell’esistenza” (ivi): l’ironia si pone così come lo stile di vita che colora emotivamente la forma dialettica hegeliana della negatività infinita e assoluta. Scrive Kierkegaard:
Per il soggetto ironico la realtà data ha perso completamente il suo valore, gli è diventata una forma imperfetta e intralciante ovunque. Per l’altro verso, però, possiede il nuovo. Sa una sola cosa, che il presente non corrisponde all’idea (ivi, p. 202).
Di fronte ad una realtà nella quale non si riconosce, il soggetto ironico non contrappone una protesta determinata, non contrappone al dato un dover essere che in qualche modo vincoli la sua volontà ad un progetto e la sua condotta futura ad un insieme di norme e di convinzioni; tutt’altro: l’atteggiamento ironico non si impegna nel mondo per un mondo nuovo ma – additandone la possibilità – libera il soggetto nel presente, permettendogli di negare in interiore homine quell’adesione al mondo che pure a parole tributa.
Il sorriso ironico ci permette così di estraniarci dal mondo, di non riconoscergli alcun valore. Da questa negazione tuttavia non derivano alla soggettività impegni di nessun genere: la negazione ironica del mondo scompare nell’atto stesso del negare e non si solidifica in un che di positivo. E ciò è quanto dire che nell’ironia il soggetto guadagna una libertà soltanto negativa:
L’ironia – scrive Kierkegaard – è una determinazione della soggettività. Nell’ironia il soggetto è libero in negativo; difatti la realtà suscettibile di dargli contenuto è assente, e il soggetto è libero dallo stato di costrizione in cui lo tiene la realtà data, ma è libero in negativo e come tale fluttuante, poiché nulla v’è che lo tenga. Ma proprio questa libertà, proprio questo fluttuare trasmette all’ironista un certo entusiasmo, nel senso che si ubriaca degli infiniti possibili […]. A questo entusiasmo tuttavia non si abbandona, ma nutre in sé e ravviva solo quello dell’annientare (ivi, p. 203).
La libertà dell’ironia è dunque sempre soltanto libertà da qualcosa, mai libertà di agire per qualcosa – è appunto una libertà vuota e soltanto negativa.
A partire di qui si può davvero comprendere non soltanto perché Socrate, il filosofo con cui si chiude la stagione della “felice immediatezza” del mondo greco, debba essere per Kierkegaard il vero campione dell’ironia, ma anche la ragione per la quale in un passo del suo libro si parla dell’ironia come di una personcina invisibile: nel sorriso ironico, l’io ritrova e guadagna se stesso proprio nel momento in cui si sottrae ad ogni sguardo che lo cerchi nel mondo. La soggettività che l’ironia ci consegna paga così il gesto di diniego che sancisce la sua superiorità sul mondo e sul reale con il suo divenire invisibile, con il suo perdersi in una vuota possibilità: il luogo da cui la soggettività ironizzante guarda il mondo è così lo spazio vuoto della pura possibilità.
4. L’ironia dominata. Prima di concludere le nostre analisi sull’ironia in Kierkegaard è opportuno dare almeno uno sguardo alle pagine conclusive della sua tesi di laurea. Qui Kierkegaard prende silenziosamente commiato dall’ironia come negatività infinita e assoluta e ne suggerisce una considerazione più positiva ed urbana. L’ironia può essere infatti dominata, e ciò significa che anche questo atteggiamento negativo della soggettività può essere preso con la giusta dose di ironia. Dalla smania ironica che tende a svuotare il reale di ogni valore si deve prendere un ironico distacco; e se l’ironia impedisce all’io di perdersi nel mondo, l’ironia sull’ironia gli impedirà di perdersi di là da esso. L’ironia smette così di essere la lama tagliente che rescinde una volta per tutte il nesso dell’io con il mondo e diviene la coscienza critica che ci impedisce di restare chiusi nei dati di fatto della vita, di idolatrare i fenomeni, cui occorre certo dare peso, ma solo alla luce della consapevolezza della loro insufficienza a racchiudere una volta per tutte la ricchezza di significato della soggettività.
L’ironia come stato d’animo sconfina così in una superiore forma di saggezza che ci insegna a vivere nel mondo senza tuttavia rimanervi impaniati. Ed in questo volto bonario che l’ironia sa assumere e che le permette di essere il viatico in nome del quale l’uomo può attraversare la vita senza disgustarsi della ripetitività delle sue forme e della vuotezza delle manifestazioni dello spirito oggettivo, traspare già un primo indizio di quel rifiuto della filosofia hegeliana che Kierkegaard pronuncerà nelle sue opere più tarde.
IL PECCATO
Per Kierkegaard come per il cattolicesimo, il peccato è il rifiuto dell’amicizia con Dio che si è offerto all’uomo. Tutte le leggi a cui il popolo di Israele deve obbedire hanno lo scopo di assicurare la comunione con Dio. Il peccatore è colui che non ascolta la voce del Salvatore, che agisce contro l’alleanza. In Il Concetto di Angoscia Kierkegaard parla del peccato originale e qui la sua visione non è “né cattolica né protestante. Il peccato originale viene distinto dalla concupiscenza luterana e riferito alla decisione della libertà come tale considerata però nella sfera dell’immanenza del soggetto”. Per i luterani l’immagine di Dio impressa nell’uomo e distrutta dal peccato rimane un tenue residuo, per noi cattolici nel peccatore c’è la perdita almeno parziale dei doni soprannaturali e la permanenza della natura, anche se ferita dal peccato. Per Lutero il peccato originale appartiene alla natura e comporta la perdita di tutte le forze e delle facoltà dell’uomo cioè la corruzione totale della natura, perché l’uomo cerca il fondamento in sé e non in Dio: così l’uomo corrotto dal peccato non è liberato né con il battesimo né con la fede. Per il filosofo l’individuo, come pensa San Tommaso, ha in sé il peccato originale (la pena del danno) e in potenziale la pena del senso (cioè i peccati personali). Ha così in effetti un rapporto soggettivo con la possibilità del peccato. Per Kierkegaard l’individuo è nello stato equivoco di un’innocenza colpevole (per generazione) e di una colpa innocente che si traduce nella malinconia dell’innocenza perduta e nella possibilità del peccato. Il peccato crea angoscia prima che la libertà dell’uomo possa o non compiere pene del senso. Per noi cattolici il peccato originale, come affronta il Concilio di Trento, porta alla perdita della santità e giustizia originale, ed è trasmesso per generazione (cioè da padre a figlio). Solo Cristo, ultimo Adamo, ci ha redento (Paolo Rm 5, 12-21) e tramite il battesimo ha permesso la nostra salvezza poiché la Grazia perdona il peccato originale. Per Kierkegaard invece, dal momento che non crede che il battesimo lavi il peccato originale, quest’ultimo è un residuo che di continuo vive dentro l’uomo, quasi divenendo una categoria ontologica della natura umana estranea alla volontà e alla libertà dell’individuo. La Malattia Mortale parla della disperazione e dell’angoscia per dimostrare che nascono dal peccato. “Nel cristianesimo il peccato è atto di libertà e il suo muoversi verso la propria perdizione: perché l’io si scandalizza perché non supera la possibilità dello scandalo”. Con la venuta di Cristo l’uomo non si trova solo davanti a Dio, ma a Gesù uomo come noi. L’uomo-Dio dà scandalo esistenziale, è il nuovo Adamo che si è incarnato per strapparci dalla disperazione del peccato. Kierkegaard distingue così fra peccato originale e primo peccato. Le due nozioni non possono essere confuse per la difficoltà inerente alla conciliazione di possibilità ed attualità del peccato perché “ciò escluderebbe Adamo dalla storia, non potendosi di fronte ad essa giustificare, non solo per il presente, ma neppure per il passato, l’esistenza di un tale presupposto”. Questa contraddizione si supera nella storia. Con la continuazione della specie, avviene poi la giustificazione individuale e insieme storica del peccato di Adamo; per Adamo, progenitore della stirpe umana, per generazione, il peccato vale per sé e per gli altri.
IL SINGOLO
Il Singolo per Kierkegaard ha una grandissima importanza poiché è creato ad immagine di Dio. Kierkegaard, in base a tale realtà, attacca la filosofia speculativa e il sistema hegeliano. L’esistenza per il filosofo corrisponde alla realtà singolare, cioè al singolo. La filosofia sembra essere interessata soltanto ai concetti: si preoccupa solo di quell’esistente concreto che possiamo essere io e tu, e non dell’irripetibilità e singolarità della persona. Il singolo in sostanza è il punto su cui egli converge la sua filosofia. Contro i concetti rivendica l’esistenza. Il singolo è la categoria attraverso cui devono passare il tempo, la storia e l’umanità. Ed è il singolo l’unica alternativa all’hegelismo poiché per Hegel ciò che conta è l’umanità. Per Kierkegaard il singolo è la contestazione e la confutazione del sistema, della forma di immanentismo e panteismo con cui si tenta di ridurre e di riassorbire l’individuale nell’universale. Il singolo diviene così baluardo della trascendenza. La persona si erge contro il cristianesimo universalmente diffuso e l’organizzazione sociale dell’umanità come folla. Il singolo si pone nel cammino di riconoscere il proprio io a poco a poco: ne segue la gradualità della vita e gli stadi che impongono nell’esistenza una crescita umana. Per Kierkegaard Cristo è il salvatore di tutti, però raggiunge singolarmente gli uomini e li salva ad uno ad uno invitandoli tutti ad andare da lui per ricevere la salvezza. Qui si manifesta il carattere del Suo amore che non è vago né generico, ma concreto. Cristo non forza nessuno, ma rispetta la libertà: è Singolo e ha agito come tale nella sua vita. Ne segue che il cristianesimo a differenza e in opposizione al giudaismo e al paganesimo che parlavano di razza, pone la persona nel rapporto con Cristo: anche nella disperazione ognuno è solo davanti a Lui. E questa disperazione si vive nella coscienza. Il cristianesimo per Kierkegaard, seguendo la concezione luterana, è individualismo. Diventare cristiano vuol dire accogliere lo spirito per essere salvati dal genere, diventare spirito è diventare singolo e l’isolamento è la condizione inevitabile perché Cristo è il vero Singolo. Nella Chiesa Cattolica si riconosce l’irripetibilità e unicità della persona umana che deve avere una fede singola e personale, ma si supera questo individualismo quasi nichilista del pensiero protestante, riconoscendo che Cristo è il Singolo, ma che la sua volontà è che noi, membra del suo corpo, diveniamo e siamo Chiesa cioè comunità di amore, suo Corpo Mistico. Il singolo perciò, nella teologia kierkegaardiana deve porsi a contatto personalmente con Dio. Ma data la distanza che c’è fra Dio e l’uomo, quest’ultimo trascende sé stesso e vive un rischio infinito affrontando così il coraggio della disperazione. Per il filosofo Dio ha cura del singolo e protegge il povero: accoglie chi è solo. La preferenza che Dio ha per il singolo deriva dalla sua maestà divina perché Dio è la Soggettività Assoluta. Il singolo deve quindi affidarsi a Dio per non rimanere sopraffatto come Mosè che non riusciva a superare la visione di Dio poiché la dicotomia fra Dio e l’uomo fa sì che l’uomo più si avvicini a Dio e più ne senta la distanza. L’uomo non deve chiudersi in sé stesso: il religioso deve porsi ed offrirsi agli altri perché il rapporto del singolo con Dio determina il suo rapporto con la comunità e non viceversa. La missione del singolo è di impedire che la comunità diventi folla. Kierkegaard infatti critica la folla perché è incapace di capire Cristo.
IL TRAGICO
Kierkegaard crea un’analogia tra la tragedia di Antigone e la sua personale tragedia di vita.
Come Antigone conosce i peccati di suo padre Edipo, già quando lui era ancora in vita, ma tace abbandonandosi alla tristezza. Ella sa che, se confidasse al suo amato tali segreti, lo perderebbe. Comunque solo nel momento della morte confesserà il suo amore, in modo tale che in quell’unico attimo si associano la confessione di appartenere all’amato, ma anche la non appartenenza, cioè la perdita dell’amato a causa dei segreti espressi.
Così Kierkegaard riguardo al peccato di suo padre, che lo perseguita in modo ossessivo per tutta la vita, si rende consapevole di un ostacolo che si frappone alla felicità sua con Regina Olsen. Egli ha dovuto rendere infelice Regina con lo scioglimento del fidanzamento, perché solo in questo modo l’avrebbe infine resa felice. Pertanto la chiave interpretativa di Kierkegaard consiste nel senso dialettico della situazione: ciò che libera dalla morte, in realtà porta verso di essa. Il concetto del tragico in Kierkegaard è dunque la chiave per accedere all’intimo problema della sua sofferenza. Lui scrive che la disperazione non conosce via d’uscita.
Nel cammino del pensiero e della vita Kierkegaard risolve il tragico nello humor, che è elemento di confine tra etico e religioso. Per parlare del tragico egli sceglie il termine contraddizione, col quale indica la precedente unità delle due forze in reciproca collisione, unità che fa sì che il loro conflitto sia tragico, in quanto le due forze in conflitto sono omogenee (Aut-Aut). Questa opposizione non è ricomponibile, ma la non ricomponibilità non è da attribuire alla realtà alla quale essa non appartiene, ma al modo di vedere dell’uomo, che così non raggiunge l’uscita, ma può superare la contraddizione in una prospettiva più elevata, alzando il tono della contraddizione (passaggio allo stadio religioso).
AUT-AUT
L’opera “Enten-Eller”, tradotta in italiano con “Aut-aut”, fu edita da Søren Kierkegaard nel 1843 sotto lo pseudonimo di Victor Eremita, che dice di se stesso di essere uno scrittore religioso. Il testo, che nell’edizione italiana consta di 5 volumi [S. Kierkegaard, “Enten-Eller”, a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1976 – 1989, 5 voll], è composto di due parti: le Carte di A, del giovane esteta, e le Carte di B, di Guglielmo l’Assessore e fu scritto di getto in undici mesi, quasi interamente a Berlino, città nella quale Kierkegaard si era rifugiato dopo la rottura del fidanzamento con Regina. L’opera ci conduce nel mondo del pensiero di Kierkegaard. Un “aut – aut” ci impone una scelta, ed è proprio quello che Kierkegaard vuole: costringere il lettore a prendere una decisione. Egli deve decidere come vuole vivere la sua vita, invece di andare passivamente alla deriva lasciandosi semplicemente scivolare lungo il “fiume della vita”. Tutto il cammino della vita umana, personale e collettiva, si snoda secondo una logica necessaria: senza che vi sia responsabilità della libertà personale. Kierkegaard invece sottolinea con forza una prospettiva incentrata sulla persona, che si caratterizza per la possibilità di scelta libera, e di scelta tra alternative inconciliabili. Non un et-et, secondo la visione hegeliana che dispensa dalla scelta un singolo visto come trascinato dall’inesorabile flusso della collettività storica, ma un aut-aut, che impegna la persona nella sua indelegabile, indemandabile libertà personale, in un dramma assolutamente personale, in cui ne va del proprio destino eterno. Così in “Aut – aut” Kierkegaard confronta due ‘stili’ di vita che lui definisce: l’estetico e l’etico. Al termine estetico, comunque, lui dà un significato diverso da quello che solitamente gli diamo noi; egli intende l’immediato e il piacere illusorio dei sensi, che è il punto di partenza della vita di ogni uomo. Nella prima parte della sua opera Kierkegaard ci mostra una varietà di vite estetiche: dalla più bassa che vive in balia dei sensi, e in questi si disperde senza mai impegnarsi eticamente, come viene ben esemplificato nella figura del “Don Giovanni”, all’uomo che si è reso conto del vuoto e della nullità di una vita puramente estetica, ma che, ciononostante, si aggrappa ancora disperatamente ad essa pur sapendo bene che quest’ultima può condurre solo alla disperazione. Ma perché una vita puramente estetica ci porta alla disperazione? Perché, secondo Kierkegaard, l’uomo ha dentro di sé qualche cosa d’altro, che non potrà mai essere soddisfatto da una vita puramente ‘sensibile’. Questo qualche cosa d’altro è l’eterno. L’uomo è costituito dalla sintesi di due elementi opposti: corpo e spirito, temporale ed eterno, finito ed infinito, necessità e libertà. È caratteristica dell’estetico enfatizzare un elemento solo della sintesi: il corporale, il temporale, il finito e il necessario. La mancanza dell’altro elemento della sintesi causa nell’essere umano ansietà; Kierkegaard la definisce “una simpatica antipatia, un’antipatia simpatica”, che allarma e attira allo stesso tempo. Il termine che meglio descrive questa esigenza dello spirito nel mondo sensibile è angoscia; l’angoscia è il segno della presenza dell’eterno nell’uomo. Senza l’eterno non ci sarebbe nessuna angoscia. Ma l’uomo che ha sentito l’angoscia dentro di sé e che ancora ostinatamente persiste in un’esistenza estetica finirà col disperare. Su questi concetti gemelli di angoscia e disperazione Kierkegaard scrisse due delle sue opere più ispirate: “Il Concetto dell’angoscia” (“Begrebet Angest”; 1844) e “La malattia mortale” (“til di Sygdommen Døden”; 1849). Questi due libri sono “saggi psicologici”, come Kierkegaard stesso li definisce, ma in “Aut – aut” gli stessi temi sono trattati attraverso una sorta di letteratura immaginativa, dall’introduzione degli aforismi di “Diapsalmata”, in cui trovano espressione gli umori che attanagliano l’uomo estetico, agli esempi presi dalla letteratura, come Don Giovanni, Antigone, a caratteri desunti dai drammi di Scribe, a figure inventate come “il più infelice” e Giovanni il Seduttore. Insieme formano una galleria di caratteri che vanno dall’immediatamente sensibile, che in un certo senso è innocente a causa della sua immediatezza, perché, in altre parole, non riflette troppo su quello che fa, al seduttore consapevole che ha capito la situazione, ma ciononostante sfida la disperazione. Ma l’uomo che ha sentito dentro di sé l’angoscia della disperazione non può non cogliere l’inadeguatezza di una vita vissuta tutta nella sfera estetica, e chi, nell’angoscia e nella disperazione, non vuol più rimanere in essa, è ormai maturo per scegliere qualche cosa d’altro ed entrare così nella sfera etica. Questo è testimoniato dal fatto che l’eterno ha riposto le sue richieste sull’uomo che non solo le accetta, ma crede nella possibilità di essere consapevole delle richieste etiche nel temporale, nel mondo sensibile. Tale uomo, che scrive lunghe lettere ad un amico che è un “esteta” (nella seconda parte di “Aut-aut”), conduce una vita “etica”. Simbolo di tale vita è l’assessore Guglielmo, marito fedele, professionista laborioso ed onesto, combattente e ottimista che consapevolmente lotta per una buona causa e ha senza dubbio la forza di convincere i suoi amici e il mondo intero su quello che è il ‘buono’. Lui non si negherà sperperando la sua vita nella sfera estetica, ma crede che sia possibile unire i due punti di vista in una specie di sintesi. Non per niente uno dei capitoli della seconda parte di “Aut-aut” è intitolato fiduciosamente e non senza ragione: “Sull’equilibrio tra l’estetico e l’etico nello sviluppo di personalità”. Senza dubbio questo concetto è quello che Kierkegaard stesso pensava a quel tempo. Egli era stato attirato fortemente alla vita estetica nelle sue forme più raffinate, ma lui indubbiamente ancora sperava che sarebbe stato possibile trovare un qualche genere di sintesi tra i due mondi. È vero che lui aveva in un certo senso rinunciato all’etico quando aveva rotto il fidanzamento con Regine e così era sfumata la possibilità di sposarsi, ma in realtà non aveva mai abbandonato il suo collegamento col mondo, né la speranza che tutto, in uno modo o un altro, si sarebbe risolto nel migliore dei modi. Ebbe all’improvviso la conferma di questa speranza una domenica di primavera del 1843, quando, lasciando la ‘Chiesa di Nostra Signora’ di Copenhagen, incontrò casualmente Regine che usciva dalla chiesa. Lei gli fece un cenno con il capo. Quello fu tutto; ma l’animo di Kierkegaard fu nuovamente sconvolto. Così lei aveva capito; e lei non lo credeva, malgrado tutto, un impostore! Nella testa di Søren cominciò a farsi strada l’idea che forse loro potevano avere una sorta di rapporto ‘inusuale’, una specie di matrimonio spirituale, libero dalle concupiscenze della carne. Ma per non correre rischi evitò di incontrarla di nuovo rifugiandosi ancora una volta a Berlino per poter lavorare indisturbato. Là lui scrisse due opere: “Timore e tremore”(“og di Frygt Bæven”) e “La Ripetizione” (“Gentagelsen”). Ambedue sono scritti in una forma a lui molto congeniale: a metà strada tra la letteratura immaginativa e la filosofia. L’idea che domina le due opere è la fede anche se è vista in due modi profondamente diversi.
Le Carte di A racchiudono vari saggi quali:
Diapsalmata – una raccolta di aforismi a carattere poetico in cui emergono l’invincibile malinconia e infelicità dell’autore;
Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale-erotico – è il commento all’opera “Don Giovanni” di Mozart in cui viene illustrata la figura del ‘seduttorÈ: Don Giovanni rappresenta il “seduttore dell’immediatezza”;
Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno – dal confronto tra queste due realtà emerge la profonda disperazione insita nella tragedia moderna;
Silhouettes – vengono messe a confronto tre figure di donne “sedotte” e i loro seduttori: Marie Beaumarchais (Clavigo), Elvira (Don Giovanni) e Margherita (Faust); Faust è visto come l’uomo del dubbio, un dubbio che ha annientato in lui la realtà, per questo motivo egli nell’amore non cerca più il piacere, ma la distrazione;
Il più infelice – chi vive nella “infelicità del ricordo” è più infelice rispetto a colui che vive nella “infelicità della speranza”;
Il primo amore;
La rotazione delle colture;
Il diario del Seduttore – A non è l’autore. Questa fu la parte più letta dell’opera e quella che fece più scalpore; in essa si parla soprattutto della seduzione della parola: al seduttore non interessa quante ragazze può sedurre, ma interessa solo come le seduce.
Anche le Carte di B racchiudono vari saggi come:
Lettere ad A;
Validità estetica del matrimonio;
L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità – viene posto l’accento sulla “scelta” come momento discriminante tra l’estetico e l’etico e quindi la possibilità dell’enten-eller; lo scegliere appartiene infatti al momento etico il quale non è ciò che è immediatamente, come l’estetico, ma ciò che diventa mediante appunto la scelta.
Ultimatum (predica di un pastore dello Jutland).
TIMORE E TREMORE
L’opera “Timore e Tremore” appare il 16 ottobre 1843. «Dopo la mia morte» scrive Kierkegaard nel Diario a proposito di Timore e Tremore, «si vedrà che basta quest’opera per rendere immortale un nome di scrittore, si inorridirà per il tremendo pathos che contiene». Firmata da Johannes de Silentio (uno dei molti pseudonimi che Kierkegaard ama enigmaticamente adottare), Timore e tremore fa parte delle opere scritte nel 1843, dopo la rottura del fidanzamento con Regine Olsen. Johannes de Silentio vi prospetta la possibilità della «sospensione dell’etica» di fronte all’esigenza religiosa: quel Dio che ha ordinato ad Abramo di sacrificare Isacco ha imposto a lui (Johannes, cioè Kierkegaard) di rinunciare a Regine. Pur attraverso i veli di una sapiente allegoria, questa singolare «lirica dialettica» ci rende partecipi delle tensioni di un’esperienza religiosa profondamente vissuta. Kierkegaard, in Timore e Tremore, si è servito del dramma di Abramo (di cui non ha capito l’intreccio tra colpa morale e interesse politico) per giustificare la sua rottura col mondo sociale e l’insegnamento. Abramo -secondo Kierkegaard- non può essere capito dalla massa perché vive un rapporto speciale con l’assoluto. Apparentemente sembra un assassino, invece egli compie soltanto un sacrificio che gli viene richiesto da Dio. Il dramma di Abramo è che non può comunicare a nessuno la sua angoscia. Kierkegaard si identifica in Abramo come nell’Angoscia lo farà con Adamo, ma in entrambi i casi stravolgendo completamente il senso delle cose. Nella prefazione dell’opera l’autore si dichiara poeta, non filosofo. “Il sottoscritto non è affatto un filosofo; egli non ha compreso il sistema, non sa se esso esiste, se è compiuto; […] egli è, ‘pöetice et eleganter’, uno scrittore”. La filosofia, alla quale si dichiara estraneo, e refrattario, è quella hegeliana, che viene criticata in due punti nodali: nella identificazione radicale dell’interno e dell’esterno (per cui la sfera dell’interiorità perde ogni sua determinante e specifica consistenza); nella risoluzione della fede come momento che va oltrepassato nel divenire dello Spirito. L’opera, poi, si svolge in due tempi:
Stati d’animo e Panegirico di Abramo in cui prevale l’andatura poetica;
Problemata e Problemi (I, II, III) in cui la ragione dialettica riprende i problemi della prima parte e li dispiega in una serrata riflessione.
Stato d’animo
Lo “Stato d’animo” è quello esistenziale, dove si aprono, nel “mistero” della libertà che è il “segreto” dell’esistenza, le varie possibilità, dentro le quali si staglia netta e decisa la fede di Abramo. Le quattro “visioni” che il solitario melanconico e contemplativo riferisce a Johannes de Silentio, sono le “possibilità” che si sarebbero potute verificare se Abramo non avesse creduto:
la possibilità della finzione di Abramo che si fa credere da Isacco un mostro piuttosto che egli perda la fede in Dio;
la possibilità della perdita della gioia, come conseguenza dell’assurdo vissuto;
la possibilità della tentazione del peccato imperdonabile: Abramo prega Dio di perdonarlo di aver voluto sacrificare suo figlio Isacco;
la possibilità della disperazione di Abramo e della conseguente perdita della fede da parte di Isacco, senza che il padre mai se ne accorga.
Invece Abramo credette.
Panegirico di Abramo
In questa parte dell’opera Kierkegaard mostra la figura di Abramo quale “eroe della fede”. Il “panegirico” può essere schematizzato nel modo seguente.
La funzione del “poeta” è quella di essere il “genio della rimembranza”.
Descrizione dell’eroe della fede
Il tempo della fede.
“Il tempo passava” (tempo cronologico);
“c’era la possibilità” (permanere del possibile);
“Abramo credette” (la forza della fede). La forza della fede è:
recupero del tempo come “presenza esistenziale”. “Abramo credette e mantenne la promessa”;
recupero del transeunte nell’adesione all’eterno. “È una cosa grande il rinunciare al proprio desiderio ma è più grande il mantenerlo dopo averlo abbandonato; è una cosa grande afferrare l’eternità, ma è più grande mantenere la realtà temporale dopo averla abbandonata”.
La fede è giovinezza spirituale: “Abramo credette, perciò egli è giovane; poiché colui che […] crede, conserva un’eterna giovinezza”. Proprio perché riscatta il tempo dalla precarietà del divenire nella sporgenza dell’eterno, la fede è giovinezza spirituale.
Il “combattimento” con Dio è la vera “passione” dell’uomo.
“Abramo tuttavia credette e credette per questa vita. […] Egli credette l’assurdo”.
Problemata
I “Problemata” si aprono, quasi per stabilire una sorta di continuità “ideale” tra il momento lirico e il momento dialettico, in cui si delinea la figura del “cavaliere della fede”. Abramo è il “cavaliere della fede” e non l’eroe tragico della rassegnazione infinita.
Il segreto del dramma di Abramo è l’angoscia di fronte alla determinazione religiosa, quella del sacrificio del figlio, che è qualitativamente diversa dalla determinazione morale e richiede la decisione della fede: insomma, bisogna “fare della fede un valore assoluto”. Il percorso indicato da Kierkegaard è il seguente.
Polemica contro la predicazione dei pastori
L’angoscia. “L’espressione etica per l’azione di Abramo è ch’egli voleva uccidere Isacco, l’espressione religiosa è ch’egli vuol sacrificare Isacco; ma in questa contraddizione si trova precisamente l’angoscia che può certamente rendere un uomo insonne – Abramo però non lo è, egli non ha quest’angoscia”.
La determinazione religiosa (il Sacrificio) non è quella morale. “Se infatti si sopprime la fede riducendola a zero o al nulla, non resta più che il fatto crudo, che Abramo voleva uccidere Isacco”.
La decisione di fede. “È solo con la fede che si ottiene la somiglianza con Abramo”.
Combattimenti dialettici della fede (polemica con Hegel):
Abramo è il “cavaliere della fede” e non l’eroe tragico.
Abramo non è neppure il calcolatore umano. “Egli credette in virtù dell’assurdo, poiché ogni calcolo umano era da tempo stato abbandonato”.
Abramo amò Dio con la fede.
Non bisogna andare oltre la fede.
Ricerca del “cavaliere della fede”. “si è rassegnato infinitamente a tutto ed ecco che ha riavuto tutto in virtù dell’assurdo.”.
Carattere del “cavaliere della rassegnazione infinita”.
Il “cavaliere della fede”. “Egli fa una rinuncia infinita all’amore, ch’è il contenuto della sua vita, è riconciliato nel dolore; ma allora si compie il prodigio, egli fa ancora un movimento più meraviglioso di tutti, poiché dice: io però credo che riuscirò ad averla in virtù cioè dell’assurdo, in virtù del principio che a Dio tutto è possibile. […] Egli [Abramo] conosce l’impossibilità e nello stesso tempo crede l’assurdo”.
Ecco dunque, riassumendo, i momenti dialettici della fede:
riconoscimento dell’impossibilità secondo i criteri umani;
simultaneamente si crede che ogni cosa è possibile a Dio. Si crede ciò che, secondo la pura razionalità, è l’assurdo.
La fede, perciò, non è un impulso di carattere estetico, né l’istinto immediato del cuore, ma è “paradosso” di vita, che con umile coraggio afferra “tutta la temporalità in virtù dell’Assurdo”. Per cui “ogni tempo può essere felice se possiede la fede”.
Problema I
Si dà una sospensione teleologica dell’etica?
La seconda parte dell’opera intende ricavare la dialettica della fede, la quale si configura come “inaudito paradosso”, che trasforma ciò che sul piano della norma morale generale è un delitto in un atto santo e gradito a Dio.
Esiste una sospensione teleologica della morale? Per rispondere affermativamente a tale domanda bisogna rilevare le connotazioni seguenti.
Connotazione della morale intesa come il Generale, che vale per tutti, dentro un orizzonte di immanenza, giacché la morale ha in sé il suo “telos”.
Connotazione dell’Individuo come essere immediato, sensibile, psichico. Ora il problema sta nel rapporto tra l’Individuo e il Generale come norma morale. La morale richiede che l’individualità si risolva nel Generale. Rivendicare infatti la propria individualità di fronte, cioè contro, il Generale è peccato e la riconciliazione può avvenire solo riconoscendo il Generale. La crisi morale sta proprio nel tentativo di rivendicare la individualità di fronte al Generale e la liberazione dalla crisi è il pentimento.
Nel rapporto tra Individuo e Generale si configura la connotazione della fede come paradosso. Per la fede, infatti, per cui l’Individuo si rapporta con l’Assoluto in un rapporto assoluto, l’Individuo si pone sì al di sopra del Generale, ma in maniera tale da essere, radicalmente, in regola con il Generale, in quanto proprio per la fede, l’Individuo come tale è in rapporto assoluto con l’Assoluto. La fede, perciò, non è integrabile con il sistema: è “scandalo” per la ragione del sistema.
A questo punto Kierkegaard fa seguire esempi di “eroi tragici” quali: Agamennone, Jefte e Bruto; ma di fronte alla vicenda di Abramo non si può piangere, come si può fare nei confronti dell’eroe tragico, si ha invece l’ “horror religiosus”: la fede è “timore e tremore”.
Problema II
Esiste un dovere assoluto verso Dio?
Come si è appena constatato, Abramo ha varcato tutti i confini della sfera etica: il suo “telos” è più in alto, al di sopra dell’etica. Quindi, dal punto di vista etico, sorge una “nuova categoria”: il dovere come espressione della volontà di Dio, a cui ci si rapporta in un rapporto assoluto. Ma esiste un dovere assoluto nei confronti di Dio? La risposta è affermativa. Passando attraverso la critica della filosofia hegeliana che pone il “das Aussere” (la manifestazione) superiore al “das Innere” (l’interiore), si giunge ad affermare che il “paradosso della fede” si basa sulla incommensurabilità dell’interiore all’esteriore, per cui è l’”interno” – il “divenire soggettivo” – ad essere superiore all’esterno.
Il rovesciamento della fede nei riguardi della morale è questo: che la morale non è abolita, ma riceve un’espressione diversa, quella del paradosso, che non si presta ad essere mediato.
È questa la “terribile responsabilità” che deve accollarsi il “cavaliere della fede”.
Il “cavaliere della fede” deve rinunciare al generale per diventare il Singolo e questo lo fa in forza dell’assurdo; non può chiedere aiuto a nessuna mediazione, neanche a quella della Chiesa; egli è completamente solo.
Problema III
Dal punto di vista etico si può scusare il silenzio di Abramo con Sara, Eliezer, Isacco sul suo progetto?
Il “pathos” è il protagonista delle ultime pagine dell’opera dove viene esaminato il “silenzio” di Abramo. Nel “silenzio” di Abramo, Johannes de Silentio vede configurato il silenzio emblematico della fede, lo “stupore assoluto” dell’uomo. Emerge ancora il caso di Abramo. Il suo “silenzio” non è “estetico” né “etico”, ma “religioso”.
Un silenzio fatto di sofferenza e di angoscia, che vive e si nutre nella “terribile responsabilità della solitudine”.
“Allora «aut – aut»: o esiste il paradosso che il Singolo come Singolo sta in un rapporto assoluto all’Assoluto, oppure Abramo è perduto”.
IL CONCETTO DELL’ANGOSCIA
La possibilità è la categoria fondamentale dell’esistenza. La condizione di insicurezza, di inquietudine e di travaglio connessa a questa categoria è l’oggetto dei due scritti che, accanto alle “Briciole” e alla “Postilla”, costituiscono il nucleo più prettamente filosofico del pensiero di Kierkegaard: “Il concetto dell’angoscia” (1844) e “La malattia mortale” (1849). L’angoscia è la “vertigine” che scaturisce dalla possibilità della libertà. L’uomo sa di poter scegliere, sa di avere di fronte a sé la possibilità assoluta: ma è proprio l’indeterminatezza di questa situazione che lo angoscia. Egli acquista la coscienza che tutto è possibile, ma quando tutto è possibile, è come se nulla fosse possibile. La possibilità non si riveste di positività, non è la possibilità della fortuna, della felicità, ecc.; è la possibilità dello scacco, la possibilità del nulla. L’angoscia è la condizione naturale dell’uomo. Essa non è presente nella bestia che, priva di spirito, è guidata dalla necessità dell’istinto, né nell’angelo che, essendo puro spirito, non è condizionato dalle situazioni oggettive. L’angoscia è propria di uno spirito incarnato, quale è l’uomo, cioè di un essere fornito di una libertà che non è né necessità, né astratto libero arbitrio, ma libertà condizionata dalla situazione, cioè appunto dalla possibilità di ciò che può accadere. E’ la possibilità di poter agire in un mondo in cui nessuno sa che cosa accadrà. E’ l’angoscia provata da Adamo posto di fronte al divieto di gustare i frutti dell’albero della conoscenza: egli non sa ancora in che cosa consista la conoscenza, non conosce la differenza tra il bene e il male, non comprende il senso del divieto stesso. Egli non sa che cosa accadrà, eppure è chiamato a scegliere tra l’obbedienza e la disobbedienza. Strettamente connessa alla categoria della possibilità è anche quella della disperazione, che è la “malattia mortale” di cui Kierkegaard tratta nel libro omonimo. Tuttavia, se l’angoscia è incentrata soprattutto sui rapporti tra il singolo e il mondo, la disperazione riguarda piuttosto quel rapporto del singolo con se stesso. L’angoscia è determinata dalla coscienza che tutto è possibile, e quindi dall’ignoranza di ciò che accadrà. Invece la disperazione è motivata dalla constatazione che la possibilità dell’io si traduce necessariamente in una impossibilità. Infatti, l’io è posto di fronte a un’alternativa: o volere o non volere se stesso. Se l’io sceglie di volere se stesso, cioè di realizzare se stesso fino in fondo, viene necessariamente messo a confronto con la propria limitatezza e con l’impossibilità di compiere il proprio volere. Se,viceversa, rifiuta se stesso, e cerca di essere altro da sé, si imbatte in un ‘impossibilità ancora maggiore. Nell’uno come nell’altro caso, l’io è posto di fronte al fallimento, è condannato a una malattia mortale, che è appunto quella di vivere la morte di se stesso. Tanto l’angoscia,quanto la disperazione possono avere un solo esito positivo:la fede. Sia l’esperienza della possibilità del nulla propria dell’angoscia, sia quella della malattia mortale che rivela l’impossibilità dell’io, si risolvono soltanto quando l’uomo compie un salto qualitativo, aggrappandosi all’unica possibilità infinitamente positiva, che è Dio. Il credente non ha più l’angoscia del possibile, poiché il possibile è nelle mani di Dio; né il suo io si perde nella disperazione della propria impossibilità, poiché sa di dipendere da Dio e di trovare in Dio un sicuro ancoraggio. Il passaggio alla fede, tuttavia,è un salto senza mediazioni. La fede non può essere dimostrata per mezzo di analisi storiche e filologiche, né può essere fondata su una filosofia speculativa che la riconduca, come aveva fatto Hegel, a una determinazione della ragione umana. La fede è, piuttosto, il risultato di un atto esistenziale con cui l’uomo va al di là di ogni tentativo di comprensione razionale, accettando anche ciò che al vaglio della ragione o della critica storica appare assurdo. L’essenza intima della fede non è una verità oggettiva, determinabile con gli stessi strumenti di indagine con cui si analizza un fenomeno naturale o un problema logico-matematico. Al contrario, essa è soggettiva non nel senso di essere relativa e variabile, ma nel senso di essere fondata esclusivamente sul rapporto soggetto con la rivelazione divina. Nella fede ogni uomo è solo con Dio. La fede è data dalla fusione di quella manifestazione di temporalità, di finitezza,di possibilità, in una parola di esistenza, che è l’uomo, con l’elemento dell’eternità e dell’infinito. Con la nozione di momento Kierkegaard indica proprio l’irrompere dell’eternità nel tempo con cui Dio si rivela all’uomo. Nel momento l’infinito si manifesta al finito; cosicché nella verità che ciascun credente porta soggettivamente nel suo cuore è contenuta la stessa verità divina. Il Cristianesimo è quindi l’unica vera religione, poiché esso soltanto riesce ad esprimere questa verità per mezzo della dottrina dell’incarnazione di Dio.
BRICIOLE DI FILOSOFIA
La tensione drammatica dei testi precedenti qui è notevolmente ridimensionata. Ora Kierkegaard traduce sul piano filosofico le riflessioni maturate su quello psico-religioso. Egli inoltre cerca di dare un fondamento filosofico alla propria concezione religiosa dell’esistenza. I concetti che va elaborando, oltre a quello di “singolo”, sono: “paradosso” (in antitesi alla mediazione hegeliana dei contrari: la mediazione è concettuale, l’esistenza è paradossale perché unica, irriducibile alla comprensione adeguata del pensiero), “scandalo” (che è -secondo Kierkegaard- il vero volto del dubbio cartesiano e di tutta la filosofia moderna, che ha voluto staccarsi dalla religione), “contemporaneità” (in antitesi al concetto hegeliano di “divenire storico”: per il singolo la storia si riduce a un nulla, in quanto il problema di realizzare una “beatitudine eterna” nella storia gli si presenta nella sua assoluta radicalità e la storia non gli è di nessuno aiuto ai fini della realizzazione). Il singolo di Kierkegaard deve essere consapevole di vivere un’esistenza unica, paradossale e, in quanto “discepolo di Cristo” (perché il singolo si definisce “cristiano” o almeno intenzionato a diventarlo) deve anche sentirsi “contemporaneo” a lui, aldilà dello sviluppo storico, anzi contro questo stesso sviluppo, che ha ridotto l’esperienza cristiana a una banalità, a una ovvietà (si è cristiani in massa, solo perché si viene battezzati, solo perché si vive in un certo Stato ecc. -dice Kierkegaard). In questa “contemporaneità” la fede del singolo non può che destare “scandalo” nell’interlocutore, che si sente già cristiano e che non dubita della propria fede. Lo scandalo mette in crisi le certezze acquisite, le conquiste del passato. Kierkegaard rifiuta il concetto di “divenire storico” in quanto la storia ha tradito Cristo. Con questo saggio prosegue la critica, iniziata con Timore e tremore, dell’ufficialità protestantica della Chiesa danese, anche se questa polemica, per il momento, passa attraverso la critica dell’hegelismo. Da notare comunque che Kierkegaard non ha mai accettato di definirsi “filosofo”: anche quando scriveva di filosofia egli preferiva definirsi col termine di “scrittore religioso” o “edificante” (la sua, semmai, è una filosofia della religione).
GLI STADI DEL CAMMINO DELLA VITA
Negli Stadi del cammino della vita, Kierkegaard distingue tre condizioni o possibilità esistenziali fondamentali, alle quali egli dà il nome di “stadi”, poiché possono essere considerati come momenti successivi dello sviluppo individuale. Contrariamente alle affermazioni hegeliane, nel passaggio dialettico tra l’uno e l’altro non vi è nessuna forma di automatismo, bensì un “salto”che può essere colmato soltanto con la libera scelta del singolo. Queste determinazioni sono lo stadio estetico, lo stadio etico e lo stadio religioso. Nella prima opera pubblicata dopo la tesi di laurea, Aut-aut, Kierkegaard delinea la distinzione tra i primi due stadi. Lo stadio estetico è incarnato dalla figura del seduttore, che dedica la sua intera esistenza alla conquista dell’animo femminile per il puro piacere della conquista stessa. La vita estetica, infatti, è incentrata sul desiderio e sul godimento. L’esteta non esce dalla sfera della sensualità:per questo il personaggio che meglio lo rappresenta è il Don Giovanni di Mozart. La musica è infatti la più sensuale delle arti, poiché in essa l’espressione è totalmente immediata, senza far ricorso alla parola, che invece comporta una dimensione concettuale e riflessiva. Analogamente il seduttore vive nell’elemento dell’immediatezza: egli non compie mai una scelta definitiva, non si impegna mai in nulla, la sua filosofia è il motto graziano del “carpe diem”. La vita dell’esteta è una successione ininterrotta di istanti indipendenti gli uni dagli altri:egli passa da un’esperienza all’altra senza che quella precedente lasci una traccia di sé su quella successiva, senza che la sua esistenza abbia una storia. L’unico elemento costante nella sua vita è la ricerca del nuovo e del rifiuto della ripetizione, considerata come fatale principio di noia. Il suo unico compito è la ricerca dell’eccezionalità, nell’ esasperata volontà di diversificarsi da tutti gli altri individui, così come da tutte le proprie esperienza passate. Proprio a causa dell’assenza di un punto unificatore dell’esistenza, l’esito finale dello stadio estetico è la disperazione, la presa di coscienza della assoluta vanità di ogni cosa. Anche la disperazione, tuttavia, può essere vissuta in due maniere diverse. Essa può venire considerata una forma estremamente raffinata di divertimento, che consiste appunto nel non prendere mai sul serio nulla e godere anzi della mancanza di senso di ogni cosa:in questo caso non si esce dalla sfera estetica. Oppure l’esteta può pervenire alla disperazione vera che, mostrandogli la vanità delle sue esperienze, lo induce a compiere il salto verso un genere di vita superiore, retto da principi completamente estranei alle regole dell’estetica. In questa situazione il singolo perviene allo stadio etico. Tra i due stadi, comunque, non c’è alcuna forma di mediazione. Il passaggio dalla disperazione finita (estetica) alla disperazione infinita (etica) è un salto che può essere compiuto solo in base alla libera scelta del singolo. Lo stadio etico trova la sua migliore rappresentazione nella figura del marito o, più in generale, nel personaggio del Consigliere di Stato Guglielmo, la cui esistenza è circoscritta dalle sfere del matrimonio, della famiglia, della professione, della fedeltà allo Stato. Se l’esteta trapassa di istante in istante senza impegnarsi mai in nulla, la vita dell’uomo etico è invece contrassegnata dalla scelta. In primo luogo, egli compie la scelta fondamentale tra bene e male; in secondo luogo, una volta scelto un determinato bene, una certa sposa, una certa professione, ecc. egli conferma in ogni momento la sua scelta, tornando a scegliere in ogni istante ciò che ha già scelto per sempre. L’uomo etico, a differenza dell’esteta, non teme dunque la ripetizione, anzi la ama, vedendo in essa una continua riconferma della sua decisione iniziale. Se la vita dell’esteta si frantuma in una miriade di istanti privi di storia, quella dell’etico si sviluppa nella continuità del tempo. All’ esasperata ricerca dell’eccezionalità da parte dell’esteta egli contrappone la tranquilla universalità del dovere, di cui l’esistenza etica è una continua realizzazione. Ma per l’uomo etico il dovere non è un’imposizione esteriore (come sarebbe per l’esteta), bensì un concreto dovere coniugale, professionale o civile che egli spontaneamente riconosce come la propria condizione. Il dovere morale non è altro che “il compito che si è a se stessi”,ciò che ciascuno ha deciso di diventare in virtù della sua libera scelta. Anche la vita etica, tuttavia, appare limitata. Se sceglie se stesso fino in fondo, l’individuo raggiunge la propria origine, cioè Dio. Ma poiché di fronte alla maestà di Dio l’unico sentimento che l’uomo può provare è quello della propria inadeguatezza morale, cioè della propria colpevolezza, l’esito finale della vita etica è il pentimento. L’uomo etico viene così messo di fronte al peccato, il quale però non è più una categoria etica, bensì una determinazione religiosa. Con il pentimento, dunque, si esce dalla sfera dell’etica per entrare in quella della religione, sebbene,anche in questo caso, il passaggio non sia automatico, ma comporti un salto ancora più radicale di quello che divideva l’ambito etico da quello estetico. Lo stadio religioso è descritto in Timore e tremore,opera che già nel titolo esprime la natura dell’atteggiamento che l’uomo religioso deve avere nei confronti del divino. Nella sfera etica l’individuo vive nell’ambito dell’universale: ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è dovere e ciò che è colpa, sono noti a tutti. Nella sfera della religione invece, il “cavaliere della fede” è assolutamente solo:il suo unico rapporto è quello con Dio. La dimensione religiosa comporta una sospensione dell’etica, poiché essa si impernia esclusivamente sulla volontà di Dio, che può anche divergere dalle leggi dell’etica. La figura emblematica di questa condizione è Abramo, che per obbedire a Dio non esita a sacrificare l’unico figlio Isacco. Dal punto di vista morale egli ha soltanto un dovere, quello di essere un buon padre: l’etica, dunque, lo condanna irrimediabilmente come un assassino. La giustificazione della sua intenzione di uccidere Isacco risiede tutta nella volontà di Dio, la quale si esprime esclusivamente nel rapporto interiore tra il singolo Abramo e la divinità. Nessuno lo può capire in base alle regole dell’etica, ed egli stesso non può essere certo di non sbagliare: la fede è rischio. Isolato da tutti gli altri, egli è un’eccezione assoluta, come l’esteta, con la sola ma importante differenza che l’eccezionalità dell’esteta è tale perché non si è ancora elevata all’universalità dell’etica, mentre quella religiosa è tale perché ha già superato questa universalità. La fede consiste proprio nel paradosso per cui esiste un’interiorità incommensurabile con l’esteriorità: in virtù della fede il singolo, che per l’etica è subordinato all’universalità della legge, afferma la propria superiorità rispetto all’universale in nome del suo rapporto individuale con l’assoluto.
POSTILLE NON SCIENTIFICHE
Alle Briciole seguirà nel ’46 la monumentale Postilla conclusiva non scientifica. A partire da questo volume (che secondo Kierkegaard doveva essere un’antitesi alla Logica di Hegel), Kierkegaard si lamenta di non avere più un interlocutore. Nelle Briciole, infatti, il “re senza terra”, lo “scrittore senza pretese” -come si autodefinisce nel Concetto dell’angoscia) crede ancora nel valore di un pubblico riconoscimento della sua produzione letteraria. Ma nella Prefazione della Postilla -visto il pessimo risultato editoriale delle Briciole- cambia completamente parere, chiarendo anzi che la celebrità è un grave impedimento alla realizzazione del suo ideale religioso. Così pure afferma nel discorso edificante Vangelo delle sofferenze, edito sempre nel ’46, ove esalta la figura di Giobbe. Tuttavia, i fatti successivi al ’48 dimostreranno che Kierkegaard non era affatto alieno dal desiderare una pubblica notorietà. Con la Postilla -di cui riuscirà a vendere solo 50 copie- l’intenzione di Kierkegaard era quella di concludere la sua attività di scrittore: lo attesta il fatto che con essa egli fa un bilancio di tutta la sua precedente produzione letteraria, rivelando al pubblico, che peraltro già lo sapeva, chi si celava dietro i diversi pseudonimi usati per i suoi libri. A chiudere tale attività l’aveva indotto anche la polemica con la rivista satirica Il corsaro, che lo prese in giro per diversi mesi, facendo colpo sul pubblico. Il giornale venne chiuso dal governo e il direttore espulso dal paese per “indegnità morale”, ma Kierkegaard se ne risentì profondamente, anche perché pochissimi avevano preso le sue difese. Egli aveva sopportato gli scherni perché così gli sembrava di adempiere al compito di testimoniare una verità religiosa, ma ciò non era avvenuto senza profondi drammi personali. Nella vita di Kierkegaard gli avvenimenti esteriori sono molto pochi ma, a causa del suo autoisolamento, essi venivano ad acquistare un’importanza eccezionale per la sua coscienza. Kierkegaard voleva essere uno scrittore per il popolo, o meglio per i molti singoli della società: Il corsaro invece aveva capito ch’egli altro non era che uno “scrittore per scrittori”, cioè un’individualità astratta, isolata, con pretese sproporzionate rispetto alle sue forze. Nella Postilla comunque il disprezzo per la socialità raggiunge forme di particolare conservatorismo filo-monarchico. Kierkegaard teme chiaramente le idee liberali, democratiche e socialiste. Tuttavia, nella Postilla la rottura col pubblico non è così esacerbata come lo sarà nella Malattia mortale e nell’Esercizio del cristianesimo. Forse perché la sua posizione esistenziale restava, in ultima istanza, ancora troppo poco determinata: lui stesso la definisce “umoristica”. “Climacus” (lo pseudonimo scelto per i due volumi di filosofia) è un “umorista privatista”, cioè un intellettuale indifferente alle vicende della vita, è un “poeta”, “senza autorità”, senza essere seguace di alcun partito, ha solo il senso del “comico” (che è tipico delle nature malinconiche) e scrive per il gusto di scrivere, senza sentirsi coinvolto sino in fondo in quello che dice. La sua preoccupazione è quella di porre il problema di come vivere il cristianesimo, non è quella di dimostrare come vada vissuto concretamente. “Climacus” non è cristiano ma è impegnato a diventarlo. La Postilla vuole anzitutto essere un testo anti-hegeliano. Essa rappresenta il tentativo di fare del cristianesimo un’esigenza personale, non solo l’oggetto di una speculazione intellettuale. In questo senso la filosofia di Kierkegaard è sempre una filosofia religiosa o della religione. Ciò che più gli interessa non è il problema “oggettivo” della verità, cioè non gli interessa discutere sulla verità oggettiva del cristianesimo, poiché questa verità egli la dà per scontata. Il problema per lui è dimostrare soggettivamente il valore di questa verità. La speculazione, le prove ontologiche dell’esistenza di Dio, la tradizione, la Bibbia, la considerazione storica…: tutto ciò o è tautologico (in quanto non dimostra soggettivamente ciò in cui dice di credere oggettivamente) o è ipocrisia (in quanto dice il contrario di quello che vive, di quello che è la realtà). L’oggettività o è falsa o non serve, in quanto non può provare nulla. Per Kierkegaard è definitivamente tramontato il tempo in cui il cristiano può considerarsi tale solo perché dice di credere nelle verità di fede della chiesa. La sua propria religiosità deve dimostrarla nei fatti, coll’atteggiamento personale. Tuttavia nella Postilla Kierkegaard arriva a tale consapevolezza solo a livello teoretico, con l’affermazione principale che “la verità è la soggettività”, che vuol dire: solo nel modo come il soggetto vive la verità si può comprendere se questa verità è per lui autentica, genuina, profonda. Il criterio della verità è la pratica della verità stessa. Questa pratica per Kierkegaard è eminentemente religiosa. La fede è quella forma di interiorità (destinata a esplicitarsi in un giudizio di condanna della cristianità stabilita) che non si lascia oggettivare da alcunché. La soggettività infatti è la sola realtà che Kierkegaard sia disposto ad ammettere. Nel Vangelo delle sofferenze (1846) Kierkegaard fa coincidere espressamente “interiorità” con “sofferenza”. Cioè la sofferenza è il criterio della verità: senza pathos una qualunque verità è astratta, non edificante. In particolare nel Vangelo delle sofferenze il singolo-Giobbe soffre da innocente davanti a Dio, pur pensando, umilmente, d’essere colpevole, poiché davanti a Dio l’uomo ha sempre torto. Kierkegaard dunque sa di non aver nulla da rimproverarsi davanti agli uomini, in quanto l’esteriorità della Chiesa trionfante è chiaramente per lui una falsità.
LA MALATTIA MORTALE
A. CHE LA DISPERAZIONE SIA LA MALATTIA MORTALE – B. LA DISPERAZIONE È UNA MALATTIA NELLO SPIRITO NELL’IO, E COSÌ PUÒ ESSERE TRIPLICE: DISPERATAMENTE NON ESSERE CONSAPEVOLE DI AVERE UN IO (DISPERAZIONE IN SENSO IMPROPRIO); DISPERATAMENTE NON VOLER ESSERE SE STESSO; DISPERATAMENTE VOLER ESSERE SE STESSO. L’ uomo è spirito. Ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io Ma che cos’è l’io? È un rapporto Che si mette in rapporto con se stesso oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se stesso. L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi. Una sintesi è un rapporto fra due elementi. Visto così l’uomo non è ancora un io. (S. Kierkegaard, La malattia mortale, Roma, Newton Compton)
Nell’opera La malattia mortale Kierkegaard riprende ed approfondisce il tema della disperazione. Abbiamo già visto ch’egli presenta la disperazione sia come l’elemento che caratterizza la vita dell’esteta, sia come la condizione che permette il salto dalla vita etica a quella religiosa. Si tratta di due aspetti, spiega il filosofo, di due facce dello stesso fenomeno. La disperazione, cioè, è sempre una negazione di sé, del proprio io; ma nel primo caso essa ha luogo in quanto l’uomo è sempre alla ricerca di se stesso, di un io che non coincide mai con quello che di volta in volta egli è, e che però egli non trova mai; nel secondo caso essa è rifiuto totale di sé, è quella rinuncia a sé che si traduce, sul piano della fede, nella assoluta autodonazione a Dio. Anche la disperazione dunque, come l’angoscia, caratterizza un rapporto: la seconda, quella del singolo con il mondo, la prima quella del singolo con se stesso. Infatti l’angoscia insorge al cospetto di quegli «infiniti possibili», e dell’«infinità del possibile» che il mondo rappresenta per l’uomo; la disperazione nasce invece di fronte a quella radicale incognita che è il proprio io. Due sono i possibili modi di relazionarsi a se stesso; uno è quello di accettare di essere se stesso, l’altro è quello di rifiutare di essere se stesso; ma la disperazione si verifica in entrambi i casi, sia quando l’uomo vuole essere se stesso, sia quando non vuole assolutamente essere se stesso, cioè quando egli rinnega totalmente se stesso, quello che è e quello che potrebbe essere. Nel primo caso il singolo si dispera perché vuole ma non riesce a trovare se stesso nei vari possibili, in quanto tutte le possibilità di essere se stesso si rivelano insufficienti e inadeguate. Nel secondo caso egli si dispera quando percepisce che non c’è piú alcuna possibilità di trovare il vero se stesso, e vi rinuncia; e vorrebbe semplicemente distruggere se stesso senza potervi riuscire. Questa seconda è dunque la forma piena, totale, della disperazione; è quella che Kierkegaard chiama malattia mortale.
Cadere nella malattia mortale è non poter morire; ma non come se ci fosse la speranza della vita; l’assenza di ogni speranza significa qui che non c’è nemmeno l’ultima speranza, quella della morte. Quando il maggior pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce un pericolo ancora piú terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è cosí grande che la morte è divenuta la speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancare la speranza di poter morire. In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione penosa … di morire eternamente, di morire e tuttavia di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, sperimentare il morire. (La malattia mortale)
Questa disperazione è la porta della fede.
L’ESERCIZIO DEL CRISTIANESIMO
Nell’Esercizio del cristianesimo egli afferma che Dio si serve del singolo per far uscire l’ordine stabilito dal suo autocompiacimento. L’ambizione del singolo è quella di essere direttamente contemporaneo a Cristo, tanto da dover apparire, agli occhi dei suoi contemporanei, come lui, cioè come un singolo che lotta contro il sistema sacrificandosi fino al martirio. Kierkegaard ha bisogno di porre in atto la possibilità dello scandalo, da cui può sorgere la fede, al fine di dimostrare al sistema che la sua alternativa è l’unica praticabile, recuperando così la profondità del cristianesimo. Nell’Esercizio Kierkegaard torna a parlare della collisione del pietismo coll’ordine stabilito, ma egli pensa di aver fatto molto di più. Egli avrebbe rifiutato l’esperienza pietistica perché come singolo la possibilità dello scandalo gli era parsa superiore. La comunità -dice Kierkegaard- è “un’anticipazione impaziente dell’eternità”, mentre essere singoli significa lottare contro tutti, poiché la storia è il tempo della lotta, mentre l’eternità è la felicità della vittoria. La chiesa militante deve essere una chiesa di singoli. La possibilità dello scandalo è qui superiore perché nell’ambito del singolo la “comunicazione diretta” con l’interlocutore è impossibile, cioè è impossibile essere capiti, almeno finché si è vivi. Ciò è per il singolo fonte di sofferenza, ma per l’interlocutore è una prova della sua fede, la quale è scelta esistenziale e non conclusione logica di un ragionamento. L’interlocutore deve credere nel singolo non per quello che fa ma per quello che dice. Infatti per quello che fa egli resta insignificante, ambiguo: il che però, rapportato a quello che dice, desta profondo scandalo. Questa “duplicità dialettica” deve far riflettere l’interlocutore e portarlo alla fede. Per indicare l’impossibilità della “comunicazione diretta” (che se ci fosse porterebbe l’interlocutore ad avere fede non in Dio ma nel singolo), Kierkegaard usa il termine “raddoppiamento maieutico” o “reduplicazione”. L’Esercizio del cristianesimo, che appare nel ’50, toccherà Mynster -dice Kierkegaard- “in misura estremamente dolorosa”, tanto che il vescovo reagirà bollandolo con l’apostrofe “un gioco empio con le cose sacre”. Con questo libro Kierkegaard in pratica rinunciava a una qualunque intesa colla cristianità: egli aveva messo in chiaro il suo punto di vista, ora poteva finalmente smettere di scrivere. Tuttavia nel ’51 pubblica, senza pseudonimo, Per l’esame di se stessi raccomandato ai contemporanei, ove esalta la figura dell’apostolo Giacomo (per la valorizzazione del concetto di “opere”) e la figura di Lutero per l’approfondimento del concetto che senza la fede le opere non servono a niente; alla fine condanna la cristianità per aver abolito fede ed opere. Naturalmente l’opera più importante è per Kierkegaard “l’imitazione di Cristo”, che è il contrario della superficiale ammirazione. Sempre nel ’51, per un tracollo finanziario, Kierkegaard perde molti suoi beni.
