FILOSOFIA DEL 1900 – PARTE 1
“Il pensiero stesso è un cammino. Corrispondiamo a questo cammino soltanto restando in cammino” (M. Heidegger, Che cosa significa pensare?)
INTRODUZIONE
INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DEL NOVECENTO
LO SPIRITUALISMO FRANCESE
Lo “spiritualismo” francese è una filosofia maturata a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento che tende a dare grande importanza alla vita spirituale dell’uomo, cercando di sottolinearne la specificità rispetto a quella materiale; ci sarà perfino chi, come Bergson (nell’ Evoluzione creatrice ), negherà ogni autonomia alla sfera materiale, riconducendola interamente a manifestazione di quella spirituale, sulla scia di quanto aveva già fatto Leibniz secoli prima. Lo spiritualismo nasce e si sviluppa soprattutto in Francia perché si tratta di una filosofia di derivazione essenzialmente cartesiana: proprio Cartesio, infatti, aveva prospettato con l’idea del “ cogito ” la ricerca della verità nell’interiorità spirituale, riducendo la materia ( “ res extensa ”) a pura e semplice estensione nello spazio priva di ogni forma di spiritualismo e vitalità. La contraddizione del pensiero cartesiano, come senz’altro si ricorderà, scaturiva dal fatto che, in definitiva, il pensatore francese non era stato in grado di spiegare in maniera convincente il rapporto tra lo spirito ( “res cogitans”) e la materia (“res extensa”), tra l’anima e il corpo, con l’inevitabile conseguenza che tutti i pensatori a lui successivi si erano sbizzarriti nel tentativo di risolvere il problema in modo migliore: c’era chi, come La Mettrie, si era sbarazzato dell’ingombrante idea di anima e dalla concezione cartesiano dell’ “animale-macchina” era direttamente passato a quello dell’ “uomo-macchina”, e chi, invece, aveva esasperato la sfera spirituale e l’indagine interiore del “cogito”. Proprio dall’attenzione per le istanze spirituali muove i suoi passi lo spiritualismo francese, che si colloca pertanto in modo critico nei confronti del meccanicismo e si inserisce bene nel contesto di quelle filosofie vitalistiche (prima fra tutte quella nietzscheana) che si opponevano al Positivismo e al suo culto acritico della ragione. Tra i numerosi pensatori che hanno aderito al nuovo movimento francese merita senz’altro di essere ricordato Émile Boutroux, che con la sua filosofia ha inciso in modo rilevante sul pensiero di Bergson: alla teoria da lui elaborata egli stesso dà il nome di “contingentismo”; alla base di essa vi è il riconoscimento di una certa contingenza all’interno dei fenomeni che avvengono nel mondo e, come sarà senz’altro noto, una cosa è contingente quando c’è ma potrebbe tranquillamente non esserci. Il nucleo dell’argomentazione di Boutroux è piuttosto semplice e fa perno su quel concetto che da sempre sta alla base del determinismo: il principio di causalità. Esso prescrive che ogni fatto sia causato in modo necessario da un altro fatto, ma Boutroux riesce a scoprire una specie di indeterminazione nella causalità: accettando il concetto di causa, infatti, siamo costretti a riconoscere causa ed effetto non siano la stessa cosa, il che vuol dire, detto in maniera molto schematica, che l’effetto non è tutto già contenuto nella causa, ma presenta qualcosa di nuovo e di differente rispetto ad essa. Il risultato di questo ragionamento è prevedibile: nel mondo, dice Boutroux, devono per forza esistere elementi di contingenza per cui gli effetti han sempre qualcosa di nuovo, che non c’era nella causa. E se Comte diceva che le leggi di una disciplina (ad esempio, la fisica) non sono riconducibili in tutto e per tutto a quelle di un’altra (ad esempio, la matematica), Boutroux ci spiega il perché, facendo notare, appunto, come l’effetto non derivi in maniera così necessaria dalla