IL DIARIO DI UN SEDUTTORE
Tre sono i possibili modi fondamentali di vivere e di concepire la vita, secondo Kierkegaard: quello estetico, simboleggiato da don Giovanni, che il filosofo presenta come protagonista del Diario di un seduttore, quello etico, simboleggiato dal «marito fedele», e quello religioso, simboleggiato da Abramo, il personaggio biblico. I primi due «ideali» sono descritti in Aut-Aut, il terzo in Timore e tremore. Questi tre «modelli» sono in irriducibile alternativa tra di loro; si escludono vicendevolmente; sicché il terzo non costituisce un superamento in senso hegeliano dei due precedenti. Il passaggio, possibile ma non necessario, dall’uno all’altro implica, per Kierkegaard, sempre una radicale rottura, un salto, una metànoia, cioè un capovolgimento di mentalità. Nello stadio estetico l’uomo conforma la sua esistenza secondo il principio di godersi la vita; il che comporta un vivere permanentemente nel presente, nell’attimo. Il grado di godimento varia a seconda del livello di spiritualità ch’egli ha conquistato. In senso pieno, però, l’esteta è colui che, guidato da una sensibilità raffinata e da una vivacissima immaginazione, ricerca sempre qualcosa che possa interessarlo e in cui possa coinvolgersi, spinto da un desiderio continuo di rinnovarsi nelle sempre nuove esperienze di piacere. Egli rifiuta pertanto il godimento grossolano, l’esperienza banale, i pensieri meschini; anzi sa valutare i diversi possibili piaceri e sa scegliere quelli che «valgono la pena», cioè quelli eccezionali e quelli che producono più intenso godimento. È evidente, osserva Kierkegaard, che per esser davvero esteta bisogna aver «talento», un appropriato dono naturale; ma è pur vero che vivere da vero esteta implica «educazione» alla raffinatezza. Se poi si aggiunge che le circostanze della vita spesso ne impediscono il godimento, allora, non solo questo «ideale» non è alla portata di tutti, ma addirittura pochi possono avere la «fortuna» di incarnarlo stabilmente nella propria esistenza.
Dobbiamo godere la vita; ma la condizione di questo godimento la troviamo nell’individuo stesso, però in modo da non esser posta da lui. Qui in generale la personalità è determinata come talento… Forse non si rimarrà fermi al talento nella sua spontaneità, lo si educherà in tutti i modi, ma la condizione per la soddisfazione nella vita è il talento stesso … Nel desiderio l’individuo è immediato, e, per quanto il piacere sia raffinato, ricercato, studiato, l’individuo è pur sempre in esso come immediato. Chi gode è nel momento, e per quanto molteplice sia questo godimento, egli è sempre immediato, perché è nel momento. Pertanto vivere per soddisfare i propri desideri è una posizione molto raffinata nella vita, e, grazie a Dio, è raro vederla realizzata completamente a causa delle difficoltà della vita terrena che danno altro da pensare all’uomo. (Aut-Aut)
Ma vivendo momento per momento l’uomo non trova mai in sé una sua propria identità, sicché s’insinua il sentimento dell’inadeguatezza del suo modo di vivere; ossia, s’insinua la noia che apre la porta alla disperazione; meglio, alla consapevolezza della sua disperazione (infatti il suo legarsi all’attimo, il suo incessante passaggio da piacere a piacere, non è che inconsapevole disperazione); e questa consapevolezza costituisce la condizione primaria per l’insorgenza del bisogno di «cambiar vita», di una vita diversa, anzi di segno opposto, e dell’effettivo salto nello stadio etico.
ABRAMO
Tre sono i possibili modi fondamentali di vivere e di concepire la vita, secondo Kierkegaard: quello estetico, simboleggiato da don Giovanni, che il filosofo presenta come protagonista del Diario di un seduttore, quello etico, simboleggiato dal «marito fedele», e quello religioso, simboleggiato da Abramo, il personaggio biblico. I primi due «ideali» sono descritti in Aut-Aut, il terzo in Timore e tremore. Questi tre «modelli» sono in irriducibile alternativa tra di loro; si escludono vicendevolmente; sicché il terzo non costituisce un superamento in senso hegeliano dei due precedenti. Il passaggio, possibile ma non necessario, dall’uno all’altro implica, per Kierkegaard, sempre una radicale rottura, un salto, una metànoia, cioè un capovolgimento di mentalità. Anche la vita religiosa non nasce come continuazione, incarnazione della vita etica, ma, al contrario, proprio religioso dal naufragio di questa; come – di nuovo – «rottura», come «conversione», come «abbandono» anche degli stessi criteri e valori etici. Lo strumento che permette la vita etica è la ragione, quello che guida la vita religiosa è la fede. Di questa fede Kierkegaard ha portato come esempio Abramo. A lui, già settantacinquenne, e senza figli per la sterilità della moglie Sara, Dio disse: «Parti dal tuo paese, dai tuo parentado, dalla casa di tuo padre, e va nella terra che io ti mostrerò. Io farò di te un popolo grande, ti benedirò e renderò grande il tuo nome». Spinto dalla fiducia nella Parola del suo Signore, Abramo eseguì il comando. Diventò molto ricco di bestiame, di oro e di argento, ma non ebbe quel figlio dal quale doveva nascere il popolo di Israele. E quando cominciava ad emergere il dubbio sulla promessa di Dio, questi lo rassicurò: avrebbe avuto un erede «uscito dalle sue viscere», partoritogli da sua moglie ormai novantenne. E nacque infatti Isacco. Sembrava ormai compiuto il compito di Abramo; ma Dio lo mise alla prova: «Orsù, prendi il tuo figlio, l’unico che hai e che tanto ami, e offrilo in olocausto sopra quel monte che io ti mostrerò». Sembrava quindi che Dio ritirasse la promessa, ma, ciò nonostante, il vecchio eseguí l’ordine. Ma allorché già aveva deposto sulla legna per la pira il corpo di Isacco e aveva messo mano al coltello per sgozzarlo, intervenne il Signore e gli disse: «Non mettere la mano addosso al fanciullo, e non fargli alcun male, perché ora conosco che tu temi Iddio, e non mi hai negato tuo figlio, il tuo unico figlio». In questo racconto biblico Kierkegaard individua gli elementi della fede autentica:
Ci furono uomini grandi per la loro energia, per la saggezza, la speranza o l’amore. Ma Abramo fu il piú grande di tutti: grande per l’energia la cui forza è debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è follia, grande per la speranza la cui forma è demenza, grande per l’amore ch’è odio di se stesso. Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una cosa, la sua ragione terrestre, e un’altra ne prese: la fede. Altrimenti, pensando all’assurdità del suo viaggio, non sarebbe partito. Fu per fede uno straniero in terra promessa ove nulla gli ricordava quel che egli amava, mentre la novità di tutte le cose gli poneva in cuore la tentazione d’un doloroso rimpianto … Fu per fede che Abramo ricevette la promessa che tutte le nazioni della terra sarebbero state benedette nella sua posterità. Il tempo passava, la possibilità rimaneva Abramo credeva. Il tempo passò, la speranza diventò assurda, Abramo credette. È pure esistito nel mondo colui che ebbe una speranza. Il tempo passò, la sera fu al suo declino, e quell’uomo non ebbe la viltà di rinnegare la sua speranza… Poi conobbe la tristezza; e il dolore, invece di deluderlo come la vita, fece per lui tutto quel che poté e, nella sua dolcezza, gli dette il possesso della sua speranza ingannata. È umano conoscere la tristezza umano condividere la pena di chi è afflitto, ma è cosa piú grande credere, e piú confortevole e benefica cosa contemplare chi crede. Abramo non ci ha lasciato lamentazioni. Non ha contato tristemente i giorni man mano che trascorrevano; non ha guardato Sara con occhio inquieto per vedere se gli anni incidevano rughe sul suo volto; non ha fermata la corsa del sole per impedire a Sara di invecchiare, e Sara fu schernita nel paese. Eppure era l’eletto di Dio e l’erede della promessa… Non sarebbe forse stato meglio che egli non fosse stato l’eletto di Dio? Che cosa significa dunque essere l’eletto di Dio? Significa vedersi rifiutare nella primavera della vita quello che è il desiderio della giovinezza, per essere esaudito in vecchiaia dopo grandi difficoltà. Ma Abramo credette e serbò fermamente la promessa, cui avrebbe rinunciato se avesse dubitato. Avrebbe detto a Dio, allora: «Forse non è nella tua volontà che questo mio desiderio si realizzi. Rinuncio dunque al mio desiderio, all’unico mio desiderio, nel quale riponevo la mia felicità. La mia anima è onesta, e non nasconde nessun astio segreto per il tuo rifiuto». Non sarebbe stato dimenticato. Avrebbe salvato molti col suo esempio ma non sarebbe diventato il padre della fede, perché è grande cosa rinunciare al proprio desiderio piú caro, ma è cosa piú grande serbarlo dopo averlo abbandonato. Grande è cogliere l’eterno, ma è piú grande cosa riavere il transeunte, dopo averne fatto rinuncia. (Timore e tremore)
Di fronte al personaggio di Abramo, che non si trattiene finanche dal voler sacrificare il figlio, Kierkegaard nota:
Ma, quando mi metto a riflettere su Abramo, sono come annientato. Ad ogni istante i miei occhi cadono sull’inaudito paradosso che è la sostanza della sua vita…; il mio pensiero non può penetrare quel paradosso neppure per un capello. (Timore e tremore)
Per lui dunque la fede è esperienza propria del singolo, vissuta in piena solitudine. Non è mai un possesso stabile, ma una ricerca continua, un rapporto con Dio che deve rinnovarsi momento per momento. Tale rapporto è paradossale, perché implica lo scontro con la propria ragione, coi propri affetti e sentimenti, e perché è aperto sull’ignoto: perciò è anche angoscioso. Esso sorge da una chiamata di Dio – in ciò la fede è dono di Dio – non dal potere dell’uomo, e, tuttavia, all’uomo manca la certezza di questo rapporto, mancano le possibilità di verifica. All’uomo non resta altro che rinunciare a sé per trovare il vero se stesso.
HEGEL
La verità soggettiva
Da Hegel lo differenzia il concetto di soggettività della verità, da intendersi non nel senso di soggettivismo, ma come valenza esistenziale del vero: la filosofia non deve rimanere fredda e astratta sintesi sistematica, ma deve illuminare l’esistenza.
“la via della riflessione oggettiva trasforma il soggetto in qualcosa di accidentale, e quindi riduce l’esistenza in qualcosa di indifferente, di evanescente”, “porta dunque al pensiero astratto”. “Al suo culmine la soggettività è svanita” .
“la passione è precisamente il culmine dell’esistenza (..). Se ci si dimentica di essere un soggetto esistente, la passione se ne va (..), ma il soggetto (..) diviene un’entità fantastica.” (Postilla )
“succede alla maggior parte dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello, e poi se ne andasse a vivere in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell’enorme costruzione sistematica.” (Diario )
Invece la verità che interessa K. è quella che fa “comprendere se stesso nell’esistenza” (Postilla )
“se stesso”: a) singolo irriducibile all’organismo storico-statale, irriducibile a momento dello sviluppo dialettico dello Spirito; e b) chiamato a scegliere (aut-aut), per il quale dunque la verità non è scindibile dal bene personalmente voluto e attuato (a differenza di Socrate);
K. interpreta anche la celebre definizione tomista di verità come adaequatio intellectus ad rem:
l’intellectus, che si “adegua” alla realtà, non è nè la Ragione trascendentale, nè un Ragione astratta, ma il “pensiero soggettivo” del concreto esistente; a cui preme non l’essere-in-sé, un essere astratto, conosciuto sistematicamente, ma la propria esistenza (a cui è “infinitamente interessato”, Postilla), fatta di eventi contingenti, non deducibili dalla necessità dell’Idea, dunque drammatica. In ciò polemizza tanto contro la tranquillità della coscienza hegeliana, per la quale tutto è necessario e razionale, quanto contro la Cristianità stabilita, che non coglie il carattere drammatico della vita). Palando del Giudizio Universale K. immagina che su quattro che si presenteranno al Supremo Giudice, tre non cristiani, ma con sofferente ricerca, e uno cristiano, anzi professore universitario, ma animato dalla presuntuosa convinzione di aver spiegato il Cristianesimo, sarà proprio quest’ultimo ad essere nella situazione peggiore.
La dialettica
Hegel, con la sua dialettica dell’et-et, sintetizzava gli opposti: per lui non c’è antitesi che non possa essere riassorbita e riconciliata in una sintesi. Parallelamente tutto il cammino della vita umana, personale e collettiva, si snoda secondo una logica necessaria: senza che vi sia responsabilità della libertà personale.
Kierkegaard invece sottolinea con forza appunto una prospettiva incentrata sulla persona, che si caratterizza per la possibilità di scelta libera, e di scelta tra alternative inconciliabili. Non un et-et, che dispensa dalla scelta un singolo visto come trascinato dall’inesorabile flusso della collettività storica, ma un aut-aut, che impegna la persona nella sua indelegabile, indemandabile libertà personale, in un dramma assolutamente personale, in cui ne va del proprio destino eterno.
Gli “stadi” dell’esistenza (in aut-aut)
La filosofia deve interessarsi essenzialmente dell’esistenza, e l’esistenza può, in ultima analisi, avere tre forme, o stadi: estetico, etico e religioso. La tripartizione kierkegaardiana può trovare delle analogie, oltre che con il ritmo ternario che Hegel aveva ripreso da una tradizione medioevale, con la teoria dei tre ordini di Pascal: la materia (estetica), lo spirito(etica), la carità (religiosità). Tra uno stadio e l’altro il passaggio non è necessario automatismo, ma salto, effettuabile solo dalla libertà del singolo.
1. estetico [tesi / pura particolarità /sensibilità ] L’uomo che vive in questa forma, l’esteta, rifiuta tutto ciò che è impegnativo, ripetitivo, serio:
“chi vive esteticamente vive sempre solo nel momento” L’esteta ricerca sensazioni sempre nuove, idolatrando l’istante fuggevole che non affondi radici nel passato e non costruisca impegnativamente il futuro. Per questo “la sua vita si disfa in una serie incoerente di episodi” senza senso ultimo; analogamente egli rifiuta ogni legame stabile, tanto a livello affettivo, quanto a livello sociale.
Figura-simbolo della vita estetica è il Don Giovanni, il seduttore, che non si lega mai ad una donna, ma passa senza sosta da una donna all’altra, nessuna amando mai veramente, senza vera storia e senza prospettiva.
L’esteta in tal modo fugge continuamente da sé stesso, distraendosi nell’esteriorità (in una esteriorità alienante, si potrebbe dire), ed è contrassegnato dalla noia (come dice Kierkegaard in Aut-aut), ed è in fondo, lo sappia o no, disperato.
2. etico [antitesi / pura universalità /ragione ] È caratterizzato da stabilità, fedeltà, ripetitività: figura-simbolo ne è il matrimonio; in questo stadio l’uomo si sottopone a una forma, a una regola, a un impegno costante nel tempo, sceglie insomma l’universale. Ma non si tratta ancora dello stadio che vede la realizzazione piena dell’umano. Un uomo che voglia essere davvero serio, e non rigoristicamente e farisaicamente serioso, deve infatti riconoscere che nella sua vita c’è il peccato e ci sono quella angosce e quella disperazione che la semplice razionalità e l’osservanza pur meticolosa di regole universali non bastano a sanare; anzi in questo stadio l’uomo non riesce a guardare in faccia davvero la Medusa terribile del suo proprio male. Per raggiungere la verità di sé e della propria vita bisogna andare oltre: solo se amato da un Altro, che sia Infinita Misericordia l’uomo può guardare davvero a sé come a un “io”. Perciò il passo ultimo della vita etica è il pentimento , il porsi di fronte al Dio personale che si rivela in Cristo, ma questo lo spinge a trapassare nello stadio religioso.
c. religioso [sintesi / di universale e particolare/ fede ] In questo stadio soltanto l’uomo affronta fino in fondo sé stesso, quell’io di cui finora aveva censurato quegli aspetti che non riusciva a capire e a risolvere, ossia l’angoscia e la disperazione. Tali aspetti non sono, per Kierkegaard, stati d’animo eccezionali e propri di certi temperamenti al limite della patologia, ma sono intrinseci strutturalmente al modo con cui ogni soggetto umano guarda a sé e al mondo.
a. ex parte obiecti l’angoscia (trattato ne Il concetto dell’angoscia) L’angoscia è strutturale in ogni essere umano, in quanto radicata nella sospensione della conoscenza umana (riferita essenzialmente al futuro) tra il sapere del puro immediato (tipicamente animale) e il sapere della totalità concreta (angelico-divino): non è angosciato chi del futuro sa tutto (Dio) o chi non ne sa nulla (l’animale, che vive esaurientemente nell’istante presente). Il suo oggetto è l’indeterminatezza del futuro, il futuro in quanto indeterminato, e in tal senso l’angoscia, il cui oggetto è appunto l’indeterminato, differisce dalla paura, che è sempre paura di un determinato.
b. ex parte subiecti la disperazione (trattato ne La malattia mortale) Se l’angoscia è relativa a ciò che potrebbe accadere, e di cui sappiamo/non-sappiamo, nell’ambito della oggettività dei rapporti intersoggettivi, la disperazione è riferita alla nostra stessa soggettività. Essa significa che l’uomo non riesce ad accettare sé stesso: dispera di essere sé stesso. Essere sé stesso infatti non è automatico, dato che la nostra natura è complessa, è sintesi di fattori tra loro in dialettica, la finitezza e l’infinitezza, la necessità e la possibilità. Normalmente gli uomini soni disperati, perché rinunciano ad essere integralmente sé stessi, rinunciano al loro vero io, e puntano solo su quel fattore del proprio io che meglio riescono a controllare: chi punta sulla finitezza (/necessità) e chi sulla infinitezza (/possibilità), gli uni buttandosi nella sola materialità, gli altri in uno spiritualismo disincarnato e puramente intellettuale/sentimentale.
La sua vera soluzione è solo il Cristianesimo, che permette all’uomo di guardare alla verità, complessa, di sé. Esso ci si presenta come ineludibile problema: quell’Uomo, Cristo, pretende di essere la mia felicità, la risposta al mio bisogno più urgente e fondamentale: non posso ignorarlo, devo sapere se dice il vero o no. Kierkegaard insiste nel presentare la fede come scandalo e paradosso: è un salto reale oltre la semplice razionalità. Si cresce nella verità, e nella verifica della fede, rischiando per essa, non pretendendo di conservarla per così dire in freezer, come pensava l’intellettualismo socratico.
“Nella specie animale – dice Kierkegaard – vale sempre il principio : il singolo è inferiore al genere. Il genere umano ha la caratteristica, appunto perché ogni singolo è creato ad immagine di Dio, che il Singolo è più alto del genere”. Hegel ha invece fatto dell’uomo un genere animale, giacché solo negli animali il genere è superiore al Singolo. L’esistenza – sostiene Kierkegaard – corrisponde alla realtà singolare, al Singolo; e non coincide mai con il concetto : un uomo singolo, concreto, determinato non ha certo un’esistenza puramente concettuale. Invece la filosofia hegeliana pare solo interessata ai concetti : essa non si preoccupa di quell’esistente concreto che siamo io o tu. Il sistema hegeliano ha inoltre la pretesa di spiegare tutto e di dimostrare la necessità di ogni evento. Ma l’esistenza non può essere ingabbiata in un sistema. Ed è sempre la singola esistenza che tiene in scacco tutte le forme di immanentismo e di panteismo, con cui si tenta di ridurre, annullare o riassorbire l’individuo singolo nell’universale.
Ad Hegel che sosteneva l’identità di interno ed esterno, esprimendo così il principio dell’appartenenza inseparabile che i contrari hanno nel concetto, e grazie a cui è possibile la dialettica, il movimento, il progresso, Kierkegaard afferma l’opposto : quanto minore sarà l’esteriorità, tanto maggiore sarà l’interiorità (si pensi alle figure di Socrate e di Cristo: esteriormente erano persone comuni, Socrate era anche piuttosto bruttino; ma interiormente …). Di qui anche la contestazione del passaggio hegeliano dalla quantità alla qualità, che è per Kierkegaard una “superstizione”, in quanto si crede che, con l’aumentare delle determinazioni quantitative, venga fuori una qualità nuova, mentre la quantità è strutturalmente diversa dalla qualità. Infine, all’identità hegeliana di soggetto e oggetto, essere e pensiero ecc., Kierkegaard risponde che la vita intera è basata sulla contraddizione, sul paradosso e non vi è superamento di contrari bensì alternative impegnative che si escludono a vicenda : non vi è nessun et et ma solo un aut aut : o questo o quello, la vita è una scelta continua.
FRASI CELEBRI
Io ho un solo amico, è l’eco: e perché è mio amico? Perché io amo il mio dolore e l’eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente, è il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace.
Ma la passione suprema dell’uomo è la fede. Nessuna generazione comincia qui da un punto diverso dalla precedente e ogni generazione comincia da capo; la generazione seguente non va più in là della precedente se questa è rimasta fedele al suo compito. […] Forse in ogni generazione molti non ci arrivano neppure, ma nessuno va oltre.
La mia malinconia è l’amante più fedele ch’io abbia conosciuto: che meraviglia allora ch’io torni ad amarla?
La vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti.
Gli uomini come sono incoerenti! Non approfittano mai delle libertà che hanno, ma reclamano quelle che non hanno: hanno la libertà di pensare, chiedono la libertà di parlare.
Ciò che nella sua ricchezza è essenzialmente inesauribile, è anche nel suo minimo atto essenzialmente indescrivibile, proprio perché‚ ciò ch’è essenzialmente presente, e in modo totale, dappertutto, non si può essenzialmente descrivere.
Il primo periodo dell’innamoramento è sempre il più bello, poiché a ogni incontro ogni sguardo si porta a casa qualcosa di nuovo per rallegrarsi.
Io ho il coraggio, credo, di dubitare di tutto; ho il coraggio, credo, di lottare contro tutto; ma non ho il coraggio di conoscere qualcosa, né il coraggio di avere, né di possedere qualcosa.
La mia concezione della vita è completamente senza senso. Io penso che uno spirito maligno mi ha messo sul naso un paio di occhiali di cui una lente ingrandisce a dismisura mentre l’altra rimpicciolisce anch’essa a dismisura.
La mia vita è diventata per me una pozione amara e tuttavia essa va presa come le gocce, lentamente, contando.
Quindi non sono io il padrone della mia vita: io sono un filo che dev’essere intessuto nella trama della vita! Bene, se non so tessere sono almeno capace di tagliare questo filo.
Cos’è la giovinezza? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto del sogno.
JEREMY BENTHAM
LA VITA E IL PENSIERO
Filosofo e giurista, nato a Londra il 15 febbraio 1748, mortovi il 6 giugno 1832. Fu d’ingegno assai precoce, tanto da poter leggere a tre anni, parte della History of England di P. De Rapin, e iniziare l’anno seguente l’apprendimento del latino. Studiò a Westminster, quindi all’università di Oxford dove conseguì il grado di baccelliere (1763) e di “maestro in arti” (1766). Indirizzato dal padre all’avvocatura, cui non intendeva dedicarsi, la esercitò per breve tempo, e si volse quindi agli studi filosofici, avvicinandosi particolarmente alle dottrine di Locke, Hume, Beccaria, Montesquieu, Helvétius. Pubblicò, anonimo, nel 1776, il suo primo lavoro, “A Fragment of Government”, in cui attaccava violentemente la costituzione inglese e indicava nel principio utilitaristico il fondamento delle dottrine etico-giuridiche. Compì, nel 1785, passando per l’Italia e per Costantinopoli, un viaggio in Russia (per visitare il fratello, ingegnere navale di Caterina II) e là scrisse la “Defence of usury” (1787). Tornato in Inghilterra, pubblicò la sua opera principale cui attendeva da molti anni: “Introduction to the principles of Moral and Legislation” (1789) intesa alla ricerca di solidi princìpi, dal punto di vista dell’utilitarismo, per una sana legislazione. L’opera gli diede larga fama in Europa e in America. Essa è anche la sola, fra le maggiori, scritta interamente di suo pugno. Nel resto delle sue opere Bentham ebbe a collaboratori discepoli e seguaci, primo fra essi il ginevrino Dumont conosciuto a Londra, il quale, oltre alle traduzioni, ne redasse e pubblicò in francese i “Traités de législation civile et pénale” (3 voll. Contenenti varie opere di Bentham: Principes généraux de législation; Principes du code civil; Principes du code pénal; Mémoire sur la panoptique; De la promulgation des lois, ecc., Parigi 1802); e inoltre la “Théorie des peines et des récompenses” (1811); il “Traité des preuves judiciaires” (1823), e altri scritti. Uscì postumo “Deontology or the Science of Morality” per cura di J. Bowring (Edimburgo 1834). Bentham, per oltre 20 anni, si interessò anche a progetti filantropici, e principalmente alla riforma dei penitenziari (pensava ad un tipo di carcere in cui, da un punto centrale ogni parte fosse visibile, denominato dal greco “panopticon”). Nonostante i suoi progetti fossero stati presi in considerazione dal Parlamento inglese, non approdò ad alcun risultato, pur avendone largo compenso in danaro. Le opere di Bentham, che restano una ricca sorgente di idee legislative, studiate da politici e giuristi, influirono, nel periodo della restaurazione, su varie legislazioni d’Europa e d’America. In Inghilterra le idee del filosofo ebbero larga diffusione, grazie soprattutto alla Westminster Review, da lui fondata, in collaborazione con James Mill, nel 1823, come organo radicale in opposizione alla conservatrice Edimburg Review. La rivista attrasse attorno a sé un gruppo di fervidi collaboratori, primo fra tutti Stuart Mill. La riforma della legislazione inglese, del diritto processuale, civile e penale, in gran parte fu dovuta a Bentham. Bentham occupa un posto importante, oltre che nella storia della legislazione, anche nella storia del pensiero etico per la sua originale espressione, sistemazione e difesa dell’ utilitarismo . Educato dapprima al conservatorismo inglese, tradizionale e ortodosso, Bentham ebbe dalla lettura di Hume la prima rivelazione del principio utilitaristico che divenne il centro di tutta la sua concezione etico-giuridica. Non c’è, egli osserva, a fondamento della condotta umana, quand’essa non si lasci influenzare da pregiudizi, particolarmente d’ordine religioso, altro movente che quello della felicità. Il piacere e il dolore inerente o connesso con le nostre azioni è, in fondo, il vero e unico motivo che le determina. Anche quella che si chiama ed è sentita come “obbligazione” morale non si concepisce né si spiega altrimenti che come necessità di porre o tralasciare un’azione perché ciò serve o è indispensabile al bene dell’individuo e della società. Essa trova parimenti la sua sanzione principale nelle dannose conseguenze che un’azione contraria all’utilità naturalmente comporta. Il principio utilitaristico diventa così insieme la base della morale e del diritto, e di conseguenza della legislazione, la quale dev’essere sottratta alle norme teoretiche del cosiddetto diritto naturale, e guidata unicamente dall’intento di realizzare ” la maggior felicità possibile per il più gran numero possibile di individui “. Tale la formula sintetica del principio e della norma etico-giuridica, enunciata già da Beccaria, cui Bentham si ispira. Identificato così il bene etico con l’utile e il male con tutto ciò che nuoce alla felicità, la morale viene concepita come un calcolo sapiente (che rievoca il “calcolo dei piaceri” di Epicuro) del più reale e fruttuoso interesse di tutti. Infatti l’interesse dei singoli, se bene inteso, si accorda in definitiva con l’interesse generale: e i limiti che questo impone all’egoismo del momento sono compensati dal risultato finale ch’è una somma maggiore di felicità. Bentham si addentra quindi in una sottile descrizione dei motivi delle azioni, di cui costruisce estesissime tavole, e in un’analisi minuziosa delle varie classi di piaceri, tentando di determinare il loro rispettivo apporto, immediato e mediato, alla somma finale della felicità. In generale il piacere va considerato: 1) da parte dell’oggetto, nella sua intensità, durata, certezza, accessibilità, fecondità, purezza da mescolanza di dolore, estensione a una maggiore o minore moltitudine di individui. 2) Riguardo al soggetto. Il piacere infatti è relativo, per cui, nel computo dei piaceri entrano come fattori di decisione e scelta tutte le varianti ambientali e individuali. 3) Nel suo aspetto sociale, poiché appunto l’interesse privato è intimamente connesso con quello generale. Un delitto, ad esempio, va visto non solo in quello che di bene o male reca a chi lo compie, ma in tutte le risonanze che determina nella società, di danno, incertezza, paura, ecc. In rapporto a questo calcolo del valore quantitativo dei piaceri, che, per la maggior parte delle azioni umane, è già stato fatto dall’esperienza dei secoli, Bentham, enuncia la norma concreta e universale dell’azione: se prevale la somma dell’utile, e soltanto allora, l’azione va compiuta. L’etica benthamiana, equivalente, come si vede, a una tecnica e a un’aritmetica del piacere e dell’utile, si discosta, per questo carattere, dall’edonismo cirenaico – vòlto unicamente al piacere attuale e presente – con cui pure sostanzialmente concorda nella riduzione della felicità a bene e godimento empirico. In ciò è anche il suo errore e la sua intrinseca insufficenza. Indubbiamente Bentham, valorizzando il principio dell’utilità, ch’è pure parte integrante in un sistema generale di etica, seppe portare un valido contributo al diritto e alla sua codificazione (la parola è di Bentham). In ciò va considerato il suo apporto positivo. Inoltre molte delle sue conclusioni stanno e si reggono indipendentemente dai princìpi dell’utilitarismo. Bentham (1748-1832) diede la formulazione più compiuta dell’utilitarismo. Nel suo “Frammento sul governo” pubblicato a soli ventotto anni, nel 1776, riprendendo l’idea illuministica che nell’attività politica bisogna promuovere “il massimo bene per il massimo numero di persone”, propone la dimostrazione che questo scopo è conseguibile solo con una riforma politica in senso democratico. La sua opera maggiore, tuttavia, è “Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione” (1798), in cui egli si prefigge di dare alla moralità e alla politica il carattere di scienza rigorosa. Esse, a suo avviso, devono quindi esser fondate sull’analisi dei fatti. Tra questi, quello fondamentale è che ” la natura ha posto l’umanità sotto il governo di due sovrani, la pena e il piacere “. Dunque l’uomo agisce “naturalmente” in vista del piacere, e tende ad eliminare il dolore, a tutti i livelli del suo comportamento, sia a quello privato che a quello sociale, economico, politico. Pertanto egli fa coincidere la sua felicità col godimento del piacere. Bisogna fondare, allora, un sistema etico ed una dottrina politica che s’incentrino sul principio della “ricerca del piacere”, in modo che il comportamento etico dell’individuo e l’azione politica del legislatore abbiano un fondamento “naturale”, oggettivo. Ma perché morale e politica possano massimizzare il piacere, è necessario che esse abbiano un carattere scientifico, anzi, i caratteri della scienza matematica. Il che è possibile: si può infatti, induttivamente, ricavare una tavola in cui siano indicati i princìpi della misura dei piaceri e dei dolori, la loro classificazione per specie, e la catalogazione delle diverse sensibilità individuali rispetto ad essi. Relativamente alla misura, Bentham specifica che il valore di un piacere è in rapporto ai seguenti elementi: intensità, durata, certezza, prossimità, fecondità (capacità di produrre altri piaceri) e purezza (assenza di connessi dolori). Sulla base di questa tavola, è possibile procedere al calcolo aritmetico del rapporto piacere-dolore in relazione ad una determinata azione da compiere. Per quanto attiene all’aspetto etico di questo discorso, Bentham dà per equivalenti il bene e il piacere; la virtù, perciò, coincide con la naturale ricerca della felicità, ma in quanto guidata dal calcolo razionale con il quale l’uomo “regolarizza” l’egoismo ed orienta l’azione al conseguimento dei piaceri piú pieni; essa si risolve nella capacità di misurare e classificare piaceri e dolori in relazione alla sensibilità individuale e alle condizioni concrete in cui si agisce, e di scegliere in conseguenza. La moralità di un comportamento non è determinata o qualificata dalle intenzioni o dagli ideali, ma dalle sue conseguenze: cattiva è l’azione che inibisce o limita l’acquisizione di un massimo piacere; perciò non ha senso, per Bentham, parlare di “coscienza” o “senso morale”, né di “obbligo etico”: questi, per lui, non sono che “nomi vani”. Quanto poi all’attività del legislatore, essa sarà legittima se promuove la massima felicità per il maggior numero possibile di persone, sulla base della tavola sopra indicata. A questo scopo devono ispirarsi i suoi poteri di promozione o di limitazione dell’attività individuale, non a valori astratti. I “diritti naturali” affermati dalla Rivoluzione Francese, dice Bentham, sono concetti vuoti; che cos’è infatti lo stesso diritto alla libertà? Se fosse un diritto assoluto esso, a rigore, annullerebbe per sé il valore della norma di diritto, perché questa comporta sempre una limitazione della libertà stessa. Lo scopo dell azione politica, dunque, non è la libertà, ma l’utilità individuale e collettiva, che sola può costituire anche il criterio con cui il legislatore può armonizzare libertà e coercizione. L’attività di governo deve quindi favorire, anche sul piano economico, l’ egocentrismo , che non solo è naturale ed ineliminabile, ma anche razionale e desiderabile, perché la ricerca dell’utile individuale è la condizione primaria dell’utilità sociale, e quindi della felicità collettiva. A differenza di Malthus e di Ricardo, Bentham non è però favorevole al “laisser-faire” dei liberisti più sfrenati: il potere del governo, egli sostiene, deve intervenire con sanzioni legislative per regolamentare la libertà individuale in economia; esso, mirando a far coincidere l’interesse privato con quello pubblico, deve promuovere e compensare le iniziative economiche che producono il maggior beneficio per tutti, e limitare o penalizzare le attività che, nate o condotte in vista del puro egoismo, diminuiscono il benessere collettivo. Va però detto che la sistematica concezione di Bentham morale ristretta entro gli angusti limiti dell’empirismo, non è in grado di salvare la norma etica dal relativismo, e quindi, semplicemente, di conservarla in quanto tale. Identificando il bene morale con l’utile si cessa di riconoscere, accanto al puro interesse, egoistico o sociale che sia, un valore superiore universale di bene che valga per se stesso e si imponga all’uomo in quanto essere spirituale. La stessa incomprensione il Bentham dimostra nei confronti della religione cristiana e poi della religione in genere, discussa in base al principio utilitaristico e giudicata più dannosa che utile all’umanità. Le sue idee in proposito furono svolte principalmente nell’ “Analysis of Religion”, pubblicata da Grote con lo pseudonimo di Ph. Beauchamp, nel 1822. Di Bentham furono messe all’Indice: “Traités de Législation civile et pénale” (22 marzo 1819), “Traité des preuves judiciaires” (4 marzo 1828), “Deontology” (20 gennaio 1835). Manzoni scrisse in confutazione di Bentham l’operetta “Del sistema che fonda la morale sull’utilità” , pubblicata come appendice al capitolo III delle “Osservazioni sulla morale cattolica”.
LA FELICITA’ UMANA
Per Bentham la filosofia non era una questione di ragionamento astratto, e se egli è mai arrivato a formulare una complessa e rivoluzionaria dottrina filosofica, è stato anzitutto sotto lo stimolo di problemi extrafilosofici, pratici e concreti, quelli connessi alla riforma della legislazione in Inghilterra. Egli lo affermava esplicitamente, ad esempio quando, parlando della sua filosofia, diceva che le sue definizioni e distinzioni ” sono lungi dall’essere mera materia di speculazione “. Esse anzi “sono suscettibili dell’applicazione più estesa e costante sia al discorso morale che alla pratica legislativa”. Il problema che sopra a tutti egli cerca di risolvere appartiene più alla giurisprudenza che alla filosofia, ed è quello di adeguare il ferraginoso sistema di leggi dell’Inghilterra del suo tempo ai nuovi rapporti sociali che si stavano delineando in seguito alla rivoluzione industriale. Solo che il modo in cui risolse questo problema ha una grande rilevanza filosofica, e fa largo uso di una reinterpretazione della psicologia edonistica di derivazione empiristica (che traeva soprattutto da Locke e Hume), della nuova consapevolezza metodica delle scienze esatte del suo tempo, e dell’applicazione della matematica alla scienza sociale ed alla morale, in base all’idea della calcolabilità del bene, resa possibile appunto dalla sua identificazione con l’utile del maggior numero. L’etica di Bentham pone al suo centro il problema della felicità umana, nel solco di una tradizione che risale all’etica classica. L’etica è anzi da lui definita come ” l’arte di dirigere le azioni degli uomini verso la produzione della maggior quantità possibile di felicità per coloro il cui interesse ha di mira “. La felicità è identificata col piacere, senza differenze qualitative tra piaceri “nobili” e “bassi”: la differenza può essere solo quantitativa, tra piaceri più forti e duraturi ed altri precari e passeggeri (che sono i fugaci piaceri connessi ai comportamenti viziosi). Ognuno è libero di perseguire ciò che più gli dà piacere: l’etica lo orienta peraltro verso un piacere che possa essere puro (non mischiato a dolori) e duraturo. L’omogeneità qualitativa dei piaceri tra loro rende possibile indicare con scientifica precisione, attraverso il calcolo morale, i comportamenti che consentono di creare la maggior quantità totale di piacere, quel “maggior bene per il maggior numero” che era il criterio ultimo della morale di Bentham. Tutta questa produzione di piacere e felicità ha di mira anzitutto la propria felicità, in quanto nell’etica benthamiana ha un ruolo centrale la virtù della prudenza, che consiste nella capacità di fare il proprio dovere verso se stessi, in vista del proprio bene e del proprio interesse. Ora, per quanto secondo Bentham i propri interessi siano gli unici che un uomo ha adeguati motivi per seguire – in accordo alla psicologia edonistica, secondo la quale il piacere è appunto la guida dell’uomo in tutte le sue scelte consapevoli – la morale gli dice che egli è tenuto a tener conto anche di interessi diversi dai suoi, per moventi certo meno forti del proprio interesse immediato, come la naturale tendenza alla benevolenza, e il desiderio di ottenere amicizia e reputazione. Così universale è questo comandamento dell’etica, volto alla massimizzazione del piacere, da includere in esso anche gli animali.
SUSSURRI DELLA MORALITA’ E TUONI DELLA LEGGE
Naturalmente Bentham non si nasconde che il peso che gli interessi altrui hanno sulle decisioni umane è molto debole, se questi interessi confliggono con i propri. Ed ecco perché ” i sussurri della moralità ” vanno rinforzati con ” i tuoni della legge “, in modo da creare dei moventi dissuasivi precisi a qualunque azione che (avendo di mira il proprio interesse egoistico) diminuisca la quantità generale di felicità. Se questa regola sarà rispettata, non è neanche necessario che le pene siano particolarmente rilevanti (Bentham ad esempio è contrario alla pena di morte): l’importante è che siano certe, e proporzionate al reato. Si respira in queste pagine di Bentham una grande fiducia nei mezzi della ragione umana, se essa viene messa in grado di dare ordine alla vita degli uomini. Anche qui, come in Locke e Paley, ci si vale delle pene e delle punizioni, ma non si ricorre ad un essere sovrumano ed onnipotente per questo: visto che ciò che conta sono le azioni, e non le intenzioni, non è necessario uno ” scrutatore dei cuori “. Bentham si accontenta di un sistema razionale di leggi, e – certo – di un efficiente apparato di polizia, in grado di scovare i trasgressori, e di non far pesare la speranza dell’impunità nel calcolo razionale di chi è tentato – per i propri moventi egoistici – dal commettere un reato. Egli dunque oggi potrebbe essere annoverato, rispetto a questa parte della sua concezione, tra i sostenitori di quelle teorie morali che sono state definite recentemente ” utilitarismo delle regole “, teorie che si sono affermate soprattutto negli Stati Uniti, e che (tenendo conto della preferenza degli individui per il proprio interesse personale) rinforzano le motivazioni al comportamento etico con un sistema di “regole” (le leggi), connesso ad una serie di sanzioni per la sua violazione. A parte questo, per l’utilitarismo delle regole l’individuo è considerato libero di fare quello che vuole per massimizzare il suo interesse, senza che nessun suo comportamento, anche il più egoistico, sia nemmeno criticato dalla morale, fin quando non lo porta a violare la legge. Naturalmente c’è qui un problema, che viene dal fatto che ogni utilitarismo delle regole “puro”, che lasci l’individuo determinato in ultima analisi solo dal proprio interesse egoistico, si espone all’antica domanda che nella “Repubblica” platonica Glaucone poneva a Socrate: ‘se sono certo di non essere scoperto quando commetto un reato che massimizza il mio piacere individuale, a discapito di quello altrui o di quello della collettività, perché mai non dovrei commetterlo?’ La risposta che Bentham dava a questa domanda si discosta dall’utilitarismo puro delle regole, ed è basata su un postulato indimostrato: non devo commettere il reato perché in ultima analisi l’interesse del singolo, correttamente inteso, coincide con quello della società. Il paradosso storico sta qui nel fatto che se si legge la “Repubblica” platonica fino in fondo, col suo complesso repertorio lussurreggiante di miti poetici ed immagini fantasiose, refrattarie certo a qualunque moderno calcolo utilitarista, si ottiene la stessa risposta. Il risultato dell’antica tradizione filosofico-religiosa coincide dunque con quello della più scaltrita riflessione etica moderna, armata dei nuovi strumenti della psicologia, dell’economia politica e della matematica.
IL METODO CLASSIFICATORIO
Se dovessimo fermare qui la nostra analisi, è evidente che dovremmo concludere che tutta la decisiva “rivoluzione” di Bentham e dei “benthamiti” non è approdata a nessun risultato sostanzialmente nuovo per il pensiero etico. Ciò può sorprendere, ed indurre anche una certa perplessità, se si guarda alla solennità di alcuni proclami benthamiani, e al modo derisorio e caricaturale con cui parla di gran parte della tradizione precedente. Ma in verità la sua originalità filosofica sta, molto più che nei risultati, nel metodo con cui egli conduce la sua analisi, il cosiddetto ” metodo naturale “. La convinzione che Bentham ha nella giustezza del suo modo di procedere, e la radicalità con cui critica le posizioni tradizionali, deriva in effetti dall’idea che il calcolo razionale etico sia il modo di procedere cui naturalmente si ispirano tutte le creature viventi, nelle loro scelte individuali e nel giudizio su quelle altrui, come si vede dal brano riportato in esergo. La funzione della sua filosofia è dunque duplice: da un lato una funzione critica nei confronti delle altre dottrine, che confondono il retto e naturale giudizio degli uomini, dall’altra ha una funzione orientativa per la condotta individuale e per l’elaborazione delle regole che devono guidarla: egli vuole fornire gli strumenti adeguati, all’altezza delle scoperte scientifiche a lui contemporanee, per aiutare gli uomini a scegliere secondo la loro natura (che è ben altra cosa dallo scegliere in base all'”oscuro fantasma” della legge di natura). Per questo egli suddivide ed analizza l’agire umano, distinguendo puntigliosamente i vari tipi di piacere e dolore, le diverse circostanze che influenzano la sensibilità degli uomini, le intenzioni che li muovono, le categorie delle loro azioni, i gradi di consapevolezza che hanno quando agiscono, etc. Al di là di questo enorme apparato tecnico, ciò che conta è appunto il metodo con cui tutta questa attività classificatoria viene compiuta. Il grande modello è qui uno scienziato, Linneo, che nella sua “Philosophia botanica” (1751) aveva analizzato e suddiviso i campi rispettivi della botanica e della biologia in base ai principi della fruttificazione ed a quello generale della procreazione. Aveva cioè riportato la complessità del suo campo d’indagine ad un unico principio, scelto non arbitrariamente, ma in base alla natura dell’oggetto indagato. Ciò che è essenziale nell’attività classificatoria secondo Bentham, che segue appunto nel campo della morale l’esempio di Linneo, è la naturalità del principio ordinatore che viene scelto, che deve sempre essere quello che, in base alla natura dell’argomento, è il più adeguato per ordinare quella materia. E Bentham era certo di essere in possesso di un principio adeguato, in campo morale, a svolgere la stessa funzione unificante e razionalizzante che il principio trovato da Linneo aveva per la biologia: per l’appunto, il principio di utilità, in grado di discriminare tra azioni giuste e sbagliate, e tra i vari gradi quantitativi per i quali un’azione può essere giusta o sbagliata, ovvero utile o inutile o dannosa. Lo sforzo gigantesco di analizzare, ordinare e spiegare tutta la vita umana alla luce di questo unico principio costituisce per Bentham la scientificità della sua opera, e sarà per lui al tempo stesso un formidabile strumento critico ed un limite oggettivo, che porterà il suo autore a forzature ed inevitabili unilateralità nell’analisi dell’animo umano, come si sforzerà di mostrare il suo allievo più brillante, John Stuart Mill, nel suo impietoso saggio sul suo vecchio maestro.
FRANCIS HERBERT BRADLEY
Nella seconda metà dell’ottocento anche in Inghilterra si produsse una reazione idealistica al positivismo, in particolare al pensiero di Spencer e Stuart Mill. In questa rinascita di interesse per le posizioni idealistiche, sulla scia di quel platonismo inglese che già si era affacciato sulla scena in pieno ‘600 ( i platonici di Cambridge) , si delinea l’importante contributo di Francis Herbert Bradley , nato nel 1846 e vissuto ad Oxford anche se non insegnò nel College. L’opera principale di Bradley, “Appearence and Reality”, si svolse a partire dal vecchio, ma mai pienamente superato, tema platonico dell’esperienza individuale della realtà piena di contraddizioni e nella riaffermazione di una vera realtà costituita dalla coscienza assoluta, cioè unità di soggetto ed oggetto derivata da Hegel. Bradley nacque il 30 gennaio 1846 a Clapham nella contea del Surrey. Era il quarto figlio di Charles Bradley, predicatore Evangelico, e della sua seconda moglie Emma Linton. La sua famiglia, costituita da molti fratelli, dimostrò d’essere una straordinaria fucina di talenti intellettuali. George Granville Bradley, nato da un precedente matrimonio, fu successivamente Head Master al Marlborough College, Master of University College, Oxford, and Dean of Westminster Abbey; A.C. Bradley, il figlio più giovane del secondo matrimonio, studiò filosofia a Oxford fino al 1881, e, dopo una decisa virata verso studi di tipo letterario, insegnò a Liverpool e Glasgow, rifiutò una cattedra a Cambridge, e divenne il più importante critico di Shakespeare del suo tempo. Nel 1856 Bradley cominciò a frequentare il Cheltenham College; nel 1861 si trasferì al Marlborough College, che era diretto da suo fratello. Mentre era a Cheltenham aveva cominciato a studiare il tedesco. E riuscì a leggere molte parti della “Critica della Ragion Pura” di Kant, sebbene molti aspetti della lingua tedesca non gli fossero ancora del tutto chiari. Durante l’inverno del 1862-63 si ammalò gravemente e corse il rischio di morire. Nel 1865 entrò entrò all’University College di Oxford, come scolaro, ottenendo una buona votazione nel 1867, ma un inaspettato insuccesso in litterae humaniores nel 1869. Alfred Edward Taylor, assai noto per i suoi studi su Platone in un’opera che ebbe fortuna in Inghilterra (“Elementi di metafisica” del 1903) giustificò questo insuccesso di Bradley nella completa incapacità degli esaminatori di comprendere la profondità del nuovo approccio di Bradley agli studi filosofici in Gran Bretagna. Nel giugno del 1871 Bradley cominciò a soffrire una grave infiammazione renale. Ciò aggravò il suo già precario stato di salute e lo portò a condurre una vita ancora più isolata e riservata, tra ansietà e varie forme di esaurimento nervoso. Collingwood nella sua autobiografia descrive in parte la riservatezza di Bradley: ” Sebbene abbia vissuto a meno di cento yards da lui per ben sedici anni, mai riuscii a posare il mio sguardo su di lui “. Questa reclusione aggiunge un elemento di mistero alla sua reputazione filosofica, mistero incrementato dal fatto che alcuni suoi libri risultano dedicati ad una persona identificata solo dalle iniziali E.R. Sebbene Bradley fosse votato agli studi filosofici, la sua non fu solo un’esistenza trascorsa tra i libri. Per proteggere la sua salute dai tremendi inverni inglesi, egli trascorse diversi periodi al mare, sia nel sud dell’Inghilterra che sulle coste mediterranee. Molti dei suoi libri, specialmente il postumo “Aforismi”, non possono essere solo l’opera di un uomo confinato nei suoi studi. Politicamente fu un conservatore, ma non di tipo dottrinario. Sebbene i suoi scritti rivelino un temperamento religioso, egli confessò in una lettera del 1922, di aver trovato la religiosità evangelica di suo padre esageratamente oppressiva. Ottenne in vita diversi riconoscimenti ufficiali e nel 1924 re Giorgio V lo insignì dell’ Order of Merit: così Bradley fu il primo filosofo ad essere scelto per questo rara ed ambita onorificenza. Tre mesi più tardi, dopo, pochi giorni di malattia, morì il 18 settembre del 1924 e fu sepolto all’Holywell Cemetery di Oxford. Il primo sostanziale contributo di Bradley alla filosofia fu la pubblicazione del suo pamphlet “The Presuppositions of Critical History”, esprimente un sostanziale scetticismo intorno all’interpretazione dei fatti storici. Ispirato dalla lettura di certa critica biblica tedesca – critica ai miracoli che violano la legge di natura -Bradley tenta di estendere questa riluttanza alla storia in generale senza tuttavia riuscire ad essere molto convincente. Il lavoro non fu mai letto e valutato per il suo significato storico, ma come una introduzione al pensiero filosofico di Bradley. Alcun temi caratteristici delle opere successive compaiono già qui, come quello della fallibilità dei giudizi individuali di persone che non hanno una coscienza sufficientemente ampia e che dunque confondono l’apparenza con la realtà. Nei “Principi di logica” del 1893, lo stesso anno della pubblicazione di “Apparenza e realtà”, Bradley cercò di dimostrare che anche il mondo della logica pura, se astratto dalla coscienza assoluta, è solo l’espressione di una coscienza finita e limitata, pertanto contiene le stesse contraddizioni e le stesse limitazioni del finito e dell’apparenza. Per Bradley il senso della logica sta nel giudizio, il quale va inteso come “qualificazione” della realtà stessa. In altre parole ogni idea contenente un giudizio, per Bradley non è solo un’idea, ma una qualità del reale. Posto dunque che qualsiasi qualificazione non sia davvero transitoria e accidentale, per cui ad esempio sono stanco adesso, ma ieri sera ero in forma, per Bradley appare evidente che l’essere stanco in generale definisce, per esempio, una persona “stanca” di natura sotto un profilo, ma attiva e dinamica sotto un altro, e ciò implica contraddizione. Tutto il reale qualificato, pertanto risulta contraddittorio, illusorio e la logica stessa vacilla nell’impossibile impresa di qualificare in modo stabile e determinato la realtà. Pertanto la molteplicità dei giudizi, pur considerando che essi vengono espressi sotto determinate condizioni e circostanze limitate, porta comunque a contrapposizioni inconciliabili. Di notevole interesse, a questo proposito, è la seguente riflessione: anche le condizioni e le limitazioni qualificano la realtà a loro volta. Pertanto la contraddizione non è superata, diciamo, dall’ambientazione, ma semplicemente moltiplicata. Tale impostazione potrebbe essere facilmente contestabile dalla semplice introduzione del concetto di “funzione”, per cui, per esempio, un uomo è un “padre”, un “marito”, un “cittadino” del Regno Unito e un “professore di filosofia” ed ogni giudizio logico deriva la sua stessa fondazione certa, muovendo dal “fatto” della funzione e da quale sia l’aspettativa legata a questo fatto, ovvero cosa ci aspetta da un “padre”, da un “marito” e così via. Ma in realtà, posto che in partenza vi sia una generale intuizione idealistica che trova comunque contraddittorie due affermazioni diverse sullo stesso argomento, emesse, per così dire, prima in veste di “professore” che, seguendo l’etica di Russell, è contrario al matrimonio, e poi in veste di “marito” che , essendosi sposato, è favorevole (ma non troppo) al matrimonio, o di “padre” che spinge sua figlia a cercarsi un fidanzato di qualità, affidabile, e non il primo bellimbusto che le capita a tiro, è inevitabile che Bradley finisca con l’avere ragione. Ovvero il mondo dell’esperienza individuale è contraddittorio e Guglielmo di Ockham ebbe torto a scrivere che ” l’obbedienza non implica peccato “. Ovvero, svolgendo una funzione, si deve, a volte commettere “peccato” obbedendo alla logica della funzione perché non si può fare altrimenti. Ad esempio “correggere” un figlio che non apprezza in modo particolare né la matematica né le brave persone. Oppure rifilare un brutto voto allo studente che non sa dir nulla nemmeno sulla concezione del tempo in Agostino. Questo rigetto radicale del fantastico mondo della vita e della contraddizione tra funzioni porta Bradley comunque alla definizione di un criterio assoluto di verità, cioè, al riconoscimento che vi è una realtà assolutamente priva di contraddizioni, quindi realmente consistente. Per Bradley questa realtà non può essere altro che “coscienza” assoluta, perfettamente coerente, e non determinabile da nessuna delle tante facce della coscienza contraddittoria e finita, quindi nemmeno dal pensiero, dalla sensazione, dalla volontà, proprio perché anche tali qualità, o facoltà, sono in sè contraddittori. Vi possono essere, per esempio, volontà contrastanti in una stessa persona, e possono darsi sia pensieri contrastanti, che sensazioni contrastanti, come vedere la bellezza di una donna brutta o viceversa l’odio che si annida latente in ogni amore fatale e possessivo respinto o tradito. Neppure la moralità, scrive ancora Bradley, può essere attribuita all’assoluto. Per Bradley in generale le relazioni sono inconcepibili e questo mette in crisi il modo realistico di concepire il mondo come una rete di relazioni tra cose e tra le cose e le proprie qualificazioni. Esamina ad esempio il rapporto tra qualità primarie e secondarie introdotto da Locke e vi scorge diverse contraddizioni, tutte in qualche modo da riportare alla difficoltà fondamentale della ricerca filosofica sulla relazione, ovvero l’identificazione di ciò che è diverso. Non c’è identificazione che non sia poi contraddittoria, anche perchè ogni relazione comporta una modificazione dei suoi termini relativi, esattamente come un uomo ed una donna sposati non sono più come erano prima di sposarsi. Ma data questa modificazione – osserva acutamente Bradley – ” ogni termine della relazione si scinde ” in due parti, rimanendo quello che era e insieme diventando il nuovo. Queste due parti divise, non possono riunirsi che attraverso una nuova relazione, la quale darà vita ad una nuova scissione, e dunque ad una nuova relazione unificante, e ciò all’infinito. Perciò la relazione è intrinsecamente contraddittoria e lo stesso “io” non può sfuggire a questa logica inesorabile della scissione, pur essendo al di là di ogni dubbio che esso esista nel mondo quotidiano delle apparenze. La riflessione razionale infatti lo scalza e lo rende persino inconcepibile di fronte alla contraddizione del chi e del cosa “sono io” realmente. Direi che in questo aspetto viene ad essere ingigantito più il problema della qualificazione che quello della vera e propria identità dell’io. Ma forse in Bradley, questa distinzione che pure è posta, non sempre viene mantenuta lucidamente. In altre parole se l’identità pura necessita di una qualificazione per ritrovarsi sicura della propria identità, è evidente che la serie di relazioni necessarie alla ricostruzione porta a contraddizioni insanabili. E questo anche tornando al concetto di contraddizione che aveva Aristotele perchè io, posto un concetto di tempo superiore all’attimo, anche se inferiore al quarto d’ora, posso essere sia impegnato a scrivere questo articolo che a pensarne un altro, sia qui a digitare che con la mente a pescare sulle ridenti rive di un ruscello. Ciò per il semplice fatto che l’individuo non è solo determinato dalla sue relazioni, e anche perchè le sue relazioni con le proprie qualità sono di natura diversa dalle relazioni con gli altri esseri umani, ma perchè un individuo è soprattutto quello che fa e non credo si possa dire che il rapporto tra io e la mia attività sia catalogabile solo come “relazione”. Inoltre il fatto di appartenere ad un sindacato non cambia in modo determinante tutte le altre attività del mio io, e non pone di fatto alcun dubbio sulla mia identità e sulla relazione con altre mie qualificazioni, intelligenza, carattere espansivo e comunicativo, apertura mentale, un fisico da Maciste e così via. In sostanza Bradley esagera i problemi e finisce con l’occultare questioni ovvie e risolte, tuttavia non si può liquidare con poche battute perchè sotto un profilo veramente razionale il problema della “relazione logica” esiste ed in quanto tale è stato evidenziato da Bertrand Russell.
THOMAS HILL GREEN
Allievo di Coleridge, Thomas Hill Green (1836-1882) è una delle massime espressioni dell’idealismo inglese. Se in Francia la reazione al dilagante positivismo si attua con lo spiritualismo, in Inghilterra (dove la corrente dominante era da sempre l’empirismo stesso, stante alla base tanto dell’Illuminismo quanto del positivismo) la reazione si compie volgendo lo sguardo alla Germania. Come Coleridge e Carlyle avevano reagito all’Illuminismo e all’utilitarismo guardando al Romanticismo tedesco, così ora la cultura inglese si oppone al positivismo recuperando l’idealismo di Hegel, in particolare restaurando quei valori dello spirito azzerati dalla cultura positivistica. In particolare, questo «ritorno a Hegel» si configura come un ritorno allo spiritualismo e alla dialettica hegeliani. In questa prospettiva si muove Green. Attento studioso di David Hume, Green fu – insieme a Thomas Grose – il curatore dell’edizione delle opere del filosofo scozzese (oltreché autore delle Introduzioni alle due sezioni dello humeano Trattato della natura umana). Ciò non di meno, egli riscontra un’irrisolvibile contraddizione nella teoria empiristica della conoscenza. Tale teoria, infatti, risolve la coscienza nella molteplicità delle impressioni che via via si susseguono, le quali sono considerate come atti percettivi isolati e intrinsecamente privi di connessione (l’io humeanamente inteso come fascio di percezioni). Ma la stessa specificità di ciascuna impressione non sarebbe possibile – rileva Green – se non esistesse una coscienza indipendente dalla percezione stessa e, per ciò stesso, in grado di distinguerla da tutte le altre. Tanto più necessario appare il riferimento alla coscienza quando si voglia spiegare – cosa che nell’empirismo risulta assai ardua – la connessione tra una percezione (o un’idea) e l’altra: quest’operazione appare possibile solo quando, ancora una volta, esiste una coscienza che, essendo indipendente dalle percezioni stesse, può operare dall’esterno la loro unificazione. Di coscienza esistono però due diversi livelli, nota Green: al grado più basso, v’è la coscienza individuale, la quale apprende i propri contenuti in maniera progressiva, giacché è condizionata dai processi biologici che scandiscono la conoscenza dell’organismo animale. Al grado più alto sta invece una coscienza assoluta e infinita, la quale già contine in se stessa il sapere come una totalità perfetta e immota, ancorché concettualmente articolata al suo interno. Al di là della sua base naturale, la quale è stata descritta dalla filosofia empiristica e positivistica, la conoscenza appare dunque come un processo di graduale partecipazione della coscienza individuale a quella assoluta. L’Assoluto, del resto, non soltanto una determinazione gnoseologica, ma anche assiologia e morale: esso non è soltanto laVerità, ma anche il Bene. La progressiva partecipazione della coscienza assoluta si configura pertanto come un progressivo innalzamento morale del soggetto: ciò implica un riflesso politico nella creazione di una società nella quale tutti gli individui collaborano spontaneamente e armonicamente. L’idealismo gnoseologico funge così da base per la difesa di una concezione organicistica e spiritualistica della morale e della politica: ciò spiega la ragione per la quale l’analisi di Green sulla percezione e sulla coscienza siano illustrate in un’opera il cui titolo recita significativamente Prolegomeni all’etica (1883). Nella prospettiva di Green, è erronea la totale riduzione humiana della coscienza ai suoi fenomeni; questa è «fuori» sia dalle idee sia da ogni successione, proprio per poter cogliere idee e successioni. E contro ogni interpretazione naturalistica della coscienza egli afferma che il mondo è una serie di fatti; un fatto non ha capacità di comprendere né se stesso né gli altri fatti né il loro mutamento; pertanto la coscienza non è un fatto naturale; essa sta oltre i fatti. Di qui Green ricava che l’individuo è espressione di un Soggetto unico, eterno, assoluto, universale, infinito, estraneo al tempo e alla materia. Soggetto che però è il fondamento di tutte le relazioni tra i fatti. Tale Soggetto, o Coscienza assoluta, attraverso gli individui assume dimensione temporale e storica; esso «diventa» coscienza umana sul piano mondano quando l’organismo animale diventa «veicolo» della sua manifestazione. Sicché la coscienza umana, in quanto funzione dell’organismo animale che veicola la coscienza eterna, cambia, è successione di fatti interni dipendente dalla successione dei fatti esterni ad essa; ma in quanto coscienza assoluta che si veicola nell’organismo, essa è indipendente dal tempo e dalle mutazioni dei fatti, è atemporale ed eterna. Perciò della coscienza umana si può dire ugualmente che è divina, in relazione al secondo senso, e che è naturale, cioè dipendente dalle funzioni vitali dell’organismo, secondo il primo senso. Proprio perché la coscienza umana è l’una e l’altra cosa, l’uomo ha il «compito» etico di realizzare in sé, compiutamente, la Coscienza assoluta. Questa, che altro non è che Dio, «è» infatti tutto ciò che l’uomo «può» diventare. Certo, Dio è l’Essere che ci ha originati, ma è anche l’Essere «in cui» noi esistiamo Però il nostro essere in Lui non significa che noi abbiamo «attualmente» le sue proprietà. Ecco perché all’uomo si pone come compito morale quello di diventare «identico» a Lui, perfezionando la propria condizione mondana. Tale perfezionamento non è da concepirsi però come un impresa che riguardi solo l’individuo singolo. Poiché Infatti nella Coscienza assoluta sono installati allo stesso titolo tutti gli uomini, bisogna concepire questo perfezionamento in senso anche sociale: il bene, insomma, consiste in una vita sociale in cui tutti gli individui cooperino armonizzando le loro volontà libere.
PIERRE DUHEM
La Vita
Pierre Maurice Marie Duhem nasce a Parigi il 9 giugno 1861, primo di quattro figli, da Joseph, commerciante originario delle Fiandre, e da Marie Alexandrine. L’ambiente domestico trasmette al giovane Pierre una precisa impronta cristiana e un profondo senso del dovere, che ne segneranno radicalmente sia la vita privata sia quella professionale. Ancora fanciullo, è testimone della “Comune di Parigi” (1871), che lo impressionerà indelebilmente – più che per i suoi tentativi di stabilire un ordine più umano rispetto a quello reale – soprattutto per la violenza che da essa derivò. Nei primi anni 1870, s’iscrive al “Collegio Stanislas”, prestigioso istituto cattolico parigino che prepara all’ingresso nelle grandi “École”. Qui Duhem matura la sua vocazione per la fisica teorica. Nel 1882 – primo della sua classe – è ammesso all’École Normale Supérieure di Parigi, dove avrà come compagno il futuro matematico Jacques Hadamard (1865-1963). Ben presto la sua attenzione si rivolge alla termodinamica e alle sue applicazioni, un settore al quale rimarrà sempre legato. Nel 1887, quando diviene lettore alla facoltà di Scienze dell’università di Lille, dove insegnerà per alcuni anni idrodinamica, elasticità e acustica, Duhem è già noto nei circoli scientifici per le sue originali ricerche sul potenziale termodinamico. Nel 1890 sposa Marie-Adèle Chayet, che perderà nel 1892, dopo la nascita della figlia Hélène, con la quale passerà il resto della sua vita. A trentadue anni è nominato professore nella facoltà di Scienze dell’università di Bordeaux, in attesa di una cattedra in un grande istituto superiore a Parigi, naturale esito della sua brillante carriera scientifica, che però non gli verrà mai concessa; anche se sarà lui stesso a rifiutare la nomina a insegnante di storia della Scienza al Collège de France, dichiarando di sentirsi un fisico e non uno storico. Tre anni prima della morte, avvenuta a Cabrespine, nel dipartimento dell’Aude, il 14 settembre 1916, sarà chiamato come membro non residente all’Accademia delle Scienze di Parigi. “Mente essenzialmente sistematica — ha detto di lui il premio Nobel per la fisica Louis de Broglie (1892-1987) —, era attratto dai metodi dell’assiomatica che formulano postulati con l’obiettivo di derivare mediante ragionamenti rigorosi conclusioni inattaccabili”. Per questa sua propensione all’astrazione, Duhem respinge ogni tentativo di “visualizzazione” dei concetti della fisica, proposta dalla nascente teoria atomica. E tuttavia è attento ai problemi applicativi, in particolare nel campo della chimica fisica, dov’è fra i primi, in Francia, a esaminare e a presentare in dettaglio le idee di Willard Gibbs (1839-1903) sulla regola delle fasi. Autore prolifico, lascia qualche centinaio di lavori, fra i quali spicca il Traité d’ènergétique générale, del 1911, compendio dei suoi studi.
L’epoca del positivismo
La figura di Duhem non è rilevante solo dal punto di vista strettamente scientifico. La vasta erudizione, ma soprattutto la preoccupazione di chiarire e di rendere sempre più coerente il quadro concettuale nel quale si svolge il lavoro del ricercatore, lo portano a occuparsi anche del significato dell’impresa scientifica, a riflettere sul valore e sui limiti delle teorie fisiche e a cercare nella storia le origini e, se possibile, il percorso di quell’avventura intellettuale che è, appunto, l’impresa scientifica. Benché si sia sempre professato “fisico teorico”, Duhem ha svolto, parallelamente all’attività accademica, una poderosa indagine epistemologica e storica. L’opera nella quale ha esposto la sua idea di scienza è certamente La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, del 1906, ma preparata con una lunga serie di articoli fin dal tempo dell’insegnamento a Lille, fra il 1887 e il 1893. Alla seconda edizione, del 1914, aggiunge in appendice La fisica del credente, lunga e articolata risposta alle critiche mosse alla sua “filosofia scientifica”, giudicata appunto espressione della “fisica di un credente”. Gli attacchi allo “spiritualismo” e al “dogma”, che caratterizzano il dibattito epistemologico negli anni in cui Duhem è attivo sulla scena accademica, sono il frutto di quella “filosofia positiva” elaborata proprio in Francia, intorno alla metà del secolo XIX, da Auguste Comte (1798-1857) e presto accolta nel resto dell’Europa con il nome di positivismo, in cui l’esaltazione del “fatto empirico” s’accompagna a un forte risentimento anti-metafisico, un vigoroso ripudio del “chimerico” in favore del reale (e dell’utile). A fare del positivismo anche una mentalità, verso la fine del secolo XIX, concorrono le suggestioni del metodo scientifico e le strabilianti applicazioni nel campo della tecnica: è il tempo della teoria evolutiva di Charles Darwin (1809-1882), del canale di Suez, nel 1869, e della torre Eiffel, nel 1889. E il clima di generale entusiasmo intorno alla scienza, talora “ingenuo”, anticipa e prefigura un’era in cui “la scienza organizzerà Dio stesso”, secondo il celebre motto del positivista Ernest Renan (1823-1892).
Il filosofo della scienza e la Teoria fisica
A questa tendenza, che prepara lo scientismo contemporaneo, Duhem oppone una concezione della teoria fisica nella quale sono precisati i limiti del metodo scientifico e ne sono messi in evidenza i profondi legami storici e concettuali con il pensiero realista. Come i positivisti, egli condivide l’attenzione per il “fatto” e per la legge, o “teoria fisica”, che lo descrive in un dato contesto, precisando però che “la teoria fisica non è né una spiegazione metafisica, né un insieme di leggi generali di cui esperienza e induzione hanno stabilito la verità. Si tratta di una costruzione artificiale costruita con grandezze matematiche; la relazione delle grandezze con le nozioni astratte scaturite dall’esperienza è soltanto quella che hanno i segni con i significanti”. Per questa visione “utilitaristica” della relazione fra il fenomeno e la sua descrizione Duhem, insieme al matematico Henri Poincaré (1854-1912), viene considerato il fondatore del convenzionalismo e, in qualche modo, avvicinato all’empirismo critico di Ernst Mach (1838-1916). Ma, mentre l’empirismo critico evolve secondo un ambizioso — e mai concluso — programma di ricostruzione del discorso scientifico in termini esclusivamente logici, in modo da evitare ambiguità e problemi di tipo metafisico, per Duhem (che in ciò rivela la sua matrice cattolica) la distinzione fra fenomeno e teoria fisica non costituisce né una contraddizione né un’imbarazzante scelta di campo: essa è semplicemente l’espressione di due diversi livelli di realtà, entrambi veri nel loro ordine. Anzi, il formalismo matematico, se pure non coincide – kantianamente – con la realtà in sé, ne rispecchia comunque le relazioni fondamentali. Certo, una grandezza fisica e la realtà che rappresenta non sono la stessa cosa, e su questa distinzione si fonda l’osservazione che “in sé e per essenza ogni principio di fisica teorica è inutilizzabile nelle discussioni metafisiche o teologiche”. Dunque, domande come “il principio di conservazione dell’energia è compatibile con il libero arbitrio?” sono prive di senso perché quel principio “non è in alcun modo un’affermazione certa e generale relativa agli oggetti concreti”. Ma l’ordine ontologico soggiacente ai fenomeni, che per il metafisico è oggetto di ricerca e punto di partenza, per il fisico deve costituire il criterio d’orientamento e il punto d’arrivo. Il fisico, infatti, è come portato naturalmente ad affermare “che sotto i dati sensibili, i soli accessibili ai suoi procedimenti di studio, si nascondono realtà la cui essenza è inafferrabile da questi stessi procedimenti, che le realtà si dispongono secondo un certo ordine di cui la scienza fisica non potrebbe avere una osservazione diretta. Egli afferma che la teoria fisica, attraverso i suoi successivi perfezionamenti, tende tuttavia a disporre le leggi sperimentali secondo un ordine sempre più simile a quello trascendente, con il quale si classificano le realtà, che con ciò la teoria fisica si incammina gradualmente verso la sua forma limite che è quella di una classificazione naturale”. Lontano dagli esiti difformi del positivismo, dai circoli viziosi indotti dalla ricerca di un’improbabile ed ardita autofondazione, Duhem giunge al nucleo profondo della sua epistemologia: se “nessun metodo scientifico porta in sé la piena e completa giustificazione, né potrebbe, con i suoi soli princìpi, rendere conto di tutti questi principi”, se “la fisica teorica si fonda su postulati che non si possono autorizzare se non con ragioni estranee alla fisica”, il fisico deve rivolgersi altrove per trovare quella certezza della conoscenza senza cui tutto il suo discorso logico sarebbe privato della capacità di trasmettere anche solo un barlume di verità. Il presupposto indimostrabile, immediato ed evidente su cui si fonda il potere logico della ragione e che garantisce ogni riflessione razionale è, per Duhem, il senso comune. Interrogandosi se questa nozione non sia “equivalente a qualche credenza filosofica o religiosa”, egli risponde chiaramente che “la stessa cosa si potrebbe dire circa le scienze, incluse quelle che sono considerate fra le più rigorose […]. Questi concetti, questi princìpi, sono formati dal senso comune. Senza questa base formata dal senso comune, una base niente affatto scientifica, nessuna scienza può giustificare sé stessa; tutto della sua solidità proviene di là”.
Lo storico della scienza e il Système du monde
Duhem ritiene di riconoscere quella faticosa ricerca d’ordine e d’unità, che caratterizza, quasi come “un desiderio irresistibile”, il lavoro scientifico, nella storia delle dottrine fisiche. Animato dalla sola intenzione di svolgere un’indagine storica, senza finalità direttamente apologetiche, egli intraprende, agli inizi del secolo XX, una ricerca archivistica di proporzioni che, ancor oggi, lasciano esterrefatti. Senza assistenti, senza nessuno degli odierni ausili della ricerca, afflitto da un tremore progressivo alla mano destra, compila in breve tempo centoventi quaderni di duecento pagine ciascuno, con brani estratti da un centinaio di manoscritti medievali, rintracciati nelle più svariate biblioteche e librerie francesi, specialmente parigine, individuate con estrema difficoltà per l’assenza di cataloghi e di repertori generali. Da questo materiale vedrà la luce il monumentale Le Système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, pensato in dieci volumi, lasciato incompiuto all’ottavo per la morte dell’autore, pubblicato dal 1913 al 1954 con lunghi intervalli. La documentazione storica duhemiana veniva a smentire uno dei cliché più consolidati della storiografia progressista, quello secondo cui il cristiano “distacco dal mondo” avrebbe congelato l’interesse per l’indagine naturale che fu proprio del mondo greco. Duhem avverte, invece, che la scienza greca aveva già perduto molto della sua vivacità al tempo in cui il cristianesimo era diventato un fattore socio-culturale importante e che, in genere, il mancato sviluppo della scienza presso tutte le culture antiche, quella greca inclusa, doveva avere una causa estranea al cristianesimo. E il tratto comune a quelle civiltà era la concezione circolare del tempo, che rinchiudeva il cosmo e l’esistenza umana in un perpetuo ciclo di nascita-morte-rinascita, senza inizio né fine e sostanzialmente privo di senso, ovvero l’esatto opposto di quanto può suscitare curiosità scientifica: “per condannarlo e gettarlo a mare come una mostruosa superstizione, doveva venire il cristianesimo”, scrive Duhem. Ne segue, dunque, che il cristianesimo non ha inibito la ricerca scientifica, ma anzi – paradossalmente – l’ha animata, conferendole una vivacità che col tempo era andata perduta. Nel 1913, quando pubblica il terzo volume degli Études sur Léonard de Vinci, ceux qu’il a lus et ceux qui l’ont lu, è ormai consapevole che la sua indagine storica gli ha fornito la prova documentale delle radici medievali della scienza di Isaac Newton (1642-1727), radici ritrovate nella dottrina non aristotelica dell’impetus professata alla Sorbona dai doctores parisienses e riportata dal più eminente fra loro, Giovanni Buridano (1300 ca.-1358 ca.), nei commentari al De Caelo e alla Fisica di Aristotele (384-322 a. C.). In essa Duhem riconosce chiaramente un’anticipazione della prima legge di Newton, o legge del moto inerziale, e nella meccanica parigina del secolo XIV il segno della fecondità del tradizionale atteggiamento cristiano verso il cosmo, che, dall’Antico Testamento fino ai Padri e alla Scolastica, ha posto le condizioni del sapere scientifico dei secoli successivi: “come potrebbe un cristiano non essere grato a Dio per tutto questo?”, egli si interroga stupito. Il cristianesimo – e, nella fattispecie, il ricorso a Dio – serve a Duhem per trovare una risposta che, da sola, la scienza non è in grado di fornire all’uomo, a dispetto di quel che invece riteneva Comte e, sulla sua scia, il nutrito stuolo dei positivisti che, in nome del progresso e del dato di fatto, avevano bandito ogni realtà metafisica (Dio compreso). Metafisica e scienza sono invece da Duhem tenute separate, in modo che non si inquinino a vicenda: solo così ciascuna di esse può saldamente rimanere valida, cosa che, evidentemente, non può avvenire se le si mischiano indebitamente o se si proclama dogmaticamente la superiorità della scienza sulla metafisica (come fanno i positivisti).
JAMES MILL
Discepolo di Jeremy Bentham, James Mill (1773-1836) – che fu padre del celebre John Stuart Mill – rimase saldamente fedele al maestro sia per quel che concerne le tesi politiche sia per quel che riguarda l’utilitarismo. Nella voce “Governo”, redatta nel 1820 per l’Enciclopedia Britannica, teorizzò la necessità e l’opportunità del «governo rappresentativo» espressione della volontà popolare. Nell’opera maggiore, Analisi dei fenomeni dello spirito umano (1829), riprese i temi dell’empirismo humiano, dando però al suo discorso un metodo positivistico; soprattutto da Hume riprese il principio dell’associazione con il quale spiegò, oltre che il procedimento logico del pensiero, anche la stessa vita morale. Il fatto fondamentale su cui si articola tutta la vita dello spirito è la sensazione; da essa derivano tutti i contenuti del pensiero; pertanto le idee non sono altro che copie delle sensazioni. E poiché le sensazioni vengono connesse secondo la legge dell’associazione, questa è anche la legge del pensiero razionale, cioè della connessione delle idee. Sicché come le sensazioni sono connesse per contiguità, cioè secondo lo spazio, e per continuità, cioè secondo la loro successione nel tempo, cosí, sul piano razionale, noi associamo le idee o per contemporaneità, in quanto le pensiamo legate insieme in uno stesso contenuto mentale, o per successione temporale, come nel caso di idee connesse nel rapporto causa-effetto. Come sul piano delle sensazioni, cosí anche su quello delle idee quando una determinata associazione si ripete con regolarità essa si stabilizza, al punto che, per abitudine, pensando la prima vi pensiamo collegata anche la seconda. Tuttavia per James Mill l’associazione tra le idee è pur sempre un fatto assolutamente mentale, che non implica di necessità la sua corrispondenza ad un’associazione reale tra le cose o tra le proprietà delle cose, cosicchè l’intera vita mentale dell’uomo è data dall’associazione delle idee, le quali altro non sono se non immagini delle sensazioni, secondo la legge della continuità nel tempo e della contiguità nello spazio. In questo senso, l’associazionismo – avviato da Hume e radicalizzato da David Hartley – giunge con Mill all’apice. Sul principio dell’associazione è fondata anche la vita morale. Il desiderio di un piacere non è altro che l’idea di un determinato piacere; questa idea si accompagna a quella dell’azione adatta a procurarlo, secondo un’associazione che si è venuta stabilizzando sulla base dell’esperienza; sicché l’azione concreta non è che la traduzione sul piano del comportamento di questa seconda idea. Pertanto, dice Mill, non esiste il libero volere; ogni azione ha il suo movente necessario nell’idea del piacere ch’essa può procurare. Ciò, tuttavia, non significa che l’uomo si muove esclusivamente nella dimensione dell’egoismo. Infatti anche l’altruismo ha una sua spiegazione sulla base del principio d’associazione. Certo esso nasce pur sempre dall’egoismo; ma spesso constatiamo che il nostro piacere individuale è vincolato a quello di altre persone, e quindi che la ricerca del primo implica di fatto la ricerca del secondo; l’associazione costante tra i due piaceri a può indurre a ricercare quello degli altri come se fosse il nostro: ecco allora il comportamento altruista. E quando poi il nostro piacere perde valore in relazione a quello di altri, cioè quando si verifica l’assoluta prevalenza del fine secondario (piacere altrui) rispetto a quello primario e originario (piacere proprio), allora si è giunti al sacrificio. Gli esiti morali a cui perviene Mill sono affini a quelli cui era pervenuto Bentham: se correttamente intesa, la soddisfazione di impulsi egoistici si traduce in un’azione a carattere altruistico. In questo senso, ben si capisce come Mill potesse affermare che l’azione educatrice dell’uomo consista nel promuovere quelle associazioni di idee che mettano capo a un’azione utile e, viceversa, reprimere quelle determinanti azioni dannose. In quest’accezione, l’utilitarismo di Bentham e l’associazionismo di Mill vanno a nozze: occorre soprattutto diffondere l’associazione che spontaneamente s’instaura nella mente umana tra il piacere proprio e quello degli altri (in primis quello delle persone a noi più care).
DAVID RICARDO
Introduzione
Celeberrimo economista inglese (Londra 1772 – Gatcomb Park, Gloucestershire, 1823), David Ricardo è – con Adam Smith – il massimo esponente della scuola classica dell’economia. Figlio di un banchiere ebreo, accumulò una considerevole fortuna prima come agente di cambio, poi come banchiere e, nel 1819, venne eletto alla camera dei comuni. Dopo alcuni saggi di teoria monetaria, nel 1817 pubblicò la sua opera fondamentale, Princìpi dell’economia politica e dell’imposta, nella cui prefazione affermava che il problema principale dell’economia politica era determinare le leggi che regolano la distribuzione del prodotto nazionale tra proprietari terrieri, capitalisti e lavoratori. Rifacendosi alla teoria smithiana del valore, Ricardo pose a fondamento del valore di scambio di un bene la quantità di lavoro necessaria per ottenerlo e, in opposizione a Smith, sostenne che tale principio era valido non solo per le società precapitalistiche ma anche per quelle capitalistiche. Inoltre nel lavoro necessario alla produzione di un bene considerò incluso anche il lavoro impiegato per la fabbricazione degli utensili, macchine ed edifici utilizzati nella produzione stessa. Nella teoria della distribuzione dei redditi Ricardo ricercò le leggi che regolano la rendita, il salario e il profitto. Considerò la rendita come determinata dalla differenza fra costi di produzione su terre a fertilità diversa, il salario naturale (distinto da quello corrente determinato dalla domanda e dall’offerta, ma che forze insite nel sistema riconducono a quello naturale) come determinato da quanto è necessario al mantenimento e alla riproduzione del complesso della manodopera esistente senza aumenti e diminuzioni (livello minimo di sussistenza fisiologico, ma legato alle abitudini e ai costumi di ogni popolo) e infine il profitto come determinato da ciò che rimane ai capitalisti una volta pagati i salari e le rendite. L’analisi della distribuzione dei redditi servì a Ricardo per formulare una teoria “pessimistica” dello sviluppo economico capitalistico. Posta come condizione allo sviluppo stesso l’esistenza di un saggio di profitto sufficientemente elevato da permettere un’adeguata accumulazione di capitale e quindi un aumento della produzione, l’economista inglese rilevò che la tendenza del saggio di profitto a diminuire (in quanto la necessità di coltivare terre sempre meno fertili in seguito allo sviluppo demografico avrebbe determinato da una parte un aumento della rendita e dall’altra un aumento del prezzo delle derrate alimentari e quindi dei salari correnti) avrebbe frenato lo sviluppo economico. Di notevole importanza sono anche i contributi di Ricardo alla teoria del commercio internazionale (alla cui base egli pose il principio dei costi comparati) e alla teoria monetaria (a lui si deve una delle prime formulazioni della teoria quantitativa della moneta). In sostanza, Ricardo, pur condividendo i princìpi liberistici di Adam Smith, non ritiene che la legge della domanda e dell’offerta possa condurre ad un’equa redistribuzione della ricchezza: a tal proposito, Ricardo individua due fattori di sperequazione. Il primo è dato dal rapporto tra la rendita fondiaria, cioè il reddito prodotto dalla proprietà della terra, e la crescita demografica. Per sfamare la popolazione sarà necessario coltivare anche i terreni meno fertili, con maggiori costi di lavoro e una minore rendita. Giacchè la popolazione crescerà sempre di più, sarà sempre più vasto il ricorso a terreni sempre meno fertili con rendite sempre più basse. Per questa via la “rendita differenziale”, ovvero la differenza tra la rendita dei terreni più fertili e quella dei terreni meno fertili diverrà sempre più grande. Il secondo fattore di sperequazione economico/sociale è dato dalla cosiddetta legge ferrea dei salari, secondo la quale, in base alla legge della domanda e dell’offerta, i salari tendono ad abbassarsi sempre più, per attestarsi al mero limite di sopravvivenza del lavoratore. La consapevolezza di tali squilibri socio/economici indusse molti intellettuali – che pure si definivano “liberali” e “liberisti” – a formulare un’analisi della società e un progetto operativo che prevedessero una più equa redistribuzione della ricchezza e una politica di emancipazione sociale e culturale delle classi subalterne; ma tali risoluzioni furono tutto fuorchè soddisfacenti. Dalla presa di coscienza del loro fallimento, muoverà Marx, il quale – alla strada del riformismo dall'”alto” – opporrà quella della rivoluzione dal “basso”.
Brani dalle opere
Del celebre economista inglese David Ricardo riportiamo questo brano, tratto dall’opera Princípi dell’economia politica (1817) in cui sono presenti la distinzione fra valore d’uso e valore di scambio e il rapporto fra lavoro e valore, che saranno poi ripresi da Marx.
[D. Ricardo, Principi dell’economia politica]
È stato osservato da Adam Smith che “la parola valore ha due significati diversi, e talvolta esprime l’utilità di una cosa, talvolta il potere che questa cosa conferisce al suo possessore di comperare altre cose. Il primo può chiamarsi valore d’uso; il secondo valore di scambio. Le cose, egli continua, che abbiano il piú grande valore d’uso, spesso non hanno che poco o nessun valore di scambio; ed all’opposto quelle che abbiano il piú grande valore di scambio, non hanno che poco o nessun valore d’uso”. L’acqua e l’aria sono utilissime; eppure, nelle circostanze ordinarie, non si può ottenere nulla in cambio di esse. Viceversa l’oro, quantunque in paragone all’acqua e all’aria sia poco utile, si permuta con una gran copia di altri beni. Dunque l’utilità non è la misura del valore di scambio, benché ne formi un elemento essenziale. Se una merce non fosse utile in nessun modo – in altri termini, se non potesse contribuire in nessun modo ai nostri bisogni – essa sarebbe priva di valore di scambio, per scarsa che fosse, o quale che fosse la quantità di lavoro occorrente per procurarsela. Possedendo dell’utilità, le merci derivano il loro valore di scambio da due fonti: dalla loro scarsità e dalla quantità di lavoro richiesto per ottenerle. Vi sono alcune merci, il cui valore è determinato soltanto dalla loro scarsità. Nessun lavoro può aumentare la quantità di simili oggetti, e perciò il loro valore non può diminuire in seguito ad un aumento dell’offerta. Alcune statue e pitture rare, vini di qualità speciale, che possono esser fatti soltanto con uve raccolte in un determinato terreno, la cui estensione sia assai limitata, sono tutti di questo tipo. Il loro valore è del tutto indipendente dalla quantità di lavoro originariamente necessario a produrli, e varia col variare delle ricchezze e dei gusti di coloro che sono desiderosi di possederli. Tuttavia, queste merci formano una piccolissima parte della massa delle merci giornalmente cambiate sul mercato. La massima parte degli oggetti desiderati si procura con il lavoro; e possono moltiplicarsi senza alcun limite – non soltanto in un paese, ma in molti – se noi siamo disposti ad impiegare il lavoro necessario per ottenerli. Parlando dunque di merci, del valore di scambio e delle leggi che regolano i loro rispettivi prezzi, intendiamo sempre soltanto quelle merci, la cui quantità può essere aumentata con l’esercizio dell’industria umana, e sulla cui produzione la concorrenza opera senza freni. Nei primi periodi della società il valore di scambio di queste merci, o la regola che determina quanto di una di esse sarà dato in cambio di un’altra, dipende quasi esclusivamente dal confronto fra le quantità di lavoro impiegate per ciascuna di esse. “Il prezzo reale di ogni cosa, dice Adam Smith, ciò che ogni cosa costa realmente all’uomo che ha bisogno d’acquistarla, è la pena e la fatica di acquistarla. Ciò che ogni cosa vale realmente per l’uomo che l’ha acquistata, e che vuol disporne o cambiarla con un’altra, è la pena e la fatica che essa può risparmiare a lui ed imporre ad altri”. Il lavoro fu il primo prezzo, la primitiva moneta con cui si pagarono tutte le cose. Ancora, “in quel primitivo e rozzo stato della società che precede e l’accumulazione del capitale e l’appropriazione della terra, la proporzione fra le quantità di lavoro necessario ad acquistare differenti oggetti sembra essere il solo dato su cui si regola lo scambio di uno con un altro. Se per esempio in un popolo di cacciatori uccidere un castoro richiede ordinariamente un lavoro doppio che uccidere un cervo, un castoro si cambierà naturalmente con due cervi, o ne varrà due. È naturale che ciò che è ordinariamente il prodotto del lavoro di due giorni o di due ore valga il doppio di ciò che è ordinariamente il prodotto del lavoro di un giorno o di un’ora”. Che questo sia realmente il fondamento del valore di scambio di tutte le cose, eccettuate quelle che non possono essere aumentate dall’industria umana, è in economia politica una dottrina di somma importanza; in quanto da nessuna fonte si originano, in questa scienza, tanti errori e tanta differenza d’opinioni, quanto dai significati vaghi che si attribuiscono alla parola valore. Se la quantità di lavoro incorporato nelle merci determina il loro valore di scambio, ogni accrescimento della quantità di lavoro deve aumentare il valore di quella merce su cui viene esercitato, come ogni diminuzione deve abbassarlo.
T.R. MALTHUS
Figlio cadetto di un gentiluomo amico di Hume e di Rousseau, Thomas Robert Malthus compì gli studi a Cambridge e divenne pastore anglicano ad Albury (Surrey). Nel 1798 pubblicò anonimo il Saggio sul principio di popolazione di cui diede la versione definitiva nel 1803. Nel 1805 fu nominato professore di economia politica nel collegio di Haileybury. Le altre sue opere fra cui Ricerca sulla natura e sul progresso della rendita (1815), Principi di economia politica considerati dal punto di vista della loro applicazione pratica (1820), La misura del valore(1823) e Definizioni di economia politica (1827) sono meno famose del Saggio, ma non meno importanti. Infatti Malthus ha legato il suo nome oltre che alla controversa teoria della popolazione anche all’analisi monetaria, allo studio della rendita fondiaria e alla cosiddetta teoria degli “ingorghi generali” (in base alla quale le depressioni economiche sarebbero dovute, da una parte, all’eccessivo aumento del risparmio e degli investimenti e, quindi, dell’offerta di prodotti; dall’altra, all’insufficiente aumento della domanda di beni di consumo). Malthus identifica la causa principale della miseria nel fatto che la popolazione tende ad aumentare più rapidamente dei mezzi di sussistenza. In particolare, mentre la popolazione tende ad aumentare in progressione geometrica, i mezzi di sussistenza tendono ad aumentare in progressione aritmetica. L’incremento demografico può tuttavia essere ritardato da freni repressivi come guerre, epidemie, carestie o da freni preventivi come la restrizione morale. Quest’ultima, a cui Malthus esorta tutti gli uomini e soprattutto i poveri, consiste in una limitazione volontaria delle nascite attraverso l’astensione dal matrimonio. Malthus propone quindi di adottare ogni misura atta a scoraggiare la natalità e di abolire la “legge sui poveri”, poiché la carità è un incentivo all’incremento di popolazione. Malthus mette in luce il crescente divario tra la crescita demografica e quella delle risorse per la sussistenza. La popolazione – egli asserisce – cresce secondo una proporzione geometrica (1-2-4-8, ecc), per cui ogni singolo aumento è principio di moltiplicazione degli aumenti successivi. Al contrario, le risorse per la sussistenza aumentano solamente in proporzione aritmetica (1-2-3-4, ecc): ne segue che l’aumento delle risorse non riesce a tenere il passo con la crescita della popolazione; vi saranno sempre più esseri umani e, proporzionalmente, sempre meno risorse sufficienti a sfamarli. Come soluzione, Malthus propone un rigoroso controllo delle nascite, ossia un ritegno morale consistente nell’astenersi dal matrimonio e dalle pratiche sessuali. In questa maniera, dopo aver sostenuto il crescente divario in atto tra la crescita demografica e quella delle risorse per la sussistenza, Malthus si fa portavoce di un liberalismo radicale e sfrenato, secondo cui ogni singolo individuo è e deve essere libero e privo di assistenza sociale e solidarietà, in modo tale che a prevalere siano i più forti, a soccombere i più deboli.
PASSI DALLE OPERE [Th. R. Malthus, Saggio sul principio della popolazione]
In una indagine sui futuri progressi della società, il modo naturale di condursi sarebbe quello d’investigare:
1° – le cause che hanno finora impedito i progressi del genere umano verso il suo benessere;
2° – le probabilità di rimuovere, in tutto o in parte, queste cause.
Entrare pienamente in questo esame, ed enumerare tutte le cause che hanno finora ostacolato i progressi umani, sarebbe cosa superiore alle forze di un solo uomo. Lo scopo principale del presente saggio è di esaminare gli effetti di una sola gran causa, intimamente legata alla natura dell’uomo, la quale, quantunque abbia costantemente ed energicamente operato fin dalle origini sociali, pure ha attirato poco l’attenzione degli autori che si sono occupati di questa materia […] La causa a cui alludo è la costante tendenza, che hanno tutti gli esseri viventi a moltiplicarsi piú di quanto permettano i mezzi di sussistenza di cui possano disporre […] Nel regno animale e vegetale, la natura ha profuso i germi della vita, ma è stata comparativamente avara dello spazio e degli alimenti necessari al loro moltiplicarsi. I germi esistenti in un piccolo angolo di terra, se avessero con loro abbondanza di cibo e di spazio, nel corso di poche migliaia d’anni avrebbero occupato milioni di mondi. La necessità, legge universale e prepotente in natura, li reprime entro i limiti prescritti. Le piante e gli animali son costretti a piegare sotto l’impero di questa legge; e la razza umana, qualunque sforzo facesse, sarebbe sempre, come ogni altra, costretta ad ubbidirle. Per le piante e per gli animali, la cosa procede in modo ben semplice. Sono tutti portati da un poderoso istinto a moltiplicare la loro specie; istinto che non viene frenato da alcun ragionamento o dubbio sul modo di provvedere all’esistenza delle loro generazioni. Perciò spiegano la loro forza di procreazione dovunque possono, e tutto il sovrappiú viene eliminato in un secondo momento per mancanza di spazio e di viveri; e fra gli animali, inoltre, per la voracità che li fa preda gli uni degli altri. Nell’uomo, gli effetti di questa legge sono molto piú complicati. Mosso dal medesimo istinto di procreazione, la ragione lo arresta, e gli propone il quesito se gli sia lecito far sorgere esseri nuovi nel mondo, per i quali egli non possa provvedere sufficienti mezzi di sussistenza. Se egli cede a questo ragionevole dubbio, il suo astenersi si converte spesso in causa di vizi. Se non vi bada, la razza umana si vedrà di continuo tendente ad accrescersi al di là dei suoi mezzi di sussistenza. Ma siccome, per quella legge della nostra natura che fa dipendere la vita dal cibo, la popolazione non può moltiplicarsi piú di quanto permetta il piú limitato nutrimento capace di sostenerla, cosí s’incontra sempre un forte ostacolo al suo incremento nella difficoltà di nutrirsi; difficoltà che di tanto in tanto deve necessariamente apparire, e deve risentirsi nella maggior parte del genere umano, sotto l’una o l’altra fra le varie forme della miseria, o della paura della miseria […] Si può con tutta franchezza asserire che la popolazione, quando non è arrestata da alcun ostacolo, si raddoppia ad ogni periodo di 25 anni, crescendo cosí in progressione geometrica. La ragione secondo cui si possa credere che aumentino le produzioni della terra non è altrettanto agevole a determinarsi. D’una cosa, tuttavia, siamo ben certi, che questa ragione dev’essere affatto diversa da quella secondo cui procede l’aumento della popolazione […] L’Europa non è di certo popolata quanto potrebbe. È in Europa che esistono le migliori speranze di vedere ben diretta l’industria. La scienza agraria si è molto studiata nell’Inghilterra e nella Scozia; e nondimeno vi sono ancora molte terre incolte. Esaminiamo con quale progressione il prodotto di quest’isola potrebbe accrescersi sotto le piú propizie circostanze. Se supponiamo che, con il miglior governo e i migliori incoraggiamenti all’agricoltura, il prodotto medio dell’isola si raddoppi nei primi 25 anni, faremo la piú generosa ipotesi che si possa. Nel periodo seguente, è impossibile immaginare che il prodotto si troverà quadruplicato. Ciò sarebbe in opposizione con quanto conosciamo sulle attitudini produttive del suolo. Il miglioramento delle terre sterili è opera che richiede tempo e lavoro; ed è evidente per chiunque abbia le minime nozioni agricole che, quanto piú la coltivazione si estende, tanto piú diminuisce l’aumento possibile del prodotto […] Immaginiamo che l’incremento annuo di prodotto, invece di decrescere, come certo fa, rimanga sempre costante; e la produzione dell’isola si accresca, ad ogni periodo di 25 anni, di una quantità eguale a quella del prodotto attuale: il piú esagerato speculatore non potrebbe immaginare di piú. In pochi secoli, ogni palmo di terreno in questo paese sarebbe divenuto un giardino. Se la medesima ipotesi si applicasse a tutta la terra, e se si ammettesse che la sussistenza agli uomini fornita dalla terra si potesse aumentare ad ogni 25 anni di tanto quanto se ne produce oggi, ciò sarebbe un supporre una progressione molto superiore a quanto sia dato sperare da qualsiasi sforzo dell’industria umana. Perciò possiamo dire che, considerando lo stato presente della terra, i mezzi di sussistenza, nelle circostanze piú favorevoli all’industria umana, non potrebbero crescere che in proporzione aritmetica. La conseguenza inevitabile di codeste differenti progressioni è palpabile […] Posto che la popolazione attuale ascenda a 1000 milioni, la razza umana crescerebbe secondo i numeri 1, 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, e i viveri secondo i numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9. In due secoli la popolazione si troverebbe, rispetto ai viveri, come 256 a 9; in tre secoli, come 4096 a 13; in duemila anni la differenza sarebbe quasi impossibile a calcolarsi. In questa ipotesi non si suppone alcun ostacolo all’incremento dei prodotti della terra. Possono sempre aumentarsi indefinitamente; e, tuttavia, la forza generativa supera talmente la produzione dei viveri che, per mantenerla ad uno stesso livello in modo che la popolazione esistente trovi sempre gli alimenti indispensabili, è necessario che ad ogni momento una legge superiore formi ostacolo ai suoi progressi; che la dura necessità la soggioghi; in una parola, che quello, fra i due princípi contrari, la cui azione è preponderante, sia contenuto entro certi confini.
ELIA BENAMOZEGH
A cura di Ilaria Orsini
Elia Benamozegh è una tra le maggiori figure dell’ebraismo italiano dell’Ottocento. Nacque a Livorno il 24 aprile 1823 da una famiglia originaria di Fez, in Marocco, rimasto orfano ben presto, fu allevato dalla madre e dallo zio di lei Yehudah Coriat, rabbino e cabalista. Proprio dallo zio fu iniziato allo studio del Talmud e della qabbalah. Esercitò l’ufficio rabbinico nella città natale, Livorno e qui vi rimase tutta la vita e vi morì il 6 febbraio 1900. Benamozegh fu scrittore prolifico e spesso non soddisfatto del suo lavoro, come testimoniano le opere inedite; scrisse in ebraico, italiano e francese. Oltre che rabbino, fu filosofo e cabalista: si interessò alla filosofia, alla teologia, al diritto, alla critica biblica e alla filologia. Le sue opere ancora adesso sono ritenute fonte indispensabile per la comprensione di una serie di testi antichi. Attraverso i suoi testi, il lettore riconosce di trovarsi di fronte ad un pensatore colto e geniale, ma anche non rigoroso, a volte confuso come dimostrano le numerosissime note e aggiunte ai suoi testi. Questo aspetto particolare deve però essere ricondotto alla situazione culturale in cui Benamozegh scrive. Egli vive in un periodo in cui l’ebraismo europeo attraversa una forte crisi di identità: è l’epoca dell’ebraismo riformato. In questo periodo si sviluppa in ambito culturale la Wissenschaft des Judentums, la Scienza dell’ebraismo: la ricerca scientifica, i metodi di analisi del pensiero europeo, operano molte volte dei processi di assorbimento della cultura ebraica in quella occidentale, e non sempre la tradizione, l’ortodossia, a contatto con le nuove metodologie riesce a mantenere la propria stabilità. Benamozegh, a differenza di altri pensatori ebrei contemporanei, non troverà contrasto tra la scienza moderna e l’ebraismo: fu lettore di molte opere della tradizione filosofica occidentale, egli cita Hegel, che conobbe tramite le opere di Gioberti, Hartmann e, nelle scienze, Darwin; lesse la maggior parte delle opere di questi autori nella traduzione francese che si faceva inviare. La peculiarità di Benamozegh è di presentarsi sulla scena europea con una preparazione da autodidatta nella formazione filosofica, ma anche con un’eredità propria difficile da proporre. Egli è rabbino e, come professa egli stesso: “Il mio credo religioso è quello dell’ebraismo ortodosso”, il suo retaggio culturale è quello di un ebreo proveniente dall’ambiente sefardita nord-africano, quindi notoriamente più tradizionalista: l’eredità esoterica della qabbalah ha un ruolo importante nel suo panorama culturale. Malgrado ciò, Benamozegh fu uno dei pochi pensatori ebrei che, in epoca moderna, riuscì ad associare l’erudizione occidentale con il proprio patrimonio culturale, visse in un contesto occidentale con il quale seppe intrecciare la propria cultura orientale. La tradizione, per Benamozegh, non è qualcosa di esaurito, di morto, è una dimensione antropologica e rappresenta l’elemento vitale dell’ebraismo, la sua anima. E’ bene comunque ricordare che, proprio per la posizione che Benamozegh assume nei confronti della tradizione esoterica, egli fu al centro di molte discussioni, soprattutto nell’ambiente rabbinico; nota è la polemica che intrecciò con un’altra importante figura dell’ebraismo italiano ottocentesco: Samuel David Luzzatto. Il punto di contrasto verteva sull’importanza della tradizione cabalistica, essenziale per Benamozegh, inutile e dannosa per Luzzatto. Egli si poneva come interlocutore attivo nel dibattito culturale e religioso europeo dell’epoca, il suo contributo al pensiero occidentale è ricco di spunti e fervidi apporti non solo nutriti dall’interesse per la qabbalah. Nell’opera più famosa dell’illustre rabbino, Israele e l’umanità, Benamozegh si propone di trovare la religione che possa offrire una soluzione per risolvere il problema della crisi religiosa e morale contemporanea. Secondo Benamozegh all’interno dell’ebraismo coesistono due elementi che lo caratterizzano: quello universale e quello particolare. Israele ha una religione universale, ossia la religione che Dio ha dato a Noè e la soluzione alla crisi di valori viene proprio da questo antico ebraismo, da quelle radici che accomunano il popolo di Israele all’umanità intera: la religione noachide. Con questo termine, colto dalla tradizione, Benamozegh fa riferimento ai sette precetti che Dio diede a Noè dopo il diluvio, si tratta di norme giuridiche che regolano la convivenza tra i popoli. I precetti “noachici” prevedono: l’obbligo di istituire tribunali, il divieto di blasfemia, il divieto di idolatria, il divieto di fornicazione, il divieto di omicidio, il divieto di furto, il divieto di mangiare le membra di un animale vivo. Per dimostrare l’universalismo della religione ebraica Benamozegh fa riferimento alla concezione di un Dio universale, la cui provvidenza abbraccia l’intero universo, e all’unità d’origine e quindi all’uguaglianza tra gli uomini. Le leggi noachidi investono tutti gli ambiti della vita individuale e sociale dell’uomo. Benamozegh sostiene che il noachismo è una legge razionale, ma in accordo con la tradizione afferma il carattere religioso delle leggi di Noè. Comunque, per il suo carattere razionale, il noachismo può essere considerato una base per costruire un intero sistema etico e giuridico valido per l’intera umanità. Benamozegh individua, nelle leggi di Noè, una radice etica e antropologica. L’uomo è libero e questa libertà risiede nella capacità dell’uomo di perfezionarsi; l’avanzamento verso uno stato di perfezione morale, sociale, intellettuale è possibile attraverso l’esercizio della libertà umana, ma anche per la vocazione dell’uomo all’imitazione di Dio. La concezione dell’uomo come “essere progressivo” e di una società in via di perfezionamento, si spiega attraverso l’esigenza di fondare una società giusta. La giustizia è un’idea fondante l’etica del noachismo: Noè è nello stesso tempo l’uomo giusto e l’uomo etico. Ma l’ebraismo è anche una religione particolare che ha, all’interno del progetto teorico di Benamozegh, un ruolo fondamentale; infatti nella storia religiosa dell’umanità il popolo ebraico con la propria legge particolare è strumento della provvidenza divina: ha il compito di custodire attraverso tale legge la legge noachide che porta dentro di sè e di mostrarla all’umanità. La legislazione mosaica ha quindi un carattere “sacerdotale”: essa, così restrittiva, ha la funzione di preservare l’integrità di Israele e di prepararlo al suo compito universale. Benamozegh si rivolge anche al cristianesimo che assume una posizione importante; egli elabora la teoria di un cristianesimo incompleto e deviato e riconduce la dogmatica cristiana alla matrice ebraica attraverso l’esame della lingua viva della qabbalah, che abbiamo detto rappresenta una parte importantissima dell’indagine di Benamozegh. Il cristianesimo, come anche l’islamismo, hanno bisogno di essere restaurati per tornare alla loro religione madre. Benamozegh, nei confronti del cristianesimo, assume posizioni ambivalenti: da una parte sembra che, dopo la restaurazione, la religione cristiana possa ambire a diventare religione universale, dall’altra sembra che debba essere sorpassata o ridotta a semplice noachismo. Credo che il cristianesimo, in questo progetto, abbia un ruolo di mediatore tra Israele e l’umanità laica in vista dell’attuazione dell’era messianica affinché, un giorno, l’umanità intera, riconosca e rispetti la legge noachide. Benamozegh invita, quindi, le chiese a collaborare all’avvenire religioso dell’umanità; ma è necessario ripristinare la duplice struttura di Israele e l’umanità: altrimenti, ogni pretesa di universalità etica dovrebbe essere considerata vana.
FÉLIX RAVAISSON-MOLLIEN
VITA E OPERE
Jean Gaspard Felix Ravaisson-Mollien (23 ottobre 1813 – 18 maggio 1900) nacque a Namur e, dopo un corso di studi pieno di successo al College Rollin, continuò a Monaco, dove frequentò le lezioni di Schelling e si laureò in filosofia nel 1836. Nell’anno seguente pubblicò il primo volume della sua famosa opera Essai sur la métaphysique d’Aristote, al quale, nel 1846, aggiunse un volume supplementario. In questo suo lavoro non solo critica e commenta le teorie di Aristotele e la filosofia peripatetica, ma da esse trae un sistema filosofico moderno. Nel 1838 riceve il titolo di dottore e diviene professore di filosofia a Rennes. Dal 1840 fu ispettore generale nelle biblioteche e nel 1860 divenne ispettore generale del dipartimento dell’istruzione superiore. Era anche membro dell’Accademia e dell’Accademia di Scienze Politiche e Morali oltrechè sovrintendente del Dipartimento di Antichità al Louvre (dal 1870). Morì a Parigi il 18 maggio 1900. Nel campo della filosofia, egli faceva parte della scuola di Cousin, col quale era sempre in questione su molti punti importanti. L’atto di coscienza, secondo lui, è alla base di tutto il sapere. Questi atti di coscienza sono manifestazioni della volontà, vale a dire la ragione e il potere creativo della vita intellettuale. L’idea di Dio è un’intuizione aggiuntiva data da tutte le diverse facoltà della mente, nella sua osservazione dell’armonia nella natura e nell’uomo. Questa teoria ebbe un’influenza considerevole sulla filosofia speculativa in Francia durante gli ultimi anni del XIX secolo. I principali lavori filosofici di Ravaisson sono: Les Fragments philosophique de Hamilton (1840); Rapport sur Iestoicisme (1851) ; La Philosophie en France au dix-neuvième siecle (1868, terza edizione, 1889) ; Morale et métaphysique (1893). Eminente filosofo, Ravaisson fu anche archeologo e contribuì con articoli sulla scultura antica al Revue Archiologique, e al Mémoires de l’Académie des Inscriptions. Nel 1871 pubblicò una monografia sulla Venere di Milo.
IL PENSIERO
Ravaisson fa risalire le radici dello spiritualismo allo stesso Aristotele, il quale, a suo giudizio, ha mostrato come l’intelligenza dell’uomo “per esperienza immediata colga in se stessa la realtà assoluta dalla quale ogni altra dipende”. Dunque la percezione intima della coscienza è rivelativa del senso dell’essere dell’uomo, e dev’essere il fondamento della riflessione filosofica. In questa esperienza interiore, l’uomo si scopre spirito, cioè libertà, o meglio libera attività creatrice sul piano del pensiero e su quello dell’azione. Ma si tratta di uno spirito non separato dalla materia, bensí in continuità con essa. Infatti è vero che la libertà caratterizza lo spirito e la necessità contrassegna la materia, ma c’è un’area della vita psichica umana – quella dell’abitudine – che ci mostra quella continuità; nell’abitudine infatti la volontà cosciente diventa inconscia, la libertà diventa semplicemente spontaneità; in essa l’attività non si pone fuori del campo dello spirito, perché è pur sempre in funzione di un fine, e quindi implica l’esercizio dell’intelligenza; ma il fine è incorporato nell’attività stessa, reso inconsapevole, per cui l’azione sembra assumere caratteri “meccanici”. Dunque non c’è opposizione tra spirito e materia; e pertanto va riveduto lo stesso concetto di “meccanicismo naturale”. La vita della natura “appare” meccanica, ma una riflessione piú profonda rivela che tutta la realtà è in movimento verso l’intelligenza, e non solo nel senso che tende al suo compimento nella vita intellettiva dell’uomo, ma anche e soprattutto nel senso che essa tende all’Intelligenza divina. Ciò ha mostrato anche Aristotele quando ha indicato nel passaggio dalla potenza all’atto la legge che muove gli enti finiti verso il Pensiero puro. L’uomo è il punto di congiunzione tra la materia, cosiddetta meccanica, e Dio, spirito puro, perché nell’uomo lo spirito, imbrigliato nella natura, diventa consapevole e si apre alla perfezione divina in un rapporto di “amore scambievole” con Dio. Tale apertura ha luogo nello slancio della volontà verso la realizzazione del bene, e nell’amore per la bellezza della natura e dell’arte. Ravaisson si esprime in favore di Maine de Biran, il cui merito è ravvisato nell’aver sottratto la filosofia all’influenza della tradizione illuministica, riconfermando il primato dello spirito sulla natura. La coscienza è la fonte di ogni verità (già per Aristotele, secondo Ravaisson) e il mondo naturale, che cade sotto le determinazioni empiriche del tempo e dello spazio, è mera parvenza, riconducibile all’attività dello spirito. Per giustificare l’apparenza della materialità alla luce di quest’attività spirituale da cui tutto promana, Ravaisson ricorre al concetto fondamentale di abitudine, concetto che sta al centro della sua importante tesi di dottorato su L’abitudine (1838) appunto. L’abitudine è un ponte di passaggio dall’attività spirituale all’inerzia materiale. Infatti, benchè nasca dallo spirito, attraverso la ripetizione meccanica degli atti, l’abitudine implica una graduale perdita della consapevolezza e della libertà che contrassegnano ogni attività meramente spirituale. Ne segue che si viene a creare una realtà che, pur mantenendo la sua radice spirituale, è ormai del tutto inerte e inconscia: tale è la materia. Tra i due estremi dati dal puro spirito e dalla materia si distribuiscono gradualità diverse di coscienza e libertà, corrispondenti ai diversi livelli della realtà (inorganica, vegetale, animale, umana).
LÉON OLLÉ-LAPRUNE
Breve introduzione
Tra i tanti studenti di Léon Ollé-Laprune presso l’Ecole Normal Supérieure ci furono i primi leader Socialisti, il sociologo Jean Jaurés, Emil Durkheim, per non parlare di Henri Bergson e Maurice Blondel, due dei più grandi filosofi francesi del XX secolo. Cattolico convinto, inspirato dall’impegno sociale di Frédéric Ozanam e dei democratici cattolici del 1848, Ollé-Laprune difese una filosofia rinnovata che cercava di andare oltre l’approvata scolastica del tempo. Per questa ragione, e anche perché egli scelse di insegnare nel sistema universitario statale di cui l’Ecole Normale Supérieure faceva parte, Ollé-Laprune a volte si trovò emarginato da alcuni gruppi cattolici conservatori. D’altro canto, la sua fede proclamata pubblicamente ha fatto sì che la sua filosofia ne risentisse a causa delle forze anticlericali che guadagnavano un’ascendenza nella vita francese del tardo XIX secolo. Ollé-Laprune non ha mai cercato di fornire conforto a nessuna delle sue teorie e ciò, assieme alla sua morte prematura nel 1898 avvenuta all’apice della sua carriera, può spiegare l’oscurità nella quale la filosofia di Ollé-Laprune è ingiustamente caduta. Insieme alla sua ispirazione filosofica, Alphonse Graty, Léon Ollé-Laprune cercava di porre le fondamenta di una nuova filosofia capace di rispondere alle sfide del mondo moderno, il quale è emerso come risultato delle rivoluzioni democratica e industriale del XVII e XIX secolo. E’ una sfida che sta ancora di fronte a noi all’alba del XXI secolo.
Biografia
Alcune date nella vita di Léon Ollé-Laprune
25/02/1839 Nasce a Parigi
1858: Entra a l’Ecole Normale Supérieure al primo posto
1861: Diplomato in Arte al primo posto
1862: Professore di filosofia a Nizza
1862: Inizia un piano di studi privato di scienza e teologia propostogli dal professor Graty
1864: Professore a Douai
1868: Professore al liceo Henri IV di Parigi
1869: Si sposa con Mademoiselle Saint-René Taillandier
1875 : Lettore presso l’Ecole Normale Supérieure
1880 : Proteste contro l’espulsione di congregazioni religiose da parte del governo francese, seguite da un anno di sospensione dal suo posto di insegnamento ; lettere di solidarietà da parte degli studenti, firmate in cima da Jean Jaurés fondatore del Partito Socialista.
1893-97: Presiede la cerimonia della premiazioni al Collegio Stanislas
13/02/1898: Muore a Parigi
Il pensiero
Ollé-Laprune, Léon, filosofo cattolico francese, nato a Parigi nel 1839 e colà morto nel 1898, sotto l’influenza del filosofo Caro e del libro di Padre Graty “Les Sources” [“Le Fonti”], Ollé-Laprune, dopo studi eccezionalmente brillanti presso l’Ecole Normale Supérieure (dal 1858 al 1861), si è consacrato alla filosofia. Trascorse la sua vita insegnando una filosofia illuminata dalla luce della fede cattolica, prima nei licei e poi presso l’Ecole Normale Supérieure a partire dal 1875. Come Ozanam è stato un professore cattolico di storia e letteratura straniera nell’università, lo scopo di Ollé-Laprune era di essere un professore cattolico di filosofia là. Père de Règnon, il teologo Gesuita, gli scrisse: “Sono lieto di pensare che Dio voglia nel nostro tempo riportare in auge l’apostolato laico, come ai tempi di Giustino e Atenagoras; sei tu che specialmente mi fai venire questi pensieri.” Il Governo della Terza Repubblica era adesso pressato da parte di alcune sezioni della stampa di punire il “clericalismo” di Ollé-Laprune, ma la reputazione del suo insegnamento filosofico lo protesse. Solo per un anno (1881-82), dopo aver organizzato una manifestazione in favore delle congregazioni espulse, fu sospeso dal suo posto da Jules Ferry, e la prima firma della protesta indirizzata al ministro in favore del loro professore fu del futuro deputato socialista Jean Jaurés, allora studente all’Ecole Normale Supérieure.
La prima opera importante di Ollé-Laprune fu “La filosofia di Malebranche” (1870), che già ben rivelava le sue tendenze in sede filosofica. Dieci anni dopo, per ottenere il dottorato, difese davanti la Sorbonne una tesi sulla certezza morale. Come oppositore alle esagerazioni del razionalismo cartesiano e del determinismo positivista studiò il ruolo della volontà e del cuore nel fenomeno della convinzione. Quest’opera riassume sotto molti aspetti la “Grammatica dell’assenso” di Newman; ma Ollè-Laprune non deve, più che cardinale Inglese, essere considerato responsabile della successiva tendenza che ha cercato di diminuire il margine di intelligenza nell’atto di fede e di separare completamente il campo della credenza da quello della conoscenza. Nel suo “Saggio sulla morale di Aristotele” (1881) Ollé-Laprune ha difeso l’”edonismo” del filosofo greco contro le teorie kantiane; e ne “La filosofia e il tempo presente” (1890) ha rivendicato, contro lo spiritualismo deista, il diritto del pensatore cristiano di andare oltre il dato della “religione naturale” e illuminare la filosofia con i dati della religione rivelata. Una delle sue più influenti opere è stato il “Premio della vita” (1894), in cui mostra perché vale la pena di vivere la vita. Il parere dato da Leone XII ai Cattolici di Francia ha trovato in Ollé-Laprune un attivo difensore. Il suo opuscolo “Ciò che si va a cercare a Roma” (1895) fu uno dei migliori commentari sulla politica papale. L’Accademia delle Scienze Politiche e Morali lo elesse membro della sezione filosofica nel 1879 per succedere a Vacherot. I suoi articoli e conferenze attestano la sua crescente influenza nei circoli cattolici. Egli divenne leader dell’attività cristiana, consultato e ascoltato da tutti fino alla sua morte prematura quando era sul punto di terminare il suo libro su Jouffroy (Parigi, 1899). Molti dei suoi articoli sono stati raccolti da Goyau sotto il titolo “La vitalità cristiana” (1901). Qui sono anche state trovate una serie di inedite meditazioni, che da una notevole coincidenza nacque il futuro motto di Pio X, “Omnia instaurare in Cristo”. Il professore Delbos dell’Università di Parigi pubblicava nel 1907 il corso che Ollé-Laprune ha dato sulla ragione e il razionalismo (la ragione e il razionalismo). Alcuni mesi dopo la sua morte Mr. Willim P. Coyne lo ha chiamato con giustizia “il più grande cattolico laico che sia apparso in Francia da Ozanam” (“Nuova Rivista Irlandese”, Giugno, 1899, p. 195). John Henry Newman (1801-1890) aveva distinto – nel suo “Saggio sulla grammatica dell’assenso” (1870) – tra l’assenso nozionale (che è di tipo intellettuale e si configura come adesione teoretica ad una proposizione assertiva) e l’assenso reale (dato invece dalla volontà e tale da investire la sfera pratica dell’agire), riconoscendo la netta superiorità del secondo: ora, Ollé-Laprune riprende questa concezione, e la espone in diversi suoi scritti (“La certezza morale”, 1880; “Il valore della vita”, 1894). In “La certezza morale”, egli distingue infatti tra la certezza astratta (o scientifica) e la certezza reale (o pratica): la prima concerne esclusivamente proposizioni teoriche senza riferimento alla loro realtà (la matematica ne segna il vertice), mentre la seconda riguarda le cose concrete. Solamente la certezza reale può originare l’atteggiamento del credere, che è indispensabile per la vita pratica. Dal credere scaturisce anche la fede, che per sua stessa natura non può risolversi in una mera conoscenza teorica, bensì deve svilupparsi in una concreta volontà d’azione.
GIUSEPPE MAZZINI
BIOGRAFIA
Nessuno dei protagonisti della Storia patria aveva un’idea così alta e così completa di cosa dovesse essere l’Italia come Giuseppe Mazzini. Non il Cavour che, pur essendo stato definito da Spadolini “l’unico uomo di Stato, per uno Stato che ancora non c’era” , si opponeva tenacemente all’idea unitaria intendendola, dopo i fatti del 1860/61, come il semplice ampliamento del Vecchio Regno di Sardegna e come l’avverarsi di ciò che pochi secoli prima aveva detto
Emanuele Filiberto di Savoia
(“L’Italia? Un carciofo di cui i Savoia mangeranno una foglia alla volta” );
non il Cattaneo che, chiamando il proprio giornale pubblicato nel 1848 “Il Cisalpino” e non “L’Italiano”, restringeva l’orizzonte del proprio progetto politico federalista al solo Nord sviluppato; non il Gioberti che, ne “Il Primato”, si faceva promotore di un anacronistico legame tra Stato e Chiesa che sembrava potersi avverare soltanto se analizzato alla luce delle riforme concesse da Papa Pio IX nello Stato della Chiesa nel 1848 dopo l’elezione al soglio pontificio.
Ma tutte queste speranze si riveleranno, dopo la svolta autoritaria del Pontefice nel 1848, pure illusioni. Tanto meno erano innovative le posizioni di quei liberali di scuola classica guidati in Piemonte dal D’Azeglio ed in Toscano dal Ricasoli che sognavano semplicemente di modificare in senso costituzionale il rapporto Corona-Parlamento senza stravolgere le condizioni sociali ed economiche esistenti.
Giuseppe Mazzini affronta il problema italiano…
…in un’ottica nuova: parla di una forma di Stato di tipo unitario e, per la forma di governo, dichiara le proprie idee repubblicane.