causa, ma come anzi presenti un qualcosa di contingente. Così, se è vero che diciamo che 2+3 è uguale a 5, quasi come se lo causasse in modo del tutto necessario, non ci sogneremmo mai di dire che lo sfregamento del fiammifero sia uguale all’accensione della fiamma, sebbene in effetti la fiamma venga accesa dallo sfregamento del fiammifero: questo perché l’effetto non si identifica pienamente con la causa, checchè ne pensasse Schopenhauer nella “Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”. Non è un caso che negli anni in cui Boutroux sviluppa il suo pensiero, Heisenberg elabori il principio di indeterminazione, secondo cui è impossibile determinare con rigore al tempo stesso il moto e la posizione di una particella: né Heisenberg né Boutroux mettono in dubbio l’esistenza di regolarità nel mondo e, per questo motivo, continuano a ritenere valido il principio di causalità, ma avanzano l’ipotesi che sia scorretto ridurre ogni cosa al meccanicismo, facendo considerazioni piuttosto simili, nella sostanza, a quelle fatte duemila anni prima, circa, da Epicuro con la sua teoria del “clinamen”. E del resto il rifiuto di Boutroux e di Bergson e, più in generale, degli spiritualisti francesi, non nasce da una loro ignoranza delle problematiche scientifiche, ma anzi da un’ottima conoscenza di esse, di cui colgono i limiti e le contraddizioni: si tratta, potremmo dire, di un superamento della scienza da parte di chi la conosce a fondo. Il poeta italiano Eugenio Montale si dichiarerà apertamente sostenitore della filosofia di Boutroux e, non a caso, la sua poetica cerca qua e là delle vie di fuga dall’ordine oppressivo della realtà e può essere ben rappresentata dall’immagine, tipicamente montaliana, del muro coperto da cocci di vetro (che rappresenta il limite che impedisce di attingere l’essenza più intima della realtà) che presenta qualche fessura, ovvero qualche tenue possibilità di cogliere l’essenza della realtà; in Montale è, infatti, costante l’idea di una “ maglia che non tiene ”, del muro dalle cui fessure si può sbirciare e cogliere, in modo extra-meccanicistico, la realtà più profonda, anche nei momenti più banali (quando, ad esempio, si sente l’odore dei limoni, dice Montale), che possono rivelarsi invece momenti di fuga dall’ordine soffocante.
LA FENOMENOLOGIA
La “fenomenologia” costituisce una delle principali fonti dell’esistenzialismo, tant’è che molti dei grandi pensatori esistenzialisti (Sarte e Heidegger, ad esempio) sono prima stati fenomenologici: in particolare, Heidegger è stato discepolo dell’eroe della fenomenologia, Edmund Husserl. La tesi fenomenologica formulata da Husserl parte dal recupero di alcune nozioni della tarda-scolastica, prima fra tutti l’ “intenzione”: per Ockham l’intenzione era l’atto con cui la mente si riferisce a qualcosa, per cui se penso ad un oggetto, l’atto con cui la mente si riferisce ad esso è un’intenzione, proprio come un segnale stradale si riferisce a quella precauzione che suggerisce con un’intenzione. Inoltre Husserl riprende la tradizione cartesiana (nel 1931 scrive un’opera intitolata “Meditazioni cartesiane”): fondamentalmente egli mutua dal filosofo francese l’esigenza di arrivare a costruire un sapere assolutamente certo, una filosofia come scienza. E, sotto questo profilo, Husserl ha la pretesa di costruire una filosofia che non si limiti a concetti elaborati in passato, ma che parta dai dati della realtà così come essi si manifestano e proprio per questo motivo la sua filosofia prende il nome di “fenomenologia” ( fainomenon indica appunto il manifestarsi). In questa ricerca di un’assoluta certezza, Husserl si domanda, cartesianamente, se quando ho in mano un oggetto, supponiamo una penna, vi sia qualcosa di certo. E finisce per dire che del fatto che esiste un mondo a