Interessante, per capirne il pensiero politico, è la biografia politica del pensatore ligure. Nasce a Genova nel 1805 da un’agiata famiglia piccolo-borghese e compie i primi passi nella lotta politica guidando, col Ruffini , i primi moti rivoluzionari nel Nord-Ovest dalle colonne dell’”Indicatore”. Falliti questi tentativi insurrezionali si assiste alla fondazione di una nuova società segreta “La Giovine Italia”. All’origine di essa vi è una critica incisiva della Carboneria a cui si imputa di essere troppo elitaria e totalmente disorganizzata al proprio interno degenerando, quindi, in organizzazione di stampo verticistico in cui i singoli adepti non sono a conoscenza dell’intero programma politico per la cui realizzazione lottano. La “Giovine Italia” propone un nuovo modello di lotta politica che, innanzi tutto, vuole coinvolgere le masse per giungere ad un moto insurrezionale popolare e nazionale. Vi è, inoltre, un forte interesse per i giovani che sono visti come elementi nuovi da invitare alla lotta politica.
Si è di fronte ad un’organizzazione non più di stampo liberale (quindi oligarchico), ma democratica il cui messaggio politico è indirizzato a tutte le classi sociali, anche le meno abbienti, affinché siano esse, e non le oligarchie monarchiche, le vere protagoniste del processo di unificazione tendente a fare dell’Italia uno Stato unito, indipendente e repubblicano che si possa inserire in una più vasta nuova Europa unitaria basata su valori democratici e di reciproco rispetto. È infatti, sempre negli anni ’30, che il Mazzini fonda “La Giovine Europa” che ha lo scopo di promuovere un processo di integrazione europea.
Benché definisse il Mediterraneo Mare Nostrum non si può considerare Mazzini nazionalista. Infatti il pensatore politico ligure sosteneva la pari dignità tra tutti i popoli europei e riteneva che la massima conquista civile della società fosse stata l’abolizione della schiavitù.
Come si può leggere a pagina 92 del volume 17 del “Westminster Review” (1852) Mazzini si faceva sostenitore di una graduale emancipazione delle colonie britanniche. Tanto W. T. Wilson e George Lloyd George , quanto molti leaders post-coloniali, tra i quali Gandhi , Golda Meir , David Ben Gurion , Nehru e Sun Yat-sen , consideravano Mazzini il proprio Maestro e “I doveri dell’uomo” la propria Bibbia morale, etica e politica. Mazzini, teorizzando l’integrazione fra le nazioni europee in un’ottica democratica e riformista giunge con quasi un secolo d’anticipo ad affermare ciò che grandi europeisti, quali Altiero Spinelli , Ugo La Malfa , Umberto Terracini e Giorgio Amendola , sosterranno nel “Manifesto di Ventotene” alla fine del II conflitto mondiale che aveva sconvolto le coscienze di milioni di europei che negli anni ’50 si interrogheranno se la nuova Europa dovesse divenire finalmente quel luogo politico e culturale in cui svelenire gli odi nazionalisti nell’ottica dell’interesse comune di pace e di prosperità oppure se dovesse essere il baluardo avanzato della guerra fredda.
Mazzini subordinava il concetto di Patria a quello più ampio di Umanità, auspicando che il concetto di nazione sarebbe stato superato a favore di una federazione fra i popoli europei che, da un lato, avrebbe permesso la rimozione delle tensioni internazionali sanando le ferite nazionaliste e, dall’altro, avrebbe permesso lo sviluppo anche dei popoli più poveri. La nazioni sarebbero dovute giungere a questo nuovo assetto geopolitico spinte dalla comprensione della “legge morale” a cui tutte sono soggette. Il pensatore democratico intravedeva già negli anni ’30 come la vecchia idea d’Europa, nata a Vienna nel 1914, non potesse reggere al progredire impetuoso della Storia. In tale considerazione vi è una consonanza con il filosofo tedesco Hegel che, nel 1831, affermava che in breve tempo l’Europa avrebbe ceduto il primato agli Stati Uniti. Contrariamente ad Hegel, che intendeva le nazioni in una naturale e reciproca competizione, Mazzini le considerava necessariamente cooperanti in nome dell’Umanità di cui ogni singola nazione è parzialmente manifestazione.
Contrariamente a Machiavelli , Mazzini si interessa alle nazioni in quanto popoli e non stima i “principi” che le guidano poiché, come ha detto Fançois Mitterand , “Sono le nazioni, qualora ne siano in grado a fare grandi i propri governanti”. Alla luce di quanto detto è assolutamente errato il tentativo di Giovanni Gentile di parlare di un “Mazzini fascista”. Quindi l’idea dell’Italia fascista figlia di Mussolini non trova legittimazione nell’ideologia politica democratica mazziniana. Inoltre non si può giustificare, ricorrendo al pensiero politico mazziniano, né l’esperienza coloniale patrocinata dal Crispi , né l’occupazione della Libia attuata nel 1912 dal IV gabinetto Giolitti . Questi atti coloniali trovano un riferimento culturale in Alfredo Oriani che teorizzava che le disfatte di Custoza, di Lissa e di Adua avevano creato al Regno d’Italia un complesso di inferiorità che poteva essere sanato soltanto se l’Italia fosse vissuta al di sopra delle proprie possibilità giungendo ad una “grandezza della Patria” in grado di risolvere le contraddizioni fra le quali il nuovo stato era nato e cresciuto. Ma questo è il pensiero del romagnolo Alfredo Oriani, l’autore de “La lotta politica in Italia”, definito da Antonio Gramsci “il rappresentante più onesto e più appassionato per la grandezza nazional-popolare fra gli intellettuali italiani della vecchia generazione” , non il ligure Giuseppe Mazzini, ritenuto da Francesco de Sanctis “il Mosè dell’Unità “.
I moti ispirati da “La Giovine Italia” danno tutti risultati negativi e ciò causa una forte crisi morale al Mazzini che, durante gli anni ’30, vive la “tempesta del dubbio”. In questi anni cerca una pace interiore dedicandosi a studi filosofici soprattutto in campo musicale.
È infatti pubblicata nel 1836 l’opera…
“Filosofia della Musica”
…dedicata ad un “Ignoto Numin i” che, per stessa confessione dell’autore, ha il compito di “trarre la musica dal fango o dall’isolamento in che giace per ricollocarla dove glia antichi grandi, non di sapienza, ma di sublimi presentimenti l’avevano posta accanto al legislatore ed alla religione “. Secondo Mazzini gli antichi avevano, dell’arte musicale, soltanto il germe (la melodia), non riuscivano a oltrepassare l’accompagnamento. Ma in quei popoli vi era una fede alla base alla base dell’”Istinto all’Unità “, fondamento di tutte le grandi cose. In Italia, continua Mazzini, la musica nasce nel XVI secolo con Palestrina che “tradusse il Cristianesimo in note”. Secondo Mazzini elementi generatori della musica sono la melodia, simbolo dell’individualità il cui massimo esperto fu il bolognese G. M. Martini (vissuto nel periodo classico e maestro anche di Mozart ), e l’armonia, simbolo del pensiero sociale, magistralmente rappresentata da Rossini , “Titano di potenza e di audacia. Il napoleone d’un epoca musicale”. Mazzini vedeva in Rossini quell’”Ignoto Numini” che doveva “spiritualizzare ” la musica “riconsacrandola con una missione “. Probabilmente quell’”Ignoto Numini” era già nato e, come ha scritto Massimo Mila : “Mazzini steso gli aveva aperto il cammino, additando agli artisti italiani un altro dei valori attraverso i quali era possibile placare la struggente ansia individualistica del Romanticismo: ‘Dio e Popolo’. ” Infatti l’individuo è naturalmente portato a tendere verso l’infinito, definito da Mazzini stesso “l’anelito delle anime nostre”, inserendo l’elemento divino e se stesso in quell’entità collettiva rappresentata dal popolo.
Queste novità filosofiche sono la piattaforma da cui parte il melodramma di Giuseppe Verdi che, dopo i successi del “Nabucco” (1842) e dei “Lombardi” (1843), abbandona il modello rossiniano per giungere ad opere con personaggi aventi caratteri individuali quali l’”Ernani” (1844) che è di tipo donizattiano. Nella già citata “Filosofia delle Musica” è presente un aspetto profondamente religioso (anche se l’autore non riconosceva valore alla gerarchia ecclesiastica) e di tensione verso il divino che ha portato Gaetano Salvemini ad affermare che “Mazzini non fu né un uomo di Stato, né un filosofo. Fu un mistico. Chiunque vive non per se stesso, ma per gli altri, è un mistico anche se è ateo”.
L’azione politica riprende vigore nel 1848, l’anno della I Guerra d’Indipendenza, e delle forti tensioni internazionali che porteranno a Vienna alla caduta del Metternich ed, a Parigi, alla fuga degli Orlèans ed alla proclamazione della II Repubblica che ben presto cadrà nelle mani dell’ambizioso Napoleone Bonaparte . Mazzini, nel 1848, guida con Armellini e Saffi , la Repubblica romana che è il momento maggiormente rappresentativo delle sue capacità amministrative e la cui Costituzione assume, nell’interpretazione di Giovanni Spadolini , il ruolo di anticipatrice delle moderne Costituzioni democratiche europee. Fu ispirata dalle tradizioni giacobine e dalle idee socialistiche esprimendo, così, non solo aspirazioni locali, ma gli ideali maturati da grandi uomini in molti anni di forzato esilio.
Molti sono i punti in comune tra la Costituzione della Repubblica romana e la Costituzione italiana del 1948. Per entrambe la “sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione” (art. 1), evitando così di contrapporre il popolo sovrano alle legittime assemblee da esso elette. Il parallelo continua per quanto riguarda gli artt. 3, 6, 7, 8 della Costituzione mazziniana e gli artt. 13, 14, 8, 21 della Costituzione italiana. Infatti in tutti questi articoli si affermano, negli stessi termini, i diritti inviolabili della libertà d’insegnamento, dell’inviolabilità del domicilio e dell’abolizione della pena di morte. Importante è l’art. 28 della Costituzione della Repubblica romana in cui si prevede un indennizzo per tutti i rappresentanti del popolo eletti, conquista raggiunta, nel Regno d’Italia, soltanto in epoca giolittiana dal movimento socialista. Fu d’ispirazione mazziniana, nell’interpretazione data da Piero Calamandrei nel suo “Discorso sulla Costituzione”, pronunciato a Milano nel 1955, l’art. 2 della Costituzione del 1948 in cui si afferma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà di offesa degli altri popoli”.
Sempre di Calamandrei è un nobile e virtuoso parallelismo tra l’Assemblea Costituente romana del 1847 e quella italiana del 1948. Ciò non fu affatto un azzardo, ma la consapevolezza che l’Assemblea mazziniana doveva essere il compimento del Primo Risorgimento, ma così non fu e che l’Assemblea Costituente era il simbolo della Resistenza che, come disse a Milano il 25 aprile 1968 l’allora Presidente della Camera dei Deputasti Sandro Pertini , era stata “Un secondo Risorgimento i cui protagonisti furono le masse popolari”.
Caduta la Repubblica romana e giunto, nel 1852, al potere il Cavour si assiste alla fase calante della politica mazziniana. È la monarchia sabauda a guidare, nonostante che ciò non fosse nei progetti del Cavour, il processo di unificazione nazionale e numerosi mazziniani (Garibaldi , Crispi, Visconti-Venosta , Giuseppe Verdi ) passano alle file monarchiche aderendo alla “Società Nazionale” istituita da Cavour e dal Vittorio Emanuele II .
Mazzini si reca esule, per l’ennesima volta, in Inghilterra dove intrattiene buoni rapporti con i liberali inglesi amici di Gladstone e godendo, come testimoniato dagli scritti di Denis Mack Smith , di vasta popolarità.
Nel 1848 Marx e Engels pubblicano il “Manifesto del Partito Comunista” e nel 1864 si assiste alla nascita della Prima Internazionale alla quale partecipano fra gli altri Marx, Mazzini e Bakunin .Nel corso di questi anni la polemica tra Marx e Mazzini raggiunge livelli molto alti tanto che il filosofo tedesco accusa Mazzini di “leccare il culo ai borghesi liberali” e Mazzini replica affermando che, pur accettando le istanze di giustizia sociale che sono alla base del socialismo marxiano, rifiuta la lotta di classe e la violenza come mezzo di lotta politica. Critica fortemente i socialisti francesi che, con il loro radicalismo, hanno facilitato il colpo di Stato di Luigi Bonaparte. Condanna, con buona pace del capo del sindacalismo rivoluzionario George Sorel (che sosteneva che “La violenza è la levatrice della Storia”) la violenza ponendosi in posizione critica nei confronti della Comune parigina del 1870.
Ma nonostante tali polemiche non è improprio parlare di “socialismo mazziniano” intendendo il termine Socialismo nel senso più profondo ed originario della parola. Si rivolge alle classi medie e, tramite le “Società operaie”, al proletariato del cui appoggio ritiene di avere bisogno.
Il Partito d’Azione da lui fondato è il primo movimento veramente democratico poiché, oltre che a sostenere il suffragio elettorale universale maschile, prevede che il governo debba essere responsabile del proprio operato di fronte al popolo affinché il potere non sia detenuto da una ristretta elités. Mazzini col tempo diviene il punto di riferimento, con Piero Gobetti , Giovanni Amendola, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, di quell’Italia di minoranza che Norberto Bobbio ha chiamato “Italia civile della ragione”.
Buona parte del pensiero della sinistra democratica affonda le proprie origini nel pensiero mazziniano. Come amava ricordare Giovanni Spadolini si tratta di un pensiero “carsico” che, a partire dal Partito d’Azione risorgimentale giunge alle più recenti formazioni politiche laiche e democratiche passando attraverso l’Unione Democratica Nazionale di Giovanni Amendola, la Pentarchia del 1925, il Partito d’Azione di Ferruccio Parri , Emilio Lussu e Leo Valiani e per il Partito Repubblicano Italiano di Ugo La Malfa, è riconducibile al pensiero filosofico e politico di Mazzini. Il pensatore ligure condannava la censura e la negazione della libertà sapendo che le grandi idee della Storia erano, in molti casi, state promosse da uomini perseguitati. Valgono sempre le parole di Socrate: “Mi avete ucciso perché volete sottrarvi all’accusatore e non rendere conto delle vostre viltà! Se credete che, uccidendo uomini, possiate impedire a qualcuno di consumare le vostre vite malvagie, siete in errore”.
I modi e le forme con cui l’Italia viene unificata nel biennio 1860-61 non sono certamente quelli auspicati da Mazzini, ma come ha osservato Gaetano Salvemini in una delle sue ultime lezioni: “L’intera penisola è stata unificata sotto una sola dinastia, la casa Savoia. Tutte le altre dinastie sono state spezzate “. In tale Italia Mazzini non si può riconoscere e muore, sotto falso nome, a Pisa nel marzo 1872.
Ci piace pensare che in quell’ora suprema, Giuseppe Mazzini avesse ancora in cuore le parole, scritte nel lontano 1831 al sovrano Carlo Alberto , piene di appassionata fede e simbolo di indomito animo: “Non v’è carriera più santa al mondo di quella del cospiratore che si costituisce giudice dell’umanità, interprete delle leggi eterne della natura.”
SINTESI DEL PENSIERO
Come molto acutamente è stato osservato, «le concezioni di Rosmini e Gioberti sono dominate dall’idea di tradizione; il pensiero di Mazzini è dominato dall’idea di progresso. Ma l’apparente antitesi delle due concezioni, e l’aspra polemica che su di essa s’impernia, non riescono a celare la loro identità d’ispirazione: il progresso stesso è la tradizione ininterrotta del genere umano, come la tradizione non è che il suo progresso incessante. Tuttavia accentuare, come fa Mazzini, il concetto di progresso implica una differenza importante dal punto di vista pratico-politico; giacché significa far servire l’idea della tradizione al fine della trasformazione della società e delle istituzioni anzicché al fine della loro conservazione» (N. Abbagnano). Giuseppe Mazzini (1805-1872) è stato definito appunto «apostolo di una nuova era», nuova sia dal punto di vista storico-politico che da quello religioso. Su quali presupposti filosofici egli fonda il suo ideale? «Dio è Dio e l’umanità è il suo profeta». Tra Dio e l’umanità non c’è abisso: l’umanità è l’«incarnazione» di Dio, incarnazione continua, incessante. Essa, nel suo sviluppo, manifesta e compie la legge di Dio, la legge divina del progresso storico, al di là degli obiettivi immediati delle volontà individuali. Essa, insomma, è la vera «testimone» di Dio e «la sola interprete della legge di Dio sulla terra». La Storia, pertanto, non è solo storia umana, ma anche, e soprattutto, storia divina: è il progressivo compimento del regno di Dio sulla terra attraverso l’opera dell’uomo. Il compito dell’uomo, pertanto, è di secondare consapevolmente l’azione che attraverso di lui la Divina Provvidenza attua nel corso degli eventi. Come può l’uomo attingere la verità, cioè conoscere la direzione, individuare gli obiettivi della sua azione? Ricorrendo alla «coscienza» e alla «tradizione». Infatti nella coscienza si può cogliere la volontà divina e nella tradizione si può riscontrare già il suo parziale compimento. Esse sono quindi i soli criteri per la verità, purché usati in modo coordinato: infatti la coscienza individuale, isolata in se stessa, porta all’anarchia, mentre la tradizione, da sola, induce all’immobilismo e al dispotismo. E che cosa indicano coscienza e tradizione? La Rivoluzione Francese ha concluso quel moto storico verso l’affermazione dei «diritti dell’uomo» in quanto individuo. L’epoca post-rivoluzionaria apre ora il discorso, secondo il Mazzini; dei «doveri dell’uomo» cioè quelli connessi al fatto che l’individuo, reso ormai sovrano, per progredire ulteriormente deve «aprire» la sua esistenza, allargare il suo essere fino ad identificarsi con la realtà mistica dell’umanità. Se dunque finora egli ha conquistato la sua libertà, ora deve lottare per la «libertà» e per il «progresso» dell’Umanità. Ciò egli può fare agendo all’interno delle «sfere» della «famiglia» e della «nazione», entro cui solo l’individuo può perseguire «il perfezionamento morale di se stesso e d’altrui», o, per dirla in modo diverso, «il perfezionamento di se stesso attraverso gli altri e per gli altri» Chi concepisca la vita in tal modo, sentirà evidentemente d’avere una missione da svolgere. «La vita è una missione»; essa dev’essere guidata da una sola legge, quella del «dovere», che indica, quale scopo degli individui come dei popoli, l’impegno costante al loro riscatto da ogni schiavitú, alla realizzazione cioè della libertà, con la quale si compie il progresso dell’umanità verso una nuova società umana che realizzi in sé il Regno di Dio. La costituzione dell’unità politica dell’Italia è per Mazzini, dunque, un dovere «religioso», un obiettivo prossimo perché gli italiani vivano come nazione, superando ogni oppressione e divisione e realizzando la loro libertà; ossia è una tappa imprescindibile nel cammino verso la realizzazione dell’Umanità. Bisogna che gli individui rinuncino alla loro sovranità per riconoscersi in quella della Nazione, realtà super-individuale che sola può dare senso e direzione «superiore» all’azione individuale. Il vero sovrano dunque deve essere il Popolo, che, in quanto realtà collettiva, è il luogo d’azione della forza della Provvidenza con cui Dio guida e regola il corso del mondo. Solo identificandosi col Popolo l’individuo acquista coscienza del Fine religioso della storia, e del compito che egli, insieme agli altri, ha da realizzare concretamente, in un dato momento storico, per l’attuazione di quel Fine. In quanto caratterizzato da un compito «religioso» il Popolo è realtà religiosa. E lo Stato, ossia la sua organizzazione politica, non può non avere una funzione religiosa. Una politica senza una religione è un assurdo. Sicché assurdo è il concetto di Stato laico, o addirittura di Stato ateo. Lo Stato deve infatti assumersi l’onere di unificare il Popolo intorno alla sua missione e di promuovere cosí l’educazione progressiva verso la perfezione individuale e collettiva. In tal senso esso deve essere una Chiesa. Dati questi presupposti, era inevitabile che Mazzini si opponesse alla visione materialistica della storia quale delineata da Marx e da Engels, e contestasse l’azione della Prima Internazionale. Quella visione, a suo giudizio, negava proprio i tre elementi fondamentali della sua concezione: Dio, patria e proprietà. Senza Dio, l’umanità, a suo giudizio, procederebbe senza una legge, e pertanto non potrebbe attuare alcun progresso; i popoli non avrebbero un disegno complessivo in cui inscrivere la loro opera, e gli individui sarebbero abbandonati ai loro impulsi sensibili, che sono variabili e incoerenti, preda del loro arbitrio, fiduciosi solo nella loro forza, e senza timore per alcuna sanzione. Negare la patria, poi, significherebbe privarsi di un imprescindibile «punto d’appoggio» per il compimento del progresso, per il perfezionamento dell’uomo. Senza patria non v’è modo di rendere concreto il progresso, di assumerlo come fine individuale e collettivo. Sopprimere infine la proprietà individuale implicherebbe estinguere ogni incentivo alla produzione. L’uomo tenderebbe solo alla sua sopravvivenza, e non mirerebbe al suo benessere, né a quello della collettività in cui vive. La proprietà, sostiene Mazzini, è legittimata dal lavoro che la produce; essa è «il segno visibile della nostra parte nella trasformazione del mondo materiale, come le nostre idee, i nostri diritti di libertà e di inviolabilità della coscienza, sono il segno della nostra parte nella trasformazione del mondo morale». Se la società capitalistica, fondata sulla proprietà, ha prodotto e produce danni all’umanità, non per questo la proprietà perde il carattere di elemento stimolatore del progresso. La stortura delle società capitalistiche sta nel fatto che la proprietà è privilegio di pochi; camminare sulla via del progresso, allora, significa renderla sempre piú accessibile a un numero sempre maggiore di uomini attraverso il lavoro che essi compiono. Anche con Mazzini dunque si compie il recupero della tradizione spiritualistica italiana; anche per lui esso diventa il fondamento ideale per una visione complessiva della storia in cui si inscriva l’impegno politico dell’uomo dei suoi tempi per la soluzione, in senso «rivoluzionario», dei problemi da cui erano afflitte l’Italia e l’intera Europa. Per lui, quindi, la tradizione religiosa offre la base salda per l’unificazione e il progresso della società, delle nazioni e dell’umanità intera. L’uomo nuovo sarà, allora, l’uomo cosciente del suo destino e del suo compito; cioè sarà un uomo che si fa strumento consapevole – ma nel segno del progresso, non della conservazione – del disegno provvidenziale di Dio, trascendente-immanente.
I DOVERI DELL’UOMO
E’ inutile avvertire che in molte parti, i “DOVERI DELL’UOMO” sono stati superati dai tempi; tuttavia molte cose che al tempo in cui Mazzini scriveva sembravano arditi sogni, coloriti di generosa utopia, si sono poi verificati e sono state le maggiori conquiste non solo per l’Italia ma per tutto il genere umano. Ma il problema dell’educazione del popolo resta ancora intatto. La scuola materialista contro la quale insorse Mazzini, seguita a tentare la conquista delle masse premendo sull’instaurazione d’una società con una gioia fittizia, una bellezza superficiale, un’ amore epidermico, un individualismo senza freni; è per questo che i DOVERI DELL’UOMO sono ancora opera viva. E politicamente, direi ancora attuale, se siamo rimasti attenti alle ultime vicende geopolitiche. Opera a molti sconosciuta, rintracciandone una rarissima copia, credo di fare cosa gradita pubblicandola integralmente. E’ un’opera sconosciuta a molti, ma non ignorata da grandi statisti. Tanto W. T. Wilson e George Lloyd George, quanto molti leaders post-coloniali, tra i quali Gandhi , Golda Meir , David Ben Gurion , Nehru e Sun Yat-sen , hanno considerato Giuseppe Mazzini il proprio Maestro e “I DOVERI DELL’UOMO” la propria Bibbia morale, etica e politica. Mazzini, teorizzando l’integrazione fra le nazioni europee in un’ottica democratica e riformista giunge con quasi un secolo d’anticipo ad affermare ciò che grandi europeisti, quali Altiero Spinelli , Ugo La Malfa , Umberto Terracini e Giorgio Amendola, alla fine del II conflitto mondiale che aveva sconvolto le coscienze di milioni di europei che negli anni ’50 si interrogheranno se la nuova Europa dovesse divenire finalmente quel luogo politico e culturale in cui svelenire gli odi nazionalisti nell’ottica dell’interesse comune di pace e di prosperità, oppure se dovesse essere il baluardo avanzato della guerra fredda. (“contro chi?” – “ancora contro se stessa?”- La risposta la lasciamo all’attento lettore).
Mazzini subordinava il concetto di Patria a quello più ampio di Umanità, auspicando che il concetto di “NAZIONE” sarebbe stato superato a favore di una “FEDERAZIONE” fra i popoli europei che, da un lato, avrebbe permesso la rimozione delle tensioni internazionali sanando le ferite nazionaliste e, dall’altro, avrebbe permesso lo sviluppo anche dei popoli più poveri. La nazioni sarebbero dovute giungere a questo nuovo assetto geopolitico spinte dalla comprensione della “LEGGE MORALE” a cui tutte sono soggette. Il pensatore democratico intravedeva già negli anni 1830 come la vecchia idea d’Europa, nata a Vienna nel 1914, non potesse reggere al progredire impetuoso della Storia. In tale considerazione vi è una consonanza con il filosofo tedesco Hegel che, nel 1831, affermava che in breve tempo l’Europa avrebbe ceduto il primato agli Stati Uniti. (e non era presente nella I e nella II guerra mondiale). Ma contrariamente ad Hegel, che intendeva le nazioni in una naturale e reciproca competizione, Mazzini le considerava necessariamente cooperanti in nome dell’Umanità di cui ogni singola nazione è parzialmente manifestazione. Le tensioni internazionali non hanno per nulla sanato le ferite; e la federazione sta fallendo proprio davanti a quel primato paventato da Hegel. Fu d’ispirazione mazziniana, nell’interpretazione data da Piero Calamandrei nel suo “Discorso sulla Costituzione Italiana”, pronunciato a Milano nel 1955, l’ARTICOLO 2 della medesima Costituzione del 1948 in cui si afferma: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà di offesa degli altri popoli”. E sempre di Calamandrei è un nobile e virtuoso parallelismo tra l’Assemblea Costituente romana del 1848 e quella italiana del 1948. Mazzini, esattamente cento anni prima, nel 1848, guidò la Repubblica Romana che è il momento maggiormente rappresentativo delle sue capacità amministrative e la cui Costituzione assume, anche nell’interpretazione di Giovanni Spadolini, il ruolo di anticipatrice delle moderne Costituzioni democratiche europee oltre che di quella Italiana. Infatti, molti sono i punti in comune tra la Costituzione della Repubblica romana del 1848 e la Costituzione italiana del 1948. Per entrambe la “sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione” (art. 1), evitando così di contrapporre il popolo sovrano alle legittime assemblee da esso elette. Il parallelo continua per quanto riguarda gli artt. 3, 6, 7, 8 della Costituzione mazziniana e gli artt. 13, 14, 8, 21 della Costituzione italiana. Infatti, in tutti questi articoli si affermano, negli stessi termini, i diritti inviolabili della libertà d’insegnamento, dell’inviolabilità del domicilio e dell’abolizione della pena di morte.
CARLO CATTANEO
BIOGRAFIA
Nacque il 15 giugno 1801 in Milano e morì il 6 febbraio 1869 in Castagnola, presso Lugano. Studioso di problemi economici, sociali, discepolo di Gian Domenico Romagnosi, ispirò la sua attività al proposito di promuovere gradualmente, attraverso il progresso scientifico, l’evoluzione politica dell’Italia. Così egli si adoperò assiduamente per realizzare un miglioramento delle condizioni economiche e sociali del Lombardo-Veneto al fine di assicurarne l’autonomia in seno all’Impero asburgico. Un analogo processo di sviluppo politico nelle altre parti d’Italia avrebbe dovuto condurre, infine, alla formazione di una federazione italiana indipendente. Di formazione e di cultura positivista, nutrì un’assoluta fiducia nel progresso tecnico-scientifico come mezzo di elevazione materiale e morale dei popoli. Lasciò numerosi scritti, spesso frammentari. Le opere più famose sono Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844) e Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (1849). La vicenda pubblica di Cattaneo comincia nel 1820 quando fu nominato professore di grammatica latina e poi di umanità nel ginnasio comunale Santa Marta. Seguiva ogni tanto la scuola privata di Gian Domenico Romagnosi e si laureò in diritto presso l’Università di Pavia nel 1824. Nel 1835 lasciò l’insegnamento (e si sposò); da quel momento svolse l’attività di scrittore, occupandosi di ferrovie, di bonifiche, di dazi, di commerci, di agricoltura, di finanze, di opere pubbliche, di beneficenza, di questioni penitenziarie, di geografia, ecc., insinuando tra questi argomenti anche qualcuno di quelli che “hanno viscere”, com’egli diceva, di letteratura ed arte, di linguistica e di storia, di filosofia. Richiesto nel 1837 dal governo britannico, scrisse sulla politica inglese in India e sui sistemi di irrigazione applicabili all’Irlanda. La sua attività di pubblicista cominciò ben presto a procurargli dei problemi con il governo austriaco di Milano. Lui che s’era tenuto estraneo a sette e congiure e che aveva cercato con la sua opera di accrescere il prestigio e il decoro e di elevare nell’animo dei cittadini la coscienza dei loro diritti, si trovò, in breve, a causa della sua idea di conquista graduale di riforme politiche e civili che ridessero al Lombardo-Veneto l’indipendenza, ad essere bersaglio della diffidenza dell’Austria. In verità Cattaneo, oltre ad aver serratamente criticato il programma di Gioberti, non fu contrario a lasciare l’Austria nel Lombardo-Veneto, a patto che concedesse riforme liberali. L’obbiettivo principale del suo programma – che precisò meglio solo dopo il 1848 – era la fondazione di tante repubbliche da unire in una Federazione. Non era favorevole, a differenza di Mazzini, ad una Repubblica unitaria; temeva che l’accentramento avrebbe sacrificato l’autonomia dei Comuni, delle regioni e delle zone più povere, soprattutto il Mezzogiorno. Il raggiungimento di una vera libertà e di una reale indipendenza era possibile, secondo lo storico ed economista milanese, solo attraverso l’educazione delle masse lavoratrici e l’eliminazione delle grandi ingiustizie sociali, delle troppo marcate differenze tra ricchi e poveri. Al problema politico Cattaneo abbinava cioè anche la questione sociale.
Il dibattito si allargava coinvolgendo nuovi gruppi, più vasti settori di opinione pubblica: solo nel 1848, tuttavia, fu possibile fare il primo decisivo passo avanti sulla via dell’unità e dell’indipendenza. Le Cinque Giornate trovarono in lui un leader naturale: nei tre giorni dal 19 al 21, Cattaneo fu Capo del Consiglio di guerra, non mercanteggiando con nessuno ma teso solamente alla vittoria. Il suo motto era “A guerra vinta”. Prevalsi però gli avversari politici, angosciato per gli eventi, lasciò Milano nell’agosto di quell’anno e si recò a Parigi.
Nel 1859, pur lieto della guerra, non volle, tenacemente fermo nelle sue idee federali, partecipare al nuovo ordine economico delle cose e tornò a Milano il 25 agosto esclusivamente per parlare di filosofia. Sul finire di quell’anno fece risorgere il Politecnico, un importante strumento utilizzato come “difensore” d’ogni progresso materiale e morale del paese; lo lascerà nel 1864.
Nel 1860 fu a Napoli con Garibaldi, ma se ne allontanò quando vide la impossibilità di imporre la soluzione federalista. Eletto più volte deputato, non andò in Parlamento per non prestare giuramento alla corona. Eletto deputato a Sarnico, Cremona, e nel V collegio di Milano, optò per questo ma non entrò mai in Parlamento, non volendo prestare giuramento contro la sua fede repubblicana. Abbandonò anche, nel 1865, con atto di fiera onestà, la cattedra di filosofia al liceo di Lugano, unica sua risorsa economica. Nel marzo del 1867 fu rieletto deputato a Massafra e al I collegio di Milano: optò per la città natale, fu più volte al Parlamento di Firenze, ma non seppe mai piegarsi ad un giuramento formale.
IL PENSIERO
Carlo Cattaneo (1801-1869), milanese, presente nel movimento risorgimentale col suo programma democratico repubblicano e federalista, fondatore e direttore del “Politecnico”, fu autore di alcuni scritti filosofici di notevole interesse, tra i quali ricordiamo Considerazioni sul principio della filosofia (1844) e Psicologia delle menti associate (1859-1866).
Quest’ultima opera era del tutto nuova e originale nel contesto storico-culturale italiano, in quanto prima teorizzazione di una psicologia sociale che, a suo avviso, poteva spiegare il passato – illuminando come i rapporti tra le menti degli uomini avevano prodotto quel progressivo incivilimento che contrassegna lo sviluppo storico – e poteva costituire uno strumento scientifico per la futura organizzazione delle società umane.
Studioso attento di molte scienze (ad esempio di quella economica, di quella storica, di quella giuridica); fu – contro l’arroganza di una filosofia, quella spiritualistica, che si alimenta di problemi praticamente insolubili, che procede con scorrette dimostrazioni, e soprattutto è grande “sprezzatrice delle scienze” – un difensore accanito del metodo e dei risultati scientifici, invitando inequivocabilmente i giovani, in pieno clima di restaurazione spiritualistica, a dedicarsi ai “faticosi studi positivi”, in quanto – affermava – solo “le discipline sperimentali” costituiscono “la potenza e la gloria delle moderne nazioni”.
È convinzione generale, dice Cattaneo, che il progresso storico è determinato dal progresso della conoscenza dell’uomo, che l’incivilimento è prodotto dal pensiero umano. Ma quando s’indaga sul pensiero, sull’attività della mente, si cade comunemente nei discorsi astratti sulla Coscienza, sull’Io, sulle facoltà dello Spirito.
Se s’inverte il procedimento di studio, cioè se si abbandona il passaggio dal pensiero ai suoi prodotti, e si muove dai prodotti a ciò che ne è l’origine, allora si scoprono cose interessanti. Ad esempio il ruolo dell’istinto nella generazione delle idee.
Vi sono entro di noi certe forze alle quali noi non abbiamo assegnato parte veruna nell’origine delle nostre idee, e le quali anzi si considerano come estranie all’intelletto; e tuttavia se scrutiamo i fatti, troviamo essere state coefficienti potentissimi d’ogni nostro lavoro scientifico.
Considerate l’istinto. L’istinto è la facultà di compiere certi atti senza previa cognizione. L’istinto è l’azione senza l’idea. È una facultà che perciò appunto può dirsi estranea all’intelletto. Eppure molti delli istinti nostri non possono dirsi superflui ed indifferenti alla complessiva elaborazione del nostro sapere.
(Psicologia delle menti associate)
Allora, la scienza non è il frutto anche dell’istinto sociale, con cui un uomo si lega all’altro, anche ad un altro vissuto in tempi passati?
All’elaborazione della scienza non basterebbero, dunque, tutte le facultà dell’intelletto, se l’uomo non fosse già per istinto di natura un essere socievole. Ecco, dunque, l’istinto entrare nell’opera scientifica come un necessario coefficiente. E v’entrano altri istinti. V’entra quel bisogno di comunicare altrui i propri sentimenti e pensieri… Quindi lo spontaneo sforzo d’imparar la parola e di formarla: lavoro che noi andiamo proseguendo coll’imporre un nuovo vocabolo ad ogni nuova scoperta.
V’entra quello dell’imitazione… che è di supremo momento, non solo alla formazione della parola, ma in tutte le arti. E questo medesimo istinto imitativo, combinato ad altri, ci spiega il fatto della tradizione domestica e della tradizione scientifica, onde proviene l’associazione delli avi ai posteri, dei maestri alli allievi, e la perpetua successione nell’immortale opera del sapere. E vi sono altri istinti che possono svolgersi solamente in seno alla società. E son quelli che la scôla scozzese chiama istinti morali e che altre scôle preferiscono chiamare piuttosto col nome di sentimenti. Tale è la credulità, l’adesione all’amicizia e all’autorità, l’amor della lode, il terror dell’infamia.
(Psicologia delle menti associate)
Dunque, se ad esempio c’è stato un progresso nella considerazione dell’acqua da Talete a Lavoisier, è perché nei ventiquattro secoli trascorsi il lavoro di analisi degli antichi Greci è passato agli Arabi e da questi ai moderni, che, piú attrezzati sul piano dell’indagine analitica, hanno scoperto una verità di livello piú profondo.
La scoperta dei componenti dell’acqua era un ultimo gradino in una lunga scala dei pensieri, a edificar la quale avevano collaborato molte generazioni. Essa non era l’opera delle facultà solitarie di un uomo, bensí quella delle facultà associate di piú individui e di piú nazioni.
(Psicologia delle menti associate)
Pertanto lo studio dell’uomo, del pensiero dell’uomo, come quello della civiltà, dev’essere concepito come studio delle analisi delle menti associate.
Per analisi delle menti associate, intendo dire quelle grandi analisi le quali si vennero continuando per collaborazione, talora mutuamente ignote, di piú pensatori in diversi luoghi e tempi e modi, e con diversi fini e diverse condizioni e preparazioni.
(Psicologia delle menti associate)
Si consideri quest’esempio. L’uomo comune, come l’uomo primitivo, contempla la luna e ne segue le variazioni nel tempo. Ma quando la si osserva col telescopio, si compie un atto di analisi, cioè “un atto con cui la mente distingue le parti di un tutto”. Ma – è qui il punto –
l’occhio non poteva trovarsi armato (del telescopio) e guidato, se non in virtú di una lenta preparazione della vita sociale. Quell’atto è l’ultima risultanza del lavoro delli avi e dei posteri: essa è l’opera di piú generazioni associate.
(Psicologia delle menti associate)
Tuttavia capita che in uno stesso tempo una nazione vede analiticamente piú cose, un’altra compie meno progressi, o addirittura conserva un modo primitivo di vedere. Ciò avviene proprio perché la conoscenza analitica è sempre un prodotto sociale. Là dove la società è meno progredita, anche l’analisi, che come funzione primitiva è propria e tutta intera di ogni individuo, in quanto modo d’osservazione scientifica è meno progredita, e dà risultati meno perfetti e meno compiuti che altrove. Infatti son le condizioni sociali che sollecitano oppure inibiscono l’attenzione analitica su certi fenomeni.
Il livello culturale di una nazione non dipende tanto dalla qualità delle scoperte, quanto dalla qualità e quantità delle ricerche. E queste, in certe società, non sono “libere”, come non lo erano in certe antiche nazioni, in cui “molte cose erano inaccessibili, molte parvero funeste ed empie”.
Questo discorso sulle componenti sociali che determinano la ricerca scientifica apre poi un’altra serie di problemi su cui indagare. Infatti, posto che “l’atto piú sociale delli uomini è il pensiero”, poiché congiunge “sovente in un’idea molte genti fra loro ignote e molte generazioni”, bisognerebbe studiare “come e donde in seno a quell’istintiva e spontanea associazione delle menti possa l’analisi attingere una piú eccelsa iniziativa” e “come ora espanda, ora costringa, la sua libera attività”.
Ma soprattutto,
dacché questa facultà deve considerarsi come essenziale all’intelletto, giova studiare come, ciò non ostante, la libera analisi non abbia potuto attuarsi in tutto il genere umano. Giova studiare come, presso molti popoli, le forze analitiche, dopo una rapida emancipazione, abbiano potuto ricadere in lunga servitú; come nessuna nazione abbia saputo finora serbare continuamente vivo e libero il corso dei suoi pensieri; come molte nazioni siano spante, quasi meteore, senza lasciare eredità di un’idea; come ogni società, senza avvedersi, prefigga a se stessa i limiti della sua sfera d’analisi; come noi medesimi, che qui ci aduniamo in nome della scienza viva, non tutti ancora possiamo, sciolti da ogni precedente nostro od altrui, stendere egualmente la mano a tutti i rami dell’arbore scientifico. La libera analisi è uno dei piú grandi interessi morali e materiali del genere umano. La filosofia deve proporsi uno studio fondamentale: l’analisi della libera analisi.
(Psicologia delle menti associate)
Si consideri dunque “l’analisi per sé, com’essa proceda tanto nell’individuo quanto nelle menti associate”. Essa è un andare in profondità, un cogliere evidenze piú nascoste; ma non separandole dal tutto; anzi queste conoscenze piú profonde servono per chiarire il tutto.
Andare in profondità significa pure riuscire a scoprire la legge che unifica fatti apparentemente sconnessi e incomponibili, come appare manifesto
quando l’analisi ha quella veste astratta e universale che le danno le formule algebriche. Poiché quella veste commune rende comparabili fra loro anche concetti che a prima vista potevano apparir privi d’ogni intima relazione. E cosí nella confusione del superficiale e del vario, la mente può discernere l’identico, il costante, l’essenziale, il certo.
(Psicologia delle menti associate)
Analisi significa insomma superare l’incanto dell’evidenza immediata, “procedere dalle cose piú ovvie ed evidenti alle piú astruse”; significa cioè scoprire, dietro e al di là di ciò che ci è immediatamente noto, qualcosa d’ignoto.
Il suo metodo specifico è quello dell’astrazione. Il che significa anche che “ogni piú sottile astrazione è sempre opera d’analisi”.
Sicché, in sintesi:
Un’analisi può dirsi intera, quando con certa equabile profondità si estende a tutto un certo campo di osservazione; cioè a un dato essere o fenomeno, o complesso di esseri o fenomeni, e a tutte le loro parti, qualità e relazioni, entro quella misura e secondo quel fine che l’osservatore si prefigge.
(Psicologia delle menti associate)
Ma qui è il problema, per cui è insufficiente il discorso dell’analisi “in sé”. Su quale base l’osservatore stabilisce la misura, il limite, l’oggetto dell’analisi? È egli libero, incondizionato, nel determinare queste cose? No. Egli è limitato e guidato dalle condizioni naturali e da quelle sociali, come l’esame delle condizioni umane primitive dimostra.
Cosí è. Alle evoluzioni della potenza analitica hanno parte la natura e la società. E come sono esse le cause che la destano, cosí sono parimenti le cause che possono renderla perpetuamente inerte.
(Psicologia delle menti associate)
La natura anzitutto:
La natura aveva già stabilito fra una gente e l’altra una disparità di condizioni, secondo la disparità delle cose utili o nocive e dei luoghi e dei climi. Le singole genti nelle loro singole patrie non potevano avvedersi se non di ciò che ella vi avesse posto. La presenza di certi frutti ovviamente alimentari e di certi animali o piú mansueti o piú feroci, il complesso d’una terra o d’un clima, d’una flora e d’una fauna, dettavano adunque agli aborigeni una serie di atti di attenzione coordinata alla serie delle piú immediate necessità; e tanto quivi inevitabile quanto impossibile altrove. E cosí gli aborigeni dovevano costituire nelle singole regioni native le singole parti d’una superficiale analisi dispersa a frammenti su tutta la terra abitata. La rimanente natura giacque inosservata e indistinta. Era pel genere umano come s’ella non fosse.
(Psicologia delle menti associate)
Quindi la società.
Quanto alla società, comunque isolata e misera, questi singoli frammenti d’osservazione dovevano nel suo seno sopravvivere all’individuo. Ciò che l’infante, per necessità di convivenza e per cieca imitazione apprendeva, doveva apparire come l’ordine necessario, ed unico possibile della vita. Cosí nasceva la tradizione, involontaria, spontanea, irriflessiva ma imperiosa già fin da allora com’essa è tuttavia per noi L’analisi non era libera. Ogni individuo non era piú costretto a cominciare da sé tutta la serie di quelle scoperte. Ma ogni mente entrava nella carriera del pensiero già impronta del pensiero altrui. L’analisi, nata serva della natura, crebbe serva della società
(Psicologia delle menti associate)
E sempre natura e società condizionano l’analisi, anche quando un individuo, un “genio”, spesso “per caso”, scopre un'”idea madre” che diventa l’origine di una nuova scienza, e l’analisi diventa “libera”, va “oltre la tradizione e contro la tradizione”, come nel caso di colui che cadendo in un fiume, si salvò appoggiandosi per istinto ad un tronco galleggiante e percepí l’idea madre dell’arte nautica, “vedendo nelle cose ciò che li altri non videro”. Cosí il genio individuale e il caso spiegano “come le nazioni abbiano potuto raggiungere un’idea forse piú astrusa, senza averne potuto percepire un’altra forse piú ovvia”, e come l’analisi in certe nazioni si diversifichi per qualità e risultati da quella di altre nazioni; ma sempre nel contesto dei condizionamenti specifici di natura e società di un certo popolo. Il pensiero dunque dev’essere studiato come fenomeno sociale. Assurdo è parlare, come fa Cartesio, di un puro e nudo spirito, fuori della tradizione e della società. Locke “dimostrò come la riflessione ne’ suoi piú alti sforzi ricevesse sussidio dal linguaggio. Or voi mi concederete, signori, che il linguaggio è la società”. “Ma la società coopera al pensiero dell’individuo in molti altri modi oltre il linguaggio”. Ad esempio: il pensiero s’alimenta col rapporto dialettico di opposizione degli spiriti che solo gli uomini viventi in relazione sociale possono realizzare. Tutte le piú alte prove della scienza e della virtú si svolgono negli accordi e disaccordi degli uomini posti fra loro in intima relazione. Ciò hanno mostrato Vico ed Hegel. È nelle famiglie, nelle classi, nei popoli che si attua quella “antitesi delle menti associate” che è “quell’atto col quale uno o piú individui, nello sforzarsi a negare un’idea, vengono a percepire una nuova idea, ovvero quell’atto col quale uno o piú individui, nel percepire una nuova idea, vengono, anche inconsciamente, a negare un’altra idea”. È nel rapporto sociale che nascono quelle passioni che originano i ragionamenti (“Nei conflitti della vita, il ragionamento è l’arte reciproca di tutte le passioni”); è in questo rapporto che i “ragionatori”, “al cospetto della passione”, diventano “combattenti” in una lotta che “trascina ambe parti nel vortice della verità”, in una lotta che non è altro che un processo comune di analisi, un'”analisi delle menti associate”.
Ma tale dialettica delle menti deve esser tenuta sempre viva anche nei confronti del pensiero degli uomini del passato; bisogna verificarsi con essi perché solo cosí si evita la “chiusura nel proprio sistema”, e si genera il processo di arricchimento della verità. L’uomo, infatti, tende al “sistema” per necessità, cioè “perché vive in presenza di un unico universo, per la limitata natura del suo intelletto, e per l’unità della sua coscienza, e per l’identità delli universali, e per complessivo effetto di tutte le operazioni riflessive”. Ma non deve assolutizzare il suo sistema, come non deve assolutizzare quello ricevuto dagli antenati: “miseri i figli che temono d’essere migliori dei loro padri; le dottrine piú audaci sono ridutte dal tempo ad aride regole, a formule viete, a consuetudini stupide e servili”. “I sistemi – dice Cattaneo – devono tenersi sempre aperti, un sistema compiuto e chiuso diviene sepolcro dell’intelligenza e della virtú che lo ha tessuto”. Bisogna dunque “agitare e rinnovare i sistemi”, “scuotere ogni giogo d’autorità”, “seguendo risolutamente e impavidamente l’unico lume dell’esperienza e della ragione”. Solo cosí si attua il progresso della civiltà: “Il progresso, nella proporzione medesima con cui fornisce nuove idee, fornisce anche nuova occupazione all’intelletto, tiene in esercizio forzoso le nostre facultà morali e le spinge a continuo perfezionamento”.
GIUSEPPE FERRARI
LA VITA
Giuseppe Ferrari nacque a Milano il 7 marzo 1811 e si spense a Roma nella notte tra l’1 e il 2 luglio 1876. Prima avvocato, passò poi completamente agli studi filosofici, considerando come proprio maestro Romagnosi. Per alcuni anni studiò Vico, delle cui opere fu anche editore; spirito irrequieto, proteso verso l’azione, le lotte e i contrasti ideali, Ferrari trovò in Francia, ove si recò nel 1838, un ambiente consono al suo spirito. Il pensiero e l’atteggiamento politico di Ferrari ruotavano attorno al principio di libertà ed uguaglianza sociale e all’idea di federalismo repubblicano e democratico come unica forma di soluzione del problema italiano del Risorgimento. Il federalismo per Ferrari si doveva manifestare nell’assetto da dare all’Italia libera, ma per raggiungere questo era necessario che vi fosse un’unione rivoluzionaria. Egli fu però contrario al principio dell'”Italia farà da sè”, perché ritenne necessario l’intervento francese in Italia: le delusioni del 1848 esasperarono le sue idee federaliste, repubblicane e radicali e dal 1852 al 1859 si raccolse negli studi. Nel problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, come non partecipò dell’entusiasmo per Pio IX, così non approvò né la formula di Cavour, né il pensiero di Mazzini, e auspicava una completa indipendenza del moderno stato italiano da ogni legame religioso. Non fu nemmeno un uomo di governo; ebbe però un grande interesse per la vita politica, così che rientrato in Italia nel 1859 ed eletto deputato per il collegio di Luino, partecipò per molti anni ai dibattiti parlamentari. Sedeva sui banchi della sinistra, in realtà fu un isolato della tenace idea del federalismo. Cavour, Minghetti, Crispi, riconoscendone il valore e l’onesta sincerità lo stimavano, ma in fondo vedevano in lui il superstite di una corrente politica sconfitta. Fu però favorevole a una Roma capitale e, nonostante il suo federalismo, votò per la convenzione di Settembre; nel maggio del 1873 propose che la soppressione delle corporazioni non si restringesse entro i confini della legge. Prese parte soprattutto alle discussioni economiche, sociali ed amministrative e i meriti scientifici di Ferrari ottennero ampi riconoscimenti ufficiali: ebbe una cattedra universitaria a Milano e tenne corsi liberi a Torino e a Pisa.
IL PENSIERO
Echi non irrilevanti ebbero le tematiche dei positivisti francesi nel pensiero di Giuseppe Ferrari (1811-1876), filosofo e pensatore politico, costretto ad un ventennale esilio appunto in Francia, e divenuto, dopo il rientro in Italia in seguito alla proclamazione del Regno, deputato e docente all’Università di Milano. Della sua ricca produzione culturale sono da ricordare gli scritti Filosofia della rivoluzione (1851), Corso sugli scrittori politici italiani (1862), Prolusione al corso di filosofia della storia (1862), Teoria dei periodi politici (1874), Saggio sul principio e sui limiti della filosofia della storia (1843). L’umanità – egli sostiene in tono positivistico – passata attraverso l’età della religione e quella della metafisica, ha compiuto, con la Rivoluzione Francese, il passo decisivo verso l’«età della rivoluzione». La filosofia ha il compito dunque di spazzar via il rigurgito di spiritualismo, verificatosi dopo gli eventi rivoluzionari francesi, e le nostalgie dell’astrattismo logico, per affermare l’insostituibilità del «fatto positivo» nella formazione della conoscenza e nell’organizzazione sociale. Deve sostituire la «rivelazione naturale», cioè l’osservazione empirica dei fatti, alla «rivelazione religiosa», aprendo cosí la strada al definitivo predominio della scienza in una società fondata sull’uguaglianza, sul socialismo e sulla democrazia; in una società in cui non vi siano piú chiese né religione, e in cui non sussista piú la sovranità della proprietà privata, difesa con vigore dai borghesi e produttrice di squilibri e disuguaglianze sociali. Da questi elementi si evince come, accanto a quella esercitata dal positivismo, fu decisiva su Ferrari l’influenza del socialismo utopistico, in particolare quello di Proudhon (col quale fu in rapporti). Primo editore delle opere di Giambattista Vico, Ferrari fu il primo pensatore a considerare sensu stricto la storia come scienza. La Rivoluzione francese – nota Ferrari – è rimasta incompiuta: per farla proseguire, occorre tener saldo, contro ogni forma di spiritualismo, il presupposto del sensismo illuministico, secondo il quale la base della certezza sta nei fatti, ovvero in ciò che si vede e si sente. Sicché un pensiero che si proponga di travalicare il dominio dei fatti, è per ciò stesso illegittimo, giacché si trasforma in una “logica” astratta, disancorata dall’esperienza e dunque tale da produrre errori e da indurre a credere che ciò che appare ai sensi sia solo parvenza. Proprio in ciò è racchiusa la genesi delle erronee costruzioni metafisiche. Il puro pensiero genera contraddizioni, ma ciò è semplicemente il segno della sua incapacità di cogliere la realtà e la vita, che è movimento e individualità. Se ne deve allora trarre la conseguenza che “poiché la ragione non afferra la vita, tanto peggio per la ragione”. Il programma di Ferrari si risolve allora in un tentativo di “riconquistare il fatto”, subordinando il pensiero all’esperienza. Alla rivelazione divina, egli contrappone la rivelazione naturale, la quale consiste nell’intuizione diretta dei fatti: essa ci rivela la nostra vita e, insieme, quella degli altri. La verità sta nell’istinto che ci guida e ci governa, noi non siamo mai del tutto consapevoli del nostro operare: si tratta allora di vivere come se ci fosse un fine. Ferrari è convinto che l’umanità cammini lungo la strada di un progresso inarrestabile orientato verso l’epoca della rivoluzione, che sarà caratterizzata dall’instaurazione del dominio della scienza e dell’uguaglianza. Essa procederà oltre le conquiste della rivoluzione francese, eliminando le chiese, riequilibrando le ricchezze e stabilendo una democrazia egualitaria. Mediante la scienza, sarà possibile sopperire ai bisogni del proletariato, liberandolo dalla fame e dalle malattie e provvedendo alla sua educazione. Il governo stesso si dovrà ridurre all’amministrazione di un popolo, che si organizzerà attraverso libere associazioni. In queste conclusioni, il pensiero elaborato da Ferrari è assai vicino a quello di Proudhon.
FERDINAND TÖNNIES
Se nella cultura francese e inglese il modello positivistico di marca comteana e spenceriana aveva diffusamente influenzato lo sviluppo della sociologia e delle altre "scienze sociali", in Germania queste erano state in buona parte ricomprese nell’ambito delle scienze storiche e per lo più ritenute come discipline ausiliarie in vista di una spiegazione su basi storiche. Un fulgido esempio della situazione culturale tedesca è, in questo senso, quello di Ferdinand Tönnies (1855-1936), che nella sua celeberrima opera del 1887, Comunità e società (Gemeinschaft und Gesellschaft), delinea due tipi alternativi di associazione, incentrati l’uno su un rapporto immediato, l’altro su un rapporto artificiale. Il primo è definito in termini organicistici, il secondo sulla base di un modello meccanicistico. Questi due diversi modelli, che rispondono ad un’esigenza analitica, si presentano anche come termini di un’alternativa storiografica alla quale deve essere ricondotta la molteplicità storica delle formazioni sociali nelle successive fasi del loro svilupparsi. Anche quando la sociologia – nel primo Novecento – si avvierà a diventare una scienza formale, ossia che studia i rapporti sociali dal punto di vista delle forme di coesistenza fra gli uomini, la relazione tra scienze sociali e storiografia rimarrà un rapporto tra termini complementari, come nelle opere di Georg Simmel. Per Tönnies, organica è la comunità (Gemeinschaft), le cui forme embrionali emergono in seno alla famiglia nei rapporti tra madre e figlio, tra moglie e marito, tra fratelli, per estendersi poi ai rapporti di vicinato e di amicizia. Tali rapporti sono improntati a intimità, riconoscenza, condivisione di linguaggi, significati, abitudini, spazi,. Ricordi ed esperienze comuni. I vincoli di sangue (famiglia e parentela), di luogo (vicinato) e di spirito (amicizia) costituiscono delle totalità organiche – le comunità appunto – in cui gli uomini si sentono uniti in modo permanente da fattori che li rendono simili gli uni agli altri e al cui interno le disuguaglianze – ancorchè non siano appianate – possono svilupparsi solo entro certi limiti oltre i quali i rapporti diventano così rari e insignificanti da far scomparire gli elementi di comunanza e condivisione. All’interno della comunità, infatti, i rapporti non sono segmentati in termini di ruoli specializzati, ma comportano che i membri siano presenti con la totalità del loro essere. Nulla di tutto ciò avviene nell’ambito della società. Scrive a tal proposito Tönnies:
"La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono".
Nella società, gli individui vivono per conto loro, separati, in un rapporto di tensione con gli altri e ogni tentativo di entrare nella loro sfera privata viene percepito come un atto ostile di intrusione. Il rapporto societario tipico è il rapporto di scambio: nello scambio i contraenti non sono mai disposti a dare qualcosa di più rispetto a quel che ricevono; anzi, lo scambio avviene proprio perché ognuno ritiene di ricevere qualcosa che ha un valore maggiore di quello che cede, altrimenti non entrerebbe neppure nel rapporto. Venditori e compratori sono in rapporto di reciproca competizione, giacché i primi cercano di vendere al prezzo più alto possibile, mentre i secondi cercano di acquistare al prezzo più basso possibile. Il guadagno dell’uno è la perdita dell’altro. Il rapporto di scambio, poi, non mette in relazione individui nella loro totalità, ma soltanto le loro prestazioni; chi vende non è interessato al compratore come individuo, né all’impiego che questi farà del bene scambiato, ma solo alla sua capacità di pagare il prezzo stabilito. La società è dunque una costruzione artificiale e convenzionale, composta da individui separati, ognuno dei quali persegue il proprio interesse individuale, ed essa entra in gioco solamente come garante del fatto che le obbligazioni che i contraenti si sono assunte vengano onorate. Nella società, infine, tutti i rapporti tendono ad improntarsi al modello dei rapporti di scambio di mercato: nulla viene fatto senza attendersi una contropartita, sia nei rapporti interpersonali, sia nei rapporti tra individui e istituzioni. Fin troppo evidente appare la posizione ideologica di Tönnies: l’avvento della modernità, ovvero della Gesellschaft, è un processo inarrestabile e, tuttavia, rappresenta una perdita rispetto ai valori autentici di solidarietà che trovano una realizzazione compiuta soltanto nell’ambito della comunità. Questa vernice ideologica è però secondaria rispetto alla dicotomia instaurata da Tönnies fra comunità e società. Nel 1897 uscì un’importante studio di Tönnies su Nietzsche (Il culto di Nietzsche), in cui il sociologo tedesco metteva abilmente in luce il quadro culturale di fine Ottocento, dominato dalla figura di Nietzsche e dall’irrazionalismo da lui propugnato: il confronto con Nietzsche fu di importanza capitale per mettere a fuoco il contesto problematico al cui interno doveva operare la nuova disciplina sociologica. La scoperta dell'abisso su cui veniva dipanandosi la trama della razionalizzazione e della modernizzazione, del loro impatto potenzialmente disgregatore e nichilistico non soltanto sulla "tradizione" ma sulla stessa forma di civiltà da esse disegnata, fu la cifra comune dell'opera degli autori richiamati. Dei tre grandi padri fondatori della sociologia tedesca, Tönnies è certo colui che con maggior rigore e impegno tentò di definire il carattere progettuale della sociologia in una sostanziale aderenza con le ragioni e lo sviluppo dello stesso movimento operaio, in cui vedeva l'unico soggetto storico in grado di dare continuità ai caratteri progressivi della modernità. Si trattava evidentemente, per Tönnies, di un movimento operaio cui andavano sottratti i caratteri più inquietanti e turbolenti, che lo configuravano come portatore di guerra all'interno della società, e che andava ricondotto a quell'ideale della pace sociale in cui egli, hobbesianamente, vedeva il motore dello sviluppo moderno. Proprio la fedeltà di Tönnies alla lezione di Hobbes (cui dedicò studi fondamentali) rende ragione dell'impossibilità di una sua ascrizione al campo delle teorie sociologiche organicistiche. L'uguaglianza e l'"urto" delle individualità come tratti destinali del moderno costituiscono piuttosto la norma critica che la sociologia di Tönnies oppone a ogni rapporto fondato sull'ineguaglianza e sul dominio, anche e soprattutto di classe. Il libro dedicato al culto di Nietzsche, la prima interpretazione sociologica non tanto della sua filosofia quanto della straordinaria fortuna che essa conobbe in Germania sul finire dell'800, deve essere letto proprio su questo sfondo. Esso rappresenta infatti la resa dei conti con ogni immagine dell'individualità – quale è per Tönnies quella sottesa alla nietzscheana "morale dei signori" – che, nel recuperarne un'aura "aristocratica", ne giochi il mito contro la determinazione ugualitaria che dell'individualità stessa costituisce l'ineludibile condizione di pensabilità. E che non si arresta sulle soglie domestiche, se è vero che Tönnies delle dottrine etiche dell'ultimo Nietzsche non contesta solo il carattere "aristocratico" ma anche quello "androcratico".