me esterno non posso averne certezza e per questo motivo decide di sospendere il giudizio sul mondo ricorrendo al concetto di epoch , elaborato dagli antichi Scettici, che significa appunto “sospensione di giudizio”: con tale atto, Husserl, com’egli stesso afferma, mette il mondo “ tra parentesi ” perché problematico, in quanto non certo. C’è una cosa, però, dice Husserl, di cui ho certezza ed è il fatto di pensare e di avere percezioni (tattili, visive, ecc) di quel mondo messo tra parentesi, sicchè posso costruire una scienza di idee che metta fra parentesi la corrispondenza tra le idee presenti in me e il presunto mondo a me esterno. E, in un certo senso, Husserl vuole ricollocare tutta la filosofia all’interno della coscienza perché ciò gli permette di attribuire alla filosofia stessa una veste di assoluta certezza. Ma questo non toglie che nell’ambito della coscienza sussista un rapporto di intenzionalità: il soggetto percepisce idee, ma che ad esse corrisponda qualcosa in un mondo esterno viene messo tra parentesi; ma, compiuta quest’operazione e quindi escluso l’oggetto come esistente fuori di me, si crea un rapporto soggetto/oggetto nella coscienza. Infatti, quando percepisco il nero, sto percependo, in qualità di soggetto, un oggetto e non è vero, dice Husserl, che i princìpi logici e matematici sono il riflesso del funzionamento della nostra mente, come sosteneva lo “psicologismo”, secondo il quale 2 + 2 = 4 solo perché la nostra testa funziona così: non è possibile, in altri termini, che le leggi logiche e matematiche siano fondate dalla psiche umana. Un po’ come era per Platone, anche per Husserl 2 + 2 = 4 è un oggetto del pensiero ma, a differenza di Platone, per Husserl non è un oggetto esistente in modo indipendente: viceversa, l’esistenza della verità 2 + 2 = 4 risiede nel fatto che all’interno della coscienza esiste un rapporto di intenzionalità per cui quando dico 2 + 2 = 4 non mi sto muovendo fuori dall’alveo della coscienza, ma è un gioco tutto interno alla mia mente. Ma anche se tutto avviene nella mia mente, ciononostante, distinguo tra atto del pensare ( noesiV ) qualcosa dall’idea che viene pensata (noema ), nel nostro caso2+2=4. In altri termini, nel pensare sono sempre compresenti e distinti l’atto del pensare e l’oggetto di tale atto: l’uno si riferisce all’altro con un rapporto intenzionale.
L’ESISTENZIALISMO
Quando l’esistenzialismo nasce, nel Novecento, è un atteggiamento culturale a tal punto di ampia portata da investire, proprio in quanto filosofia dell’esistenza, ogni ambito della cultura del tempo e tende spesso a sfuggire alla trattazione filosofica e, talvolta, ad assumere l’aspetto di una moda letteraria. Senz’altro la fonte principale dell’esistenzialismo è il pensiero di Kierkegaard e il suo interesse per l’io come singolo, ovvero per l’io concreto, sganciato dalla nebulosa astrattezza in cui l’aveva avvolto Hegel. Del resto, osservava molto acutamente Kierkegaard, checchè ne pensi Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come umanità e spirito. L’indagine esistenzialista, pertanto, viene proiettata sull’esistenza dell’io come singolo e sul significato della vita e non è un caso che spesso tenda a slittare verso forme che esulano dal pensiero filosofico, quali la filosofia o la letteratura: del resto già Aristotele aveva fatto notare che la scienza è, per definizione, sempre scienza dell’universale, cosicchè lo studio del singolo uomo e della sua esistenza non è rigorosamente definibile, ma anzi sfugge ad ogni inquadramento intellettuale, con la conseguenza che per indagare l’esistenza del singolo occorre percorrere strade alternative. E così l’esistenzialismo di Kierkegaard, di Lutero e di Pascal provava la via religiosa, mentre quello del Novecento prova, con Sartre e Camus, quella del teatro e della letteratura, poiché il teatro, la letteratura e la religione consentono di presentare situazioni concrete ed individuali. La categoria fondamentale è, dunque, l’esistenza e non l’essenza, sicchè a contare non è ciò che l’uomo è in sé, ma ciò che l’uomo può fare di sé progettando il proprio destino: non vi è nell’uomo un’essenza che determini deterministicamente ciò che egli sarà; viceversa, l’esistenza è una navigazione nel vuoto: si è gettati nel mondo e si deve cercare di dare un senso ad un’esistenza che, priva di senso, ne è sprovvista. Altri grandi esistenzialisti del passato erano stati Pascal e Lutero, i quali si erano interessati non tanto se Dio esistesse, quanto piuttosto che senso avesse per l’esistenza dell’uomo credere in Dio. Nel Novecento, accanto agli esistenzialisti credenti e a quelli difficili da catalogare, come Heidegger (Vattimo dà di lui un’interpretazione non-religiosa), vi saranno anche esistenzialisti atei che riprenderanno le riflessioni di Kierkegaard, rimproverando però al filosofo danese e, in generale, all’esistenzialismo religioso di aver tradito l’istanza esistenzialistica originaria ricorrendo a Dio: infatti, l’esistenzialismo è tutto incentrato sulla possibilità ed essa, per essere tale, non può agganciarsi a Dio, perchè così facendo si approda al porto sicuro della fede e si tappa l’enorme falla del nulla, tipica della ricerca esistenzialista. Camus, ad esempio, insisterà vivamente sul concetto di assurdo e sull’accettazione da parte dell’uomo dell’assurdità dell’esistenza; l’uomo di Camus saprà dunque vivere fino in fondo la condizione di ineliminabile assurdità dell’esistenza, paragonata ad un’inutile fatica di Sisifo. Tuttavia, contro la critica mossa dall’esistenzialismo ateo, si può spezzare una lancia in favore di Kierkegaard, facendo notare come per lui la fede non rinneghi la matrice esistenzialista: infatti, egli non la concepisce in modo tranquillo e sereno, come un porto in cui trovar riparo; al contrario, la vive in modo drammatico e problematico (l’immagine della fede è per lui Abramo), come l’avevano vissuta Tertulliano, san Paolo, Lutero e Pascal, non in modo tranquillo e sereno come Erasmo e Tommaso. Il pensiero kierkegaardiano e, con esso, l’esistenzialismo rinasce, dopo più di mezzo secolo di oblìo, negli anni della prima guerra mondiale e non è un caso che abbia i suoi momenti d’oro subito dopo le due guerre mondiali, quando gli eventi bellici, con tutta la loro drammaticità, tendono a far nascere un vivissimo senso dell’insensatezza dell’esistenza (già peraltro sottolineato dal Dadaismo in campo artistico). Le due guerre mondiali, però, hanno lasciato un senso diverso nella coscienza della gente: la fine della prima guerra mondiale suggerisce l’idea di un crollo dei sistemi tradizionali tanto nei Paesi vincitori quanto in quelli vinti (atteggiamento che traspare benissimo da “Il tramonto dell’Occidente” di Splenger); con il secondo conflitto mondiale, invece, si assiste a genocidi sconvolgenti, mai verificatisi in passato, ma ciononostante si aprono maggiori spiragli di speranza poiché, se la prima guerra mondiale aveva chiuso tragicamente un’epoca in fin dei conti felice (la “bella époque”), con la seconda è crollato un mondo, ma il mondo in questione è quello dominato dai nazisti. All’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, alberga la speranza e la voglia di rivivere nell’animo di tutti e la stessa Resistenza, che aveva valorosamente saputo opporsi alle dittature, non aspirava solo a liberare il mondo dai fascismi, ma anche a creare una società nuova e più vivibile. E così si può dire che tra l’esistenzialismo fiorito all’indomani della prima guerra mondiale e quello sviluppatosi dopo la seconda intercorre una differenza accostabile a