RECENSIONE DI COMUNITA’ E SOCIETA’
La comunita' e' un rapporto reciproco sentito dai partecipanti, fondato su di una convivenza durevole, intima ed esclusiva.
La vita comunitaria e' sentita (implica comprensione, consensus), durevole, intima (confidenziale), esclusiva; al contrario, la vita societaria e' razionale, passeggera, apparente (come tipo di legame), pubblica.
Sono forme primitive di comunita':
– il rapporto madre-bambino;
– il rapporto uomo-donna;
– il rapporto tra fratelli.
Delle tre forme primitive di comunita', le prime due sono piu' istintive, la terza piu' umana.
COMUNITA' |
SOCIETA' |
antica |
recente |
convivenza durevole |
convivenza passeggera |
convivenza genuina |
convivenza apparente |
I rapporti di affermazione reciproca, se positivi, danno origine ad associazioni: la comunita' e' un'associazione organica (sentita dai partecipanti), la societa' e' un'associazione meccanica, artificiale e recente (pag.45). L'Autore distingue comunita' di lingua, di costume, di fede; societa' di profitto, di viaggi, di scienze (pag.46).
La societa' e' il pubblico, il mondo: "in una comunita' con i suoi una persona si trova dalla nascita, legata ad essi nel bene e nel male, mentre si va in societa' come in terra straniera" (pag.45). La societa' implica delimitazione dei campi di attivita' e prestazioni reciproche di pari entita' (concetti di scambio e valore).
La comunita' e' caratterizzata dal diritto familiare, la societa' dal diritto delle obbligazioni (pag.229). In societa' gli individui rimangono "separati nonostante tutti i legami" (pag.83).
Il potere nella societa' e' a vantaggio di chi lo detiene, nella comunita' e' finalizzato all'educazione ed all'insegnamento (pag.62).
rapporto materno |
istinto |
comunita' di sangue |
parentela |
casa |
padre |
giustizia |
dignita' dell'eta' |
rapporto coniugale |
abitudine |
comunita' di luogo |
vicinato |
villaggio |
principe |
forza |
dignita' ducale |
rapporto fraterno |
ricordo |
comunita' di spirito |
amicizia |
citta' |
maestro |
saggezza |
dignita' sacerdotale |
La volonta' comunitaria implica comprensione (consensus, che ha natura singola) e concordia (unita' di cuore, che ha natura complessiva). La comprensione deriva dalla conoscenza reciproca che a sua volta richiede partecipazione e quindi vita comune, e richiede anche somiglianza (linguaggio).
Sono leggi fondamentali della comunita':
– l'assuefazione (parenti, coniugi, vicini, amici);
– la comprensione;
– la vita comune (concordia).
La comprensione e' tacita, "la concordia non puo' venire costruita" (pag.65).
La comunita' e' unita' nel differente (pag.61), in essa le diseguaglianze reali non possono pero' essere troppo accentuate.
L'amicizia si fonda su un modo di pensare concorde e dalla comunanza di arti e professioni; i compagni d'arte sono compagni di fede e cooperano ad una stessa opera (pag.58). I rapporti di amicizia sono i meno istintivi e i meno condizionati dall'abitudine.
L'uomo si lega con le proprie opere, con il territorio, con la casa (pag.67): possesso e godimento reciproco di beni comuni caratterizzano la vita comunitaria (pag.66).
LOUIS DE BONALD
Dopo aver salutato con entusiasmo gli esordi della rivoluzione dell’89, il visconte Louis de Bonald (1754-1840) fu eletto nel 1790 membro dell’Assemblea nazionale. Tuttavia, in seguito alla vendita dei beni ecclesiastici (1791) e alla Costituzione civile del clero, egli si trasferì in Germania – ad Heidelberg – e solamente nel 1797 rientrò a Parigi in virtù della mutata situazione politica. Bonald fu gradito al regime napoleonico, ma nel 1815 venne eletto deputato della destra ultra, cominciò a scrivere su giornali conservatori e – nel 1823 – fu nominato Pari di Francia. In seguito alla Rivoluzione di luglio del 1830 e l’instaurazione della monarchia di Luigi Filippo, Bonald abbandonò le cariche e si ritirò in provincia: qui morì nel 1840. Le sue opere più importanti, degne di essere menzionate, sono la Teoria del potere politico e religioso (1795) – la cui diffusione venne arrestata a Parigi su ordine del Direttorio -, il Saggio analitico sulle leggi naturali dell’ordine sociale (1800), la Legislazione primitiva (1802) e la Dimostrazione filosofica del principio costitutivo della società (1830). A partire dalla Teoria del potere politico e religioso, Bonald critica aspramente la pretesa tipica dell’uomo di ergersi a legislatore della società, giacché è la società (politica e religiosa) a costituire l’uomo, e non viceversa (Marx ribalterà questa posizione). In opposizione all’esaltazione illuministica dell’individuo e dei diritti che gli spettano, Bonald mette l’accento su come l’uomo esista solo per la società, il cui obiettivo è quello di conservare quel che è stato prodotto. Ma tale scopo di conservazione può essere garantito solamente dalla monarchia, nella quale il potere è concentrato e non suddiviso: solo in forza di questo potere unitario è garantita la sussistenza della società. Sotto questo profilo, la rivoluzione, con le sue conseguenze democratiche che frantumano il potere unitario attribuendolo ad una miriade di individui ritenuti uguali, è una grave malattia, che però Bonald legge come punto di partenza per una migliore salute. Infatti la rivoluzione stessa è una specie di prova dell’esistenza di Dio, poiché mette in luce come l’eliminazione della religione conduca alla distruzione della società. L’ambito religioso e quello politico sono, agli occhi di Bonald, indisgiungibili. Al binomio meramente negativo rappresentato dalla democrazia e dall’ateismo, si contrappone il binomio positivo incentrato su monarchia e religione. Nell’opera sulla Legislazione primitiva, Bonald mette in chiaro come ogni società non sia il risultato di un contratto – come invece pretendeva Rousseau -, ma piuttosto costituisca una sorta di trinità, composta di tre persone sociali: potere, ministro, soggetto. Nella società domestica, ovvero nella famiglia, queste tre persone sono il padre, la madre e i figli. Nella società religiosa, le tre persone sono Dio, i sacerdoti e i fedeli. Nella società politica, esse sono il sovrano, i nobili (o i funzionari pubblici) e i sudditi (o i popoli). Ma in senso originario il potere risiede unicamente in Dio: l’unità è pertanto il contrassegno costitutivo del potere, mentre molteplici sono i ministri che ne eseguono la volontà. Il linguaggio di cui l’uomo dispone non fa altro che provare l’esistenza di Dio: l’uomo, infatti, trova il linguaggio già costituito ancor prima di formulare il proprio pensiero, cosicché i segni del linguaggio non possono essere stati inventati dall’uomo. Per inventarli, infatti, occorrerebbe pensare, ma non si può pensare facendo a meno di essi: ne segue che l’uomo ha potuto e può pensare poiché si è trovato dinanzi ad un linguaggio già costituito. Cade qui la tesi convenzionalista, secondo cui il linguaggio è una mera invenzione umana: viceversa, l’essere sociale dell’uomo presuppone il linguaggio, che, per essere spiegato, richiede il riferimento ad un essere diverso dall’uomo: tale è Dio, che ha creato l’uomo parlante. Nel pensiero di tutti gli uomini (articolantesi nel linguaggio) è in origine presente l’idea dell’essere, che coincide con l’idea stessa di Dio e che sta alla base di tutte le altre idee, specialmente di quelle morali, sociali e politiche. E’ però assolutamente impossibile che l’uomo abbia inventato l’idea di Dio o di tutto ciò che esiste. Sfruttando al meglio la tematica del linguaggio, Bonald chiarisce il rapporto intercorrente tra sudditi e sovrano: tale rapporto si fonda sulla relazione tra parola e ascolto, dove ascolto equivale a obbedienza (il sovrano detta legge e i sudditi obbediscono). La legge non è se non la volontà di Dio enunciata in linguaggio umano affinché sia intesa da altri uomini: ma alla base di ogni legislazione vi è la Sacra Scrittura, valida per tutti gli uomini. E’ Dio a comunicare agli uomini la verità attraverso la parola, la quale risveglia nella mente umana le idee innate che Dio stesso vi ha posto. Poiché non è la ragione individuale degli uomini ad inventare le idee, risulta a dir poco assurda la pretesa avanzata dagli Illuministi di fare dell’uomo il legislatore in grado di modificare in maniera radicale la società. Dopo il panorama caotico generato dalla rivoluzione, la società tenderà necessariamente a tornare al suo stato naturale, ossia ad applicare le leggi trasmesse da Dio mediante la società stessa, la quale sta al di sopra dell’individuo. In quest’ottica, il cattolicesimo assurge a religione richiesta dalla società stessa: la sua necessità è provata anche dalla storia, la quale è orientata a ristabilire – dopo i danni provocati dalla rivoluzione – l’unione della monarchia con la religione cattolica.
JOSEPH DE MAISTRE
INTRODUZIONE AL PENSIERO
Joseph-Marie de Maistre nacque a Chambery nel 1753 e ben presto entrò nella massoneria e fu al servizio della monarchia sabauda, che nel 1802 lo mandò in veste di plenipotenziario a Pietroburgo al cospetto dello zar Alessandro. Vi rimase fino al 1817, allorché – per via di forti dissensi con lo zar – venne richiamato a Torino, città in cui, l’anno seguente, fu nominato reggente della Grande Cancelleria del Regno. Le sue opere più importanti sono Sulla sovranità del popolo (1794) – rimasta incompiuta -, le Considerazioni sulla Francia (pubblicate anonime nel 1796), il Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre costituzioni (pubblicato senza che de Maistre lo sapesse nel 1814, a Parigi, da Louis de Bonald), Sul papa (1819), le Serate di San Pietroburgo (uscite nel 1821, poco dopo la morte dell’autore). Le travolgenti vicende della Rivoluzione francese paiono a Maistre come la più evidente conferma dell’agire della Provvidenza: da un lato, esse sembrano il meritato castigo per una nobiltà e un clero corrotti e, dall’altro lato, paiono la dimostrazione più lampante che la Provvidenza si serve degli uomini (anche dei giacobini) come strumenti per realizzare i propri fini imperscrutabili. La convinzione di fondo che percorre l’intera riflessione di Maistre è infatti che gli uomini non siano padroni delle proprie vicende e dei propri accadimenti: ciò pare del resto incontrovertibilmente provato dal fatto che, quando al Rivoluzione raggiunse l’apice della tirannide, ci volle poco per rovesciarla; il XVIII secolo si è presentato come rivolta contro Dio, il quale ha punito questo efferato delitto ritirandosi dalla storia, lasciando fare agli uomini. Proprio in virtù di ciò “il mondo andò in frantumi”, dice Maistre. L’imperdonabile errore commesso dalla filosofia moderna sta nel ritenere che tutto sia bene, mentre in realtà l’uomo è profondamente segnato dalla colpa del peccato originale e, in forza di ciò, nel mondo, dove ogni cosa è stravolta, v’è soltanto violenza, crudeltà, efferatezza, cosicché anche gli innocenti finiscono col pagare per i colpevoli. Nelle Serate di San Pietroburgo Maistre torna con rinnovato interesse sul problema del male e del dolore, asserendo che il vero male – quello di natura morale – è imputabile esclusivamente all’uomo, il quale impiega in maniera distorta la propria libertà, mentre il male fisico non è che la conseguenza di tale colpa. E’ soltanto il sacrificio a poter espiare le colpe di cui l’umanità si è macchiata, in primis il sacrificio di Cristo, ma poi anche quello degli innocenti che si fanno carico delle colpe e soffrono anche per i colpevoli. L’agire di Dio (che è l’unico e autentico padrone della storia) può apparire dispotico e crudele, ma ciò dipende solamente dalle colpe degli uomini, che rivendicano per se stessi una libertà assoluta. Maistre, in perfetta sintonia con Bonald, attacca duramente le teorie contrattualistiche e le vane pretese di creare una società nuova, tutte pretese chimeriche della dilagante mentalità illuministica e dei rivoluzionari, che confidavano esclusivamente nella ragion umana. La conclusione cui Maistre addiviene è che “il più grande flagello dell’universo è sempre stato in tutti i secoli ciò che chiamiamo filosofia”, ovvero l’umana ragione che agisce autonomamente e – presa da orgoglio – senza accompagnarsi alla fede, giungendo per tale via ad esiti esclusivamente distruttivi. Ne segue, allora, che la costituzione politica non può né deve essere opera dell’uomo e assumere artificiosamente una codificazione scritta, giacché l’uomo non può creare nulla e ciò vale non solo sul piano naturale, ma anche su quello morale e politico. La costituzione è, al contrario, il modo di esistere che un potere superiore (cioè divino) assegna a ciascuna nazione, cosicché il potere non può essere del popolo e l’unico modo di ricostruire la vera sovranità dipende da un potere unico e assoluto. La legge, infatti, è realmente tale se e solo se emana da una volontà superiore, non dalla volontà di tutti o dei più. Sicché la forma naturale di governo (quella che rispecchia il volere divino) è la monarchia, ove al potere del monarca non si possono porre limiti di alcun tipo. In antitesi con quel che credevano i rivoluzionari, il re può essere ucciso ma non legittimamente giudicato. Conseguentemente, la monarchia ereditaria, finalizzata a perpetuare il potere unico e assoluto, è la forma di governo avente la massima stabilità e il massimo vigore. Nell’opera Sul papa, Maistre accentua esponenzialmente la dimensione teocratica del suo pensiero, arrivando a sostenere l’urgente necessità di ripristinare il primato e la funzione universale che il papato aveva avuto nel Medioevo, in quanto unico potere superiore e infallibile, in grado di impedire alle monarchie stesse di degenerare in tirannidi e di ricostruire l’unità che è bene (di contro alla divisione, che è sempre male). Allo scritto Sul papa (pubblicato nel 1819, in pieno clima di restaurazione) arrise grande successo, a tal punto da avere cinquanta edizioni nel corso del XIX secolo: di fronte allo spettacolo della carneficina prodotta dalla Rivoluzione francese e, più in generale, dalla storia, paragonata a un immenso “mattatoio” (Hegel stesso ricorre a questo paragone), quand’è affidata alla sola ragione umana, Maistre presenta come unico salvifico rimedio il ripristino di un’autentica autorità indivisa, al di sopra dei monarchi stessi: il papa. Senza il papa, il cristianesimo stesso si riduce ad una credenza fra le tante, priva di potenza: il papa serve per mantenere l’unità della cristianità, anche nelle zone più periferiche. Non a caso Maistre lo paragona al Sole nel sistema dei pianeti, che tutto illumina e tutto alimenta: è “il grande demiurgo della civiltà universale”, in cui l’autorità spirituale infallibile e la sovranità temporale fanno tutt’uno. Una pari importanza alla figura del papa in sede politica sarà ammessa anche da Vincenzo Gioberti (anch’egli operante a Torino), che – nel 1842 – con lo scritto sul Primato civile e morale degli italiani prospetta come soluzione della questione italiana una confederazione di Stati, governati ciascuno dal proprio principe, sotto la guida morale del papa (il neoguelfismo): “l’opera del risorgimento é opera di educazione, bisogna promuovere un’altissima aspirazione idealistica, un ritorno alle tradizioni e ai valori, che in Italia sono quelli del cattolicesimo, ristabilire il dominio di quell’Idea, che in Italia sede del papato, ha la sua naturale dimora”.
BRANI ANTOLOGICI
Il potere dev’essere assoluto
Contro la concezione democratica del potere fondato sulla volontà del popolo, Joseph de Maistre ripropone la teoria del potere che viene da Dio, e in quanto tale assoluto e infallibile. Si noti la vicinanza con la dottrina di Hobbes: il potere deve essere assoluto o non può esistere.
[J. de Maistre, Del papa]
“Che non si è mai detto dell’infallibilità considerata sotto l’aspetto teologico!
Sarebbe difficile aggiunger nuovi argomenti a quelli che i difensori di quest’alta prerogativa hanno accumulato per appoggiarla sopra autorità incrollabili, e levarle d’attorno i fantasmi di cui l’han cinta i nemici del cristianesimo e dell’unità, nella speranza di renderla, se non altro, per lo meno odiosa.
Ma io non so se per questa grande questione, come per tante altre, sia stato abbastanza notato che le verità teologiche sono semplicemente delle verità generali, manifestate e divinizzate sul piano religioso, di modo che non si potrebbe assalirne una senza assalire anche una legge mondiale.
L’infallibilità nell’ordine spirituale, e la sovranità nell’ordine temporale, sono due parole perfettamente sinonime. L’una e l’altra esprimono quell’alto potere che ad ogni altro impera, da cui ogni altro deriva, che governa e non è governato, giudica e non è giudicato.
Quando noi diciamo che la Chiesa è infallibile, non chiediamo per essa – è essenzialissimo osservarlo – nessun privilegio particolare; chiediamo soltanto ch’ella goda del diritto comune a tutte le sovranità possibili, le quali agiscono tutte necessariamente come infallibili; perché tutti i governi sono assoluti; e non esisterebbero piú, quando si potesse loro resistere sotto pretesto d’errore o d’ingiustizia. […]
Lo stesso è per la Chiesa; in un modo o in un altro bisogna che sia governata, come qualunque altra associazione; altrimenti non vi sarebbe piú aggregazione, non insieme, non unità. Questo governo è dunque di sua natura infallibile, ossia assoluto, senza di che non governerebbe piú.
Nell’ordine giudiziario, che è una delle parti del governo, non è fuor di dubbio che bisogna assolutamente giungere a un potere che giudica e non è giudicato, precisamente perché sentenzia in nome del potere supremo di cui è ritenuto organo e voce?”
Le origini divine delle costituzioni
Joseph de Maistre paragona la critica di Cicerone alla dottrina atomistica di Epicuro con la sua critica all’idea, propria dei rivoluzionari, che le costituzioni possano essere scritte a priori, astrattamente.
[J. de Maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche]
“Notissimo è il paragone di Cicerone a proposito del sistema di Epicuro per il quale il mondo si costruisce con gli atomi che precipitano a caso nel vuoto. Sarebbe piú facile farmi credere, diceva il grande oratore, che lettere gettate in aria possano, cadendo, disporsi in modo da formare un poema. Migliaia di volte si è ripetuto e celebrato questo pensiero; ma nessuno ha pensato di completarlo come esso esige. Supponiamo che caratteri di stampa gettati a piene mani dall’alto di una torre formino in terra l’Athalie di Racine; che cosa ne deriverà? Che una intelligenza ha presieduto alla caduta ed alla disposizione dei caratteri. Il buon senso non concluderà mai diversamente […]
La costituzione è opera delle circostanze, ed il numero delle circostanze è infinito. Le leggi romane, le leggi ecclesiastiche, le leggi feudali, i costumi sassoni, normanni e danesi; i privilegi, i pregiudizi e le pretese di ogni genere, le guerre, le rivoluzioni, le conquiste, le crociate; tutte le virtú, tutti i vizi, tutte le conoscenze, tutti gli errori, tutte le passioni: tutti questi elementi, dunque confluendo insieme a formare con la loro mescolanza e reciproca unione combinazioni moltiplicate indefinitamente, hanno prodotto, dopo molti secoli, l’unità piú complessa ed il piú bell’equilibrio di forze politiche che si sia visto nel mondo […]
Ora, poiché questi elementi proiettati nello spazio si sono disposti in cosí bell’ordine, senza che tra l’innumerevole folla di uomini che hanno agito in questo vasto campo, uno soltanto abbia mai saputo ciò che faceva in rapporto al tutto, o previsto ciò che ne doveva conseguire, ne deriva che questi elementi erano guidati nella loro caduta da una mano infallibile, superiore all’uomo. La piú grande follia del secolo delle follie fu forse il credere che le leggi fondamentali potessero essere scritte a priori; mentre evidentemente sono opera di una forza superiore all’umana, e la stessa scrittura, molto posteriore, è, al paragone. il segno piú evidente della nostra negatività”.
La dignità del latino
Secondo Joseph de Maistre la grandezza della lingua latina è data dalla sua storia. I Romani le hanno impresso il senso della maestà. Essa poi è stata usata per civilizzare i barbari. Infine i grandi scienziati l’hanno usata per scrivere le loro opere.
[J. de Maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche]
“Niente uguaglia la dignità della lingua latina. Fu parlata dal popolo-re, il quale le impresse quel marchio di grandezza unico nella storia del linguaggio umano, che nessuna lingua, neppure la piú perfetta, è mai riuscita a conquistare. Il termine di maestà appartiene al latino. La Grecia l’ignora; ed è soltanto per la maestà che essa rimase inferiore a Roma, nelle lettere come sui campi di battaglia. Nata per comandare, questa lingua comanda ancora nei libri di coloro che la parlarono. È la lingua dei conquistatori romani e dei missionari della Chiesa romana: uomini che differiscono soltanto per lo scopo ed il risultato della loro azione. Per i primi si trattava di asservire, umiliare, sconvolgere il genere umano; i secondi venivano ad illuminarlo, risanarlo, salvarlo; ma si trattava sempre di vincere e di conquistare e, da una parte e dall’altra, si trova la stessa potenza. […]
È la lingua della civiltà. Mescolata a quella dei nostri padri, i Barbari, ha saputo affinare, ingentilire e, per cosí dire, spiritualizzare quei rozzi idiomi che soltanto cosí sono diventati quel che vediamo. Forti di questa lingua, gli inviati del Pontefice romano andarono incontro a quei popoli che piú non li avvicinavano. Dal giorno del loro battesimo, costoro non l’hanno piú dimenticata. Si dia uno sguardo a un mappamondo; la linea d’arresto di questa lingua universale segna i confini della civiltà e della fraternità europea; al di là troverete soltanto quella parentela umana che si trova fortunatamente dovunque. Il segno distintivo dello spirito europeo è la lingua latina. […]
Dopo essere stato lo strumento della civiltà, mancava al latino un solo genere di gloria, e lo conquistò, quando maturò il momento, divenendo la lingua della scienza. I geni creatori l’adottarono per comunicare al mondo i loro grandi pensieri. Copernico, Keplero, Descartes, Newton e cento altri ancora, importantissimi anche se meno celebri, hanno scritto in latino. Una enorme quantità di storici, pubblicisti, teologi, medici, antiquari, ecc., inondarono l’Europa di opere latine di ogni genere. Piacevoli poeti, letterati di prim’ordine restituirono alla lingua di Roma le antiche forme e la riportarono ad un grado di perfezione che non cessa di stupire gli uomini che paragonano i nuovi scrittori ai loro modelli. Tutte le altre lingue, per quanto studiate ed intese, tacciono tuttavia nei monumenti antichi, probabilmente per sempre.
Sola tra tutte le lingue morte, quella di Roma è veramente risuscitata; e, simile a colui che celebra dopo venti secoli, una volta risuscitata, non morirà piú”.
DAVID FRIEDRICH STRAUSS
Nell’ambito della Sinistra hegeliana, occupa un posto a sé la figura di David Friedrich Strauss (1808-1874), il quale prese parte in prima persona, per un certo periodo, alle lezioni di Hegel tenute a Berlino. Strauss si formò a Tubinga, studiando teologia con l’hegeliano Ferdinand Christian Baur, fondatore della scuola storico/critica di teologia. Proprio presso l’università di Tubinga, Strauss apprese ad applicare i metodi dell’analisi storica e filologica anche alle Sacre Scritture: in questo modo, egli preparò il terreno a quella che sarebbe stata la sua opera più famosa, la Vita di Gesù (1835). In quest’opera, destinata a fare epoca, egli sostiene l’ardita tesi secondo cui i Vangeli non sono un resoconto storico attendibile, ma piuttosto un mito, ossia un racconto liberamente creato sulla base delle impressioni prodotte da Gesù sui primi cristiani e sulle loro credenze e attese. In tale contesto, Gesù fu considerato il figlio di Dio, ovvero Dio stesso fattosi uomo; ma questa – nota Strauss – non è che una costruzione mitologica, che ciò non di meno esprime l’idea dell’unità del divino e dell’umano, dell’infinito e del finito (Cristo è infatti uomo e, insieme, Dio). Solo nell’umanità – argomenta Strauss – queste due dimensioni si congiungono. Se il contenuto del cristianesimo – che è la religione suprema – è mitico e ha la sua origine nell’immaginazione, allora la religione in quanto tale, in ogni sua forma, non può essere innalzata alla sfera del concetto mediante la filosofia, come aveva preteso Hegel. Affiora in questa maniera la scissione insanabile tra religione e filosofia, scissione che, secondo i sostenitori della Destra hegeliana, Hegel aveva voluto conciliare e sanare. Per questa via, Strauss avrebbe dunque finito con l’abbandonare sia il cristianesimo sia l’hegelismo, addivenendo a sostenere, in uno dei suoi ultimi scritti – L’antica e la nuova fede (1872) – una sorta di religione panteistica, in cui l’universo intero diventa oggetto di venerazione. Su queste basi, egli edificò una dottrina morale tale da identificare il dovere col rendersi conformi all’idea di umanità, stabilendo legami di solidarietà e amore fra gli uomini, legami fondati sullo Stato e sulla famiglia. Nella Vita di Gesù (opera significativamente recante lo stesso titolo di quella pubblicata a suo tempo da Hegel), Strauss sostiene, in netto contrasto con la tradizione, che la figura di Gesù sia il frutto dell’elaborazione mitologica dei cristiani; egli non mette in dubbio l’esistenza storica di Gesù, ma ciononostante è convinto che, paradossalmente, sia Gesù come elaborazione mitologica a derivare dal cristianesimo e non viceversa, come invece aveva sempre sostenuto concordemente la tradizione. Sulla scia di Hegel, Strauss sostiene la sostanziale identità dei messaggi veicolati dal cristianesimo e dalla filosofia; ciò che li distingue è però la forma, in quanto ciò che la religione sostiene nella forma immaginifica del mito, è dalla filosofia sostenuto tramite la superiore forma del concetto. Hegel stesso aveva dato di Cristo un’interpretazione alquanto filosofica, concependo l’incarnazione come momento della negazione (Dio, nel farsi uomo, si nega come Dio) volto a riscattare la finitudine umana; di conseguenza, Cristo non era se non il simbolo, in forma mitica, della conciliazione di finito e infinito. Similmente, Strauss sostiene che la filosofia è verità compiuta e dispiegata, designando invece la religione come rappresentazione mitica e immaginifica. Proprio sulla base di tale distinzione, Strauss ritiene opportuno distinguere tra il Cristo della fede e quello della storia: quello della storia è un uomo eccezionale; quello della fede è miticamente inteso come Dio fattosi uomo. Il problema che si para dinanzi a Strauss, quand’era vicario pastorale, è il seguente: predicando ai fedeli, quale linguaggio – quello storico o quello mitico? – occorre impiegare? Egli risponde che, di fronte ai fedeli, impiegherà quello mitico della religione (ossia quello che ricorre a miti quali la moltiplicazione dei pani), giacché il popolo non è sufficientemente preparato per recepire messaggi filosofici. La filosofia hegeliana si riverbera nella struttura stessa della Vita di Gesù di Strauss: questa, infatti, è suddivisa in tre parti, secondo una scansione che ricorda quella hegeliana della tesi, dell’antitesi e della sintesi. In particolare, nella prima parte dell’opera Strauss parla di Cristo in maniera mitica; nella seconda, invece, dimostra – sulla scia di Spinoza – l’inattendibilità storica delle vicende del Cristo narrate nelle Scritture, smascherando tanto gli errori più grossolani (come la trasformazione dell’acqua in vino) quanto gli scarti cronologici (ad esempio, il censimento di Augusto non corrisponde affatto con quanto si dice nelle Scritture). La rappresentazione mitica – asserisce Strauss – dev’essere ricondotta alla mentalità del tempo in cui fu prodotta, tenendo conto dell’impatto che la figura del Cristo ebbe sulla società di allora. Tenendo conto di ciò, quest’uomo eccezionale potrà essere definito come “il più divino degli uomini”, ancorché si tratti pur sempre di un uomo. Cristo allora non è che il campione morale della virtù:
“Questo ideale della perfezione morale, quale il comporta un essere cosmico dipendente da bisogni e da tendenze, non può essere concepito da noi che sotto le forme di un uomo; anzi, siccome noi non possiamo farci alcuna idea della potenza di una forza e quindi neanche della disposizione morale, se non a condizione di figurarcela lottante contro ostacoli e trionfante benché assalita d’ogni lato, questo ideale si presenterà a noi sotto la forma di un uomo pronto non solo a compiere egli stesso ogni dovere umano e a propagare il piú possibile con la sua dottrina e col maggior vantaggio del genere umano, e malgrado le seduzioni piú attive, ogni sorta di patimenti, fino alla morte piú ignominiosa”.
Scrive ancora Strauss, nella seconda parte della sua opera:
“La storia del Vangelo è, in sostanza, la storia della natura umana ridotta ad un concetto ideale; essa ci mostra nella vita di un individuo, ciò che l’uomo dev’essere, ciò ch’egli può realmente divenire unendosi a quell’individuo e seguendone la dottrina e l’ esempio”.
In questo senso, il mito di cui si avvale la religione per esprimersi non è mera impostura oscurantista (quale invece era per certo Illuminismo), ma è piuttosto la rappresentazione che la società del tempo aveva di se stessa e delle proprie vicende. Nell’ultima parte dell’opera, infine, Strauss presenta una conciliazione tra il Cristo della religione e quello della storia; ma, nonostante questo estremo tentativo compromissorio, egli fu espulso dalla facoltà. Dopo tale accadimento, egli non si preoccupò più della censura e, pertanto, acuì le proprie posizioni, negando ogni possibile conciliazione tra religione e filosofia e, inoltre, opponendosi tanto al potere politico vigente quanto a quello religioso. In questa nuova fase della sua produzione, Strauss sostiene che la filosofia è verità dispiegata e compiuta solamente qualora mantenga un atteggiamento critico nei confronti della realtà, senza cercare conciliazioni col reale. In questo modo, Hegel diventa bersaglio di critiche durissime, in forza del fatto che egli aveva presentato la filosofia come un qualcosa che nasce e che spicca il suo volo solo quando la realtà s’è già formata, cosicché il suo compito è soltanto quello di render conto del reale, senza mutarlo. Si tratta invece – dice Strauss (e con lui concorda tutta la Sinistra hegeliana) – di cambiare un reale che, così com’è, è tutto fuorché razionale; si tratta, per l’appunto, di far diventare razionale ciò che, di per sé, non è ancora tale.
MELCHIORRE GIOIA
Melchiorre Gioia era nato a Piacenza nel 1767 e morì a Milano nel 1829. Dopo studi in filosofia e teologia e diverse attività in ambito politico e pubblicistico, fu nominato nel 1801 storiografo della Repubblica Cisalpina e si dedicò a studi di economia e statistica. Mente enciclopedica e poliedrica, Gioia trattò tutti i problemi sociali del suo tempo. Dopo la restaurazione del governo austriaco a Milano, nel 1820, egli fu arrestato con Silvio Pellico e con Maroncelli, per poi essere liberato l’anno seguente: ciò non di meno, rimase sospetto al governo austriaco fino alla morte, avvenuta nel 1829. Fu autore di svariate opere, delle quali meritano sicuramente di essere ricordate il Nuovo Galateo (1802), il Trattato del merito e delle ricompense (1808-1809), l’Ideologia (1822) e la Filosofia della statistica (1826). Nella medicina legale è rimasto famoso per la nota regola del calzolaio: in un trattato di statistica essa anticipava il concetto della riduzione della capacità lavorativa specifica:
” … un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più che a fare una scarpa; voi gli dovete dare il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi …”.
Gioia ritiene che l’ideologia – non nel senso (marxiano) di coscienza capovolta, bensì in quello, propri degli ideologues, di scienza dell’origine e dello sviluppo delle idee – debba fondarsi su un metodo puramente descrittivo delle operazioni psichiche, senza alcun riferimento all’anima come causa produttrice di esse. In perfetta sintonia con il sensismo e in particolare con Condillac, Gioia rintraccia la base di tali operazioni nelle sensazioni reali, ma riconosce poi una funzione nel costituirsi delle idee anche a quelle immaginarie. Il privilegiamento del metodo descrittivo, connesso ai suoi spiccati interessi per la matematica, portano il filosofo piacentino a considerare la statistica come uno strumento imprescindibile per la raccolta e per la classificazione dei fatti, quantificati sulla base delle loro ricorrenze. In questa prospettiva, si capisce anche la marcata propensione di Gioia per l’aritmetica morale di Bentham, intesa come calcolo delle utilità in base ai piaceri e ai dolori prodotti dalle azioni, anche se egli è poi costretto a lamentare il fatto che, in sede morale, non è possibile effettuare calcoli e misure precise come avviene nelle scienze fisiche. Poco persuaso dalla “rivoluzione Copernicana” compiuta da Kant, Gioia lo liquidò con un motto di spirito: “l’Italia non s’inkanta”.
LANGE
A cura di Matteo Casu
Friedrich Albert Lange (1828-1875), filosofo e sociologo tedesco, nasce il 28 settembre 1828, a Wald, presso Solingen, figlio del teologo J. P. Lange. Studia a Duisburg, Zurigo e Bonn, dove si distingue sia negli studi sia nella ginnastica. Nel 1852 diviene rettore a Duisburg, ma si dimette quando il governo proibisce ai rettori di prendere posizione in agitazioni politiche. In seguito, Lange inizia la carriera di giornalista militante per la causa della riforma politica e sociale. Influente nelle questioni della sua città, trova svago nello scrivere molti dei suoi libri più celebri, Die Leibesitbungen (f 863), Die Arbeiterfrage (1865, 5th ed. 1894), Geschiichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart (1866; 7th ed. con cenni biografici di H. Cohen, 1902; Eng. trans., E. C. Thomas, 1877), e J. S. Mills Ansichten uber die sociale Frage (1866). Nel 1866, scoraggiato dagli eventi in Germania, si trasferisce a Winterthur, presso Zurigo, diventa collaboratore del giornale democratico Wintert/zurer Landbote. Nel 1869 è Privat Dozent a Zurigo, e professore l’anno dopo. Le forti simpatie francesi della Svizzera nella guerra franco-tedesca porta alle sue pronte dimissioni. Tempo dopo abbandona la politica. Nel 1872 accetta la docenza a Marburgo. Sfortunatamente, il suo vigore fisico viene già minato da un’epidemia, e, dopo una lenta agonia, muore a Marburgo, il 23 novembre 1875, ligio fino alla fine. Il suo Logische Studien è pubblicato da H.Cohen nel 1877 (II ed., 1894). Lange si occupa inizialmente di psicologia, partendo da posizioni herbartiane, dalle quali però si allontana presto, criticando in Herbart soprattutto l’uso della matematica nella filosofia. Il suo lavoro principale, la Storia del materialismo (Geschichte des Materialismus), scritto brillantemente e con ampia conoscenza scientifica, è più vicino al pensiero inglese di quanto sia solito in Germania, ed è più un’esposizione didattica di principi che una storia nel vero senso del termine. Adottando il punto di vista kantiano secondo cui possiamo conoscere solo i fenomeni, Lange sostiene che né il materialismo né altri sistemi metafisici abbiano un valido accesso alla verità ultima. Tuttavia, per la conoscenza empirica fenomenica, che è tutto ciò che l’uomo può cercare, il materialismo con i suoi precisi metodi scientifici ha dato il servizio più utile. La metafisica ideale, anche se non coglie la natura profonda delle cose, ha un valore come incarnazione delle alte aspirazioni, allo stesso modo della poesia e della religione. Lange si affermò come uno dei primi rappresentanti maggiori del neocritiscmo.
Secondo Lange, nella storia del pensiero prekantiano il materialismo è l’unica concezione fondata e coerente, è la condizione stessa che rende possibile una concezione scientifica della realtà. Ma dopo Kant il materialismo è diventato un principio metafisico, e come tale deve essere rifiutato al pari dell’idealismo. I fenomeni studiati dalla scienza sono relativi alla nostra percezione, la quale è a sua volta condizionata dalla nostra organizzazione mentale innata. Ne deriva la necessità, rispetto alla questione del materialismo, di rifarsi alla posizione di Kant, riconoscendo il suo aspetto positivo, cioè il determinismo dei fenomeni, e opponendosi alla pretesa speculativa di determinare la cosa in sé. Nello scritto Logische Studien di Lange, che tenta una ricostruzione della logica formale, l’idea portante è che il ragionare ha validità nella misura in cui può essere rappresentato in termini di spazio. Il suo Arbeiterf difende accesamente un’indefinita forma di socialismo, e protesta contro l’egoismo industriale contemporaneo, e contro l’organizzazione dell’industria sul principio darwiniano della lotta per la sopravvivenza.
La Germania ha prodotto pochi filosofi della stessa lucidità, giudizio e sincerità di Lange, della cui Storia del materialismo mantiene il suo valore di lavoro classico e di esempio di storiografia filosofica nonostante il cambiamento dei tempi e l’incremento di conoscenza. Lange, leader del neo-Kantismo, ha espresso il materialismo ma, d’altra parte, ci ha insegnato ad apprezzare i filosofi materialisti la cui indipendenza dalla tradizione idealista ha spesso ottenuto apprezzabili risultati ed è stata diretta da intuizione critica. Dopotutto, Lange distrusse il diffuso pregiudizio che l’adozione di visioni idealistiche in sede metafisica avrebbe garantito standard morali più alti di quelli raggiunti dalla condotta di vita di coloro che professavano il materialismo.
Prima che Lange pubblicasse la sua storia del materialismo, il suo libro Ansichten uber die sociale Frage creò agitazione nelle politiche sociali. Lange difendeva energicamente gli interessi dei lavoratori e le loro richieste politiche ed economiche, ed era desideroso di accrescere le loro condizioni culturali. Egli spesso discuteva con i primi leaders del socialismo tedesco, e molto spesso li sosteneva, parlando ai congressi da loro indetti. In particolare, interessato al pensiero e all’azione politica, si rese fautore di un socialismo etico, le cui matrici filosofiche erano essenzialmente in Kant e Schiller.
Egli cercò con onestà di unire democratici e socialisti tedeschi. La sua morte prematura fu pianta allo stesso modo da intellettuali e lavoratori.
Nella Storia del materialismo, Lange dimostra la necessità di rigettare e superare il materialismo grossolano perché esso pretende di derivare la conoscenza dal moto materiale. Dirigendosi verso uno spinoziano parallelismo psico-fisico, Lange afferma che l’esperienza immediata mostra il parallelismo tra ambito psichico e ambito fisico, distinti l’uno dall’altro ma uniti in una realtà assoluta. Questa realtà tuttavia sfugge alla nostra comprensione. Nessuno dei due ambiti è derivabile dall’esperienza: non quello psichico, perché la conoscenza non è un anello nella catena dell’esperienza, ma un suo aspetto interno; non quello fisico, perché l’esperienza è il risultato del nostro modo di percepire.
La materia, secondo Lange (che in questo segue Berkeley) è mera rappresentazione, pura sensazione, semplice “esser percepito”. Anche il nostro cervello e i nostri organi sensoriali esistono unicamente attraverso la nostra conoscenza di essi. Se noi percepiamo in un modo fissato, la ragione è perché così è la nostra “organizzazione”. È chiaro che una simile teoria della conoscenza non può avere relazioni con metafisica o religione.
ERNST TROELTSCH
A cura di IL DIOGENE
Ernst Troeltsch (1865 – 1923), teologo, filosofo e storico di grande cultura, si occupa soprattutto del rapporto tra storicismo e religione. Egli coglie ben presto i limiti delle due principali tendenze del pensiero a lui contemporaneo, ossia il naturalismo (a causa del suo esasperato determinismo) e lo storicismo (per via del suo nefasto relativismo): in tali tendenze crede di individuare i segni dell’indifferenza e della stanchezza che caratterizzano la sua epoca e a cui intende contrapporsi.
Secondo Troeltsch, storia e religione sono due termini antitetici. Da una parte, infatti, la conoscenza storica mette in evidenza il condizionamento di ogni forma di religione e la sua appartenenza a un processo di sviluppo; dall’altra, la religione pretende di valere universalmente. Questa contrapposizione dà origine a una crisi non soltanto della religione ma anche della teologia: la religione cristiana perde sempre più la propria base soprannaturale, mentre la sua giustificazione teologica si trova a fare i conti con la coscienza storica, la quale va vieppiù affinandosi. Troeltsch afferma che le religioni sono fatti storici individuali, storicamente condizionati, benché ci sia sempre la possibilità che certi eventi religiosi siano prodotti da fattori altrettanto religiosi (Weber arriverà a dire che certi eventi religiosi possono anche produrre fenomeni socio-economici). Questa indipendenza della religione dalla causalità naturale viene interpretata da Troeltsch come la presenza dell’infinito nel finito (col che egli, pur avendo di mira l’obiettivo di superare il relativismo storicistico, ricade nell’idealismo).
Il cristianesimo è considerato da Troeltsch non come l’unica religione valida, bensì come la religione più elevata: non quella che ha raggiunto la verità, ma quella che più le si avvicina. La possibilità della religione viene giustificata da un punto di vista formale con il richiamo alla teoria dei valori, e in particolare a Rickert, osservando che se è vero che le religioni sono molteplici, è vero anche che al loro interno sono individuabili verità o principi comuni nei quali gli uomini si riconoscono: sono quindi relative le forme storiche con cui le religioni si esprimono, ma non sono relativi i valori di cui esse sono portatrici. Troeltsch ha dunque preteso di respingere sia la soluzione positivistica che faceva della religione uno stadio primitivo dell’umanità, sia quella romantico-idealistica che vedeva nelle diverse religioni la realizzazione di un’essenza universale. Successivamente, per influsso di Weber, Troeltsch esaminerà i rapporti della religione da un punto di vista sociologico, rapportandola all’economia.
Secondo Troeltsch, il compito della filosofia del XX secolo è quello di portarsi al di là dello storicismo. Ciò era stato sottolineato anche dai neokantiani nella loro ricerca di nuove basi su cui fondare valori etici e conoscitivi. Ma, a differenza della “Scuola del Baden”, Troeltsch cerca di evitare il ricorso a valori soprastorici, riuscendo a trovare risposta ai problemi dello storicismo all’interno dello stesso storicismo.
Nelle forme mature della sua riflessione, ovvero nelle opere Lo storicismo e i suoi problemi e Lo storicismo e il suo superamento, Troeltsch traccia una strada che – a suo giudizio – permette di uscire dal relativismo e portare alla costruzione di nuovi valori. Essenzialmente, la proposta di Troeltsch poggia sul recupero della nozione romantica di “individualità”, che dovrebbe poter offrire, sia pur nella mutevolezza degli eventi, un punto di riferimento saldo e sicuro. Troeltsch osserva che se prendiamo in esame epoche diverse siamo costretti a riconoscere da una parte la relatività dei valori di ognuna di esse e dall’altra una sorta di ripetizione degli stessi valori, sia pur in forme sempre diverse. Nello scritto Lo storicismo e i suoi problemi, egli afferma che lo storicismo diviene la storicizzazione di ogni realtà (statale, religiosa, politica, culturale). La categoria fondamentale dello storicismo sarà allora quella di “totalità individuale” che corrisponde all’ unità autocentralizzata di Dilthey. Lo storicista deve trovare ciò che vi è di essenziale all’ interno della storia. I valori pur manifestandosi in forme diverse, soggiacciono ad un principio universale assoluto.
CESARE LOMBROSO
Cesare Lombroso nacque a Verona nel 1835. Incaricato di un corso sulle malattie mentali all’università di Pavia nel 1862, divenne in seguito (1871) direttore dell’ospedale psichiatrico di Pesaro e professore di igiene pubblica e medicina legale all’università di Torino (1876), di psichiatria (1896) e infine di antropologia criminale (1905). Morì a Torino nel 1909. Tra le sue opere più importanti, ricordiamo: La medicina legale dell’alienazione (1873); L’uomo criminale (1875); L’uomo delinquente (1876); L’antisemitismo e le scienze moderne (1894); Il crimine, causa e rimedi (1899), sintesi dei lavori precedenti.
La figura di Cesare Lombroso è emblema dell’influenza che il Positivismo francese e inglese esercitò anche in Italia, soprattutto nella forma evoluzionistica propugnata da Spencer. In Italia, il Positivismo attecchì soprattutto sull’onda del pur tardivo sviluppo industriale, che portò alla formazione di una nuova borghesia imprenditoriale: non stupisce allora se esso si affermò soprattutto negli studi di antropologia e di biologia.
Seguace e assertore del metodo positivistico, che lasciò una notevole traccia nelle varie branche medico-biologiche, Lombroso compì studi di medicina sociale che costituiscono una delle fonti principali della legislazione sanitaria italiana.
Ma il suo nome resta legato soprattutto all’antropologia criminale, di cui è ritenuto il fondatore, insieme con la “scuola positiva del diritto penale”, in cui influenzò le teorie poi sviluppate da E. Ferri.
Riallacciandosi alla dottrina di Galton, della criminalità innata e biologicamente condizionata, Lombroso sostenne che le condotte atipiche del delinquente o del genio sono condizionate, oltre che da componenti ambientali socioeconomiche (di cui non riconobbe però il vero peso), da fattori indipendenti dalla volontà, come l’ereditarietà e le malattie nervose, che diminuiscono la responsabilità del criminale in quanto questi è in primo luogo un malato. In particolare nell’opera L’uomo delinquente, Lombroso sostiene l’ardita tesi secondo cui i comportamenti criminali sarebbero determinati da predisposizioni di natura fisiologica, i quali spesso si rivelano anche esteriormente nella configurazione anatomica del cranio. L’idea che la criminalità sia connessa a particolari caratteristiche fisiche di una persona è molto antica: la si trova già, ad esempio, nell’Iliade di Omero, nel cui libro II la devianza di Tersite è direttamente legata alla sua bruttezza fisica; le stesse leggi del Medioevo sancivano che se due persone fossero state sospettate di un reato, delle due si sarebbe dovuta considerare colpevole la più deforme. Memore di questa tradizione, Lombroso è convinto che la costituzione fisica sia la più potente causa di criminalità: e, nella sua analisi, egli attribuisce particolare importanza al cranio. Studiando quello del brigante Vilella, rileva che nell’occipite, anziché una piccola cresta, c’è una fossa, alla quale dà il nome di “occipitale mediana”. La cresta occipitale interna del cranio, prima di raggiungere il grande foro occipitale, si divide talvolta in due rami laterali che circoscrivono una “fossetta cerebellare media o vormiense”, che dà ricetto al verme del cervelletto. Questa caratteristica anatomica del cranio è oggi chiamata fossetta di Lombroso: egli riteneva si trattasse di un carattere degenerativo più frequente negli alienati e nei delinquenti, che classificava in quattro categorie: i criminali nati (caratterizzati da peculiarità anatomiche, fisiologiche e psicologiche), i criminali alienati, i criminali occasionali e quelli professionali. Ma Lombroso non limita la propria indagine al cranio: considerando anche le altre parti del corpo umano, egli arriva a sostenere che il “delinquente nato” ha generalmente la testa piccola, la fronte sfuggente, gli zigomi pronunciati, gli occhi mobilissimi ed errabondi, le sopracciglia folte e ravvicinate, il naso torto, il viso pallido o giallo, la barba rada. Influenzato dalle teorie di Darwin, Lombroso sostiene poi che il “delinquente nato” presenta delle caratteristiche ataviche, ossia simili a quelle degli animali inferiori e dell’uomo primitivo; tali caratteristiche renderebbero difficile o addirittura impossibile il suo adattamento alla società moderna e lo spingerebbero sempre di nuovo a compiere reati. Nella prospettiva lombrosiana domina il determinismo più assoluto, per cui quel che si fa dipende necessariamente da ciò che si è: privo di ogni libertà, l’uomo agisce in maniera deterministica e necessitata. Anche in forza delle dure critiche a cui la sua teoria fu sottoposta, Lombroso andò via via correggendola, sempre più arretrando dal suo iniziale determinismo assoluto: egli arrivò a sostenere che i delinquenti nati fossero solo un terzo di coloro che infrangevano le norme e che ogni delitto aveva origine in una molteplicità di cause. Lombroso indicò anche le conseguenze giuridiche della propria dottrina: poiché il crimine non è il frutto di una libera scelta (il che striderebbe con l’adesione ai canoni del Positivismo), ma è piuttosto la manifestazione di una patologia organica, cioè di una malattia, allora la pena deve essere intesa non come una punizione (ché non ha senso punire chi non ha agito liberamente), ma semplicemente come strumento di tutela della società.
In Genio e follia (1864) Lombroso sostenne che le caratteristiche degli uomini di genio vanno ricercate nella loro anormalità psichica; quest’opera fu considerata un classico della scienza positivistica ed ebbe enorme fortuna. A Torino lo studio di Lombroso era presso la Facoltà di Medicina Legale, dove effettuò centinaia di autopsie sui corpi di criminali, prostitute e folli. Fondò poi il Museo di Antropologia Criminale di Torino, che raccoglie i materiali di tutte le sue ricerche (da cimeli a reperti biologici, da corpi di reato a disegni, da manoscritti a fotografie e strumenti scientifici). Così scrive Lombroso a riguardo dell’uomo-delinquente:
Uno studio antropologico sull’uomo delinquente, e particolarmente di quella sua varietà che chiamiamo delinquente – nato, deve di necessità prendere le mosse dai primi caratteri fisici fondamentali che si rilevano alla tavola anatomica, per passare a quelli che si riscontrano nei viventi. Ma la grande massa degli esaminati e la ristrettezza dello spazio, ci consigliano a darne solo un riassunto sommario.
1) La capacità cranica dei criminali misurata con pallini di piombo offre in media cifre inferiori alle normali, e con una seriazione diversa, cioè con un maggior numero di grandi, 1600-2000 c.c., e di piccole, 1100-1300 c.c., capacità: eccedono cioè nel troppo o nel troppo poco sugli onesti e sono inferiori sempre nelle cifre medie. Vi è prevalenza di capacità minime nei ladri; e quando le grandi capacità dei rei non sono effetto di idrocefalia, sono spesso giustificate da un’intelligenza maggiore del normale come in certi capibriganti: Minder-Kraft c.c. 1631, Pascal 1771, Lacenaire 1690.
Quanto alla circonferenza cranica i criminali sono nelle quote minime press’a poco pari o di poco superiori ai normali; nelle quote superiori manca ogni cifra nei ladri, e gli assassini sono o pari o superiori ai normali.
Cosí pure le cifre della semicirconferenza cranica anteriore e posteriore, della proiezione anteriore degli archi e delle curve craniche provano il maggior volume del cranio normale in confronto al criminale.
Tra i diametri, oltre al traverso ed al longitudinale che servono alla determinazione dell’indice cefalico, è importante il diametro frontale minimo ch’è inferiore nei criminali per rispetto ai normali e piú basso nei truffatori e borsaiuoli; esso rivela quindi, come la semicirconferenza cranica anteriore, il minor sviluppo della porzione frontale del cervello nei criminali.
I criminali presentano l’esagerazione degli indici etnici senza predominio dell’una o dell’altra forma in essi e secondo i vari reati. Etnicamente prevalgono i brachicefali nell’Italia settentrionale, i dolicocefali nell’Italia meridionale e insulare; è caratteristica l’iperdolicocefalia nella Sardegna, nella Garfagnana e Lunigiana (Lucchesia), nella Calabria e in Sicilia, e l’ultrabrachicefalia nel Piemonte e nel Veneto; però gli assassini avrebbero in molte regioni d’Italia l’indice cefalico piú elevato.
CHARLES DARWIN
“Per parte mia vorrei piuttosto esser disceso da quella piccola eroica scimmietta che sfidò il suo terribile nemico per salvare la vita del proprio guardiano, o da quel vecchio babuino che, discendendo dalle montagne, portò via trionfante un suo giovane compagno da una torma di cani stupiti, piuttosto che da un selvaggio che trae diletto a torturare i nemici, consuma sacrifici di sangue, pratica l’infanticidio senza rimorso, considera le mogli come schiave, non conosce il pudore ed è tormentato dalle piú grossolane superstizioni. ” (L’origine dell’uomo).
VITA E OPERE
A cura di R. Cattania
Charles Darwin nacque il 12 febbraio 1809 a Shrewsbury, cittadina vicina a Birmingham. Indirizzato dal padre agli studi di medicina, egli focalizzò ben presto i propri interessi sulla storia naturale e venne a conoscenza delle idee che iniziavano a circolare in zoologia e botanica, in particolare la teoria di Jean Baptiste Lamarck, che però non lo colpì in modo particolare. Alla fine del 1827, a causa dei deludenti risultati scolastici, il padre decise che Charles si sarebbe dedicato alla vita ecclesiastica e lo mandò a Cambridge per proseguire gli studi; qui frequentò lezioni di botanica, iniziò a collezionare e classificare insetti e apprese le prime conoscenze di geologia, partecipando a una breve spedizione geologica nel Galles del Nord. Il 21 dicembre 1831 s’imbarcò come naturalista sul brigantino Beagle, attrezzato per compiere ricerche scientifiche e rilevazioni geografiche: il viaggio intorno al mondo durerà fino al 2 ottobre 1836. Nel corso di questo viaggio, Darwin raccolse un’ingente quantità di materiale e compì numerose osservazioni: a ogni tappa scendeva a terra e conduceva esplorazioni all’interno, raccoglieva e catalogava campioni di specie animali e vegetali, di cui descriveva le abitudini. Nel 1839 pubblicherà, con il titolo Viaggio di un naturalista intorno al mondo, il diario di queste esplorazioni; ma già al ritorno in Inghilterra i resoconti che aveva inviato ai suoi corrispondenti lo avevano fatto conoscere negli ambienti scientifici.
Fu nel corso del viaggio sul Beagle e negli anni immediatamente successivi che Darwin, sulla base delle osservazioni compiute, giunse alla conclusione che le specie si modificano gradualmente; gli anni successivi saranno dedicati all’elaborazione della teoria dell’evoluzione, con un intenso lavoro di riflessioni e osservazioni. Particolare rilievo ebbe l’attività di raccolta di dati, tesa alla documentazione dei diversi aspetti della teoria, quali la distribuzione geografica delle specie, le leggi della variazione, la divergenza dei caratteri, l’estinzione delle specie meno adatte, e così via. Darwin dedicò otto anni al lavoro sistematico ai cirripedi, una classe di organismi ancora poco studiata; realizzò anche un allevamento di colombi, con razze provenienti da diverse parti del mondo, per studiarne somiglianze e differenze e condurre esperimenti di selezione artificiale. L’accettazione della teoria dell’evoluzione aveva infatti posto un problema: se le specie non sono state create così come le conosciamo da un Creatore divino, come spiegare il loro adattamento all’ambiente in cui vivono? La soluzione venne dall’analogia tra la selezione operata dall’uomo per migliorare le razze domestiche e quella che avviene in natura. La lettura del Saggio sul principio di popolazione di Thomas Robert Maltus gli suggerì il meccanismo attraverso cui la selezione agisce in natura: la lotta per la sopravvivenza.
Nel 1859, dopo oltre vent’anni di elaborazione, uscì On the Origin of Species by Means of Natural Selection (L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale); seguiranno anni di discussioni accanite e decise prese di posizione, con una sostanziale accettazione, nell’ambito scientifico, dell’idea di evoluzione, mentre maggiori resistenze incontrò il concetto di “selezione naturale”. Molto più decisa fu l’opposizione degli ambienti religiosi, che restavano legati all’interpretazione letterale della Bibbia, alla quale la dottrina darwiniana si opponeva in maniera radicale.
Darwin non si limitò a fornire innumerevoli prove dell’evoluzione come principio coordinante della storia della vita e a sviluppare la teoria della selezione naturale, ma diede contributi altrettanto importanti con i concetti di evoluzione ramificata, che implica la discendenza da un’origine comune di tutte le specie viventi, e di evoluzione graduale, contrapposta a quella a salti (mutazionismo). In seguito, Darwin affrontò anche il tema dell’origine dell’uomo: in Descent of Men and Selection in Relation to Sex (L’origine dell’uomo e la selezione sessuale) formulò la concezione naturalistica dell’uomo e illustrò il principio di continuità con gli animali. Si chiese anche quale fosse il valore da attribuire alle razze umane e giunse alla conclusione della discendenza da un unico ceppo comune, con successiva diversificazione: da qui l’introduzione del concetto di popolazione, che rende conto della variazione delle caratteristiche umane.
L’autore dell’Origine delle specie si preoccupò di elaborare una metodologia per la scienza della vita, che non può essere ridotta alle leggi della chimica e della fisica; egli può essere considerato il fondatore di un nuovo ramo della filosofia della scienza, la filosofia della biologia, che ha avuto una profonda influenza nello sviluppo del metodo scientifico in diverse discipline come la biologia evoluzionistica, la paleontologia, la geologia e la cosmologia. Altre opere di Darwin degne di essere ricordate sono Espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali e Le variazioni degli animali e delle piante allo stato domestico.
IL PENSIERO
A cura di G. Tortora
Dal suo viaggio, Darwin tornò con molti appunti e con la convinzione che in campo biologico c’è stata evoluzione delle specie nel corso del tempo: questo solo poteva spiegare la successione delle forme viventi in uno stesso luogo, documentata dall’esistenza di fossili, e la distribuzione attuale delle specie viventi. Ma tale convinzione doveva essere argomentata a dovere: bisognava studiare soprattutto la riproduzione e le leggi dell’adattamento all’ambiente da parte degli organismi viventi. Continuò cosí in patria la sua osservazione e procedette a varie sperimentazioni.
Evidentemente fatti come questi (cioè quelli osservati durante il viaggio) e molti altri si potevano spiegare supponendo che le specie si modificassero gradualmente; e questo pensiero mi ossessionava. Ma era ugualmente evidente che né l’azione delle condizioni ambientali, né la volontà degli organismi (specialmente nel caso delle piante) potevano servire a spiegare tutti quegli innumerevoli casi di organismi di ogni tipo mirabilmente adattati alle condizioni di vita…
Questi adattamenti mi avevano sempre vivamente colpito, e mi sembrava che finché essi non fossero stati spiegati sarebbe stato inutile cercare di dimostrare con prove indirette che le specie si sono modificate.
Dopo il mio ritorno in Inghilterra pensai che se avessi lavorato come aveva fatto Lyell nel campo della geologia, cioè raccogliendo tutti i fatti che hanno avuto relazione con la variazione degli animali e delle piante sia allo stato domestico sia in natura, avrei potuto portare qualche luce sull’argomento.
Lavorai secondo i principi baconiani, e, senza seguire alcuna teoria raccolsi quanti piú fatti mi fu possibile, specialmente quelli relativi alle forme domestiche, mandando formulari stampati, conversando con i piú abili giardinieri e allevatori di animali, e documentandomi con ampie letture.
(Autobiografia)
E proprio la documentazione relativa alle forme viventi domestiche gli fece balenare in mente la possibile soluzione. Giardinieri e allevatori ottengono variazioni nelle forme biologiche con la selezione artificiale; forse allora le variazioni verificatesi, nel corso del tempo, in natura sono dovute ad una selezione naturale.
Non tardai a rendermi conto che la selezione era la chiave con cui l’uomo era riuscito ad ottenere razze utili di animali e piante. Ma per qualche tempo mi rimase incomprensibile come la selezione si potesse applicare ad organismi viventi in natura.
(Autobiografia)
La conferma teorica del fatto che in natura agisce una legge generale di selezione naturale gli venne dalla lettura di un’opera che non rientrava immediatamente nell’orizzonte dei suoi interessi scientifici.
Nell’ottobre 1838 … lessi per diletto il libro di Malthus sulla Popolazione, e poiché, date le mie lunghe osservazioni sulle abitudini degli animali e delle piante, mi trovavo nella buona disposizione mentale per valutare la lotta per l’esistenza cui ogni essere è sottoposto, fui subito colpito dall’idea che, in tali condizioni, le variazioni vantaggiose tendessero ad essere conservate, e quelle sfavorevoli ad essere distrutte. Il risultato poteva essere la formazione di specie nuove. Avevo dunque ormai una teoria su cui lavorare.