quella prospettata da Nietzsche tra nichilismo passivo e nichilismo attivo: come abbiam detto, l’esistenzialismo prevede la mancanza di un’essenza rigorosamente determinata nell’uomo e questo rievoca, per molti versi, l’assenza di essere prospettata da Nietzsche; dallo sgomento che nasce dal sentirsi mancare la terra sotto i piedi si origina un nichilismo passivo, che fa sì che si provi nostalgia per il passato, in cui vi erano valori saldi a cui far riferimento. Al nichilismo passivo, però, subentra quello attivo: cessato lo sgomento scaturito dall’assenza di punti di riferimento, ci si accorge che non resta che crearne di nuovi. Qualcosa di analogo vale anche per l’esistenzialismo novecentesco: è come se nel primo nichilismo, che va dalla prima guerra mondiale alla seconda, prevalesse il nichilismo passivo e pessimista, che intende l’esistenza come smarrimento dell’uomo, come “ amhcania ” ineliminabile; l’uomo è, leopardianamente, gettato nel mondo a condurre un’esistenza priva di senso e la libertà di cui egli gode è vista più come una condanna che non come un privilegio: Sartre dice, a tal proposito, che “ l’uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa” , sottolineando come si sia liberi di tutto fuorchè di scegliere se venire al mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, invece, l’esistenzialismo si colora di ottimismo e tende sempre più a leggere la possibilità come facoltà di progettare liberamente il proprio futuro. A tal proposito può essere interessante l’itinerario filosofico di Sartre fra le due guerre mondiali: negli anni successivi alla prima guerra mondiale egli scrive (nel 1938) il celebre romanzo “La nausea”, con cui esprime quel senso di disagio quasi fisico nei confronti del mondo e della sua insensatezza: in uno dei passaggi forse più famosi del libro, il protagonista, seduto in una panchina nel parco, osserva le radici contorte di un albero che si spingono nella terra senza senso alcuno e ciò gli fa cogliere tutto d’un colpo l’insensatezza dell’esistenza e gli provoca un forte senso di nausea; in un’altra parte del libro, ha un incubo ad occhi aperti: immagina delle trasformazioni anatomiche stravolgenti (un terzo occhio o la lingua che si trasforma in un insetto ripugnante). Con ciò, Sartre vuole sottolineare come siamo tutti abituati a vedere l’uomo in una sola maniera, perché ha una sua essenza che determina ciò che è; ma nel momento in cui perdiamo il senso delle cose, tutto diventa possibile e in questo periodo Sartre legge la possibilità come altamente negativa, quasi come una condanna che implica l’insensatezza del mondo: come a dire che il mondo, quando può diventare ciò che vuole, diventa una mostruosità. Negli anni della seconda guerra mondiale, più precisamente nel 1943, Sartre pubblica invece “L’essere e il nulla”, un trattato filosofico in cui compare un’immagine che chiarisce il nuovo atteggiamento sartreano nei confronti dell’insensatezza dell’esistenza: egli afferma come in un mondo e in un’esistenza privi di senso sia l’uomo a poter conferire un significato ad essi; proprio come parliamo, convenzionalmente, di “mezza luna” ma potremmo tranquillamente definirla “luna” e chiamare invece “doppia luna” quella che abitualmente chiamiamo “luna”, così possiamo dare un significato a tutte le cose del mondo, visto che esse, di per sé, non ce l’hanno. Se Sartre negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, sull’onda dei drammi bellici, non guardava con simpatia alla libertà di dare un senso al mondo, ora che la guerra sta del tutto volgendo al termine dà una svolta ottimistica al suo pensiero. A guerra ultimata, nel 1946, compone un opuscolo (al quale risponderà lo stesso Heidegger) intitolato “L’esistenzialismo è un umanismo”, con cui guarda in modo attivo alla filosofia