(Autobiografia)
Sicché, riordinando le informazioni ch’egli aveva parzialmente raccolto e catalogato, arrivò alle seguenti conclusioni: la variazione delle condizioni ambientali e l’accrescimento numerico degli individui di una stessa specie pongono agli organismi viventi «problemi di adattamento»; essi vivono una vera «lotta per l’esistenza»; quelli che riescono a produrre in sé le variazioni (nella loro organizzazione biologica e nelle loro funzioni) adatte alle nuove condizioni, sopravvivono; quelli che non vi riescono arrivano fino all’estinzione; in quelli che sopravvivono i nuovi caratteri acquisiti, stabilizzatisi, si trasmettono «per ereditarietà»; quando essi sono stati acquisiti in modo irreversibile, possono costituire una trasformazione anche tanto radicale da rappresentare una vera mutazione della stessa specie, cioè essi possono dare «origine ad una nuova specie». Con ciò Darwin aveva spiegato la selezione naturale e aveva dato un fondamento all’evoluzionismo; ma non tutti i quesiti erano risolti:
In quel tempo però non afferrai un problema molto importante … Mi riferisco alla tendenza degli organismi discendenti da uno stesso ceppo a divergere nei loro caratteri, quando si modificano. Che essi si siano molto differenziati è provato dal fatto che le specie di tutti i tipi possono essere riunite in generi, i generi in famiglie, le famiglie in sottordini, e cosí via… La soluzione secondo me consiste nel fatto che la discendenza modificata delle forme dominanti e in via di sviluppo tende ad adattarsi a parecchi luoghi che hanno caratteristiche molto diverse nell’economia della natura.
(Autobiografia)
Era dunque spiegata, con la stessa teoria. anche la diversificazione, la differenziazione nell’ambito della stessa specie. Tutto questo Darwin scrisse nell’opera Origine delle specie, libro che ebbe subito un notevole successo di vendite, e trovò fortuna anche all’estero, tanto che in breve tempo fu tradotto in molte lingue. Tra l’altro Darwin osserva con divertito stupore:
Ne è comparso anche un saggio in ebraico, in cui si dimostra che la mia teoria è contenuta nel Vecchio Testamento!
(Autobiografia)
Ma quel libro trovò anche irriducibili avversari. Infatti esso poneva il problema della collocazione dell’uomo nella natura. Tale problema «scoppiò» soprattutto quando T. Huxley fece una strenua difesa dell’evoluzionismo; biologo, uomo di ingegno e di cultura, buon oratore, dotato ugualmente di senso dell ironia e di spirito battagliero, Huxley sostenne senza mezzi termini che l’uomo derivava dalle scimmie; tale affermazione fu all’origine di un vivace scontro col vescovo anglicano S. Wilberforce. Infatti l’evoluzionismo sembrava a molti la negazione dell’origine divina dell’uomo, dell’immortalità dell’anima, e di ogni fondamento della vita morale. Questa convinzione alimentava le discussioni non solo nell’ambito della chiesa anglicana, ma anche nei circoli borghesi e conservatori inglesi, stretti nella difesa della posizione «aristocratica» dell’uomo nella realtà naturale; difesa che trovò una formula efficace nell’affermazione di Disraeli che, fra le scimmie e gli angeli, egli preferiva come antenati gli angeli. Lo stesso Darwin si rendeva conto che la sua teoria sollevava problemi d’ordine morale, religioso, teologico, … ed anche politico. Infatti anche Marx ed Engels scesero in campo manifestando il loro entusiasmo per il darwinismo, che a loro avviso poteva essere esteso alla concezione della storia e della società; infatti i concetti di selezione naturale e di evoluzione potevano costituire la spiegazione «naturale» dello sfruttamento, della lotta di classe, e, in generale, la base di tutto il materialismo storico-dialettico, smentendo quella che essi definirono «la falsa legge di Malthus», che spiegava la lotta tra gli uomini, semplicisticamente, con la sproporzione tra l’incremento della popolazione e quello dei beni di sussistenza.
Di fronte all’enorme cumulo di questi problemi, proposti da ammiratori e denigratori, Darwin conservò un atteggiamento di serietà scientifica, cercando di ribadire e confermare la validità della sua teoria limitatamente al campo biologico (col che, evidentemente, raffreddò gli entusiasmi di Marx). Nell’opera L’origine dell’uomo, egli infatti sostenne:
La conclusione principale a cui siamo giunti qui… è che l’uomo è disceso da qualche forma meno altamente organizzata. Le basi di questa conclusione non saranno mai scosse, data la intima somiglianza tra l’uomo e gli animali inferiori, nello sviluppo embrionale ed in infiniti punti di struttura e di costituzione, sia di grande che di lieve importanza; i rudimenti che l’uomo conserva e le anormali reversioni a cui è occasionalmente soggetto, son tutti fatti che non si possono confutare. Essi sono noti da lungo tempo, ma fino a poco fa non ci dicevano niente sull’origine dell’uomo. Ma ora, visti alla luce delle nostre conoscenze di tutto il mondo dei viventi, il loro significato non può sfuggire. Il grande principio dell’evoluzione domina chiaro e fermo, quando questi gruppi di fatti son considerati in rapporto con altri, quali le affinità reciproche dei membri dello stesso gruppo, la loro distribuzione geografica nel passato e nel presente, e la loro successione geologica. Non si può assolutamente pensare che tutti questi fatti dicano il falso. Chi non si accontenta di pensare (come un selvaggio) che i fenomeni naturali non sono collegati, non può credere che l’uomo sia opera di un atto separato di creazione. Egli sarà costretto ad ammettere che l’intima rassomiglianza dell’embrione umano con quello, ad esempio, di un cane, la struttura del cranio, delle membra, dell’intera forma somatica dell’uomo ripete lo stesso modello di quella degli altri mammiferi (indipendentemente dall’uso a cui le singole parti sono destinate), la ricomparsa occasionale di varie strutture, per esempio, di parecchi muscoli che normalmente non sono presenti nell’uomo, ma che sono normali nei quadrumani, ed una quantità di fatti analoghi, tutti portano nella maniera piú evidente alla conclusione che l’uomo discende da un progenitore comune agli altri mammiferi.
(L’origine dell’uomo)
Pertanto, come nei regni vegetale ed animale, cosí anche in quello degli organismi umani dominano le leggi dell’ereditarietà, della lotta per l’esistenza e della selezione naturale.
Abbiamo visto che l’uomo presenta continuamente differenze individuali in tutte le parti del corpo e nelle facoltà mentali. Queste differenze o variazioni dipendono dalle stesse cause generali e obbediscono alle stesse leggi che negli animali inferiori. In entrambi i casi valgono le stesse leggi dell’eredità. L’uomo tende a moltiplicarsi molto al di là dei suoi mezzi di sussistenza, e di conseguenza è soggetto occasionalmente ad una grave lotta per l’esistenza e la selezione naturale agisce su tutto ciò che è nel suo campo d’azione. Non è affatto necessaria una successione di variazioni molto spiccate di natura simile, piccole, fluttuanti differenze individuali bastano per l’azione della selezione naturale; non vi è ragione di pensare che nella stessa specie tutte le parti dell’organizzazione tendano a variare nello stesso grado. Possiamo esser certi che gli effetti ereditari del continuo uso o disuso di parti agiscono intensamente nella stessa direzione della selezione naturale. Modificazioni dapprima importanti, anche quando non servono piú in qualche funzione particolare, rimangono per lungo tempo ereditarie. Quando una parte si modifica, altre parti cambiano per principio di correlazione, di cui abbiamo esempi in molti strani casi di mostruosità correlative. Si può attribuire qualche effetto all’azione diretta e definita delle condizioni ambientali, come l’abbondanza di cibo, il caldo o l’umidità; infine molti caratteri di leggera importanza fisiologica ed alcuni invece di notevole valore sono stati acquisiti per selezione sessuale.
(L’origine dell’uomo)
Anzi, proprio in virtù delle leggi generali dell’evoluzione è possibile spiegare le differenze tra le diverse razze umane, e ricondurre queste ad un unico ceppo.
Mediante i mezzi prima detti e con l’aiuto forse di altri non ancora scoperti, l’uomo si è elevato al suo stato attuale. E dal momento in cui ha raggiunto il suo posto di uomo, si è distinto in razze, o, come si possono chiamare piú propriamente, sotto-specie differenti. Alcune di queste, come i negri e gli Europei, sono cosí diverse tra di loro, che se si portassero ad un naturalista degli esemplari, senza nessun’altra notizia, egli le giudicherebbe senza dubbio come specie differenti. Nondimeno tutte le razze umane concordano in tanti insignificanti dettagli strutturali e in tante particolarità mentali, da poterle soltanto attribuire all’eredità da un comune progenitore; un progenitore con queste caratteristiche avrebbe probabilmente meritato il posto di uomo.
(L’origine dell’uomo)
Ed è possibile pure individuare gli «antenati» prossimi e remoti dando loro una collocazione nella «serie zoologica».
Se consideriamo la struttura embriologica dell’uomo, le analogie con gli animali inferiori, i rudimenti che conserva, e la reversione cui è soggetto, possiamo in parte immaginare la condizione primitiva dei nostri progenitori e possiamo approssimativamente collocarli in un posto appropriato nella sene zoologica. Impariamo cosí che l’uomo è disceso da un quadrupede peloso, provvisto di coda, probabilmente con l’abitudine di vivere sugli alberi e che abitava il Vecchio Continente. Se un naturalista avesse esaminato l’intera struttura di questo essere l’avrebbe classificato tra i Quadrumani, con la stessa sicurezza con cui avrebbe classificato l’ancora piú antico progenitore delle scimmie del Vecchio e del Nuovo Continente. I quadrumani e tutti i mammiferi piú elevati derivano probabilmente da qualche antico marsupiale e questo, attraverso una lunga discendenza di forme che andavano divergendo, da qualche creatura simile agli Anfibi, e questi ancora da qualche animale simile ai pesci. Nella profonda oscurità del passato, possiamo intravedere che il primo progenitore di tutti i Vertebrati deve essere stato un animale acquatico, provvisto di branchie, coi due sessi riuniti nello stesso individuo e con la maggior parte degli organi piú importanti (come il cervello e il cuore) imperfettamente o per nulla sviluppati. Questi animali dovevano esser piú simili alle attuali ascidie di mare che a qualsiasi altra forma conosciuta.
(L’origine dell’uomo)
Certo, restano da «spiegare» le qualità intellettuali e morali, e le attitudini e capacità ad esse connesse, che sembrano essere caratteristiche specifiche ed esclusive dell’uomo. Ma Darwin non si sottrasse a questo compito. Egli infatti sostenne che le qualità morali sono espressione matura di istinti sociali propri anche degli animali, di quegli istinti per i quali gli animali si aggregano, ad esempio, secondo «vincoli familiari». E quanto alle facoltà intellettuali superiori (raziocinio, astrazione, autocoscienza), esse sono l’esito del miglioramento di quelle facoltà mentali che anche gli animali mostrano di possedere attraverso il linguaggio e l’arte con cui organizzano la loro vita.
Dopo essere giunti a questa conclusione sull’origine dell’uomo, la piú grande difficoltà che si presenta rimane l’alto livello delle nostre facoltà intellettuali e morali. Chiunque ammetta l’evoluzione sa che le facoltà mentali degli animali superiori, le quali sono della stessa specie di quelle dell’uomo, sebbene di grado cosí differente, sono suscettibili di progredire. Cosí il divario tra le facoltà mentali di una delle scimmie piú elevate e quelle di un pesce, oppure quelle di una formica e di un coccus, è immenso; inoltre il loro sviluppo non offre nessuna speciale difficoltà, infatti negli animali domestici le facoltà mentali sono variabili e le variazioni sono ereditarie. Nessuno dubita che le facoltà mentali sono della massima importanza per gli animali allo stato naturale. Vi sono quindi tutte le condizioni per il loro sviluppo mediante la selezione naturale. La stessa conclusione si può estendere all’uomo: l’intelletto deve essere stato molto importante per lui anche in un periodo molto remoto, perché gli ha permesso di inventare e usare il linguaggio, di costruire armi, utensili, trappole, ecc., in modo che con l’aiuto della sua abitudine di vivere in società, egli molto tempo fa riuscí a dominare tutti gli esseri viventi.
Un grande passo nello sviluppo dell’intelletto si ebbe non appena entrò in uso il linguaggio, per metà arte e per metà istinto; infatti il continuo uso del linguaggio deve aver agito sul cervello e determinato un effetto ereditario; e questo a sua volta ha agito sul miglioramento del linguaggio. La grandezza del cervello dell’uomo, relativamente al corpo, in confronto agli animali inferiori, può attribuirsi in massima parte ad un primitivo uso di una semplice forma di linguaggio, quel congegno meraviglioso che assegna parole ad ogni sorta di oggetti e di qualità, e suscita una serie di pensieri che non sorgerebbero mai dalla pura impressione dei sensi, o anche se si formassero non avrebbero alcun seguito. Le facoltà intellettuali piú elevate dell’uomo, come il ragionamento, l’astrazione, e la coscienza, probabilmente derivarono dal continuo miglioramento ed esercizio delle facoltà mentali.
(L’origine dell’uomo)
L’uomo dunque, per Darwin, è un essere «superiore», ma le sue origini biologiche sono animalesche; il che non deve procurar vergogna; anzi egli rappresenta proprio la punta piú avanzata dell’evoluzione naturale.
BRUNO BAUER
” Ora che la religione è stata recisa dalla ragione, dal pensiero, ormai il pensiero sarebbe emancipato, sarebbe in libertà come il contenuto religioso ed il cuore: ed allora si potrebbe passare ad una vera lotta tra le due parti, senza intermediari, ad una lotta sul cui esito, la distruzione della religione, non ci sarebbero dubbi. ” (La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo)
PRESENTAZIONE
La poliedrica attività di Bauer, il quale si interessò, oltre che di filosofia, anche di storia e teologia, si può dividere in due fasi distinte, separate dalle rivoluzioni del 1848. Negli anni ‘40 dell’Ottocento, in quel periodo noto come Vormärz, il preludio agli eventi rivoluzionari tedeschi del marzo 1848, Bauer era uno dei principali esponenti della sinistra hegeliana: propugnava un’interpretazione repubblicana di Hegel e sosteneva una lettura che riusciva a combinare temi etici ed estetici. La sua teoria dell’infinita autocoscienza, derivata dalla riflessione hegeliana sullo spirito soggettivo, poneva l’accento sull’autonomia razionale e sottolineava il valore del progresso storico. Studiando le fonti testuali del Cristianesimo, Bauer pervenne a definire la religione come una forma di alienazione, tramite la quale, a causa delle carenze della vita terrena, poteri irrazionali e trascendenti venivano proiettati fuori dall’individuo, mentre interessi particolari e materiali venivano privati di ogni valore. Egli assumeva inoltre una posizione critica nei confronti della Restaurazione, della sua base sociale e giuridica e della sua ideologia religiosa ortodossa. Dedicatosi all’analisi dell’emergente società di massa, da una parte rifiutava la teoria del liberalismo, a causa della sua irragionevole opposizione all’ordine esistente e della sua equazione “libertà = proprietà”, dall’altra, accusava il socialismo di non dare un’adeguata importanza all’autonomia individuale.
Dopo le sconfitte del 1848, Bauer ripudiò Hegel. Profetizzava un’imminente crisi generale della civiltà europea, dovuta alla sterilità della filosofia e al fallimento delle politiche liberali e rivoluzionarie. Nuove prospettive di liberazione, egli credeva, sarebbero però sorte da questa crisi.
Nei suoi scritti più tardi esamina l’emergere della Russia nel ruolo di potenza mondiale, potenza che avrebbe inaugurato un’era di imperialismo globale e di guerra: furono questi scritti che influenzarono Nietzsche nella formazione della sua idea di un rinnovamento culturale.
Friedrich Engels e Karl Kautsky rivendicarono il criticismo religioso di Bauer al movimento socialista, mentre il conservatorismo anti-tradizionalista e l’anti-semitismo delle sue opere più tarde contribuirono ad avvicinare il suo nome alla destra rivoluzionaria del XX secolo.
VITA E OPERE
La famiglia di Bauer si trasferì dalla Sassonia a Berlino nel 1815. All’università di Berlino (1828-1834), egli studiò sotto la guida di Hegel, di Schleiermacher e degli hegeliani Hotho e Marheineke. Il suo saggio del 1829 sull’estetica kantiana, segnalato da Hegel, vinse il Premio Reale Prussiano di filosofia.
Dal 1834 al 1839, tenne delle lezioni in teologia e testi biblici a Berlino, finché non fu trasferito alla Facoltà di Teologia di Bonn per aver attaccato in un suo scritto il suo collega ed ex-insegnante Hengstenberg. Insegnò a Bonn dal 1839 fino alla primavera del 1842, quando fu destituito per la non-ortodossia dei suoi scritti sul Nuovo Testamento: in particolare per l’opera La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo. Un ultimatum (1841). Il licenziamento fu la conseguenza di un consulto svoltosi tra il Ministero dell’Educazione e le Facoltà di Teologia delle sei università prussiane: l’ordine di licenziamento di Bauer venne direttamente dal re di Prussia, Federico Guglielmo IV. Il re decretò la sospensione dall’impiego di tutti coloro che avevano partecipato al banchetto in onore del liberale Karl Welcker a Berlino: in quella occasione, Bauer aveva proposto un brindisi alla concezione hegeliana dello Stato.
Dal 1842 al 1849, Bauer fu attivo sia nel giornalismo politico che nella ricerca storica, con particolare interesse all’Illuminismo e alla Rivoluzione Francese. Si schierò contro l’emancipazione degli ebrei prussiani nel 1842-43, considerando questa proposta una legittimazione politica di interessi religiosi particolari: fu perciò oggetto di attacchi polemici da parte di Marx ed Engels nella Sacra famiglia (1844) e ne L’ideologia tedesca (scritta nel 1845-46).
Con il fratello Edgar, Bauer fondò nel 1848 la “Società Democratica di Charlottenburg”, candidandosi senza successo alle elezioni per l’Assemblea Nazionale Prussiana, adottando un programma elettorale basato sulla sovranità popolare.
Rimanendo in Prussia dopo le sconfitte del 1848-49, Bauer continuò a scrivere opere di critica biblica e analisi politica.
Verso la metà degli anni 50, iniziò a lavorare per Die Zeit, un quotidiano sostenuto dal governo, nel quale il suo anti-liberismo ebbe una svolta conservatrice. Scrisse articoli su questioni di interesse internazionale anche per molti altri quotidiani, come Die Post, il Kleines Journal o il New York Daily Tribune.
Dal ’59 al ’66 collaborò col conservatore F.W.H. Wagener al suo Staats und Gesellschafts Lexikon, curando l’edizione di quasi tutti i 23 volumi e scrivendo numerosi articoli, alcuni dei quali evidenziano il suo antisemitismo. Nel 1865 acquistò una piccola fattoria a Rixdorf, alla periferia di Berlino. Lì morì nell’aprile del 1882.
I PRIMI SCRITTI
Bauer fu uno scrittore molto prolifico: pubblicò almeno una dozzina di libri ed oltre 60 articoli soltanto nel periodo 1838-48. Questi scritti comprendono analisi del pensiero di Hegel, della Bibbia, delle teologie moderne, dell’Illuminismo, della Rivoluzione Francese e le sue conseguenze storiche.
L’interpretazione delle opere di Bauer è problematica per varie ragioni. A causa dell’anonimato, dell’uso di pseudonimi e della collaborazione a pubblicazioni collettive, l’attribuzione di alcune opere è molto discussa; ed esistono inoltre parecchie divergenze tra i testi che Bauer ha pubblicato e la sua corrispondenza privata. Infine, nell’anonimo La tromba del giudizio universale (1841) e in La dottrina hegeliana della religione e dell’arte (1842), Bauer non parla in prima persona, ma indossa la maschera ironica di un critico hegeliano conservatore, attribuendo ad Hegel le proprie visioni rivoluzionarie.
Si possono distinguere tre linee interpretative del pensiero di Bauer, e tutte focalizzano l’attenzione sui suoi primi lavori (i suoi scritti più tardi hanno generalmente attirato una scarsa attenzione critica).
La prima linea interpretativa vede Bauer come un soggettivista radicale, la cui critica religiosa e sociale è più vicina al razionalismo illuminista che a Hegel.
La seconda, ampliamente influenzata da Marx, insiste sull’’abbandono da parte di Bauer della sinistra hegeliana dopo il 1843.
La terza sottolinea la continuità tra le due fasi del pensiero di Bauer attraverso il periodo del Vormärz e il suo repubblicanesimo, basato sull’idea hegeliana dell’unità di pensiero ed essere.
Lo scritto del 1829 dal titolo De pulchri princiipis, vincitore del Premio Reale Prussiano, presenta l’unità di concetto e realtà come idea centrale dell’idealismo hegeliano: esaminando questa unità, che si esprime nel suo livello più alto nell’opera d’arte, Bauer compara la teoria estetica di Hegel alla terza critica kantiana. Lo scritto integra il criticismo di Kant con le Lezioni di Estetica hegeliane di Berlino e con l’analisi logica delle categorie fornite dall’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1827). Bauer sostiene che, mentre la Critica del Giudizio tenta di trovare un ponte tra pensiero ed essere, ripresenta in realtà le antinomie caratteristiche delle prime due critiche. La sintesi kantiana è fallita poiché continua a considerare il concetto come meramente soggettivo e l’oggetto come l’inconoscibile cosa in sé che trascende il potere cognitivo umano. L’autocoscienza, o il soggetto dell’unità dell’appercezione trascendentale, resta inaccessibile anche alla cognizione kantiana.
Nei sillogismi hegeliani dell’Idea, l’oggetto ottiene una forma razionale e contemporaneamente il concetto raggiunge un’esistenza esplicita, materiale. La bellezza, la vita e l’Idea sono momenti del processo che costituisce la realtà della ragione: come unità immediata di pensiero ed essere, come momento in cui lo Spirito acquista coscienza di se medesimo nella forma dell’intuizione sensibile, l’arte illustra l’inesauribile fecondità dell’Idea filosofica. Lo scritto sottolinea inoltre il contrasto tra fede e ragione tramite una critica alle concezioni religiose di unità di pensiero ed essere. La fede era considerata nemica del libero pensiero, caratteristica peculiare della Ragione.
Durante gli anni ’30, tuttavia, Bauer tentò di conciliare pensiero ed essere attraverso l’idea di una fede razionale. In Zeitschrift für spekulative Teologie, pubblicato tra il 1836 e il 1838, e in Jahrbücher für wissenschaftliche Kritik, offre un’interpretazione delle dottrine cristiane come esemplificazione di categorie logiche. In La religione dell’Antico Testamento, del 1838, Bauer rappresenta l’esperienza religiosa come un prodotto dell’autocoscienza. Propone sia una spiegazione trascendentale, focalizzata sulle “condizioni di possibilità” delle varie esperienze religiose, sia un modello fenomenologico, incentrato sulla successione delle loro forme: la subordinazione gerarchica ad una divinità autoritaria nei primi libri dell’Antico Testamento esprime una rapporto meramente esteriore tra l’uomo e Dio, mentre la coscienza messianica dei libri successivi mostra il rapporto in una forma più elevata: non più la trascendenza di Dio, bensì l’immanenza dell’universale nella comunità umana; ma questa nuova coscienza può soltanto evidenziare l’inadeguatezza dei rapporti stabiliti con la vecchia alleanza, non può ancora portare all’effettivo superamento di quel distacco.
I testi degli anni ’30 individuano la struttura logica della coscienza religiosa: un’immediata identità tra il particolare concreto (soggetto o comunità) e l’universale astratto, un’unità raggiunta senza nessuna autotrasformazione. A partire dal 1839, Bauer cominciò a dedurre anche le implicazioni politiche di questa visione: a livello politico-sociale la coscienza religiosa asserisce questa identità immediata come una rivendicazione monopolistica e settaria che esclude ogni differente realtà particolare da una considerazione equivalente. L’essenza della religione è qui, per Bauer, un particolarismo arrogante, che conferisce all’universale uno status trascendente, come un dominio separato da ogni relazione sociale concreta. Questa posizione ebbe la sua esposizione più completa nell’opera Cristianesimo rivelato (1843). Bauer aveva già abbozzato questa tesi in Herr Dr. Hengstenberg (1839), rompendo pubblicamente con la linea ortodossa e conservatrice della cristianità ed evidenziando la discontinuità tra cristianesimo ed ebraismo.
Egli presenta la libera autocoscienza filosofica come opposta a tutte le forme di concezione religiosa. Il suo radicalismo politico e il suo repubblicanesimo sono tenuti insieme proprio dal riconoscimento di un’identità strutturale tra gli interessi privati portati avanti dalla Restaurazione e la monopolistica coscienza religiosa dominante.
GLI STUDI BIBLICI
La radicalizzazione politica e teoretica di Bauer è evidenziata soprattutto dai suoi studi biblici. Consideriamo la Critica del Vangelo di Giovanni (1840) e i tre volumi della Critica dei Vangeli Sinottici (1840-42): insieme ai suoi studi del 1838 sull’Antico Testamento, tutte queste opere sono dedicate alla critica dei vari stadi della religione rivelata e delle forme dello spirito auto-alienato nella storia. La critica di Bauer al vangelo di Giovanni è tesa a dimostrare l’opposizione tra la libera autocoscienza e lo spirito religioso: il suo scopo dichiarato era quello di restituire il principio cristiano alla sua fonte originaria, l’autocoscienza creativa; qui egli non si sta opponendo al principio in sé, ma cerca piuttosto di differenziarlo e di liberarlo dal dogmatismo ecclesiastico. La positività del cristianesimo deriva dalla comprensione astratta della teologia, piuttosto che dalla ragione speculativa: una comprensione che riduce l’esperienza religiosa ai suoi elementi soggettivi. Il nocciolo razionale del cristianesimo è l’identità di Dio e uomo, ma la teologia ha costruito su queste fondamenta un sistema dottrinale insostenibile. La speculazione teologica, secondo quanto Bauer afferma nei suoi articoli della metà degli anni ’30, è ciò che mina il dogma cristiano, non ciò che lo rafforza. Nelle lettere della sua corrispondenza privata, egli individua in questa ripristinazione dell’originario principio cristiano anche il suo rovesciamento, poiché l’unità di universale e particolare può ora essere ottenuta in forme più tangibili, terrene, concrete. Il cristianesimo è stata una tappa necessaria, ma ora superata, nello sviluppo dello spirito umano, una tappa che dovrà essere soppiantata dalle nuove espressioni dell’autocoscienza autonoma.
Nella Critica dei Vangeli Sinottici, l’obiettivo di Bauer è più apertamente quello di negare e confutare il cristianesimo dogmatico, ormai cristallizzato in forme atte a difendere l’ordine assolutistico. Nella sua visione, i fatti narrati nei Vangeli sono i prodotti della coscienza religiosa, piuttosto che di cronache fattuali: nello stesso modo in cui la critica del Vangelo di Giovanni aveva mostrato come la narrazione evangelica fosse solo un prodotto letterario, questa seconda opera sostiene che nemmeno i Sinottici contengono del materiale storico autentico. Bauer stabilisce la priorità storica di Marco, studiando le modificazioni specifiche operate successivamente da Luca e Matteo. Rappresenta i miracoli come delle false ostentazioni della causalità immediata dell’universale nella natura, rigettando le spiegazioni naturalistiche sostenute dal razionalismo teologico.
Il terzo volume della Critica dei Vangeli Sinottici arriva a negare la storicità di Cristo: l’idea cristiana di Dio e uomo che condividono la stessa essenza appare come la rappresentazione religiosa del singolo individuo che perviene ad assumere l’universale potere dello Spirito. Bauer, come i suoi contemporanei Strauss e Feuerbach, guarda a questa sintesi come al frutto di un progetto immanente alla storia umana. Come mostrano anche gli scritti politici di Bauer di questo periodo, egli ritiene che il raggiungimento dell’universalità e l’abbandono degli interessi particolari siano obiettivi storici di cui si deve fare carico lo Stato. Il cristianesimo, invece, elimina questa pur minima Sittlichkeit in favore di un “Io” puramente astratto, portando così a termine il processo di alienazione e rendendone necessaria una risoluzione. Analizzando i testi Sinottici, Bauer paragona il cristianesimo al feudalesimo, difendendo la libertà e l’uguaglianza dell’autocoscienza: religione e Stato assolutistico si sostengono vicendevolmente, condividendo le essenziali caratteristiche dell’alienazione e della repressione. In definitiva, il cristianesimo rappresenta l’ultima tappa della trasformazione della coscienza religiosa in astrazione pura e della dissoluzione di ogni vincolo etico e morale.
L’applicazione politica dell’autocoscienza può essere rintracciata in due scritti dei primi anni ’40. In Lo Stato-Chiesa evangelico della Prussica e la scienza (1840), Bauer descrive l’essenza dello Stato come libero sviluppo: lo Stato è l’agente dialettico del progresso storico e dell’universalità della volontà razionale, grazie alla sua peculiare capacità di astrarre da ogni contenuto dato ed esprimersi in forme sempre nuove. Pur segnalando quelle tendenze dannose che potrebbero limitare la funzione progressivo-dialettica dello Stato (come la preponderanza degli interessi religiosi o la titubanza nell’affrontare questioni sociali), Bauer afferma che lo Stato “genuino”, in quanto vera espressione della libertà, è ognora in costante mutamento. Nell’unione tra chiese luterane e riformate, avvenuta in Prussia nel 1817, egli vedeva il superamento politico dei contrasti religiosi, le basi dei quali erano già state intaccate dall’Illuminismo. Attraverso il suo (seppur ancora astratto) raggiungimento del concetto universale di uomo, l’Illuminismo aveva trasformato la coscienza religiosa in autocoscienza (questo processo è uno dei temi principali di Bauer in Cristianesimo rivelato, insieme ad una critica del materialismo francese, per lo scarso spazio che quest’ultimo lascia alla libertà).
La Chiesa è, per Bauer, incapace di reggersi senza il supporto dello Stato: opponendosi a quegli storici conservatori che, come F.J. Stahl, portavano avanti l’idea dell’indipendenza della Chiesa, il nostro indica invece lo Stato come il cuore della vita etica. Bauer denuncia non solo lo Stato cristiano di Federico Guglielmo IV, ma anche il formale Rechtsstaat, il costituzionalismo liberalistico: entrambe queste politiche, infatti, considerano la libertà come preservazione degli interessi privati, sia economici che religiosi. In realtà, questi interessi privati e particolari, sono proprio ciò da cui ci si deve liberare se si vuole raggiungere il nuovo ordine politico: l’eliminazione dell’egoismo atomistico tramite l’autocoscienza morale è il prerequisito principe per uno Stato libero e repubblicano.
A CONFRONTO CON HEGEL
L’anonimo La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo (novembre ’41) e il suo seguito La dottrina hegeliana della religione e dell’arte (1842) ci descrivono un Hegel che suona la campana della rivoluzione: Bauer mostra come tra le conseguenze del sistema si abbia anche il rovesciamento della Chiesa e dello Stato e ammette che la destra hegeliana abbia ragione a vedere nel filosofo di Stoccarda il più pericoloso avversario della Restaurazione. Ironicamente scritti come se fossero le parole di un critico pietista e conservatore, questi due testi attribuiscono ad Hegel una teoria dell’infinita autocoscienza nella quale il concetto di una sostanza o di un assoluto trascendente è un’illusione necessaria, ma autocontraddittoria. L’obiettivo che, dietro la maschera della narrazione, Bauer si pone è quello di mostrare come la filosofia di Hegel, se letta in trasparenza, sia incompatibile con le tesi della Destra, che, se onesta, in Hegel non può vedere altro che un ateo e un anticristo.
Più avanti, Bauer notò, nel pensiero hegeliano, una sorta di tensione tra Spinoza e Fichte, tra una sostanza inerte ed indifferenziata e la forma creativa: il momento spinozistico, tuttavia, sebbene necessario alla dialettica hegeliana, viene comunque superato e totalmente assimilato nell’infinita autocoscienza. Nello spirito assoluto, propriamente inteso, svaniscono tutte le pretese religiose, mentre l’assoluto stesso si dispiega nell’attività critica dei soggetti individuali: nulla di trascendente rimane. Ciononostante, riconosce Bauer, Hegel stesso sottolinea il concetto di sostanza, un concetto del cui ruolo bisogna rendere conto. Nella sua apparente trascendenza, la sostanza regola il soggetto particolare: ciò è necessario perché, come sostiene Hegel, la particolarità non può essere il criterio della ragione, né pratica né teoretica. Piuttosto, sono gli individui a dover interiorizzare la sostanza, come uno stadio del processo che porta al raggiungimento dell’autocoscienza. L’indifferenziata e pura universalità della sostanza sussume tutte le particolarità, incluso l’io, il sé.
Questo iniziale momento spinozistico crea un’apparenza di panteismo nel pensiero di Hegel, un’illusione che, secondo Bauer, ha ingannato critici del calibro di D.F. Strauss. Tramite il superamento dialettico dell’illusione della sostanza, l’unità di concetto e oggetto può per la prima volta essere intravista. Il soggetto deve apparire come potenzialmente universale e l’oggettività deve presentarsi come un ordine finalistico, in modo da rispondere alla tensione del soggetto verso la libertà razionale. La soggettività assimila così il principio dell’universalità, lo contiene in sé come una sua propria caratteristica, non come qualcosa che le è estraneo o alieno. Questa relazione, tuttavia, non è limitata all’esperienza interna, poiché la ragione realizza se stessa nella totalità del mondo: Bauer descrive l’autocoscienza così raggiunta come un’universalità soggettiva e immanente, come la forza motrice della storia. L’idealismo storico e critico che quest’opera attribuisce ad Hegel è politicamente rivoluzionario: sostiene, infatti, i diritti della libera autocoscienza contro ogni istituzione positiva (Stato, religione o gerarchia sociale).
Bauer utilizza il concetto-chiave di infinita autocoscienza per riconfigurare l’assoluto hegeliano, da un lato avvicinando tra loro l’arte e la filosofia e dall’altro escludendo la religione, in quanto forma alienata della ragione.
L’idealismo etico di Bauer ricorda ciò che Kant chiamava Vollkommenheit, una forma di eteronomia razionale per la quale l’azione è giudicata in base al suo contributo al progresso storico. I soggetti acquistano autonomia liberandosi dagli interessi particolari e ripudiando quei falsi universali rappresentati dalle istituzioni politiche e religiose. Bauer attacca l’ancien régime e i tutti quei surrogati prodotti dalla Restaurazione, definendoli un sistema feudale a tutela di privilegi irrazionali. Riservando arrogantemente per se stesso l’universalità, lo Stato autoritario sopprime le realtà particolari, frustra la libera attività del suo popolo e cela la fonte della sua autorità dietro ad un velo di santità religiosa. Bauer precisa che è lo Stato assolutistico, e non la religione, il vero avversario: la questione politica decisiva è quella di individuare la fonte dell’autorità statale, sia che essa risieda nella tradizione, nell’approvazione religiosa o nel volere popolare.
Questa questione dovrà essere affrontata senza compromessi; l’obiettivo finale è, infatti, un’emancipazione sociale, non solo politica. Questa questione potrà essere risolta solo con una lotta comune e repubblicana contro ogni tipo di privilegio. Il risultato di questa lotta sarà l’ottenimento della giustizia in tutte le sfere della vita sociale.
LA SVOLTA CONSERVATRICE
Sebbene Bauer proclamò a più riprese la continuità del suo pensiero, i suoi lavori più maturi furono caratterizzati dal definitivo abbandono delle tendenze repubblicane del Vormärz: le sconfitte del 1848 dimostrano il fallimento della tradizione filosofica europea. Al posto del trionfo della repubblica, Bauer profetizzava ora un’età di imperialismo mondiale. La questione politica decisiva dopo il ’48 era l’emergere della Russia, e Bauer sosteneva che proprio la crescente pressione della potenza russa avrebbe portato ad un’unione pan-europea, primo stadio del processo verso l’assolutismo globale. Il periodo storico che stava per venire sarebbe stato caratterizzato da una vera e propria crisi continentale: anticipando Nietzsche, Bauer affermava che l’imminente crollo della civiltà e della cultura europea avrebbe reso possibile un nuovo inizio, accompagnato dalla liberazione dai valori tradizionali e da tutte le menzogne metafisiche e religiose. La sua vecchia opposizione al liberalismo lo portò ora a schierarsi dalla parte dei conservatori, sebbene il suo conservatorismo rimase sempre non-ortodosso: come Nietzsche, infatti, un suo tratto precipuo fu il disprezzo per la tradizione e la religione.
A causa del suo antisemitismo, Bauer fu in seguito definito indebitamente un precursore del nazismo da qualche autore del Reich.
Per Bauer, i moti rivoluzionari del ’48 erano così legati ai progetti e alle idee illuministiche, kantiane ed hegeliane che il loro fallimento suona come il rintocco funebre di quella filosofia e dei suoi continui richiami ad un’autonomia razionale individuale. In questa critica, Bauer assimila Hegel a Spinoza e alla sua metafisica della sostanza, vista come la negazione di forma e soggettività. A differenza delle sue precedenti interpretazioni, nei testi dei primi anni ’50 egli afferma che Hegel aveva ceduto all’influenza di Spinoza, eliminando l’individualità e sommergendo le realtà concrete e particolari sotto categorie logiche illusorie ed astratte. Il nostro descrive ora l’Idea hegeliana come un’illusione trascendente: la sua incapacità di ammettere le realtà particolari deriva dalla sostanzialità del sistema stesso.
Sul fronte politico, mentre prima del ’48 Bauer era solito sostenere che Hegel aveva insegnato “la repubblica e la rivoluzione”, ora egli mostra tutte le tendenze assolutistiche del sistema hegeliano, la cui unità oppressiva può essere paragonata tendenza storica verso un dispotismo politico onnicomprensivo: egli accusa la filosofia di contribuire a quel processo di livellamento ed uniformità attuato nel periodo post-rivoluzionario (Bauer, Russland und das Germanenthum). Questo atteggiamento critico anticipa la polemica di Rudolph Haym in Hegel und seine Zeit (1857).
L’abbandono della metafisica, tratto che Bauer condivide con molti intellettuali post-1848, produce una nuova concezione della critica filosofica, vista ora come una scienza positiva o un’indagine empirica. Questa forma di critica permette all’osservatore di esaminare i fenomeni storici senza alcuna distorsione o parzialità, senza una concezione sistematica a priori. Bauer ritiene, ad esempio, che la ricerca scientifica debba rimanere indipendente e dalla religione e dalla politica: l’obiettivo principe della scienza è, infatti, quello di studiare le relazioni tra la natura e le leggi che la governano, nell’ottica della libera volontà dell’uomo (tutti concetti che Bauer mantiene anche in questa seconda fase, rifiutandone però il fondamento metafisico).
Il nuovo atteggiamento è quello di una disinteressata contemplazione dell’ineluttabile processo di decadimento e rigenerazione culturale.
La conclusione delle nuove riflessioni di Bauer è che in futuro dominerà la forma politica dell’imperialismo sovranazionale, una forma che implicherà il contrasto e il confronto fra due diverse realtà assolutistiche: l’Europa occidentale e quella orientale.
Nella realtà occidentale Bauer distingue due varianti: da una parte abbiamo lo stato socialista di Bismarck, costruito sul modello militare della Prussia del XVIII secolo, che cerca di assoggettare la produzione economica al controllo politico, soffocando l’innovazione e l’indipendenza personale; dall’altra l’imperialismo romantico di Disraeli, che tenta di uniformare la società inglese per poterla più facilmente sottometterla ad una monarchia paternalistica.
La seconda realtà assolutistica, quella orientale, è costituita dalla Russia, una potenza la cui coesione interna deriva dalla fusione del potere politico con quello ecclesiastico e dall’assenza delle moderne idee di soggettività ed individualismo. Bauer nota che Hegel aveva erroneamente escluso la zona orientale dalla sua visione di storia globale: come l’anarchico Michail Bakunin, il nostro sottolinea invece come la Russia possieda una sua propria ben definita struttura statale, totalmente distinta da quella tedesca.
La forza dell’avversario orientale costringerà l’Europa ad entrare in un processo di trasformazione che implicherà necessariamente l’estensione dell’imperialismo a tutto il mondo e lo scontro tra le potenze dominanti. La guerra mondiale sarà inevitabile.
Questa prognosi anticipa alcuni aspetti della teoria dell’ultraimperialismo che Karl Kautsky avrebbe elaborato nel 1915, sebbene in Bauer non sia presente la convinzione ottimistica che questa tendenza avrebbe comportato una riduzione dei conflitti tra i pretendenti all’egemonia. Nessuna forma di ottimismo è rilevabile in Bauer: l’imperialismo, ad esempio, non stimola, anzi, ostacola la crescita economica, in quanto l’insicurezza e la mobilitazione militare permanente penalizzano l’attività produttiva.
La funzione storica precipua del processo di globalizzazione è quella di eliminare le identità nazionali, gettando così le basi per un’eventuale rinascita cosmopolita. Bauer guarda infatti al nazionalismo come ad una forza dissipativa: il nuovo ordine mondiale non sarà caratterizzato dalla difesa degli interessi locali e nazionali, ma dallo sforzo per una comune supremazia sovranazionale. Il sempre più crescente accentramento del potere sarà favorito dalle tendenze internazionaliste ed uniformatrici del movimento socialista, che porterà con sé quello che Bauer definisce pauperismo politico, un generalizzato calo di potere partecipativo del singolo all’attività politica. La conclusione più logica di un simile processo sarà perciò la perfetta società di massa, fenomeno che Bauer aveva analizzato già a partire dai primi anni ’40.
L’ordine imperialistico mondiale implicherà l’apocalittica fine del vecchio ordine cristiano-germanico: solo allora emergeranno nuovi orizzonti culturali. Sebbene non si possa prevedere nel dettaglio, il nuovo ordine culturale determinerà il manifestarsi di una creatività individuale senza precedenti, finalmente libera dalle menzogne metafisiche e religiose.
LA NUOVA CONCEZIONE DEL CRISTIANESIMO
Nei suoi studi degli anni ’50, paragonando la crisi europea del suo tempo alla caduta del mondo classico e dell’Impero Romano, Bauer colloca le origini del cristianesimo nel II secolo d.C. e sostiene che il primo vangelo fu scritto sotto l’imperatore Adriano (117-138), nonostante alcune lettere paoline tendano a retrodatarlo. Bauer traccia il cammino e l’evoluzione delle idee cristiane dall’ellenismo e dallo stoicismo, facendo derivare la dottrina del logos giovanneo da fonti e scritti neoplatonici e negando, in Herr Dr. Hengstenberg, che il cristianesimo sia emerso direttamente dall’ebraismo.
Molto più che nei suoi lavori giovanili, Bauer ora rimarca il potere rivoluzionario del primo cristianesimo, visto come fonte di liberazione dalle ormai vecchie ed impoverite istituzioni dell’Impero Romano. Nel suo ultimo scritto arriva a descrivere il cristianesimo come l’apice socialista della storia greca e romana: nel necrologio scritto per la morte di Bauer, Friedrich Engels riconoscerà il valore e l’importanza di quest’ultimo scritto nell’ambito della critica socialista alla religione. Nel 1908 anche Karl Kautsky, nell’opera Le origini del Cristianesimo, farà proprie alcune tesi di Bauer, che ritorneranno anche in Ateismo nel cristianesimo di Ernst Bloch.
Gli ultimi scritti di Bauer indicano nei sentimenti e nelle idee del pietismo, piuttosto che nell’autonomia della ragione, le principali forze di modellamento della soggettività moderna: i suoi studi sui quaccheri e sul pietismo mostrano proprio come l’intimità passiva e il sentimentalismo fossero state le caratteristiche dominanti dell’illuminismo tedesco. La “ragion pratica” di Kant e Fichte ha semplicemente tradotto in un idioma razionale la voce interna della coscienza pietista. Bauer vede inoltre nel pietismo la fine del cristianesimo positivo, dal momento che questa corrente religiosa ha finalmente eliminato del dogma in favore dell’illuminazione interna e della rettitudine morale individuale. In accordo col suo Cristianesimo rivelato (1843), Bauer continua a definire positive e statutarie quelle religioni che si fondano esclusivamente su simboli, riti e cerimonie esteriori, elementi che egli considera mere illusioni. Nel nuovo impero mondiale si porterà a compimento lo sgretolamento interno dei dogmi e delle credenze religiose, non tramite la ragione speculativa, ma per mezzo del sentimento.
Un accentuato antinazionalismo ed non meno marcato antisemitismo caratterizzano l’ultima fase del pensiero di Bauer. Egli difende la cultura germanica dall’appropriazione politica tentata dal regime prussiano e da quello austriaco, ma ne critica anche i difetti, come, ad esempio, l’eccessiva fedeltà di Goethe alla tradizione metafisica europea. Degno di nota è come Bauer consideri la Germania non un’unità razziale, ma manufatto culturale e storico caratterizzato da una consolidata miscellanea etnica.
Tuttavia, è chiaro che alcuni elementi rimangono esclusi da questo melting pot: Bauer è convinto che sia una naturale differenza razziale a creare uno divisione insanabile tra ebrei ed europei, come emrge dal suo scritto del 1852 La posizione odierna degli ebrei. È forse superfluo segnalare che queste sue tesi saranno utilizzate da molti autori nazionalsocialisti.
Gli ultimi lavori di Bauer contengono osservazioni e analisi quasi profetiche riguardo a fenomeni come la globalizzazione o la guerra mondiale, oltre ad avere molte affinità con una grande varietà di forme ideologiche caratteristiche del XX secolo, quali il socialismo, l’imperialismo e l’antisemitismo. Le opere giovanili, al contrario, sono portavoce di un originale repubblicanesimo hegeliano e offrono interessanti riflessioni sulla pensiero politico della Restaurazione e sull’emergere della società di massa. L’eredità del suo pensiero è, anche per questi motivi, complessa e ricca di conflitti interpretativi.
A cura di Alessandro Sangalli
BRANI ANTOLOGICI
HEGEL È PIÚ PERICOLOSO DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE
Utilizzando l’ironia ed il paradosso, Bauer suggerisce la possibilità che la filosofia di Hegel sia interpretata in modo radicalmente diverso dall’interpretazione ufficiale e invita la filosofia a riprendere la lotta contro l’alleanza trono-altare.
Secondo Bauer la Rivoluzione francese ha decretato il rifiuto del Dio cristiano in nome della ragione. Ma i vincitori della rivoluzione e di Napoleone non si accorsero che il nemico da loro sconfitto era rinato in modo ancora piú pericoloso nella filosofia di Hegel.
B. Bauer, La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo e anticristo. Un ultimatum
Con Hegel l’Anticristo è venuto e si è “rivelato”.
È dovere del credente sincero indicare a tutti il Maligno, accusarlo apertamente e veracemente, mettere in guardia tutti da lui e rendere vana la sua astuzia.
Dobbiamo soprattutto rivolgerci ai governi cristiani, e testimoniare di fronte a loro – il credente è tenuto infatti a predicare ed a testimoniare di fronte ai re, ai príncipi ed alle autorità – onde si accorgano infine quale pericolo mortale minaccia l’ordine costituito e soprattutto la religione, l’unico fondamento dello Stato, se essi non estirpano proprio le radici del male. Non c’è piú niente di fermo, di sicuro, di stabile se “il vigoroso errore” di quella filosofia è ulteriormente tollerato. Essi sono in grado di dedurre il finale dell’infelice tragedia che questa filosofia è costretta a rappresentare, e di cui i suoi seguaci sono gli attori, dal fatto che già nel momento presente ogni autorità divina ed umana è negata, scossa e resa vacillante da questa gente; la quale se ha cominciato col rovesciare la religione e col dare un colpo mortale alla Chiesa, vorrà certo rovesciare anche il trono. Oh! Vi supplichiamo con lacrime di dolore e di compassione, e con sospiri che ci sono spremuti dal pericolo che corrono “i piccoli, che hanno fede”, permettete che vi ammoniamo: siate senza pietà con questa banda; a voi è data la spada onde istituiate in questo mondo un ordine gradito a Dio; pronunziate la sentenza contro questi distruttori del santuario. Eseguite il giudizio di Dio. A voi essi sono affidati.
[…]
È suonata l’ora nella quale il peggiore, il piú superbo, l’ultimo nemico del Signore sarà abbattuto. Questo nemico però è anche il piú pericoloso. I francesi – il popolo dell’Anticristo – avevano, con scandalosa pubblicità, di giorno pieno, in piazza, alla luce del sole, che non ha mai visto tale empietà, e sotto gli occhi dell’Europa cristiana, negato l’esistenza del Signore dell’eternità, assassinando l’unto di Dio ed avevano commesso un idolatrico adulterio con la meretrice, la ragione; ma l’Europa, piena di santo zelo, represse tali orrori e si uní in una santa alleanza per gettare in catene l’Anticristo e per innalzare di nuovo gli eterni altari del vero Signore.
Allora venne – no! allora si chiamò, si coprí di attenzioni, si protesse, anzi, si onorò e si stipendiò lo stesso nemico che si era sconfitto all’esterno, e ciò nella persona di un uomo che era piú forte del popolo francese, di un uomo che ridiede forza legale ai decreti di quella diabolica Convenzione, che dette ad essi nuovi fondamenti, assai piú solidi, e che trovò il modo di metterli in circolazione sotto il nome, insinuante e particolarmente attraente per la gioventú tedesca, di filosofia. Si chiamò Hegel e se ne fece il centro dell’Università di Berlino! Quest’uomo – ammesso che lo si possa ancora chiamare uomo – quest’uomo corruttore, pieno di odio per tutto ciò che è divino e sacro, incominciò quindi, protetto dallo scudo della filosofia, ad attaccare tutto ciò che gli uomini dovrebbero considerare alto e sublime. Una schiera di discepoli si uní e mai – in tutta la storia – si è visto un’obbedienza, una devozione, una fiducia cieca come quella che ad Hegel fu tributata dai suoi discepoli e seguaci. Lo seguirono dove egli li conduceva, lo seguirono nella lotta contro l’Uno.
La Sinistra hegeliana, Testi scelti da Karl Löwith, Laterza, Bari, 1960, pagg.68, 105-106
RAGIONE E RELIGIONE
Hegel, con apparente innocenza, ha osservato che la Riforma ha separato il sentimento religioso dalla filosofia (scolastica). Ciò ha favorito un confronto-scontro fra la religione e la ragione il cui esito è scontato: la distruzione della religione.
B. Bauer, La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo e anticristo. Un ultimatum
Nella maligna e sorniona osservazione che nella Riforma il contenuto religioso si e separato dalla filosofia (dalla Scolastica), che esso si è trasferito nella sua purezza, per sé, nel cuore, nel sentimento, e che è diventato qualche cosa che riguarda soltanto il cuore non si esprime che la speranza di eliminare tanto piú facilmente la religione. Ora cioè, crede Hegel, che la religione è stata recisa dalla ragione, dal pensiero, ormai il pensiero sarebbe emancipato, sarebbe in libertà come il contenuto religioso ed il cuore: ed allora si potrebbe passare ad una vera lotta tra le due parti, senza intermediari, ad una lotta sul cui esito, la distruzione della religione, non ci sarebbero dubbi.
La Sinistra hegeliana, Testi scelti da Karl Löwith, Laterza, Bari, 1960, pag. 161
WILHELM MAX WUNDT
Wilhelm Max Wundt nacque il 16 agosto del 1832. Iniziò a frequentare l’Università di Tubinga nel 1851 e conseguì il Dottorato in Medicina all’Università di Heidelberg nel 1856 (l’anno di nascita di Sigmund Freud). Fu dapprima professore di Fisiologia, poi, a partire dal 1875, professore di Filosofia a Lipsia; si spense nel 1920.
La sua solida educazione scientifica e fisiologica lo portò ad individuare l’origine del comportamento umano nella struttura fisiologica dell’uomo e a studiare i fenomeni psichici prescindendo dall’esistenza di una sostanza spirituale e da ogni concezione mistica della mente come anima.
Nella seconda metà del XIX secolo, la psicologia rientrava più nell’ambito filosofico che in quello empirico-scientifico, e il grande merito di Wundt è proprio quello di aver dato un grande impulso alle ricerche di psicologia scientifica. A Lipsia fondò e diresse il primo Istituto di Psicologia Sperimentale, depurando la psicologia dalle nozioni metafisiche e medievali ed elevandola al livello di una scienza esatta: spesso perciò ci si riferisce a Wundt come al “padre della psicologia sperimentale” o come al “fondatore della psicologia moderna”. Fu anche uno degli iniziatori della cosiddetta psicologia sociale o psicologia dei popoli (Völkerpsychologie), e senza dubbio uno dei maggiori psicologi del suo tempo: il suo istituto fu il precursore dei laboratori psicologici odierni. I suoi Principi di psicologia fisiologica (1874) rivoluzionarono la scienza psichica: essi costituiscono il primo esempio sistematico di quella che fu definita psicologia senz’anima, una psicologia che sceglieva di studiare i fenomeni psichici senza far ricorso ad ipotetiche sostanze spirituali (res cogitans), ma considerandoli in strettissimo rapporto con i fenomeni fisiologici e applicando, fin dove era possibile, i procedimenti del calcolo matematico. Queste sue concezioni furono oggetto di polemica da parte di Henri Bergson nel Saggio sui dati immediati della coscienza del 1889.
Il rivoluzionario approccio di sperimentazione psicologica di Wundt contribuì a fare della psicologia una scienza naturale, soprattutto tramite tecniche fisiologico-sperimentali di laboratorio. Già Theodor Fechner (1801-1887) si era posto il problema di una psicologia sperimentale a base matematica e aveva formulato la cosiddetta “legge psicofisica fondamentale”, che concerneva il rapporto quantitativo tra l’intensità dello stimolo e l’intensità della sensazione da esso prodotta. Wundt estende il metodo sperimentale a tutto il dominio della psicologia, assumendo come presupposto per le sue ricerche il principio del parallelismo psicofisico, secondo il quale gli eventi psichici e gli eventi fisici costituiscono due serie causali indipendenti, che non interferiscono l’una sull’altra, ma che si corrispondono termine a termine (cfr. Spinoza, Etica II.7). Una simile concezione è stata sostenuta anche nel Novecento nell’ambito della filosofia della mente, in particolare dallo studioso americano Donald Davidson.
Wundt guarda alla psicologia come alla parte di un sistema filosofico più ampio nel quale la mente è attività, non più mera sostanza: l’attività psichica basilare è, leibnizianamente, l’appercezione. Ciò che Wundt si propone di fare, grazie alla ricca strumentazione scientifica, è di isolare i fatti psichici elementari (ossia le sensazioni) per poterne così studiare le leggi di connessione (delle quali la più importante è la legge della causalità psichica). Questo procedimento non comporta però un’assimilazione totale delle dinamiche psichiche a quell fisiche, né tanto meno una loro dipendenza dai processi bio-fisiologici. Secondo Wundt, infatti, le leggi della psicologia hanno una natura particolare che le diversifica da quelle della fisica e, in generale, delle altre scienze: inoltre, Wundt propugna la teoria del parallelismo tra mente e corpo, teoria che esclude nel modo più radicale ogni rapporto causale della sfera fisico-biologica sui processi psichici. Ma la psicologia, secondo Wundt, non studia solo fatti, ma anche atti: questi ultimi si distinguono dai primi perché dotati di spontaneità. Nel caso in cui tali atti diventino atti complessi (linguaggio, esperienza estetica, costumi, miti, e così via) diventa possibile studiarli comparativamente descrivendo i loro prodotti oggettivi: ad occuparsene è, per l’appunto, la psicologia dei popoli.
L’alter ego di Wundt negli Stati Uniti fu William James: i due condividevano il progetto di liberare la psicologia da superstizioni, pregiudizi e false credenze. Respingevano ogni elemento metafisico o mistico in psicologia e cercavano di condurre la loro scienza in una prospettiva etica ed evoluzionstica. Sebbene entrambi credenti, erano liberi pensatori in campo religioso, rifiutavano qualsiasi credenza di immortalità personale ed accettavano Dio solo come “energia divina del mondo” o come simbolo dell’unità dell’universo. Wundt, nel Sistema di Filosofia del 1889, arrivò a definire arditamente il cristianesimo “un cumulo di superstizioni”. Rispetto al positivismo, e in particolare rispetto a quello tedesco (che quasi sempre si tradusse in materialismo), Wundt ammette un margine di spontaneità che apre spiragli verso lo spiritualismo.
KARL VON CLAUSEWITZ
A cura di Marco Menicocci
“La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”.
Vita e opere
Nato nel 1780 da una famiglia della piccola borghesia, Karl von Clausewitz si arruolò nell’esercito prussiano a soli 12 anni, nel 1792. Nel 1794 divenne ufficiale e utilizzato in compiti di guarnigione sino al 1806. In questo periodo divenne amico di uno dei principali generali prussiani, Scharnhorst, e fu da lui introdotto a corte. Nel 1806 partecipò alla campagna di Jena e fu catturato dai Francesi. Tornato in Prussia nel 1808, si impegnò insieme a Scharnhorst nella riforma dell’esercito ma, in disaccordo con quella che gli sembrava una linea politica filofrancese, rassegnò le sue dimissioni dall’esercito prussiano e si arruolò, cosa frequente all’epoca, in quello russo. Membro dello Stato Maggiore russo, prese parte alla campagna del 1812 e fu tra i protagonisti dei negoziati che spinsero la Prussia ad abbandonare la coalizione napoleonica. Ritornato nell’esercito prussiano, partecipò alle campagne del 813-14 e a quella conclusiva del 1815. Divenuto generale nel 1818, si aspettava di poter ricevere adeguati riconoscimenti dal sovrano prussiano ma, sospettato di essere un riformista, venne nominato amministratore capo del Collegio militare: una carica che era a metà tra una sinecura e un insulto. Dal 1818 al 1830, lavorò al suo celeberrimo scritto “Della Guerra” (“Vom Kriege”), senza però che tutto questo periodo fosse sufficiente a fargli concludere il lavoro. Richiamato in servizio attivo a seguito degli eventi del 1831, fu inviato sul fronte polacco ove morì per la medesima epidemia di colera che uccise anche Hegel.
Il pensiero
Lo scritto in otto libri “Della Guerra” è probabilmente, oltre che il più noto, anche il più significativo tentativo nella storia occidentale di comprendere la guerra, sia nelle sue interne dinamiche sia come strumento di politica. Nella sua forma attuale il libro è giunto a noi quale fu pubblicato dalla vedova nel 1832, un anno dopo la morte di Clausewitz, raccogliendo insieme le carte del marito. Si trattava di studi che si trovavano ad un diverso livello di elaborazione e ancora largamente incompiuti. Questa incompletezza e l’assenza di una revisione finale pesano assai sul libro che risulta difficile e a volte contraddittorio. Giudizi lapidari e definizioni sintetiche si alternano a lunghe dissertazioni su minimi dettagli e anche il lettore più benevolo riesce a seguire con fatica capitoli quali quello sull’organizzazione delle marce o sulla disposizione difensiva delle truppe di montagna. Nonostante questi limiti, però, Della Guerra è ricchissimo di spunti e costituisce una lettura filosofica assai stimolante. La riflessione di Clausewitz non è indirizzata genericamente alla violenza né si occupa di considerare se la guerra sia intrinseca alla natura umana, o una dimensione permanente dello spirito. La sua indagine è assai più ristretta e presuppone l’esistenza degli Stati organizzati quali organismi politici in grado di rappresentare un intero popolo: la guerra è una delle possibili forme di relazione tra i vari Stati. Prescindendo da ogni considerazione di carattere morale, Clausewitz si prefigge di svolgere intorno alla guerra una trattazione scientifica: il suo scopo è spiegare cosa la guerra sia nella sua particolare realtà, cosa è possibile ottenere per il suo tramite, cosa invece non è lecito attendersi da essa; quale è il suo funzionamento, in che misura funziona, quali sono le linee probabili del suo sviluppo e in che modo è possibile giungere a tali previsioni. Questo non significa, però, ricercare una considerazione della guerra scientifica in senso fisico-matematico. La guerra sfugge ai rigidi modelli matematici perché è un fatto sociale ed è connessa con la competitività dei popoli: gli interessi, gli obiettivi, i mezzi e le masse delle forze che si oppongono, e che costituiscono la guerra, si influenzano continuamente e reciprocamente. In guerra le parti interagiscono tra loro cercando di spiazzarsi a vicenda, di ingannare l’avversario, di approfittare delle sue debolezze, di sorprenderlo con nuove soluzioni. La teoria dovrà dunque considerare principalmente i mezzi per giungere alla vittoria. La sintesi teorica e la sistematicità del sapere si realizzano nella coscienza del comandante di armata il quale deve saper trasformare il suo apparato concettuale in decisione: i suoi sono atti di consapevolezza trasformati in azione, in prassi. Suo compito quello di saper riportare ad unità i mille momenti scomposti e frammentari della battaglia. Questa soggettività del comandante, lontana tanto dall’arbitrio delle scelte casuali quanto dall’astrattezza di chi pretende l’applicazione di norme universali, ha un sapore hegeliano e ricorda il carattere della volontà determinata descritto nei primi paragrafi della Filosofia del diritto. In quella singolare unità di anima e corpo costituita dal comando e dalla sua armata si realizza un concetto concreto costituito dall’atto del comando. In guerra, secondo Clausewitz, tutto è finalizzato al combattimento ma questo non costituisce il fine della guerra bensì il mezzo mediante il quale si svolge. Una contraddizione soltanto apparente che trova soluzione nella distinzione tra guerra assoluta e guerra relativa. Ciò che distingue la guerra dagli altri comportamenti sociali organizzati è il fatto che lo scopo ultimo in guerra è abbattere l’avversario, piegarne la volontà sino alla cancellazione. A questo scopo, secondo la logica interna della guerra, tutto dovrebbe essere subordinato. In realtà, però, una serie di considerazioni pongono sempre dei limiti a come le guerre vengono condotte. Clausewitz distingue tra la logica interna della guerra e la sua funzione sociale. Egli mostra la guerra nel suo aspetto più puro, unilaterale, nei suoi caratteri più estremi, al fine di marcarne le differenze e le peculiarità esclusive, e poiché ciò che caratterizza la guerra è il suo carattere di violenza, Clausewitz ne estremizza le posizioni marcandole in modo assoluto: in guerra occorre colpire il nemico con forza, utilizzando subito tutta l’energia possibile, evitando ogni escalation ma cercando in tempi rapidi la decisione finale. Poiché ragionevolmente il nemico farà la stessa cosa, ogni utilizzo parziale delle forze a disposizione, ogni perdita di tempo, ogni ritardo, favorirà il nemico e danneggerà la nostra azione. Dal punto di vista della pura logica la guerra non può che tendere all’estremo assoluto. In realtà però le cose non vanno mai così e sempre una serie di considerazioni gradua lo svolgimento dell’azione bellica. Caratteri dei popoli, situazioni storiche, alleanze, disponibilità economiche, scopi politici: tutto questo spinge la guerra sempre lontano dalle sue conseguenze assolute e pone limiti costanti all’azione dei condottieri e dei governi. Dall’assoluto si passa alla condotta ragionevole della guerra, una ragionevolezza che comporta una serie di mediazioni. Tra queste Clausewitz rileva il ruolo dell’asimmetria delle forze, dell’incertezza, del maggior potere della difesa rispetto all’attacco, e soprattutto di quello che definisce l’attrito: l’inevitabile irrazionalità che si insinua nei movimenti di grandi masse di uomini e nella linea di comando, rendendo sovente vani i migliori piani militari. Tutto questo sembra rendere impossibile preparare un piano di guerra ispirandosi ai criteri della guerra assoluta. Il compito di sciogliere tutti questi nodi è affidato da Clausewitz alla politica. Come è noto una delle più celebri definizioni di Clausewitz è proprio quella relativa al rapporto tra guerra e politica: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”. È compito della politica dettare le regole della guerra, stabilire i suoi scopi e le sue modalità. “Lo scopo politico, motivo primo della guerra, darà dunque la misura tanto dell’obiettivo che l’azione bellica deve raggiungere, quanto degli sforzi che a ciò sono necessari”. È proprio la politica a riportare nella concretezza ogni azione bellica, a dettare le regole e a dare alla guerra il suo senso. Lontano da ogni bellicismo e militarismo, è proprio questo generale prussiano a suggerire che sia il governo politico e non il comando militare a dare le regole alla guerra. Alla fine, infatti, è sempre la politica ad avere il ruolo maggiore e la guerra resta sempre un evento eccezionale. La politica può ricorrervi, ma non deve necessariamente ricorrervi. Essa è un mezzo, tra tanti. È indicativo che neanche nella considerazione della guerra assoluta Clausewitz (al contrario di Platone ne Le Leggi: I, 625e; 626a; 626c) si spinga tanto in là da affermare che lo Stato debba sin dalla pace prepararsi per vincere ogni guerra. La mobilitazione delle masse e delle forze morali, delle risorse, delle armi rimane un evento possibile nelle vicende umane ma non tale da determinare ogni senso delle scelte politiche. Clausewitz non vuol spiegare la guerra in termini sociologici o con teorie politiche ma comprenderne la logica interna. Il suo interesse non è però solo quello di disegnare una fenomenologia della guerra, ma anche quello di evidenziare il ruolo della comunità politica. Molte delle sue pagine sono dedicate alla situazione morale delle popolazioni oltre che delle armate e alla loro influenza sugli eventi bellici. Non la competitività o l’aggressività spingono alla guerra: è chi si difende che vuole la guerra. L’aggressore non desidera la guerra, solo ottenere vantaggi sul difensore. È questo che, per evitare svantaggi troppo forti, è costretto a difendersi sul piano militare. Ma proprio queste considerazioni spalancano il rapporto con la politica. La decisione su quali siano i limiti dei compromessi accettabili, il problema dei costi e dei tempi delle azioni belliche, i possibili vantaggi cui mirare: tutte queste sono considerazioni politiche e costituiscono il quadro di riferimento all’interno del quale avvengono poi gli eventi bellici. Senza la politica la guerra è insignificante, inconcepibile, priva di senso e scopo: priva di realtà. Considerare la guerra in stretto rapporto con la politica non equivale, naturalmente, a dire che la politica e la guerra sono la stessa cosa, bensì che solo lo Stato è considerato il rappresentante della comunità nei confronti degli altri Stati. Una guerra senza politica sarebbe insensata, non così, ovviamente, una politica senza guerra. La guerra è uno degli strumenti di cui la politica si serve per i suoi fini. La guerra comporta ineliminabilmente un elemento irrazionale e la tecnica è il tentativo di ridurre questa irrazionalità. Se poi sia la politica stessa a poter contenere in sé nuclei di irrazionalità, questo, il filosofo-generale, al suo tempo non ha saputo valutarlo. Nel suo libro, Clausewitz distingue tra un modo antico di fare la guerra, nel quale a scontrarsi sono eserciti contrapposti di professionisti della guerra e di cui è emblema Federico II, e un modo moderno di fare la guerra, nel quale si scontrano popoli e di cui è emblema Napoleone, significativamente qualificato da Clausewitz come il “Dio della guerra”.
FERDINAND DE SAUSSURE
«Noi chiamiamo “segno” la combinazione del concetto e dell’immagine acustica: ma nell’uso corrente questo termine designa generalmente solo l’immagine acustica, per es. una parola (arbor, ecc.). Si dimentica che se arbor è chiamato “segno”, questo avviene perché esso porta il concetto “albero”, in modo che l’idea della parte sensoriale implica quella del totale. L’ambiguità sparirebbe se si designassero le tre nozioni qui in questione con dei nomi che si richiamano l’un l’altro pur opponendosi. Noi proponiamo di conservare la parola “segno” per designare il totale, e di rimpiazzare “concetto” e “immagine acustica” rispettivamente con significato e significante: questi ultimi termini hanno il vantaggio di rendere evidente l’opposizione che li separa sia tra di loro, sia dal totale di cui fanno parte. Quanto a “segno”, se continuiamo ad usarlo, è per il fatto che non sappiamo come rimpiazzarlo, poiché la lingua usuale non ce ne suggerisce nessun altro».
Ferdinand de Saussure nasce a Ginevra nel 1857 da una coltissima famiglia di scienziati e di naturalisti, che lo inducono a intraprendere studi di chimica e fisica. Ma egli ben presto abbandona tali studi per dedicarsi alla linguistica. Prosegue a Lipsia e a Berlino tali studi, approfondendo il persiano antico, l’antico irlandese, lo slavo e il lituano. Nel 1878 pubblica Memoria sul sistema primitivo delle vocali nelle lingue indoeuropee, in cui postula l’esistenza di entità vocaliche astratte, definite dalla loro funzione strutturale e non semplicemente dalla loro realtà fonetica. Nel 1880 consegue la laurea a Lipsia, per poi trasferirsi a Parigi e insegnare presso l’Ècole des Hautes Ètudes. Nel 1891 torna nuovamente a Ginevra, ove risdiede fino alla morte, sopraggiunta nel 1913. La sua opera più importante, apparsa postuma nel 1916, è il Corso di linguistica generale: essa si presenta come una raccolta di note autografe e di appunti trascritti da alcuni uditori delle lezioni che egli tenne tra il 1906 e il 1911; l’opera è stata redatta da alcuni allievi di Saussure (Charles Bally e Albert Séchehaye, con l’ausilio di Albert Riedlinger). L’opera è di importanza capitale, poiché produce, in ambito linguistico, una vera e propria rivoluzione che si rivelerà fondamentale anche per l’avvento dello strutturalismo. Ad avviso di Saussure, la lingua è un sistema di segni che esprimono idee. Se si ipotizza l’esistenza di una scienza generale dei segni sociali (scienza allora non ancora esistente, e che Saussure battezzò col nome di “semiologia”), allora la linguistica verrà ad essere una parte di quest’ultima; e in particolare sarà la scienza che si occupa di quello specifico segno che è il “segno verbale”; la semiologia, dal canto suo, studierà anche i segni non verbali (scrittura, alfabeto dei sordomuti, riti simbolici, segnali militari, e così via). Ma la linguistica non ha per oggetto specifico il linguaggio – esso è una massa eterogenea analizzabile sotto diversi punti di vista (fisico, psichico, fisiologico, e così via) – ma piuttosto quella sua parte essenziale che è la lingua. Ed è a questo proposito che Saussure distingue nettamente tra “lingua” e “parola”: la prima rappresenta il momento sociale del linguaggio ed è costituita dal codice di strutture e regole che ciascun individuo assimila dalla comunità di cui fa parte, senza poterle inventare o modificare. La parola è invece il momento individuale, cangiante e creativo del linguaggio, ossia la maniera in cui il soggetto che parla “utilizza il codice della lingua in vista dell’espressione del proprio pensiero personale”.
“Ma che cos’è la lingua? Per noi, essa non si confonde con linguaggio; essa non ne è che una determinata parte, quantunque, è vero, essenziale. Essa è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio ed un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui. Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale; non si lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani, poiché non si sa come enucleare la sua unità” (Corso di linguistica generale, Bari-Roma, Laterza, 1967, p. 19).
Il fatto che lingua e parola siano realtà distinte è suffragato, ad esempio, dalle afasie (il malato coglie i messaggi linguistici, ma ha perso l’uso della parola) o dalle lingue morte (assimilabili anche se non si parlano più). Un’altra importante conseguenza che discende dalla separazione della lingua dalle parole è che “si separa a un sol tempo: 1. ciò che è sociale da ciò che è individuale; 2. ciò che è essenziale da ciò che è più o meno accidentale”. In antitesi con la teoria “realistica” della lingua, Saussure spiega che il segno linguistico, lungi dall’unire una “cosa” a un “nome” (come sostiene una tradizione che va dalla Bibbia alla modernità), unisce un “concetto” a una “immagine linguistica”. Su questo presupposto, Saussure distingue tra “significato” e “significante”: il significato è ciò che il segno esprime; il significante è il mezzo utilizzato per esprimere il significato (l’immagine acustica). Ma il significato e il significante non sono separabili: come dice Saussure, sono come le due facce dello stesso foglio. Ma pur essendo inseparabili, il rapporto tra i due è arbitrario: ciò è dimostrato dal fatto che, per esprimere uno stesso significato (ad esempio, sorella), le diverse lingue usano significanti diversi (sorella in italiano, soeur in francese, e così via). Ma per Saussure “arbitrario” non vuol dire soggettivo e libero: ma piuttosto “immotivato”, cioè non necessario in rapporto al significato che viene espresso. L’inaggirabile limite che Saussure ravvisa nella linguistica a lui precedente (e in particolare nella scuola “storico-comparativa”) sta nell’aver indebitamente privilegiato la sfera evolutiva della lingua, a svantaggio di quella sistematica: in termini strettamente saussuriani, è stata privilegiata la sfera “diacronica” della lingua rispetto a quella “sincronica” (anche detta “statica”). La linguistica sincronica studia la lingua nella sua simultaneità, cioè come essa si presenta in un certo momento; la linguistica diacronica (anche detta “dinamico-evolutiva”) studia invece la lingua nella sua successione, cogliendone cioè lo sviluppo temporale. Anche se la sincronia non esclude la diacronia, Saussure sostiene il primato della dimensione sincronica: infatti, nella misura in cui la lingua è un sistema di valori determinato dallo stato momentaneo dei suoi termini, lo studioso della linguistica è necessitato a badare alla sincronia, trascurando la diacronia. Detto altrimenti, “se dépit ha significato in francese ‘disprezzo’, ciò non toglie che attualmente abbia un senso completamente diverso”. Ciò vuol dire che la sincronia (il valore attuale di un dato termine) e l’etimologia (la storia di un dato termine) sono assolutamente differenti, sicché per comprendere la prima non è necessario aver compreso la seconda, proprio come “in una partita a scacchi”, nella quale ogni posizione è indipendente dalle precedenti (non conta se si è arrivati a quella data posizione per una via piuttosto che per un’altra). Privilegiando la sfera sincronica, diventa possibile (e diventa evidente soprattutto con la futura “linguistica strutturale”) una considerazione matematico/quantitativa del linguaggio, incentrata su modellizzazioni astratte. Anche se Saussure non parla mai di “struttura”, innegabile è l’eredità da lui lasciata allo strutturalismo: in primo luogo, l’idea del carattere sistemico della lingua (ogni elemento ha un valore determinato dal rapporto con gli altri elementi); ma anche l’idea del primato della lingua sul parlante, e l’idea dell’egemonia della sincronia sulla diacronia. L’eredità saussureiana è decisiva anche nella cosiddetta “Scuola di Ginevra”, che ha per esponenti principali gli allievi di Saussure stesso: Charles Bally (1865-1947), Antoine Meillet (1866-1936). Importantissima fu la rivista di linguistica fondata nel 1941 dalla Scuola di Ginevra: i Cahiers Ferdinand de Saussure.
BERNHARD BOLZANO
Il contributo filosofico di Bernhard Bolzano, pensatore e matematico boemo, fu pienamente riconosciuto solo molto tempo dopo la sua morte. Il suo lavoro si rivelò particolarmente utile nel campo della logica, della geometria e per la teoria dei numeri reali.
Bernardus Placidus Johann Nepomuk Bolzano nacque a Praga, in Boemia (oggi parte della Repubblica Ceca), il 5 ottobre 1781. Il padre era un commerciante d’arte e, come la madre, un fervido cristiano. Bernard crebbe così con solidi valori morali e princìpi su cui fare sicuro affidamento: fu questa sua educazione a spingerlo verso la Chiesa e la vita sacerdotale.
Bolzano entrò all’Università di Praga nel 1796 e lì studiò filosofia, matematica e fisica. Dopo la laurea, entrò a far parte del Dipartimento di Teologia dell’istituto e fu ordinato prete cattolico nel 1804. Nonostante la sua piena dedizione alla vita ecclesiastica, egli non trascurò mai i suoi interessi negli studi matematici, tanto che fu segnalato per il ruolo di presidente del Dipartimento di Matematica universitario.
Il 1805 vide l’inizio della lotta che avrebbe caratterizzato tutta la vita di Bolzano. L’impero austro-ungarico comprendeva a quel tempo diversi gruppi etnici che non nascondevano desideri nazionalistici e movimenti per d’indipendenza: incoraggiati dal “libero pensiero” della recente Rivoluzione francese, questi movimenti stavano diventando un serio problema per l’unità dell’impero. Perciò, con una mossa politica, l’impero creò una cattedra di Filosofia della Religione in ogni università dello stato: questa mossa era parte di un più ampio progetto di sostegno della Chiesa cattolica, il cui conservatorismo avrebbe aiutato le autorità imperiali a tenere sotto controllo i liberi pensatori.
La cattedra dell’Università di Praga fu assegnata a Bolzano, ma, per quanto riguardava gli obiettivi dell’impero, questa fu una pessima scelta. Nonostante fosse un sacerdote, il nostro era in primo luogo un libero pensatore, che non aveva paura di esprimere il suo favore al sentimento nazionalistico boemo.
Nei quattordici anni che seguirono, Bolzano insegnò all’università, principalmente tenendo corsi su temi etici, sociali e sui rapporti tra matematica e filosofia. Era molto popolare sia tra gli studenti, che apprezzavano assai la schiettezza con cui esprimeva le sue convinzioni, sia tra i colleghi professori, che non potevano fare a meno di ammirare la sua intelligenza. Nel 1818 divenne Preside del Dipartimento di Filosofia.
Le autorità austro-ungariche, tuttavia, non gradivano le sue visioni liberali: per questo motivo nel 1819 fu sospeso dal proprio incarico di professore, gli fu proibito di pubblicare libri e fu posto sotto la sorveglianza della polizia. Bolzano non accettò l’idea di arrendersi, anche se, nonostante l’appoggio della Chiesa, non riuscì mai a riottenere il suo incarico. Nel 1824, dopo aver rifiutato di ritrattare ufficialmente le proprie idee nazionalistiche, rinunciò al proprio incarico in modo definitivo.
Abbandonata l’università, si trasferì nel piccolo villaggio di Techobuz, dove rimase fino al 1841, quando ritornò a Praga. Qui morì il 18 dicembre 1848. Bolzano elaborò molte nuove idee logiche e matematiche durante la sua vita, anche se, essendogli stato proibito di pubblicare scritti, molti suoi concetti erano noti solamente tramite i manoscritti che circolavano tra gli interessati. Una raccolta completa fu pubblicata solo a partire dal 1962.
Il contributo di Bolzano allo sviluppo della matematica fu davvero molto ampio. Nel suo lavoro si occupò principalmente di tre campi: la geometria, la teoria dei numeri reali e la logica. Per quanto riguarda la geometria, il nostro provò ad occuparsi della questione del quinto postulato di Euclide, trovando diversi punti problematici nel ragionamento dell’autore, ma non riuscendo a trovare una soluzione soddisfacente: non era stato infatti ancora inventato lo strumento matematico appropriato, la topologia. Fissò inoltre le definizioni dei fondamentali concetti geometrici. Dedicò molto tempo anche alla teoria dei numeri reali, cercando di trovare un fondamento matematico per la teoria che riuscisse a rendere conto anche delle quantità infinite, un concetto davanti al quale si erano arresi i matematici precedenti. Pur fallendo nel tentativo, fece alcune importanti scoperte, tra le quali il noto teorema di Bolzano-Weierstrass. Oltre a ciò, notò anche qualcuno dei paradossi degli insiemi infiniti, ma non continuò con questo lavoro che fu portato a compimento solo in seguito da Cantor. Nel campo della logica, le sue idee vennero invece ignorate fino a tempi abbastanza recenti. Non accontentandosi di fornire un fondamento logico alla matematica, Bolzano andò oltre e cercò di fondare su basi logiche le scienze e il pensiero umano nel suo complesso. Nei suoi scritti, egli affronta infatti concetti cardine quali giudizi, pensiero astratto e compiti della scienza. Bolzano è oggi considerato uno dei precursori della logica moderna.
Contrariamente a Immanuel Kant, Bolzano ha un programma di organizzazione delle scienze matematiche basato sulla teoria delle proposizioni in sé. È per certi versi un anticipatore della teoria degli insiemi e dell’analisi. Sconosciuto ai suoi contemporanei, è stato riscoperto all’inizio del Novecento da Casimir Twardowski e Edmund Husserl.
Nel 1805 difese il suo dottorato in matematica con lo scritto Betrachtungen über einige Gegenstände der Elementargeomatrie. Lo stesso anno fu ordinato sacerdote e gli fu assegnata la nuova cattedra di Filosofia della Religione creata alla Karol Universität di Praga. Nel 1819 fu sospeso dall’incarico a seguito dell’accusa di eresia e a causa delle sue idee politiche non ortodosse. Fino al 1841 visse nella tenuta del suo amico e mecenate A. Hoffmann, e fu proprio in questi anni che scrisse i suoi lavori più importanti: Dottrina della Scienza, parte di una Dottrina Generale che non fu mai completata, e Paradossi dell’infinito. Negli ultimi anni fu di nuovo a Praga, nel ruolo di direttore della sezione filosofico-matematica dell’Accademia Ceca delle Scienze.
MATEMATICA: Bolzano definisce la matematica come la scienza della quantità, e la quantità come il campo della relazione “minore o uguale a”. La matematica così concepita è divisa in due sezioni: la scienza pura della quantità e le scienze particolari della quantità. Queste ultime comprendono la teoria dei numeri reali, la teoria dei numeri complessi e immaginari, il calcolo integrale e differenziale, le scienze applicate della quantità (calcolo combinatorio, probabilità, teoria del tempo, geometria, fisica).
LOGICA: Nella sua monumentale Dottrina della scienza (1837), che è la sua opera principale, Bolzano identifica dottrina della scienza e logica; quest’ultima guida alla suddivisione del dominio della verità nelle singole scienze e fornisce le regole per acquisire le conoscenze e per articolarle e presentarle sotto forma di trattati. Le diverse espressioni linguistiche con cui è comunicato un pensiero possono per Blozano essere distinte in base al contenuto concettuale che esprimono. Tale contenuto è composto da unità minime, idee in sé, e da due concetti connessi da una copula. Questo dà luogo a quella che Bolzano chiama “proposizione in sé”. Le proposizioni sono assunzioni che qualcosa è o non è: esse hanno natura ideale, non linguistica, giacché gli eventi linguistici sono veneti empirici e spazio/temporali, generati da organi vocali di qualche essere umano. In questa maniera, la logica, assumendole a oggetto, acquista un carattere rigorosamente formale, scevro di ogni commistione con eventi linguistici e psicologici. Blozano rigetta l’uso di considerazioni geometriche nella dimostrazione dei teoremi dell’analisi infinitesimale, poiché è convinto che rispetto all’intuizione spaziale un rigore maggiore sia dato dai concetti aritmetici. La teoria delle proposizioni in sé può essere compresa come parte di una più ampia teoria dell’oggetto. L’insieme generale di tutti gli oggetti è composto dal sottoinsieme degli oggetti reali e da quello degli oggetti non-reali: un oggetto è reale se e solo se fa parte dell’ordine causale del mondo; oggetti reali sono sia le sostanze sia gli accidenti della metafisica scolastica. La teoria degli oggetti non reali è la parte più originale dell’ontologia di Bolzano, una teoria che comprende proposizioni in sé e rappresentazioni in sé.
La proposizione in sé è il puro significato logico della proposizione, in quanto indipendente dal suo essere vero o falso, dall’essere espresso o non espresso in parole, dall’essere pensato o non pensato da qualcuno. La rappresentazione in sé è l’aspetto oggettivo della rappresentazione, che non esige nessuna relazione con il soggetto e costituisce la materia della rappresentazione soggettiva, cioè della rappresentazione come atto di un soggetto pensante. Le proposizioni in sé non hanno alcuna esistenza reale: l’acquistano quando vengono riconosciute e così pensate, divenendo verità in senso soggettivo. La materia di queste verità soggettive è, tuttavia, una verità in sé, cioè ogni proposizione valida indipendentemente dal suo riconoscimento, ossia valida sia che venga e espressa o pensata, sia che non venga né espressa né pensata.
L’in sé di cui parla Bolzano è la dimensione logico-oggettiva dell’esperienza, in quanto ha una validità indipendente dalle condizioni soggettive del conoscere. Edmund Husserl si riconnetterà esplicitamente alle idee del nostro pensatore per l’elaborazione del suo discorso fenomenologico. Nel 1851 uscì postuma l’opera di Bolzano intitolata I paradossi dell’infinito: opera di cui Cantor tesserà le lodi.
ETICA e POLITICA: Nella sua opera Athanasia oder Gründe für die Unsterblichkeit der Seele, Bolzano elabora una visione del mondo che fa affidamento su una monadologia leibniziana leggermente modificata e dimostra l’esistenza e l’immortalità dell’anima.
Secondo Bolzano, il principio etico fondamentale reciterebbe: “fra tutte le azioni che tu puoi fare, scegli quella che, considerate tutte le possibili conseguenze, procura il bene più grande per il maggior numero di persone”. La sua morale può essere quindi considerata una forma di utilitarismo. Per quanto riguarda le sue idee politiche, egli auspicava una sorta di socialismo utopistico: chiedeva la promulgazione di una costituzione repubblicana, la limitazione della proprietà privata e dei diritti ereditari, la nazionalizzazione di terra, commercio e banche.
RALPH WALDO EMERSON
“Odio le citazioni, dimmi quello che sai”.
Introduzione
Saggista, poeta e filosofo molto popolare, Ralph Waldo Emerson (Boston 25/05/1803 – 1882) iniziò la sua carriera come pastore della Chiesa unitariana (l’unitarianismo è quella dottrina teologica che afferma l’unicità assoluta di Dio, negando quindi il dogma trinitario, l’incarnazione e la divinità di Cristo), ma ottenne lustro internazionale in quanto apprezzato lecturer e autore di saggi quali La fiducia in sé stessi, Storia, L’oltreanima e Destino. Personalità poliedrica, attinse da svariate correnti di pensiero: il romanticismo inglese e tedesco, il neoplatonismo, il kantismo e addirittura l’induismo. Intere generazioni di scrittori e intellettuali americani risentirono della sua influenza, a partire dall’amico Henry David Thoreau fino a John Dewey, senza tralasciare il fatto che anche un pensatore del calibro di Friedrich Nietzsche ne apprezzò esplicitamente gli scritti e dedicò gran parte della sua riflessione ai temi del nostro, in particolare alla potenza, al fato, alla poesia, alla storia e alla critica del cristianesimo.
Che cosa vuol dire lecture? Il dizionario suggerisce “lezione” e “conferenza”. Occorre tener presente, tuttavia, ciò che con questo termine si intende quando ci si riferisce all’America del 1800. Le lectures tenute da Emerson non erano delle lezioni universitarie. Egli parlava nei Lyceums, qualcosa di simile agli odierni circoli culturali, ad un pubblico costituito da persone in carriera, da self-made men. Una lecture durava solitamente un’ora, massimo un’ora e mezza: Emerson poteva tenere fino a ottanta conferenze l’anno, conseguendo un reddito vicino a quello di un normale professore di college. Emerson è generalmente considerato il massimo esponente di quella corrente filosofica fiorita specialmente a Boston e definita “trascendentalismo americano”. Il nostro autore, al pari degli altri “trascendentalismi”, si ritiene erede legittimo della tradizione kantiano-fichtiano-schellinghiana, ma legge poi la filosofia trascendentale attraverso le lenti interpretative del Romanticismo, finendo in tal maniera per riconoscere la superiorità assoluta del sentimento sulle altre facoltà conoscitive. Il suo pensiero, dunque, non deve essere qualificato come “filosofia trascendentale”, bensì come “trascendentalismo”.
1. Cronologia
1803
Il 25 maggio nasce a Boston da William e Ruth Haskins Emerson.
1811
Perde il padre, probabilmente per tubercolosi.
1812
Si iscrive alla Boston Public Latin School.
1817
Inizia i corsi ad Harvard: Greco, Latino, Storia, Retorica.
1820
Inizia a scrivere i suoi Journal, continuati poi tutta la vita, le cui annotazioni rappresentano la fonte originaria di gran parte delle sue opere.
1821
Dopo la laurea, inizia a insegnare alla scuola femminile di Boston diretta da suo fratello William.
1825
Frequenta corsi alla Facoltà di Teologia di Harvard.
1829
Sposa Ellen Tucker ed è ordinato pastore della Boston’s Second Church.
1831
Perde la moglie Ellen, morta all’età di 19 anni.
1832
Abbandona il suo incarico di pastore e parte per l’Europa.
1833
Incontra Wordsworth, Coleridge, J.S. Mill e Thomas Carlyle. Fa ritorno a Boston in novembre, dove inizia la sua carriera di lecturer.
1834
Riceve la prima metà della sostanziosa eredità di Ellen Tucker (riceverà la seconda metà nel 1837).
1835
Sposa Lidian Jackson.
1836
Pubblica il suo primo libro, Natura.
1838
In data 15 luglio, tiene il Discorso alla Facoltà di Teologia, che vuole essere una coraggiosa affermazione d’indipendenza culturale.
1841
Pubblica la raccolta Saggi (che contiene La fiducia in sé stessi, L’oltreanima, Cerchi, Storia).
1842
Perde il figlio Waldo, morto di scarlattina a soli 5 anni.
1844
Pubblica il volume Saggi, seconda serie (che contiene Il poeta, L’esperienza, Nominalismo e Realismo).
1847
È impegnato in una serie di lectures in Inghilterra, lavoro che lo terrà occupato anche l’anno successivo.
1850
Pubblica Uomini rappresentativi (una raccolta di saggi dedicati a Platone, Swedenborg, Montaigne, Goethe, Napoleone).
1851-60
Si pronuncia contro le leggi schiaviste e sostiene pubblicamente i candidati abolizionisti a Concord, Boston, New York e Philadelphia.
1856
Pubblica Caratteristiche inglesi.
1860
Pubblica Condotta di vita (che contiene Cultura e Destino).
1867
Tiene una serie di lectures toccando nove stati americani.
1870
Pubblica Società e solitudine. Allestisce e presenta sedici lectures per la Facoltà di Filosofia di Harvard.
1872
Superato un periodo di salute precaria, trascorre due anni viaggiando per l’Europa e visitando l’Egitto.
1875
Si interrompono le annotazioni sui suoi Journal.
1882
Muore a Concord il 27 aprile, all’età di 78 anni.
2. Temi principali del suo pensiero
2.1 L’educazione
Ne Lo studioso americano, un discorso tenuto il 31 agosto 1837 per la “Phi Beta Kappa Society” di Cambridge, Emerson afferma che l’intellettuale è educato dalla natura, dai libri e dall’azione. La natura è la prima sia in ordine cronologico (è presente da sempre) sia in ordine di importanza. Dietro la varietà delle forme naturali, si celano infatti le stesse leggi fondanti che governano la mente umana: la disciplina dalla quale la natura è regolata è una preziosa fonte d’insegnamento per l’uomo. L’antico precetto “conosci te stesso” e il moderno comandamento “conosci il mondo” diventano in ultima analisi una cosa sola. I libri, la seconda componente dell’educazione dello studioso, ci offrono l’opportunità di dialogare col passato: tuttavia, a detta del nostro, molto di ciò che passa ancora per insegnamento ed istruzione è in realtà semplice sacralizzazione del sapere scritto. Il corretto rapporto con i libri non è quello del “topo da biblioteca” o del bibliomane, ma quello del lettore creativo che usa i libri come stimoli per cogliere principi propri. Se usati bene, i libri ispirano l’anima attiva. La terza componente fondamentale dell’educazione è l’azione: senza di essa infatti, il pensiero non matura mai in verità. L’antenato di ogni azione è un pensiero. L’azione è anche il dizionario di uno studioso, la fonte di ciò che egli ha da dire: il vero intellettuale parla per esperienza propria, non per imitazione degli altri; le sue parole sono cariche di vita: “insisti su te stesso, non imitare mai”, afferma Emerson.
A suo avviso, questo modello educativo basato sull’esperienza e sull’espressione del sé non è indicato solamente a una ristretta classe di persone, ma è adatto a ogni uomo, essendo il suo obiettivo finale la creazione di una nazione democratica. Solo quando tutti impareremo a camminare con le nostre gambe e a pensare con le nostra testa esisterà per la prima volta una nazione.
Il segreto dell’educazione è, per il nostro, il rispetto dell’allievo: l’insegnante non deve decidere cosa l’allievo deve sapere e deve fare, ma lasciare che questi lo scopra da sé. Il maestro non deve far altro che “aspettare ed osservare il nuovo prodotto della Natura”, guidando le azioni dell’allievo in modo da incoraggiare quelle positive e da evitare quelle non appropriate ad una corretta educazione. Il modello di Emerson ricorda molto quello che Rousseau delinea nel suo Emilio: all’educazione tradizionale che opprime e distrugge con una sovrastruttura artificiale la natura originaria, bisogna sostituire un’educazione negativa che si proponga come unico fine la conservazione e il rafforzamento di tale natura. Nell’educazione di massa questo fine è sacrificato. “Invece di educare masse – sostiene Emerson – bisognerebbe educare persone”.
2.2 Il divenire
Emerson è per molti versi un filosofo del divenire, per il quale l’universo è essenzialmente un flusso continuo. Perfino quando parla dell’essere, egli non ha in mente una roccia inamovibile ma una serie di “oceani infiniti”. Il divenire è la base della successione dei modi che il nostro descrive in L’esperienza e dell’importanza che egli dà al tempo presente nella sua riflessione filosofica.
Alcune delle sue idee più originali circa la moralità e la verità discendono direttamente da questa metafisica del divenire: nessuna virtù è ultima o eterna; la verità è un insieme di occhiate fugaci, non una visione limpida. Noi possiamo scegliere tra la verità e la calma, ma non possiamo averle entrambe.
Ovviamente, anche le sue idee sulla religione si inseriscono in questa cornice metafisica. Si può trovare Dio solo nel presente: “Dio è, non era”. Al contrario, il cristianesimo storico procede “come se Dio fosse morto”. Anche la Storia, che sembra avere totalmente a che fare con il passato, ha per Emerson il suo vero valore in quanto serva del presente.
2.3 La morale
Le opinioni etiche del nostro si intrecciano naturalmente con la sua metafisica del divenire e con il suo perfezionismo, ovvero l’idea che il fine della vita sia quello di passare a forme sempre più alte e perfette. Emerson concepisce la morale in un continuo sviluppo storico, ma in alcuni passi sembra addirittura esprimere una posizione più scettica e radicale: che le nostre virtù debbano più spesso essere abbandonate che coltivate. “Il terrore che accompagna una riforma è rappresentato dallo scoprire che dobbiamo gettare via le nostre virtù – o ciò che abbiamo sempre considerato essere virtù – nella stessa fossa in cui abbiamo gettato i nostri vizi più grandi”. In questa frase, notiamo un significativo inciso che ci fa capire come Emerson non abbracci un facile relativismo secondo il quale è de facto virtù ciò che in ogni tempo è assunto come tale. Ciononostante egli getta un’ombra di sospetto su tutti modi di pensare ed agire stabiliti dal conformismo. “Sii libero da tutte le influenze”, scrive il nostro autore. Il male è, quindi, la cieca ubbidienza, la volontà di imitazione, di omologazione. Le virtù sopravvivono nel nuovo momento, il momento della verità, dell’originalità, della creazione; il momento in cui ciò che una volta sembrava importante può ora apparire come ridicolo o vano. In questa prospettiva, quindi, le virtù non scompaiono del tutto, ma devono essere significativamente alterate e riadattate.
Sebbene Emerson non sia intenzionato ad esporre un compiuto sistema etico, attraverso le sue opere non rinuncia a delineare vizi e virtù, eroi e furfanti. Nel Discorso alla Facoltà di Teologia, i furfanti sono gli “spettrali predicatori” i cui sermoni non offrono nessun suggerimento derivante da un’effettiva esperienza di vita; La fiducia in sé stessi condanna quelle virtù che sono in realtà “penitenze”, insieme alla filantropia di quegli abolizionisti che ostentano un amore idealizzato verso persone lontane, ma sono pieni di odio verso quelle che hanno a fianco.
Il conformismo è, per il nostro, il vizio principale, l’esatto opposto della virtù della fiducia in sé stessi: “chi vuol essere un uomo deve essere un anticonformista”. Ci lasciamo irretire dal conformismo quando prestiamo immotivata stima alla moda, all’abbigliamento o ad altri status-symbol, quando indossiamo una falsa maschera di adulazione, quando ci sforziamo di sorridere pur non sentendoci a nostro agio, quando fingiamo coinvolgimento per una conversazione che non ci interessa minimamente. Se il precetto fondamentale dell’etica è quello di non consentire a ciò che gli altri pensano, fanno, dicono, allora quel che Emerson impone è che, paradossalmente, non si debba seguire/consentire nemmeno alle nostre azioni passate, al “morto” altro che è in noi e che esige coerenza. Come ben scrive Beniamino Soressi, “solo chi si è allontanato da sé (dal sé passato) può confidare in sé (nel prossimo sé). Confidare nel sé passato (per una stupida coerenza) o nel sé conformista (per sentimenti di timore e vergogna) significa diffidare del prossimo, possibile, sé: significa negarlo”. Ma “chi rimuove il sé possibile rimuove anche la possibilità di esprimere una parola e un pensiero viventi anziché il pensiero di qualche morta istituzione” (B. Soressi, R.W. Emerson, Il pensiero e la solitudine).
La virtù cardine, come abbiamo appena visto, è quella della fiducia in se stessi o – come la chiama Emerson – della self-reliance: una locuzione in cui egli intende condensare originalità e spontaneità. Il concetto di self-reliance è efficacemente espresso dal nostro autore tramite l’immagine di un gruppo di ragazzi disinvolti che, sicuri di se stessi, fanno e dicono ciò che pensano, non curandosi di assecondare gli altri. Questi ragazzi giudicano liberamente il mondo e le persone che vivono in esso, condannando ciò che trovano sciocco o seccante ed elogiando ciò che ai loro occhi appare interessante e significativo. Quest’immagine illustra chiaramente la tipica combinazione emersoniana di classico (l’idea di una gerarchia in cui i ragazzi occupano un posto d’onore) e romantico (l’esaltazione dell’infanzia e della giovinezza). L’essenza della giustizia e della felicità è che ognuno segua la sua strada: “la fiducia in se stessi è l’essenza dell’eroismo”.
A prima vista, potrebbe sembrare che Emerson, parlando di self-reliance, entri in contraddizione con quanto sosteneva in precedenza: l’idea di un self già formato in cui noi dobbiamo avere fiducia cozza con il concetto del continuo divenire e con la “stupida coerenza” che esige il nostro sé passato. In realtà, il self cui si riferisce l’autore è il sé sempre nuovo e diverso nel processo di creazione nel quale siamo in ogni momento coinvolti. Un processo nel quale – per usare un’espressione di Nietzsche – si diventa ciò che si è.
I rapporti umani più riusciti e duraturi richiedono la confidenza e l’indipendenza che solo la virtù della fiducia in sé stessi può conferire: la società ideale di Emerson è quella formata da “divinità potenti e indipendenti, che conversano da un picco all’altro dell’Olimpo”. Sebbene il nostro accentui l’importanza dell’indipendenza interindividuale nella società – per evitare che la loro vicinanza si tramuti in omologazione e imitazione – pone il fine della self-reliance nella sfera pubblica e sociale: in altre parole, egli è ben consapevole che dall’influenza degli altri è possibile uscire solo attraverso l’influenza degli altri. È quindi necessario distinguere un’influenza cattiva da una buona. Quella cattiva separa il soggetto dal principio della creazione e dell’originalità, pietrificando il sé nella morta ripetizione del pensiero e dell’agire degli altri. Quella buona permette invece al soggetto di attingere possibilità di vita, di pensiero e di azione sconosciute o ancora non realizzate. Ed è proprio questo tipo di influenza che hanno sul mondo gli uomini rappresentativi: i loro nomi – Platone, Mosè, Gesù, Lutero, Copernico, Napoleone – “sono scolpiti nella storia del mondo”. In Uomini rappresentativi, Emerson contrappone all’intelletto, finalizzato alla scienza e alla prassi quotidiana, un’intuizione razionale preposta alla comprensione del Tutto, della totalità, in definitiva dell’essenza ultima del reale. L’intera storia del pensiero è divisa tra “uomini parziali”, che utilizzarono soltanto l’intelletto senza riuscire a cogliere il reale senso delle cose, e “uomini rappresentativi” (o “uomini totali”), i quali, grazie alla ragione, afferrano la potenza infinita che sta alla base di ogni manifestazione fenomenica e naturale.
Oltre alla virtù cardine della fiducia in sé stessi, Emerson riconosce valore anche ad altre qualità umane, in particolare un tipo di fede e la pratica di un “saggio scetticismo”. Ci sono occasioni, egli afferma, nelle quali dobbiamo lasciare andare il mondo come va ed avere fede nella natura dell’universo: “come il viandante che ha perso la strada lascia andare le redini del cavallo e ripone la sua fede nell’istinto dell’animale per ritrovare la via, allo stesso modo dobbiamo comportarci noi con l’animale divino che ci porta attraverso questo mondo”. Tuttavia, il mondo del processo e del divenire richiede una sorta di flessibilità epistemologica e pratica, che Emerson chiama “saggio scetticismo”. L’emblema di questo tipo di scettico è Michel de Montaigne, ritratto in Uomini rappresentativi non come un pirronista, ma come un uomo con un grande senso del sé, radicato nella terra e nella vita comune, la cui ricerca è rivolta verso la conoscenza. Montaigne sa che la vita è pericolosa e incerta, una tempesta di diversi elementi la navigazione attraverso la quale richiede un’imbarcazione flessibile, adatta alla forma dell’uomo.
2.4 Il cristianesimo
Benché figlio di un pastore della Chiesa unitariana, studente della Facoltà di Teologia e pastore egli stesso per circa tre anni, Emerson riserva nel Discorso alla Facoltà di Teologia del 1838 una profonda e sentita critica alla religione cristiana, insistendo sulla stessa linea argomentativa già tracciata ne Lo studioso americano. Il nostro autore si accorge di come il moderno cristianesimo – con le sue istituzioni educative – soffochi e mortifichi lo spirito creativo dell’uomo: il cristianesimo è diventato “una monarchia orientale”, nella quale Gesù è stato reso l’oppressore dell’umanità.
Sebbene Emerson consideri una vera e propria calamità la perdita della fede e del culto da parte di una nazione, trova strano il fatto che, vista la crisi e “la carestia delle nostre chiese”, la gente sia ancora obbligata frequentarle. Egli invita perciò i membri della Facoltà a procurare nuova linfa per le vecchie forme della loro religione, ad essere amici ed esempi per i loro parrocchiani, a ricordarsi che “tutti gli uomini hanno pensieri sublimi; tutti gli uomini meritano qualche ora per essere ascoltati: essi desiderano essere ascoltati”.
2.5 La potenza
Il tema della potenza si ritrova in molti degli scritti di Emerson: ne Lo studioso americano, questo concetto è strettamente correlato all’azione, in particolare là dove l’autore sostiene che il vero intellettuale ripensa con rimorso ad ogni opportunità di azione che ha sprecato, considerandola una diminuzione della propria potenza. Ne La fiducia in sé stessi, il nostro afferma che la potenza che risiede in ognuno di noi è novità e creazione per la natura; L’esperienza contiene un passo nel quale Emerson esalta una vita che definisce “forte” e “vigorosa”. Infine, nel saggio La potenza, egli esalta la figura del rude, del “duro” che vive seguendo le proprie regole. Il power cui si riferisce Emerson conserva tuttavia più un carattere artistico-intellettuale che politico-militare. Un passaggio de La potenza recita infatti:
“Il momento più alto della storia umana fu quello in cui l’uomo aveva da poco abbandonato il suo stato selvaggio, il momento in cui la sua rude forza pelasgica era tutta diretta verso il nascente senso della bellezza – e qui abbiamo Pericle e Fidia – prima del trapasso nella civiltà corinzia”
La potenza si trova tutt’intorno a noi, ma non è sempre possibile controllarla. È come “un uccello che si libra nell’aria senza meta”, passando incessantemente di ramo in ramo.
2.6 L’Oversoul
In molte pagine dei suoi saggi e dei suoi discorsi, Emerson ci illustra una grande visione di unità: ne Lo studioso americano, parla di una “unità originaria” o “sorgente di potenza” di cui ognuno di noi è parte; nel Discorso alla Facoltà di Teologia scrive che l’uomo è “un’insenatura nel mare della Ragione”. In La fiducia in sé stessi, il saggio che più di ogni altro celebra l’individualità e la soggettività, accenna a come il Tutto si risolva nell’Uno. Tuttavia – come abbiamo visto in precedenza – il nostro autore ha una concezione del mondo come un processo in continuo divenire, un ininterrotto processo di creazione nel quale siamo in ogni momento coinvolti: come si possono conciliare queste due prospettive a prima vista fortemente in contraddizione fra loro? Come tenere insieme l’istanza individualistica e soggettivistica della self-reliance con la concezione dell’unità appena esposta?
Per ciò che riguarda la questione ora esposta, va segnalato che in nessun punto della sua opera Emerson si esprime in modo così chiaro da permettere di formulare una risposta definitiva. Ciò detto, possiamo provare a riflettere sul concetto emersoniano del sé: esso non è e non può essere ridotto a quello dell’autoconsapevolezza di un individuo-monade, autonomo e separato dagli altri individui. Il sé di cui parla il nostro autore deve essere concepito come una sorta di momento attraverso cui l’individuo si apre a una creatività impersonale e transindividuale che Emerson definisce oltreanima (over-soul). L’oltreanima, commenta Soressi, “rappresenta una sfida al concetto tipicamente occidentale del sé come ego e alla logica che ‘vuole’ concepire la mente umana come separata”. Il concetto di oltreanima infatti “rappresenta l’unità dell’intelligenza, degli istinti e dei sentimenti dell’umanità tutta, è come il tesoro già presente di tutte le possibilità di un soggetto umano”.
Il tentativo più diretto che il nostro fece per cercare di riconciliare la successione temporale con l’unità, o – se si preferisce – i molti con l’Uno, lo si può leggere in Nominalismo e Realismo, ultimo saggio della raccolta Saggi, seconda serie: in un passo decisivo, Emerson parla dell’universo come “un vecchio bifronte… di cui si può dire tutto e il contrario di tutto”. È più che evidente l’esito scettico al quale approda lo scrittore americano. Una venatura scettica è presente anche in quella visione che Stanley Cavell ha definito “epistemologia dei modi”. Secondo questo modello gnoseologico – rintracciabile soprattutto nel saggio L’esperienza ma presente in tutti gli scritti del nostro autore – noi non conosciamo nulla in modo diretto e immediato, non conosciamo ciò che una cosa è in sé, ma solo ciò che una cosa è sotto un determinato aspetto o modo.
3. Alcune questioni su Emerson
3.1 Il problema della coerenza
Il pensiero di Emerson è stato a più riprese tacciato di incoerenza: da una parte, egli sostiene che il mondo è un processo e un divenire continuo; dall’altra, che è espressione di un’unità. Dice che il mondo procede per la sua strada e che non si cura del nostro volere, ma ci invita ad avere fiducia nel potere creativo e innovativo della nostra immaginazione; esalta i benefici del viaggio, esperienza capace di arricchire la nostra interiorità, ma contemporaneamente ce ne mostra la futilità, e seguendo il classico tema della commutatio loci, sostiene che, pur svegliandoci in posti sempre nuovi, troviamo comunque ad aspettarci il vecchio self che pensavamo di lasciarci alle spalle: “per quanto viaggiamo in tutto il mondo per trovare ciò che è bello, dobbiamo portarlo con noi oppure non lo troveremo”.
L’epistemologia dei modi – come abbiamo visto poco sopra – potrebbe essere vista come una struttura concettuale nella quale inserire e far convivere dottrine, teorie e punti di vista altrimenti inconciliabili. Oppure basterebbe semplicemente considerare che il pensiero di Emerson ammette lo scontro degli opposti, “the clangor and jangle of contrary tendencies”, facendogli affermare, con Eraclito, che è pòlemos il padre di tutte le cose. Oltre a ciò, è da notare come, nonostante le critiche, l’insegnamento del nostro possa comunque definirsi complessivamente coerente. Basti pensare all’idea dell’anima attiva e creatrice, nocciolo del concetto di self-reliance: su questo caposaldo Emerson fonda la discussione della maggior parte dei temi che tratta, dall’educazione alla religione, dalla morale fino al divenire del mondo.
3.2 I “due” Emerson
È difficile per un lettore attento non percepire alcune importanti differenze tra il giovane e il vecchio Emerson: ad esempio tra l’ottimistico autore di Natura (1836) e quello disilluso che emerge leggendo il finale de L’esperienza (1844); tra il fresco scrittore di La fiducia in sé stessi (1841) e quello fiacco di Destino (1860). Emerson stesso sembra rendersene conto quando, nel saggio appena citato, scrive: “una volta pensavo che il potere creativo e positivo fosse tutto. Ora ho imparato che il potere negativo, o le circostanze contingenti, sono la metà di questo tutto”. È la dimostrazione che Emerson col tempo ha imparato una lezione che ha modificato il suo modo di pensare e di scrivere? Una lezione concernente i molti modi in cui le circostanze su cui non possiamo esercitare il nostro controllo – malattie, catastrofi naturali, carattere, istinto, età – minano la fiducia in sé stessi e nella vita?
In questo senso, L’esperienza è un saggio chiave, uno scritto di transizione: sull’atmosfera dell’opera, pesa costantemente un terribile evento, la morte del figlio Waldo, avvenuta un paio d’anni prima. I toni sono naturalmente tristi: Emerson ci parla di confusione, turbamento, sconvolgimento, oscurità. Egli trova in questo episodio un esempio di quello sgradevole carattere dell’esistenza per cui essa sempre scivola e fugge via da noi, proprio come farebbe sabbia finissima tra le nostre dita.
Ciononostante, sebbene esista qualche significativa variazione nello stile e nel tono della prosa emersoniana, la visione che il nostro autore fa valere della condizione umana rimane sostanzialmente la medesima lungo tutta la sua opera. In generale, possiamo constatare come i primi lavori, più freschi e solari, lascino trapelare una maggiore fiducia nelle potenzialità umane, dipingendo un uomo in qualche modo pronto per un grande passo avanti; sulle opere più tarde, invece, sembra quasi gravare un peso, un fardello che soffoca la fiducia dell’uomo in se stesso e ne opprime la volontà.
3.3 Fonti del suo pensiero e fortuna della sua opera
La gamma degli interessi e delle letture di Emerson fu molto ampia: nei suoi saggi, cita spesso gli scrittori dai quali ha tratto ispirazione per una particolare riflessione. Nei suoi journals, troviamo vere e proprie liste di letterati, filosofi e pensatori religiosi a partire dalle idee dei quali egli ha sviluppato qualche nuova concezione. Tra i più importanti vanno sicuramente citati Platone e i neoplatonici maggiori (Plotino, Proco, Giamblico); ugualmente significativi per la formazione del nostro furono gli autori di tradizione kantiana e romantica (che egli conobbe probabilmente tramite la Biographia Literaria di Coleridge). Emerson si interessò anche della cultura orientale, in particolare della filosofia induista e del confucianesimo. Per dare un’idea della vastità delle influenze del nostro – senza tuttavia avanzare alcuna pretesa di completezza – elencheremo qui di seguito, in ordine sparso, alcuni degli scrittori che più frequentemente vengono citati nei suoi lavori: Berkeley, Wordsworth, Newton, Anassagora, Schlegel, S. Agostino, Bacone, Jacob Behmen, Cicerone, Lucrezio, Goethe, Socrate, Eraclito, Pitagora, Schiller, Shakespeare, Madame de Staël, Emanuel Swedenborg (ma l’elenco potrebbe continuare).
Oggigiorno le opere di Emerson sono abbastanza ben conosciute sia negli USA sia in Europa. Uno dei primi ad apprezzarlo nel vecchio continente fu Friedrich Nietzsche: a proposito dei Saggi di Emerson, il filosofo tedesco disse che mai in un libro si era sentito tanto a casa sua: non deve perciò stupire che molte idee e riflessioni del nostro – sulla storia, sull’educazione, sulla potenza, sul self – possano essere rintracciate anche negli scritti di Nietzsche. Per quanto riguarda il panorama culturale americano, non è da sottovalutare la profonda influenza che Emerson esercitò su personalità del calibro di William James e John Dewey, pensatori che, insieme a C.S. Peirce, possono essere considerati i principali esponenti del pragmatismo americano.
FEDOR MICHAILOVIC DOSTOEVSKIJ
“Se Dio non esiste, tutto è permesso”.
A cura di Loreti Matteo
Quella di Dostoevskij non è propriamente un’opera filosofica: se si escludono brevi saggi apparsi su varie riviste dell’epoca, oltre al suo diario nel quale esprime in forma concettuale le idee che poi si incarnano nei personaggi dei suoi romanzi, egli preferì alla schematicità e sistematicità del trattato la finzione letteraria; la sua è una filosofia dialettica che, come nei dialoghi platonici, lascia intravedere nella cadenza della conversazione, degli scambi di idee tra i suoi personaggi la sua concezione della vita umana, una concezione vorticosamente incentrata sull’idea di libertà e di dignità. Gide scrisse che i romanzi di Dostoevskij sono i libri più carichi di pensiero che esistano, pur essendo romanzi. In Dostoevskij filosofia e letteratura si fondono, si compenetrano, perché se la filosofia è riflessione sulla esistenza è propedeutica alla scelta tra le modalità che questa propone, e non mera speculazione; e quindi non può nascere che dall’esistenza, dalla vita. Il problema fondamentale che attraversa tutta la sua opera, almeno dalle Memorie del sottosuolo in poi, è un problema etico e metafisico insieme; quello del bene e del male, che l’uomo è chiamato a scegliere in virtù della libertà che Dio gli ha concesso.
Nel dibattito filosofico italiano, è stato il filosofo piemontese Luigi Pareyson a portare l’attenzione sulla figura di Dostoevskij, scorgendo in lui le radici di un pensiero tragico al cui centro stanno la libertà e la scelta.
Per capire l’opera, è tuttavia necessario conoscere la vita dello scrittore Dostoevskij, che contribuisce a mettere in luce il passaggio dalla concezione umanitaristica dei primi romanzi, da Povera gente a Memorie di una casa di morti a quella metafisica dei grandi romanzi e culminante nel potente e inquietante affresco de I fratelli Karamazov; e ovviamente il contesto storico e culturale della Russia della seconda metà dell’ottocento.
Fedor Michailovic Dostoevskij nasce a San Pietroburgo nel 1821. La sua famiglia discende dalla piccola nobiltà lituana del XVIII secolo. Il padre dello scrittore era un medico militare, diventato poi col tempo un piccolo proprietario terriero, dispotico e violento, tanto che verrà ucciso da uno dei suoi servi. La madre, una donna gentile, serena, profondamente cristiana, avvicina per prima Fedor alla religione, leggendogli fin da piccolo brani della Bibbia. Il futuro scrittore viene costretto dal padre a compiere studi tecnici, ma la vocazione letteraria si manifesta in lui immediatamente, tanto da fargli pubblicare a ventiquattro anni il primo romanzo, Povera gente, da lui definito “un romanzo dell’ampiezza di Eugenie Grandet” di Balzac.
Contemporaneamente, egli entra a far parte di un circolo letterario di orientamento politico sovversivo, dove si leggono testi di autori socialisti come Fourier e Saints Simon. Quando il circolo viene dichiarato fuori legge, Dostoevskij viene condannato all’esecuzione capitale con gli altri membri, ma proprio mentre i condannati sono di fronte al plotone di esecuzione arriva improvvisa l’ordinanza dello zar che commuta loro la pene capitale e dispone quattro anni di lavoro forzato in Siberia. Durante tale periodo, Dostoevskij si avvicina al pensiero slavofilo, riscopre il cristianesimo ortodosso abbandonando le posizioni politiche eversive prima appoggiate. Uscito dal carcere, fonda una rivista letteraria dove si scaglia più volte contro i nichilisti di orientamento socialista che, a suo dire, mettono a repentaglio lo spirito e il senso religioso russo, oltre a destabilizzare la situazione politica, con la loro dichiarata professione di ateismo e la proposta di rovesciare con la rivoluzione l’ordine sociale e politico esistente in nome della rivoluzione. Nel frattempo, è già iniziata la pubblicazione dei grandi romanzi; nell’ordine, Memorie del sottosuolo, Delitto e castigo, L’idiota, I demoni, e ultimo il capolavoro I fratelli Karamazov, ultimato poco prima della morte, avvenuta nel 1881.
Dostoevskij può essere considerato, come sostiene Nikolaj Berdjaev, “il più grande metafisico russo”. La sua è un’intuizione cristiana del mondo e dell’esistenza umana che ruota intorno alla sacralità della vita, una sacralità che non può avere altra motivazione che non derivi necessariamente dalla sua origine divina. La fede cristiana (ortodossa, s’intende) rappresenta quindi la stella polare che guida Dostoevskij nella sua analisi, a volte crudele ed impietosa, dell’animo umano, del quale scandaglia le profondità che si rivelano alla superficie quando questi abusa della sua libertà e la muta in arbitrio. L’uomo è libero, ci dice Dostoevskij, tragicamente libero, perché è stato creato a immagine e somiglianza di Dio che l’ha messo al mondo dotato di ragione, facoltà che deve saper incanalare per poter cogliere nel corso dell’esistenza la differenza tra il bene e il male. Quando però la “ruminazione cerebrale” (espressione usata da Gide) conduce alla pretesa superomistica di autodeterminarsi da sé, rinnegando Dio e perciò anche la natura divina dell’uomo, la libertà rinnega sé stessa e si ritorce contro l’individuo, conducendo la sua personalità alla dissoluzione. Nessuno come Dostoevskij ha rappresentato con così tanto vigore gli effetti a cui può portare il rovesciamento della natura divina dell’uomo dal Dio-uomo all’Uomo-dio.
La dialettica dostoevskijana squarcia i veli che la filosofia razionalistica aveva steso sui più bassi istinti della natura umana, impedendo di coglierne le contraddizioni. Sembra quasi di ritrovare qualcosa dello spirito di Eraclito nello scrittore russo: pur essendo una vera e propria gnosi, le sue idee sono percezioni dinamiche della realtà, non statiche come avviene in Platone; la sua filosofia è una percezione religiosa dell’esistenza umana, che si colloca però all’opposto dei grandi pensatori cristiani mistici proprio perché nei suoi personaggi rappresenta le conseguenze che la tragicità insita nella libertà umana può portare all’individuo. Emblematica, in questo senso, è la figura dell’“uomo del sottosuolo”, espressione indicante quel lato oscuro della personalità presente in ogni uomo che Freud più avanti chiamerà “inconscio”. Costui dichiara infatti nelle sue memorie (prima con una sconvolgente riflessione-confessione, poi con una serie di episodi della sua vita) che l’uomo sarebbe disposto, pur di conservare per sé la cosa più stupida e dannosa, la peggiore umiliazione o vergogna pur di conservare la sua libertà nei confronti degli alfieri del progresso sociale e politico che vogliono impostare la convivenza sociale e l’ordine politico in base a criteri di pura razionalità. L’uomo non sarà mai un tasto di pianoforte e non si rassegnerà mai al “due più due uguale quattro”.
Memorie del sottosuolo è forse l’opera più profonda e compiuta di Dostoevskij, quella dove la sua filosofia viene espressa in forma pura, e rappresenta un sconvolgente resoconto del più turpe lato dell’animo umano. Pochi hanno saputo trattari temi così alti e profondi con tale forza e chiarezza espressiva. Tra gli autori a lui contemporanei, si fa spesso il nome di Friedrich Nieztsche, a cui è accomunato dalla percezione tragica dell’esistenza che però nel filosofo tedesco si risolve nel nichilismo perché egli è troppo profondamente legato alla cultura greca e sostanzialmente estraneo al cristianesimo, incapace perciò di intravedere nella figura salvifica di Cristo il riscatto dell’umanità. La concezione di Dostoevskij è tragica, ma nella misura in cui il fardello della libertà pesa interamente sulle spalle dell’uomo conferendogli tutta la sua dignità. Quella di Nietzsche è concezione dell’assurdo, perché non riconosce alcun senso ontologicamente dato nell’essere: per riscattarsi, l’uomo deve darsi da sé un senso trasformandosi nel superuomo la cui volontà di potenza lo conduce però alla catastrofe dell’anti-uomo.
È impressionante come Dostoevskij abbia in questo anticipato la concezione superomistica di Nietzsche con Delitto e castigo prima e con I demoni poi, dove lo stesso problema viene affrontato a livello politico e collettivo anziché individuale. Il primo è la storia di un giovane studente, Raskolnikov, convinto di avere facoltà intellettive e personalità eccezionali, e per mettersi alla prova decide di uccidere una vecchia usuraia, odiata da tutti, pensando di realizzare un’azione positiva. In realtà, dopo l’omicidio, il giovane si trova gravato da un peso che lo porta a sfiorare la follia e lo costringe a confessare il delitto: la consapevolezza di aver oltrepassato i limiti della libertà umana, l’affermazione della quale si è scontrata con la brutalità di un’azione che ha leso la libertà e la dignità di una creatura che, per quanto insignificante possa essere, ha comunque diritto alla vita sulla base del presupposto che ogni uomo è a immagine e somiglianza di Dio e pertanto la sua sorte non può essere decisa da un altro uomo. Raskolnikov riuscirà a sottrarsi alla perdizione e allo sdoppiamento della personalità solo grazie all’amore della giovane Sonija, figlia di un impiegato conosciuto in una bettola al principio del romanzo e poi morto investito da una carrozza. Sonija viene tratteggiata da Dostoevskij come una ragazza giovane, semplice, umile, costretta a prostituirsi per pagare i debiti del padre e proprio per questo dotata di una grazia, di una bellezza interiore che poco a poco redime il giovane studente con la forza della compassione e della pietas cristiana. Solo nei semplici, nei puri di cuore, come nel Vangelo, Dostoevskij vede incarnata la capacità di sentire le sofferenze altrui e solo in esse la passione intesa come forza purificatrice lava l’animo di coloro che hanno imboccato la strada del male, redimendoli. Lo stesso avviene con la figura del principe Miskyn, il protagonista de L’idiota: il termine non è qui riferito alle scarse capacità intellettive del protagonista, quanto piuttosto alla sua purezza d’animo, alla sua ignoranza delle cose del mondo. Tornato in Russia all’età di ventisette anni, dopo aver passato gli anni precedenti in cura presso una clinica svizzera per epilessia che l’aveva ridotto, secondo egli stesso, “quasi un idiota totale”, viene introdotto nell’aristocrazia russa grazie a una lontana parente e coinvolto in una serie di episodi che lo condurranno alla pazzia perché incapace di comprendere la malvagità e la malafede delle persone con le quali si trova a che fare che tenta di comprendere nel profondo e redimere. Tutti considerano il principe un povero ingenuo sprovveduto, ma la sua capacità di leggere nell’animo delle persone talvolta è così straordinaria da disarmare; ma proprio il suo candore sarà la causa della sua rovina. Il suo amore per una giovane donna, Nastasja Filipovna, che il volgare Rogozin cerca di possedere e di comprare con la ricchezza, è un amore non passionale, ma “di compassione”, ma la giovane, l’unica ad aver veramente intuito la enorme nobiltà d’animo del principe, lo fugge continuamente proprio per l’incapacità di sostenere un simile amore, per il quale non si sente adatta, temendo di portare il principe alla pazzia, tra le cui nebbie egli però finisce ugualmente in tentativo quasi donchisciottiano (il personaggio che Dostoevskij amava più di tutti) di redimere il mondo che lo circonda. La capacità di Dostoevskij di ritrarre figure così estreme nella loro unicità, eppure contemporaneamente così realistiche, vive e vicine allo spirito dei nostri tempi raggiunge forse il suo apice ne I demoni: qui le straordinarie e inquietanti figure di Verchovenskij, Stavrogin, Kirillov, i cospiratori della setta socialista trasudano una forza spirituale e umana immensa. Nel personaggio di Stavrogin, Dostoevskij sembra aver voluto rappresentare gli effetti di quello che Kierkegaard in Aut-aut chiama lo “stato estetico”: dotato di una eccezionale forza spirituale e di un eccezionale carisma, Stavrogin non sa incanalare questa energia in nessuna direzione, perché incapace di scegliere: il bene e il male in lui producono lo stesso effetto, tanto da far dire a uno dei personaggi del romanzo, Sciatov, che in lui “l’ideale della madonna e quello di sodomia dispiegano la stesso fascino, tanto che il marchese De Sade avrebbe potuto prendere esempio da lui”. L’unica cosa che lo stimola è la sua abnorme avidità di sensazioni, che lo porta a provare qualsiasi esperienza, con sadico sarcasmo, senza che egli riesca a decidere fra il bene e il male. Ma proprio questa sua irresolutezza lo condurrà allo sdoppiamento della personalità e all’incapacità d’amare, fino al suicidio finale. Kirillov porta invece agli estremi l’idea del suicidio logico formulata da Dostoevskij nel Diario di uno scrittore; la sua idea è quella di uccidersi per poter diventare egli stesso un Dio, liberare l’uomo dalla paura della morte e donargli la libertà. Come ha efficacemente scritto Pareyson, nella prospettiva fatta valere da Dostoevskij “l’uomo non può riconoscere Dio senza volerlo essere”, con tutti gli effetti catastrofici che ne scauriscono. Negare Dio vuol dire divinizzare l’uomo: ma ciò porta a effetti disastrosi, alla luce del fatto che “se Dio non esiste, tutto è permesso” (I fratelli Karamazov), crolla ogni limite e l’uomo può commettere ogni sorta di nefandezza.
La sostituzione dell’uomo a Dio è così tratteggiata da Dostoevskij ne I fratelli Karamazov:
“Secondo me, non c’è nulla da distruggere, fuorché l’idea di Dio nell’umanità; ecco di dove occorre cominciare! È di qui, di qui che si deve partire, o ciechi, che non capite nulla! Una volta che l’umanità intera abbia rinnegato Dio (e io credo che tale epoca, a somiglianza delle epoche geologiche, verrà un giorno), tutta la vecchia concezione cadrà da sé, senza bisogno di antropofagia, e soprattutto cadrà la vecchia morale, e tutto si rinnoverà. Gli uomini si uniranno per prendere alla vita tutto ciò che essa può dare, ma unicamente per la gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si esalterà in un orgoglio divino, titanico, e apparirà l’uomo-dio. Trionfando senza posa e senza limiti della natura, mercé la sua volontà e la sua scienza, l’uomo per ciò solo proverà ad ogni istante un godimento cosí alto da tenere per lui il posto di tutte le vecchie speranze di gioie celesti. Ognuno saprà di essere per intero mortale, senza resurrezione possibile, e accoglierà la morte con tranquilla fierezza, come un dio. Per fierezza comprenderà di non dover mormorare perché la vita è solo un attimo, e amerà il fratello suo senza ricompensa. L’amore non riempirà che un attimo di vita, ma la stessa consapevolezza di questa sua fugacità ne rinforzerà altrettanto l’ardore quanto prima esso si disperdeva nelle speranze di un amore d’oltre tomba e infinito…”, e via di questo passo. Delizioso!”
In Kirillov c’è ancora quell’amore per gli uomini che in Stavrogin è spento, ma la radicalità della sua idea lo ha inghiottito e portato all’indifferenza verso ogni cosa, persuaso dall’ateismo che la vita non abbia nessun senso. Il suo suicidio deve allora essere un gesto di redenzione, come quello di Cristo, che però fallisce perché sono le sue stesse premesse ad essere assurde e quindi, di conseguenza, a rendere assurdo e irrealizzabile il fine. Kirillov accetta emblematicamente di firmare, prima di morire, una dichiarazione nella quale si assume per intero le responsabilità dei crimini commessi da Verchovenskij e dai suoi seguaci. Se Miskyn viene condotto alla pazzia dalla sua incapacità di fronteggiare la realtà, la quotidiane bassezze della lotta alla sopravvivenza, Kirillov tenta un sacrificio che non redime nessuno perché rappresenta una rivolta contro la natura umana, non la sua realizzazione. I demoni non è, come è stato detto, un romanzo politico, ma un romanzo profetico il cui contenuto è prima di tutto metafisico, in quanto Dostoevskij aveva già capito come quello del socialismo fosse, prima che un problema politico, un problema religioso; solo rinnegando la natura divina dell’uomo e quindi la figura di Cristo come fondamento della convivenza sociale era possibile pensare di costruire una società utopica in cui l’uomo avrebbe potuto realizzare da sé la perfezione facendo a meno di Dio, ma questo doveva necessariamente portare, secondo lo scrittore, a quelle tragedie che sempre si determinano quando viene meno la sacralità della vita umana e questa può essere di conseguenza concepita anche come fine per raggiungere propri scopi, come ben illustra la figura di Verchovenskij.
L’opera di Dostoevskij si conclude con I fratelli Karamazov, nel quale svetta l’episodio del grande inquisitore. Dostoevskij immagina lo svolgimento di un processo nei confronti di Gesù, responsabile secondo il grande inquisitore, ateo ma capace di un grande amore per gli uomini. Quest’ultimo accusa Gesù di aver fatto un torto donando all’uomo la libertà, della quale egli non sa che farsene, al posto della felicità: se infatti l’esistenza umana fosse ritmata dalla necessità, la felicità sarebbe stata facilmente accessibile, ma l’uomo avrebbe dovuto rinunziare alla libertà, alla dignità, alla ricerca di senso nel corso del proprio cammino. Anche negli abissi dell’oscurità del male, l’uomo deve sempre lasciarsi guidare dalla luce di Cristo, che è verità sulla libertà, perché la prospettiva della vita eterna le conferisce un senso, e libertà nella verità perché Dio lascia l’uomo libero di credere, libero di scoprire con le proprie azioni la distinzioni di bene e male. Per questo Cristo non è sceso dalla croce, perché è la fede che deve produrre il miracolo e non viceversa.
Il messaggio di Dostoevskij, come quello dei grandi filosofi e dei grandi tragici, acquisisce valore nel tempo, anziché perdere importanza, perché la sua sensibilità indaga gli eterni problemi dell’uomo. La sua straordinaria attenzione per la vita sociale e politica della sua epoca non rende certo anacronistico il suo messaggio, anzi lo rende vivo perché mostra gli effetti che grandi idee producono nella vita di persone comuni nella vita di tutti i giorni. La sua attualità è del resto evidente oggi: basta pensare al difficile tentativo di conciliare fede e scienza, al dibattito sulla laicità dello stato che oggi trovano ampio risalto nei nostri media. Su questi temi, lo sguardo di Dostoevskij può essere ancora illuminante e scuotere ancora le coscienze.
LA LIBERTÀ SECONDO DOSTOEVSKIJ
di Maria Russo
1. Introduzione: sul concetto di libertà e di libero arbitrio
2. Quali possibilità per la libertà? Dialogo tra Nietzsche e Dostoevskij dal sottosuolo
3. Cosa non è libertà? Incontri con anime belle e demoni
4. Oltre il libero arbitrio, la libertà
5. La libertà implica la tragedia dell’esistenza?
6. Conclusioni: felicità o libertà oppure felicità della libertà?
Introduzione: sul concetto di libertà e di libero arbitrio
Dostoevskij non è un filosofo. Eppure, presenta un carnevale di filosofie ognuna incarnata in un personaggio, che non solo espone ma anche vive: smaschera e/o mostra anche la coerenza con il discorso.
I personaggi in Dostoevskij sono indagati sempre “al limite”: niente può essere tiepido, si cerca appositamente il termine ultimo delle dinamiche di azione e reazione per esplorare ed indagare (e Pareyson arriva a definire questa ricerca “pneumatologica” anziché psicologica). Gli spesso improbabili esperimenti mentali della filosofia analitica sono insipidi e inefficaci a confronto di questi personaggi, reali estensioni della gamma delle emozioni umane. Ogni idea acquista così uno spessore organico, fino appunto a “pulsare”. L’idea è una sorta di ossessione, talmente ingombrante da assorbire interamente il personaggio. In Dostoevskij l’idea non è una dimensione dell’uomo; è l’uomo ad essere carne di tale idea. I personaggi che invece non si esauriscono in questa sintesi eccedono il carnevale di maschere e riescono ad emergere come persone.
Questione fondante, tarlo e dei suoi personaggi e dell’autore stesso, è l’individuazione dei confini e delle possibilità della libertà.
Essa per Dostoevskij non è il superamento di ogni limite orizzontale, uno sbarazzarsi di ogni vincolo (che bisogna ben distinguerla dal libero arbitrio), ma lo sprofondarsi in un abisso di verticalità: una vertigine, che rende difficile l’affacciarsi sull’abbandono della razionalità.
Quali possibilità per la libertà? Nietzsche e Dostoevskij dal sottosuolo
Le argomentazioni filosofiche che Dostoevskij propone rientrano nella logica narrativa del monologo e del dialogo, ma non si potrebbe esaurire all’interno di una trattazione saggistica. Eppure, egli non si è limitato a dare voce al pensiero contemporaneo o alla propria biblioteca di sapere: ci sono forme e contenuti originali, nuovi in virtù anche della loro visione “profetica” e lungimirante. Non sarà allora certo anacronistico o indebito acconsentire ad un dialogo tra lo scrittore russo e il più giovane F. Nietzsche, che si è definito suo “fratello di sangue”. In entrambi, vi è una moltiplicazione di giochi di maschere che lasciano spesso dubitare la critica quale sia il volto più rispondente al pensiero dell’autore. Ma le analogie non terminano qui: sia Nietzsche sia Dostoevskij hanno vagliato l’autenticità del valore della libertà, interrogando in modo lucido e spietato la tradizione, senza alcun pudore reverenziale nei confronti di un auctoritas ormai metabolizzata. Nietzsche però si è arreso di fronte alla decostruzione del significato “genealogico” della libertà, mentre Dostoevskij ha tentato di varcare le porte della storicità del termine per indicarne una possibilità normativa. Nietzsche e Dostoevskij sono campioni contro l’ingenuità; hanno alzato il velo di Maja e mostrato le ipocrisie e le illusioni dell’orizzonte comune della morale. La libertà, per essere scelta, ha bisogno di un soggetto forte che la affermi e la voglia. Nietzsche lascia la libertà impotente sostenendo l’inconsistenza dell’Io. La vera differenza tra Nietzsche e Dostoevskij non è la preferenza rispettivamente per il dionisiaco e per la croce, ma per la concezione della volontà: per il primo è un’energia indipendente ed autosussistente mentre per il secondo si tratta sempre della “volontà di qualcuno”. Nietzsche relega il senso di responsabilità e di colpa a ciò che deve divenire al più presto possibile un passato di mistificazione; Dostoevskij ne riconosce i limiti, ma sa bene che sono ineliminabili per ciò che l’uomo è dal punto di vista costitutivo (e, presumibilmente, continuerà ad essere).
Se si estrapolano alcune frasi o interi brani da Memorie del sottosuolo non sarebbe certo difficile attribuirli alla penna graffiante e scorretta del maestro del sospetto che chiama per nome l’intera tradizione “nichilismo”. Quello che Nietzsche descrive corrisponde alla confessione di quest’uomo del risentimento, che deride e prova disgusto nei confronti del costume, della società e del prossimo –ma in realtà anche di se stesso, ancora imbrigliato nei sentimenti morali.
L’uomo del sottosuolo è l’uomo occidentale che si risveglia dalle “essenze profumate” del Romanticismo e che nega con la forza di chi non è da sempre stato all’opposizione ma si è sentito tradito da quei valori falsi ed ambigui. Le dinamiche di vanità, orgoglio, invidia, ossessione, sdoppiamento,… sono da entrambi indagate. Nietzsche con estrema lucidità investe di luce fredda i “meccanismi” dell’uomo e li svuota, Dostoevskij li fa corrodere dall’interno. Nietzsche è esplosivo, Dostoevskij è implosivo. L’uno grida, l’altro conduce il lettore a vedere.
A Dostoevskij non importa dire che e se gli uomini del sottosuolo siano inferiori o superiori –cosa che invece è priorità per Nietzsche. È più probabile che Dostoevskij li veda come uomini più comuni di quanto diano a vedere, consapevoli sì, ma ben lontani dalle altezze vertiginose dei “peccatori santi”. L’uomo del sottosuolo è lucidamente aspro, si tormenta perché il suo unico interesse è essere spiacevolmente sincero, beffeggiandosi del benessere e della convenienza sociale e psicologica. Ma dalla propria consapevolezza non sa che ricavare altro che cinismo e osservazione voyeuristica della vita degli altri, fino ad arrivare ad essere spettatore della propria. Procedendo in questa direzione, si arriva a perdere il senso dell’agire e del riconoscimento della propria identità in ciò che si fa, si dice, si vive.
Per Nietzsche la libertà si identifica quasi totalmente nel libero arbitrio, che viene considerato come una sorta di trucco cattolico, tirato fuori dal cappello da prestigio di una morale nichilistica che si è assunta il ruolo di guida dell’Occidente per attuare la sua volontà di potenza e di vendetta. La libertà non è neppure attribuita all’Ubermensch, come a dire: che se ne fa della libertà l’Oltreuomo? Vecchia parola, gravida di fraintendimenti storici. La volontà di potenza è oggettiva; lasciarla fluire non è la scelta di un soggetto che si stempera sempre di più come puro fascio conduttore di un’energia che non può essere “mia” o “tua” scelta.
Dostoevskij invece crede concretamente e profondamente nel soggetto, e anche nella possibilità di una significazione nuova di libertà, dopo aver cancellato tutti gli equivoci superficiali legati a questa parola.
Cosa non è libertà? Incontri con anime belle e demoni
E d’altro canto Dostoevskij non propone affatto una proclamazione dei valori ingenua; l’anima bella schilleriana viene compatita, e presentata come figura tragicomica che si affaccia fallimentare nel mondo.
Basti pensare al principe Myskin de L’idiota, che come l’albatros di Baudelaire non è adeguato alla terra e non è portato alla vita; infatti, non riuscirà nemmeno ad esplicare la sua funzione salvifica, che sarebbe prerogativa essenziale per riconoscere la figura cristologica (si mantiene l’onniscienza, ma non certo l’onnipotenza: è un Cristo fine spettatore del mondo ma impotente –dopo il servo, ora l’idiota). Myskin è un uomo distaccato dalla vita tanto quanto la sua nemesi (che potrebbe essere lo Stavrogin dei Demoni): è un Cristo a cui mancano la volontà e l’incarnazione. Cristo ha una portata rivoluzionaria che non ha niente a che fare con la mitezza di Myskin: non vi è un corrispettivo dell’episodio del tempio. Nessuna spada promessa, e nessun tipo di manichea distinzione tra bene e male. Myskin nei suoi momenti “magici” intuisce che in fondo tutto può essere il contrario di tutto. La sua estrema tolleranza deriva anche dal fatto che sa bene quale sia il potere dell’ideologia e che ogni possibile alternativa non potrà che configurarsi come un’ulteriore dottrina dogmatica. Egli risulta inadeguato rispetto al “medio” (tanto è che solo i personaggi più estremi, Rogozin e Nastas’ja, possono instaurare con lui una sorta di empatia che portano, paradossalmente, il primo ad esserne profondamente geloso e la seconda ad innamorarsi); non è in cerca di proseliti, accenna all’azione, ma viene solo confermata la sua impossibilità di poter incarnare l’ideale di bene che pur intendeva. Alla fine dilegua, come il Cristo della Leggenda, e non si sa cosa sia venuto a fare e perché.
L’altra faccia della medaglia, in parte nemesi e in parte complemento del Myskin che sente sciogliere i propri limiti umani durante l’epilessia, è Stavrogin. I Demoni è il romanzo che si costruisce come vera Apocalisse risultato dell’esasperazione dell’affermazione dell’oltreuomo. Il “tutto è permesso” è qui indagato concretamente nei suoi esiti più catastrofici. Non è possibile costruire un edificio etico con ideali estremi astrattamente applicati nella realtà pratica; da qui, la confutazione del socialismo, dell’ateismo e del nichilismo.
I demoni vogliono liberarsi dal pensiero religioso, ma con un inno a un nuovo Dio, tutto fatto di negazione e decostruzione. Ma cosa è che davvero conta, la possibilità teor(et)ica di quel Dio –il cui carattere eccezionale già è affermato dall’autentico cavaliere della fede- o ciò che viene compiuto nel suo nome? Il Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov, ad esempio, usa Dio e Cristo come stendardo che faccia ombra al suo potere manipolatorio.
Stavrogin, il burattinaio diabolico che è sempre presente anche quando non è in scena come centro motore di tutti gli altri personaggi, non è altro che un “sepolcro imbiancato”, indifferente, privo di personalità e di umanità, mera energia che si manifesta. Infatti, lungi dall’essere un punto di orientamento è centro di attrazione magnetica che però conduce in un vortice caotico e privo di senso. Egli affida a tutti i suoi “adepti” una maschera, un’idea da portare, convince ad ideali che per lui sono solo possibilità che mai sceglie; e lui stesso sarà ben presto vittima di questa spirale di sperimentazione non finalizzata ad una posizione. Nessuna redenzione, nessun dispiacere morale: perfino il vescovo Tichon è costretto a riconoscere che neppure il suicidio e la confessione sono sintomo di salvezza nel suo caso. La perdizione di Stavrogin deriva dal suo freddo distacco dalla vita e dalla sua distanza rispetto agli altri: egli non guarda il suo prossimo, è incapace di vederlo come “persona”, e quindi non può riconoscersi e portare verso se stesso il rispetto di cui gode la “persona”. Si potrebbe forse definire Stavrogin come il demone di Kant, colui che nega nel modo più grave e convinto il regno dei fini in sé della Critica della Ragion Pratica. Una volontà che vuole senza contenuto sembra necessariamente andare a configurarsi come un capriccio. Stavrogin è l’emblema dell’indifferenza: è immorale, tutto vuole che sia suo campo d’azione ma in realtà è una figura aleatoria che non si può soffermare su niente.
Personaggi come Stavrogin o Raskol’nikov arrivano a preoccuparsi solo di categorie estetiche –laddove l’unico timore che può fungere da freno è l’ossessione di cadere nel ridicolo. Tanto è che si smaschera il vero volto del libero arbitrio, ossia un’autocelebrazione piuttosto narcisistica che ben poco si preoccupa seriamente dell’azione. Stavrogin si permette di non soffrire né amare proprio perché è spettatore disinteressato della propria vita e regista sperimentatore di quelle altrui (conservando però sempre il medesimo distacco scientifico). Tutti gli ideali che vengono qui messi in gioco da questa elite demoniaca della società pietroburghese sono ulteriori esemplificazioni del fraintendimento della libertà. L’idea è un Dio disumano, l’antitesi della libertà: si arriva a colpevolizzare il soggetto perché non è stato in grado di adeguarsi all’idea.
Non è un conservatore Dostoevskij: l’unione del potere temporale e spirituale, così come l’universalismo umanitaristico sono proposte di cui percepisce il fallimento e l’inumanità.
Ma di cosa è fatto l’uomo? E senza aspettare Freud, è il sogno a suggerire a Raskol’nikov (attraverso la metafora della cavallina, prefigurazione del delitto dell’usuraia e di Lizaveta) e a Stavrogin (attraverso il ricordo della bambina stuprata, riproposizione del suo misfatto) che la contraddizione non sussiste tra “uomo mediocre” e “idea nobile”, bensì tra “idea idolo” e “vita vera”.
Paradigmatica è la figura di Kirillov, che per affermare la massima libertà propone il suicidio scelto senza motivo e senza orrore (una sorta di “resurrezione in parodia” del Cristo). Nella teoria, Kirillov afferma un paradiso concreto, dove la morte viene sconfitta in quanto non più vissuta come un traguardo obbligatorio (in fondo la vera costrizione della natura umana, che si nasconde dietro a tutte le sue declinazioni quotidiane, negli impedimenti e negli ostacoli della sofferenza); tuttavia, al momento di compiere questo rito così programmato e giustificato razionalmente, in Kirillov si scatena l’atavica paura. Non si può essere Napoleone, oltreuomini, Dei incarnati, neppure Demoni. L’uomo “nuovo, felice e superbo” dovrebbe superare il dolore e la paura; ma questi sono sentimenti che appartengono costitutivamente all’uomo. Liberarsi dal tempo e dallo spazio interiore legato alla sofferenza significa snaturare l’uomo (e non nobilitarlo) cadendo in una contraddizione infinita: chi propone questo non è affatto indifferente alle conseguenze del tempo, agisce per paura della paura e per dolore del dolore.
Può essere questa la libertà? Essa è tragica solo nei suoi fraintendimenti. Kirillov voleva “suicidare” in sé l’uomo, e ci riesce, ma a parte la “prepotenza” del nulla, non vi è altro oltre-l’-uomo. Raskol’nikov e Kirillov compiono entrambi un atto terribile; essi sono convinti di non avvertirne il sapore del senso sostenendo la sua gratuità. Non si rendono conto, però, che la mancanza di ogni pretesto non può che far precipitare nell’orrore e nella follia. La storia di ognuno di questi personaggi, macchiette, marionette e manipolatori, non è altro che una tragedia annunciata.
Questo perché non esiste una libertà al di là del bene e del male; sembrerebbe davvero che “tertium non datur”: è una scelta binaria ineludibile, che però si può articolare su più livelli.
E l’ostinazione a non essere ciò che si è, ma il rifiuto della propria sagoma non conduce certo ad un’estensione di sé fino a ricoprire un’ulteriorità da sempre ambita: come una macchia, si dilata, si disperde, infine si asciuga.
Oltre il libero arbitrio, la libertà
In Delitto e castigo viene mostrato come la libertà non possa trovare la propria assoluta realizzazione nel rendersi dimentichi di tutti i valori della tradizione e perfino della propria etica interiore. Raskol’nikov uccide per essere un Napoleone, uccide per la sua personale idea, per la sua specifica volontà di potenza. E a partire da questo gesto, che sarebbe dovuto essere compiuto nella più totale indifferenza, il protagonista viene invece inghiottito in un tunnel senza luce di sensi di colpa, miseria ancora più nera e bassezza morale.
Raskol’nikov arriva addirittura ad invocare (senza crederci e senza esserne pienamente consapevole) una punizione oggettiva, un verdetto proprio da quella società da cui si era alienato in “quella stanzetta” che rappresenta esattamente l’ambiente interiore dello studente, con tutta la sua atmosfera di soffocamento e di involuzione del pensiero in un caos buio. Si pensi alla figura del giudice, solo un giocattolo nelle mani delle dinamiche più o meno inconsce della coscienza di Raskol’nikov (come se si invertisse il gioco di “guardie e ladri”). Con la punizione oggettiva non giunge anche il pentimento e quindi l’espiazione, poiché essa si può configurare solo come percorso assolutamente interiore. Il giudice è una figura impersonale, che non identifica l’altro (o meglio, lo spersonalizza nel suo atto) e che quindi non può neppure identificare se stesso con una ricchezza che vada oltre alla mera sintesi del suo ruolo.
Raskol’nikov è deluso da se stesso, e crede di essere stato lui, proprio lui, non in grado di negare il limite, che in fondo sarebbe bastato ancora poco, solo un altro passo, per non rimpiangere più, per non avvertire la colpa e la meschinità del suo gesto. In realtà, non è un fallimento di Raskol’nikov, non è mancanza di talento o qualità, ma è un volto ineliminabile dell’uomo; da questa impossibilità di oltrepassare ogni vincolo non si esce però attraverso la morale comune –che Dostoevskij non è certo un paternalista che punta il dito contro i tentativi di sfondare la gabbia di valori eteroimposti e non elaborati interiormente- ma mediante l’eccedenza positiva e “miracolosa” della stessa morale.
Tale eccedenza in Delitto e castigo è personificata da Sonja, che con tutta la sua umiltà e la sua vergogna è figura quasi impossibile: una prostituta che è emblema di pudore (nel senso greco del termine, αιδός, reverenza sacra), che vive nel degrado della metropoli noir di San Pietroburgo ma che tremante recita i brani di redenzione della Bibbia. La contraddittorietà è miracolosamente presente in Sonja: una Madonna apparentemente assorbita “dall’ideale di Sodoma” (questa duplicità nella figura femminile sarà più volte ripresa in modo analogo). Ed è proprio Sonja a prendere per mano Raskol’nikov, a mostrare l’inutilità del percorso punitivo della tradizione e dell’iter giuridico e sociale; la sua prima domanda, nel momento in cui viene resa partecipe del delitto di Raskol’nikov attraverso la sua confessione, non è “cosa hai fatto?” bensì “cosa ti sei fatto?”. Sonja mostra come la presunta negazione dell’orizzonte comune della morale apparentemente voluta e scelta da Raskol’nikov non sia altro che un dipendere da esso e non un suo superamento. Anche Sonja è un’emarginata, anche lei è schiava nel corpo della società; ma nonostante questo essere, a suo modo, un outsider, è invulnerabile nella sua fede e nel suo potere più profondo e autenticamente cristiano: il perdono.
Nietzsche aveva reso il cristianesimo sinonimo di inganno e contraffazione; eppure, nell’Anticristo, anch’egli aveva dovuto ammettere il suo fascino per la figura del Cristo, che pure nella sua crocifissione non adotta alcuna modalità di risentimento ed è sordo alle tentazioni di rivalsa e di instaurazione del potere. Cristo tace, assume su di sé il suo destino, lo afferma fino alla fine, avvertendo la solitudine tanto nei confronti del proprio padre divino tanto rispetto ai propri discepoli davvero umani troppo umani; è Paolo ad avere instaurato le dinamiche del reissentiment.
Il perdono non è un ulteriore ricatto che attende una risposta di gratitudine; è gratuità pura, redenzione libera da ogni reazione e ricompensa. In questo, Dostoevskij sembra non discostarsi molto da Kierkegaard e dai suoi tre “livelli”: l’uomo che si pone astrattamente fuori dalla morale, l’uomo etico che ingenuamente segue pedissequamente i dettami della Legge positiva e l’Abramo di Timore e tremore, che sa porsi davanti allo sguardo dell’intera comunità con quell’eccedenza che sola e terribile dice la vera fede.
Raskol’nikov parte da una logica ferrea, e le sue premesse razionalmente inconfutabili arrivano ad esaurirsi e a consumarsi attraverso la loro incarnazione. Affacciarsi sulle colonne d’Ercole del libero arbitrio diventa un’esplorazione superflua, pericolosa, ma, soprattutto senza meta e tesoro.
La libertà implica la tragedia dell’esistenza?
L’abisso inaccettabile della libertà è infine indagato nei Fratelli Karamazov dove ogni personaggio rappresenta un’esplorazione della libertà, e di quella più primaria e fondante tutte le altre: quella del rapporto che sussiste tra l’uomo e Dio. Questa compresenza è ancora più evidente in quanto nel palcoscenico della stessa famiglia, dello stesso sangue.
Si potrebbe raffigurare il sistema dei personaggi in relazione alla libertà in questo modo:
|
Affermazione teorica |
Affermazione concreta |
Libero arbitrio |
Ivan |
Smerdjakov |
Libertà |
Alesa |
Dmitrij |
Nella configurazione dei rapporti intercorrenti tra i quattro fratelli viene proprio posta in evidenza la differenza tra libero arbitrio e libertà, che per Dostoevskij è davvero essenziale. Ivan e Alesa si confrontano all’interno di una sfida tutta razionale e verbale, tesa a rispondere alla domanda cardine di ogni teodicea: perché c’è la sofferenza? I rispettivi campioni sono lo Starec Zosima che si inchina di fronte al peccatore pellegrino sulla Terra e il Grande Inquisitore che cinicamente sancisce come incompatibili la felicità e la libertà (senza considerare che vi è la possibilità, tutta realizzabile, della felicità della libertà).
Il perdono che Sonja sa offrire a Raskol’nikov, Alesa lo professa necessario per tutti. La “logica euclidea” di Ivan è limitata (a dimostrazione: la possibilità di poter dire qualcosa oltre il quinto postulato); la fede può essere intravista da questa ratio, ma si colloca ben al di fuori. La morte di Dio è funzionale alla liceità infinita e senza controllo di azione e distruzione; ed è proprio lo scandalo del dolore a dire potentemente il nome di Dio. Infatti, si domanda Dostoevskij: senza Dio, quale scandalo? Le sofferenze permangono, ma non possono più essere redente e compiante.
Smerdjakov e Dmitrij si confrontano invece nella reazione concreta alla sofferenza, nel campo della colpevolezza effettiva, delle mani sporche di sangue. Dmitrij è peccatore, ha voluto scendere nella dimensione del possesso materialista del padre (denaro e passione per la donna del vecchio Karamazov, Grusenka). Eppure egli è “anima larga”: tocca il fondo della bassezza ma lo usa come spinta propulsiva per ascendere alla nobiltà. Alesa è il Cristo prima delle tentazioni, mentre Dmitrij rappresenta il dubbio del Getsemani. E d’altronde per Dostoevskij il vero miracolo, la vera affermazione paradigmatica della libertà, è decisa nello scenario del deserto durante le tre tentazioni poste dal diavolo a Cristo. Il deserto simbolicamente rappresenta la solitudine nella quale ogni singolo nella sua irriducibile personalità deve decidere il proprio destino, la propria scelta e posizione (tanto è vero che Ivan si rende perfettamente conto del fatto che il diavolo è una propria oggettivazione, e in fondo non può dirgli nulla di nuovo, perché è l’uomo stesso). Seguire le tre tentazioni equivarrebbe ad esercitare il proprio libero arbitrio, al tentativo di sciogliersi da qualsiasi vincolo, infrangendo le leggi del fenomeno e della necessità attraverso l’irruzione del miracoloso. Ma sono solo effetti speciali che di certo non riempiono di contenuto l’eccezionalità della libertà e di Cristo.
La libertà è anche rinuncia e proposizione di un modus vivendi che forse è inconcepibile per i più ma è la vera santità concretamente realizzata sulla Terra. È come se Dostoevskij (come anche intuisce Pareyson) confutasse la possibilità di un uomo-Dio (soluzione androteistica), ma affermasse potentemente l’esempio del Dio-uomo (soluzione teandrica). Un esempio che non si risolve nella ripetizione meccanica di parole e gestualità; il Cristo della Spagna dell’Inquisizione nulla dice e nulla fa, ma da tutti è riconosciuto; si permette solo di sconvolgere ancora una volta le dinamiche del potere che nessun Diluvio universale è riuscito a cancellare. Dio ha una più alta considerazione dell’uomo in quanto pronto a scommettere il tesoro terribile della libertà; è l’uomo che si rende misero nel volersi sbarazzare a tutti i costi di questo onere/onore, scambiandolo per vaso di Pandora.
Resta da chiedersi se la libertà in Dostoevskij venga davvero percepita come tragedia. Per Lukacs Dostoevskij supera il romanzo proprio richiamando l’atmosfera dell’epos arcaico. Ma il dramma qui non è nell’abbattersi di situazioni esterne, dove il personaggio è impotente spettatore che può solo accettare a testa alta, bensì nel loro riflesso nell’animo del personaggio, dove si gioca eternamente la sfida.
Ma è davvero tragico l’uomo che sceglie di essere libero? Si immerge nel conflitto oppure lo supera mediante una conciliazione che ha il punto di partenza nel dolore e nell’amarezza e quello di arrivo, la meta finale, nella vera pace? Forse la libertà può essere intesa come tragedia solo prima di sceglierla: Ivan la demonizza come un potere troppo ingombrante, ma lo è per chi non è in grado di farne propria bandiera. La libertà libera dalla pesantezza, non è essa stessa un macigno: permette uno sguardo tutto nuovo, che non subisce ma che vive.
Dmitrij (che più di ogni altro personaggio si avvicina alla figura del peccatore santo) non parte per la Siberia in un clima interiore di rassegnazione, ma di serena accettazione. Egli ha riconosciuto mediante la libertà la propria profondità umana, la stessa per cui Dio ha voluto una propria incarnazione. Anzi, rovesciando: è il rifiuto della libertà e la sterile imposizione del libero arbitrio a condurre alle contraddizioni più gravi, fino a portare alla follia (si pensi al ruolo della febbre cerebrale in Raskol’nikov e in Ivan, e all’atmosfera di monologo esasperato e di delirio in cui vengono condotti).
Il vero parricidio, il più terribile, è quello dell’uomo nei confronti di Dio. Fondamentale per riflettere intorno alla concezione di libertà in Dostoevskij è proprio l’episodio del Grande Inquisitore (“risolvere il problema dell’uomo significa risolvere il problema di Dio” secondo Berdjaev). “Voi potete fare il bene e il male, ma il bene e il male che io vi dirò”; apparentemente l’Inquisitore ha spezzato ogni vincolo a favore dell’umanità intera, che ora è libera dalla libertà, dal suo abisso, dal suo carattere terribile e insostenibile. L’Inquisitore ha risposto affermativamente allo spirito negatore del deserto, concretizzandolo sotto le spoglie della Chiesa. Ma l’amore e la cura per il prossimo non devono diluirsi in un umanitarismo idealista e formale, devono realmente rivolgersi alla concretezza dell’individualità. La Spagna del Seicento sembra richiamare, con tratti trasfigurati, quella visione socialista dove le persone vengono raggruppate come un unico organismo complessivo a scapito delle singole personalità. È questa la scelta del Grande Inquisitore, la risposta alla tentazione di compiere un percorso più facile.
Dostoevskij rivendica la spiritualità, contrapponendola a quel materialismo che è tanto proprio del socialismo quanto dell’eudemonismo più in generale. È per questo che vale la pena accettare anche la sofferenza dei bambini: mentre Ivan vorrebbe restituire il biglietto allo spettacolo divino, Alesa comprende che non è attraverso il rifiuto di questo mondo che si può ricomporre la ferita infertagli.
Il male ed il dolore, addirittura, rovesciando, diventano in effetti la testimonianza ardente del Cristo. È proprio perché esiste la sofferenza inutile che Dio esiste, poiché a scandalo si risponde a scandalo (ed il primo non è confutazione, bensì dimostrazione del secondo). È solo il pensiero euclideo di Ivan che crede di aver trovato l’indiscutibile falla nell’architettura perfetta di Dio, senza aver capito invece che le effettive dinamiche dell’armonia sono ben altre. E pur non avendo mai parlato il Cristo della Leggenda, è in quel bacio che ha la prima e l’ultima parola; a questo, l’Inquisitore è incapace di trovare alcun tipo di risposta.
Dio e Satana non sono posti come cause fenomeniche, per cui in realtà non si genera un conflitto tra spazio umano e divino/diabolico. Come ben sottolinea Girard, sono l’emblema del modo in cui rivolgersi verso l’Altro (e, aggiungerei, del rivolgersi autenticamente verso se stessi).
Conclusioni: felicità o libertà oppure felicità della libertà?
“Solo la bellezza può salvare il mondo” lungi dall’essere un heideggeriano appello metafisico o un ritorno ad una prospettiva estetizzante, risulta essere un’invocazione fatta da Dio nei confronti dell’uomo, che può scegliere di creare il Bello.
Dostoevskij sottolinea come l’uomo debba essere artefice di se stesso: non si può limitare alla mera imitazione di modelli archetipi, o a una dialettica necessaria (l’espressione si trova sempre in Pareyson) per cui dalla ribellione si passa ineluttabilmente alla matura celebrazione di Dio.
Di fronte alla sofferenza, non è scontato l’adagio eschileo del “παθει μαθος”: l’uomo può scegliere, di fronte all’ostacolo, se aggirarlo, abbassarsi o saltarlo innalzandosi oltre ad esso. Il tragico non è una dimensione obbligatoria: l’uomo può attivamente reagire di fronte ad una realtà che pure si presenta come irriducibilmente contraddittoria. Ma nonostante questo, Pareyson forse inquadra ancora una volta la libertà in una sintesi, la intrappola in una definizione: essa non può essere associata alla tragedia, perché è ciò che permette di uscire dalle categorie del teatro.
Dostoevskij sa bene che non si può banalmente associare il male al libero arbitrio ed il bene alla libertà; il bene per essere davvero libero deve essere scelto, accolto fino in fondo e nel profondo delle sue conseguenze. Il dolore è davvero un “punto di svolta” (ancora Pareyson), ma non scontato: è una possibilità “tutta da giocare”. Nei confronti del dolore si può passivamente imbruttirsi e rintanarsi nel sottosuolo, oppure agire attivamente e non aspettare ma conferire senso alla propria esperienza ed esistenza.
La libertà non è indagata solo dal punto di vista metafisico, ma anche e soprattutto da quello ontologico: è la libertà quella caratteristica costitutiva dell’essere umano (ma non nel senso di funzione: essa è connessa inestricabilmente alla sostanza).
Dostoevskij non ha visto Auschwitz. Eppure il silenzio e il “piccolo testamento” sacro che propone non come soluzione ma come espiazione di fronte alla sofferenza dei bambini sono gli stessi che avrebbero permesso di non far precipitare Auschwitz nell’oblio, ma di inciderlo nella memoria (anche se “quel che resta del fuoco” è la cenere). Che sia questa la vera libertà, l’autentica cura alla ferita che pure non si cancella? Una fiamma che non si spegne, neppure nel gelo della Siberia. Ed è proprio grazie al contrasto con un crudo e spietato manto di niente che quella luce ha ancora più valore e grandezza.
EMILE LITTRÉ
Emile Littré (1801-1881) può essere considerato come uno dei discepoli più importanti di Auguste Comte, se non il più rappresentativo. Membro attivo della “Società Positivista”, fondata nel 1848, Littré entra in conflitto con Comte per motivi politici. Infatti, dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone, Comte appare immediatamente pronto a sacrificare le libertà politiche; Littré, invece, convinto repubblicano, non accetta i compromessi del maestro, e abbandona la Società con un gruppo di amici. Lo scopo fondamentale di Littré e dei suoi compagni “scissionisti” consiste nella volontà di purificare la dottrina positivista dalle “aberrazioni” introdottevi da Comte, aberrazioni che appartengono soprattutto al secondo periodo della sua speculazione; in particolar modo, Littré rifiuta l’elaborazione della “Religione dell’Umanità”.
Nonostante la rottura con Comte, Littré resta il maggiore divulgatore del Positivismo: in tal senso, nel 1867, egli fonda la Rivista di filosofia positiva, la cui pubblicazione cesserà sedici anni più tardi. All’inizio, per mostrare una certa imparzialità, la rivista ospita anche articoli di carattere non positivista; tuttavia, nell’arco di tre anni, il giornale si riduce a puro strumento di propaganda acritica della dottrina comtiana. Fra le opere di Littré, occorre ancora ricordare: Conservazione, rivoluzione, positivismo (1852); Frammenti di filosofia positiva e di sociologia contemporanea (1876); La scienza dal punto di vista filosofico (1873); egli propone anche una serie di scritti esclusivamente destinati alla diffusione del pensiero comtiano, e cura l’edizione di un dizionario di medicina insieme a Charles Robin.
Nell’importante monografia Auguste Comte e la filosofia positiva (1863), Littré chiarisce la propria adesione al pensiero positivistico nelle coordinate fissate da Comte nel suo Corso di filosofia positiva.
Secondo Littré, l’aspetto più rilevante della dottrina positivista consiste nell’aver applicato alla filosofia lo stesso metodo seguito dalle scienze positive. Si tratta di una scoperta capitale, che esclude dal discorso filosofico qualsiasi riferimento alla metafisica e alla trascendenza: la filosofia deve trovare nella natura e nella storia soltanto leggi empiriche ed immanenti. Pertanto, Littrè elimina dal campo filosofico tutte le ipotesi inverificabili, sia spiritualiste sia materialiste.
Pur manifestando un atteggiamento di incertezza a proposito del rapporto che dovrebbe intercorrere tra la filosofia e le singole scienze, egli ha idee molto chiare nei confronti della dottrina darwiniana: di questa non condivide la teoria della “selezione naturale”, perché la considera una semplice ipotesi; per quanto riguarda il problema dell’origine delle specie, egli preferisce l’istanza poligenetica, anche se in via provvisoria. In ogni caso, a suo parere la teoria darwiniana riguarda esclusivamente la biologia, e perciò non ha alcuna implicazione di carattere filosofico.
L’interesse di Littré si estende anche alla psicologia. Egli tende a ricondurre i fenomeni mentali a quelli fisiologici, essendo il sistema nervoso la sede di tali fenomeni; tuttavia, riconosce l’irriducibilità delle leggi del pensiero alla fisiologia. In sintesi, Littré considera la psicologia come la parte integrante di una teoria generale dell’essere umano, che giunge però soltanto al termine di tutte le scienze.
Nella riflessione di Littré trova ovviamente spazio anche la sociologia, che, a suo avviso, costituisce la parte culminante del Discorso di Comte; tuttavia, egli riconosce che si tratta di una disciplina troppo “giovane”, e così complessa da non poter essere trattata con leggerezza. A tale proposito, si può fare un esempio concreto: nell’elaborare predizioni socio-politiche, secondo Littré, bisogna accontentarsi di fare previsioni esclusivamente a breve termine.
Egli accetta poi un principio tipico del positivismo: il principio dello stretto legame esistente fra scienza e progresso sociale. In questa prospettiva, il positivismo diventa, ottimisticamente, la garanzia di ogni progresso futuro. Come afferma Littré,
“esso (il positivismo) ci dirige verso il lavoro, verso l’equità sociale, verso la pace internazionale, mediante l’industria, mediante il diffondersi della scienza e dei lumi, mediante la cultura delle arti belle, mediante il miglioramento graduale della morale”.
In generale, Littré e i suoi seguaci manifestano un particolare interesse anche per i temi politici. Ispirandosi a Comte, riprendono l’idea di un “potere spirituale”, ossia di un organismo volto a convincere la gente della giustezza del progresso scientifico, soprattutto della sociologia.
Oltre che filosofo, Littré fu un eminente filologo e linguista: frutto di questi suoi interessi sono le opere Storia della lingua francese (1862) e il fondamentale Dizionario della lingua francese (1863-1877), destinato a rimanere un imprescindibile punto di riferimento per la cultura francese. Con Littré, dunque, il positivismo di Comte trovava una sua specifica applicazione nell’ambito della linguistica.
Dopo la sospensione della pubblicazione della loro rivista, il gruppo dei littreisti si disperde, anche perché i suoi componenti non hanno mai costituito una vera “scuola”, e spesso si sono trovati in contrasto su questioni essenziali. Da questo momento, gli unici seguaci “ortodossi” di Comte restano coloro che si raccolgono attorno alla figura di Pierre Laffitte.
HIPPOLYTE TAINE
A cura di Gigliana Maestri
Nato a Vouziers nel 1828, Hippolyte Taine studia all’Ecole Normale. Dopo un periodo d’insegnamento trascorso in provincia, egli raggiunge la notorietà con una serie di saggi, grazie ai quali ottiene la cattedra di Estetica e di Storia dell’arte nella Scuola delle Belle Arti a Parigi, città dove muore nel 1893.
I saggi precedentemente citati sono: Saggio sulle favole di La Fontaine (1853), Saggio su Tito Livio (1856), Saggi di critica e storia (1856); a questi si deve aggiungere una Storia della letteratura inglese, del 1863. Si devono poi ricordare un libro sui Filosofi francesi del XIX secolo (1857) e il trattato Sull’intelligenza (1870); Le origini della Francia contemporanea (6 voll., 1875-93) e Il positivismo inglese. Studi su J. S. Mill (1864); Nuovi saggi di critica e di storia (1892) e Epistolario (1904-07, postumo). Le sue opere più originali riguardano però l’estetica: Filosofia dell’arte (1865), Viaggio ai Pirenei (1855), Viaggio in Italia (1866) e Note sull’Inghilterra (1872).
La riflessione filosofica di Taine, il quale contribuisce notevolmente alla diffusione del Positivismo in Francia, si configura come una critica molto circostanziata dello Spiritualismo: egli auspica, infatti, un ritorno della cultura francese alla tradizione illuministica, in modo particolare all’insegnamento di Voltaire e degli enciclopedisti, e ritiene che l’unico progresso possibile per la scienza consista nell’analisi dei fatti positivi, e nello spiegare un fatto con l’altro. Nel suo trattato Sull’intelligenza, Taine cerca di ridurre la vita spirituale a un meccanismo rigorosamente sorretto da leggi necessarie, simili a quelle naturali. In modo particolare, egli esamina e critica le dottrine psicologiche dei suoi tempi, entrando così nel vivo di un dibattito culturale di grande rilievo in questo periodo: il dibattito riguardante la fondazione della psicologia sperimentale, intesa come disciplina completamente autonoma. Taine sottolinea i denominatori comuni che indiscutibilmente legano filosofia, biologia e psicologia: l’idea del retroterra inconscio dei fenomeni coscienti ed il collegamento fra mondo mentale e mondo fisiologico, che s’identificano. Dopo queste premesse, egli si concentra a studiare i fatti psichici per tentare d’individuarne le leggi, evitando così le questioni, tipiche della psicologia tradizionale, a proposito della natura e della sostanza dell’anima.
Contro lo spiritualismo ordinario, egli rifiuta l’idea di una sostanza permanente nascosta, che sostenga le singole qualità e sopravviva agli avvenimenti passeggeri, e respinge il concetto di un’unità originaria dell’io in favore di uno studio analitico dei fenomeni di coscienza. A suo parere, l’osservazione psicologica scopre solo sensazioni e immagini di diverse specie, tanto che l’intera vita psichica si riduce allo scontro, al contrasto e all’equilibrio delle immagini derivate dalle sensazioni. In ultima analisi, coscienza e sensazione si configurano come movimento, essendo questo la minima oggettività comune che possiedono. Taine considera poi i concetti come “suoni significativi”, in origine prodotti dagli oggetti e in seguito usati indipendentemente da essi, in base a somiglianze ed analogie. Infine, ritiene che la cosiddetta “conoscenza razionale” sia costituita da giudizi generali, che possono essere considerati coppie di segni o suoni di questo genere.
Per quanto riguarda la riflessione estetica, che, come si è detto, costituisce la parte più originale e significativa della sua speculazione, Taine sostiene che un’opera d’arte non nasce mai a caso, ma, in quanto fatto storico, si configura come il risultato di una serie di circostanze fisico-ambientali ben determinate, quali il clima, le situazioni economico-geografiche e quelle socio-politiche. In altri termini, tutti gli individui, e quindi anche gli artisti, nel loro operare, sono necessariamente influenzati da un insieme di forze naturali e storiche cui non possono sottrarsi. Da queste imprescindibili “condizioni” derivano le leggi che spiegano, in ambito artistico, le variazioni stilistiche, le differenze esistenti fra le scuole nazionali, e persino i caratteri originali delle singole opere individuali.
Taine cerca di stabilire dei criteri che consentano di disporre le opere d’arte in una sorta di “scala di valore”: si tratta di criteri come la “generalità dell’idea”, il “valore morale”, la “pienezza dell’espressione”; inoltre, tenta di dividere le epoche della storia dell’arte in base alle categorie della dialettica hegeliana: tesi, antitesi e sintesi. Tali analisi costituiscono i limiti della sua riflessione, soprattutto perché lasciano irrisolto il problema schiettamente filosofico dell’essenza dell’opera d’arte; in ogni caso, lo stesso Taine non si sente di ridurre tale essenza ai soli elementi critico-genetici sui quali si è soffermato. Al di là di questo, il merito del filosofo consiste nell’aver cercato di conferire alla critica estetica un’autentica dignità scientifica. Nella prospettiva di Taine, l’opera d’arte è il risultato necessario delle sue condizioni esterne e interne: e, in base allo studio di tali condizioni, si possono determinare sia le leggi dello sviluppo dell’immaginazione umana sia, in particolare, le differenze tra gli stili artistici e tra le singole creazioni individuali. Grazie a Taine, il Positivismo inaugurato da Auguste Comte trovava un suo sviluppo nel campo dell’estetica.
LÉVY-BRUHL
La teoria del “prelogismo” dei “primitivi” elaborata da Lucien Lévy-Bruhl (1857 – 1939) si pone in totale distacco rispetto alle teorizzazioni dell’evoluzionismo e si colloca, invece, in una dimensione di consapevole e radicale relativismo culturale.
Per Lévy-Bruhl il contesto etnologico si configura come totalmente altro rispetto all’Occidente. In base alla teoria del “prelogismo”, i primitivi sarebbero caratterizzati da una struttura psichica in cui non vige il principio di non contraddizione, e in virtù della quale la loro mentalità, il rapporto soggetto/mondo, il rapporto naturale/sovrannaturale, sono differenti dai nostri. Per Lévy-Bruhl è dunque metodologicamente sbagliato utilizzare le rappresentazioni collettive dell’uomo occidentale per interpretare sistemi logico-culturali affatto diversi. Al contrario, rifiutando l’impostazione eurocentrica, “l’attività mentale dei primitivi non sarà più interpretata in partenza come una forma rudimentale della nostra, come infantile e quasi patologica. Apparirà anzi come normale nelle condizioni in cui essa si esercita, come complessa e, a suo modo, sviluppata.
La teoria del prelogismo costituisce il filo rosso che lega le maggiori opere di Lévy-Bruhl, da Les fonctions mentales dans les sociétés inférieurs a La mentalité primitive, fino a Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive.
Le rappresentazioni collettive dei primitivi – a differenza di quelle dell’uomo culto occidentale, dominate dal principio dell’identità personale rigorosamente distinta dalle altre individualità e dal mondo fisico -, sono dominate dal concetto di labilità, di fluidità, e hanno alla base quella che Lévy-Bruhl definisce “legge di partecipazione”. Secondo tale legge, lo stato mentale dei primitivi è caratterizzato da un’estrema intensità emozionale che induce ad una costante partecipazione mistica con l’universo. Il primitivo “sente” ciò che lo circonda come attraversato da una forza numinosa fluida, fisica e psichica. I confini che nel nostro mondo isolano nettamente l’uomo dall’ambiente esterno, la natura dalle forze soprannaturali, lo stato di veglia dallo stato di sogno, nel mondo primitivo sono estremamente labili o inesistenti. Dunque la mentalità primitiva, più che rappresentare l’oggetto, lo vive e ne è posseduta.
Parimenti la personalità è rappresentata come energia, qualitativamente identica a quella che promana dagli animali, dalle piante e dalle cose, e i suoi limiti, nella mentalità collettiva, sono labili, tanto che l’identità personale non è incompatibile con la dualità o la pluralità delle persone. Spesso le esperienze di compartecipazione mistica del primitivo, largamente documentate da Lévy-Bruhl, si riflettono nei miti. Nelle rappresentazioni collettive dei primitivi che fanno da sfondo all’esperienza reale, c’è fluidità anche tra il piano sacro e il piano “profano”. La sovrapposizione dei due piani rappresenta la norma. Non solo: il piano sovrumano finisce per calamitare interamente l’anima e la mente degli uomini. Le forze soprannaturali cingono in un perenne stato d’assedio l’esistenza umana e ciò fa in modo che la religiosità dei primitivi sia di stampo totalmente mistico, mentre le operazioni magiche hanno lo scopo di mediare la sfera delle potenze occulte.
Di fatto, come osserva Marcello Massenzio, nella visione che Lucien Lévy-Bruhl ha del mondo dei “primitivi”, l’uomo come soggetto di cultura finisce per sparire del tutto, poiché i margini di intervento culturale sulla natura sono completamente annullati.
L’ambiente scientifico del tempo, caratterizzato da un’impostazione razionalistica di tradizione illuministica, reagì molto negativamente alla proposta teorica di Lévy-Bruhl. Émile Durkheim, sostenitore dell’unità dello spirito umano e della sua omogeneità in tutte le epoche, evidenziò come nella vita quotidiana i primitivi applicassero una razionalità pratica del tutto simile a quella che governa le azioni di tutti gli uomini della terra. La forza delle argomentazioni indusse col tempo Lévy-Bruhl a recedere dalle sue posizioni più estreme, e a rivedere completamente le sue precedenti teorie, come si constatò dopo la sua morte, in una serie di quaderni che contenevano gli appunti dello studioso stesi nell’ultimo periodo della sua vita, i Carnets, pubblicati postumi nel 1949.
ALLAN KARDEC
A cura di Piero Ponti
Allan Kardec è lo pseudonimo di Hippolite Lèon Denizard Rivail (1804-1869).
Nato a Lione da una famiglia di avvocati e magistrati, dopo i primi studi nella città natale, fu inviato a completare la propria preparazione in Svizzera, a Yverdun, presso il celebre pedagogista Enrico Pestalozzi, del quale fu prima discepolo e, ben presto, collaboratore. Fu educatore della gioventù, e si distinse anche nel campo letterario, dove lasciò alcuni scritti istruttivi: “Piano di perfezionamento dell’istruzione pubblica”-1828; “Corso Pratico e teorico di Aritmetica”-1829; “Grammatica Francese Classica”-1831; il Manuale dei Test per l’ottenimento del Diploma di Capacità-1846; “Catechismo Grammaticale della Lingua Francese”-1848; ha anche pubblicato un’opera comprendente tutti i suoi corsi – fu insegnante di Filosofia, di Astronomia, di Chimica e di Fisica presso il Politecnico di Parigi.
Rivail aveva un naturale talento pedagogico, era attratto dalla filosofia e dalla scienza, e compì anche studi di medicina. Imparò varie lingue (italiano, spagnolo, tedesco e inglese) ed ebbe occasione di compiere molteplici esperienze professionali.
Allo Spiritismo (la filosofia che pone al centro dell’evoluzione universale il progredire degli spiriti attraverso molteplici incarnazioni) arrivò a cinquant’anni, nel 1854. Fu allora che sentendo parlare di sedute medianiche cominciò ad accostarsi a questo tema con la prudenza che lo distingueva e con il metodo serio e ponderato che aveva appreso in tanti anni di studio.
La presenza di Rivail dava alle sedute un carattere particolare: se prima del suo intervento le entità s’intrattenevano coi presenti soltanto su problemi di tipo personale e familiare di alcuno dei partecipanti, con lui i contenuti cambiavano e vertevano su temi filosofici, speculazioni religiose ed escatologiche.
«Arrivavo alle sedute», scrive Kardec rievocando quel periodo, «con una serie di domande preparate e ordinate metodicamente; e le risposte che ottenevamo erano sempre precise, profonde e logiche… Da principio ciò m’interessava soltanto per istruzione mia personale. Più tardi, quando vidi che il tutto assumeva le proporzioni di una dottrina, pensai di farne una pubblicazione per l’istruzione di tutto il mondo.»
Un lavoro paziente e metodico, portato avanti con logica e spirito critico, seguendo un sistema ben preciso. Rivail era una persona che doveva convincersi fino in fondo di una cosa, prima di comunicarla agli altri: le Entità, per dimostrargli la loro reale esistenza, gli rivelarono allora fatti che soltanto lui poteva sapere. Una volta convintolo, gli parlarono di una sua precedente incarnazione in Bretagna, presso gli antichi Celti, dove il suo nome era Allan Kardec, e gli spiegarono che il suo compito in questa vita era di contribuire alla diffusione degli insegnamenti che Esse gli avrebbero trasmesso: tali insegnamenti – di natura molto elevata – non solo potevano essere utili all’umanità, ma erano in grado di farla crescere spiritualmente.
Rivail, si convinse del compito che gli veniva affidato, e da quel momento adottò lo pseudonimo di Allan Kardec con cui firmò tutte le sue opere.
Autore dei libri:
1. Il Libro degli Spiriti
2. Il Libro dei Medium
3. Il Vangelo Secondo gli Spiriti
4. Le Rivelazioni degli Spiriti (Genesi – Miracoli – Profezie)
5. Le Rivelazioni degli Spiriti ( Il Cielo e l’Inferno)
6. Le Manifestazioni Spiritiche
7. Opere Postume
JOHN FISKE
A cura di Marco Machiorletti
Quando le prime opere di Herbert Spencer, caratterizzate da un’interpretazione dello sviluppo della società e delle istituzioni sociali in termini biologici, furono introdotte negli Stati Uniti, il clima culturale americano era propizio alla diffusione delle idee evoluzionistiche. Tuttavia, contro ogni previsione, l’accoglienza immediata fu fredda. Più che lo stesso contenuto della dottrina spenceriana, fu l’agnosticismo implicito in essa che rese esitanti i pensatori americani, i quali vi ravvisarono malcelate aspirazioni laiche. Nonostante tutto, però, vi furono alcuni che non si preoccuparono dell’ “Inconoscibile” di Spencer, ritenendo anzi di poter conciliare tale concezione con una credenza teistica accettabile. Il più eminente di questi epigoni spenceriani in America fu John Fiske (1842 – 1901), che non ancora ventenne già considerava Spencer il massimo filosofo. Non molto più tardi, però, lo stesso Fiske finì per ritenere che la propria interpretazione di Spencer costituisse uno spencerianismo migliore di quello di Spencer medesimo. Così, pur rimanendo un discepolo, egli in molti punti si staccò dal maestro.
Nel 1860, a soli 18 anni, Fiske recensì l’History of Civilization in England di Thomas Buckle (1821 – 1861). Ciò gli fornì l’occasione per esporre le proprie vedute, per manifestare la propria ammirazione nei confronti