dell’esistenza: se il mondo è caratterizzato dall’assenza di un significato e di un’essenza predeterminata, allora mi trovo a scegliere liberamente cosa diventare e quando scelgo, nota Sartre, scelgo anche per coloro che verranno al mondo dopo di me, dal momento che si sceglie sempre facendo riferimento a valori consolidati da secoli e da una miriade di persone. Ne consegue che sono quel che decido di essere, ovvero attraverso l’esistenza determino l’essenza mia, ma anche degli altri. Ecco perché se l’umanesimo ha messo, nel Cinquecento, al centro del mondo l’uomo, inteso, secondo la felice espressione sallustiana, “faber fortunae suae”, l’esistenzialismo ora rappresenta il culmine della tradizione umanistica, in quanto è l’uomo a dare un senso alla propria esistenza e al mondo stesso. Naturalmente questa nuova prospettiva sartreana è altamente ottimista, in quanto il filosofo francese è alimentato dalla speranza, tipica del dopoguerra, di ricostruire un nuovo mondo e non a caso questo è il periodo in cui Sartre è impegnatissimo politicamente nel Partito Comunista: affiora nella sua filosofia il concetto di “impegno” esistenziale e politico, che farà sì che Sartre tenti un’ibridazione tra il marxismo e l’esistenzialismo, in virtù del fatto che l’esistenzialismo, in quanto filosofia dell’esistenza, può essere innestato un po’ ovunque. Nel 1947 Heidegger pubblica la “Lettera sull’umanismo”, con la quale capovolge la prospettiva sartreana emersa in “L’esistenzialismo è un umanismo” e interpreta il compito del pensiero come impegno non per l’uomo, ma per l’essere. In questo modo, il pensatore tedesco prende le distanze dall’esistenzialismo, a cui rinfaccia di assegnare il primato a quell’ente che è l’uomo, dimenticandosi dell’essere. Ma l’uomo, dice Heidegger, è solo il “ pastore dell’essere ”, colui al quale è affidato il compito di salvaguardare e custodire nel pensiero la verità dell’essere. L’esistenzialismo risente, come abbiamo visto, dell’influenza della filosofia fenomenologica: in particolare, in Heidegger resta l’idea husserliana che la coscienza sia sempre costitutivamente intenzionale; la coscienza, in altri termini, si riferisce sempre a qualcos’altro, qualsiasi atto umano è un riferirsi a qualcosa, cosicchè pensiamo, facciamo, vogliamo sempre qualcosa. L’atteggiamento di Husserl, però, è iperclassico, porta all’esasperazione la tendenza teoretica riservata da Aristotele alla filosofia, quasi sganciandosi dal mondo (che non a caso veniva da Husserl messo tra parentesi). L’esistenzialismo, però, si trova agli antipodi rispetto alla concezione aristotelica e husserliana della filosofia come “sapere per il sapere”: infatti, la sua indagine verte sull’esistenza e quest’ultima implica l’essere immersi in quel mondo sul quale Husserl sospendeva il giudizio. Dunque Heidegger eredità la nozione husserliana di “intenzionalità”, ma respinge nettamente l’ipotesi che essa resti interna solo all’orizzonte della coscienza: ne consegue che per Heidegger il carattere intenzionale non implica tanto il tendere alle idee, quanto il tendere e il riferirsi al mondo; questo atteggiamento, proprio di Heidegger, rispecchia in realtà buona parte delle posizioni esistenzialistiche, che per lo più vedono come marginale l’aspetto teoretico, tanto caro ad Husserl, perché l’esistenza è, in primo luogo, essere nel mondo.
IL CIRCOLO DI VIENNA E IL NEOPOSITIVISMO
Il Circolo di Vienna (in tedesco “Wiener Kreis”) si propose come obiettivo l’elaborazione di una concezione scientifica del mondo: il primo nucleo del circolo si costituì a partire dal 1923, dopo l’arrivo di Moritz Schlick a Vienna in veste di professore universitario; tra i suoi membri princioali vanno ricordati Herbert Feigl, Friedrich Waismann e vari scienziati, come il matematico Hans Hahn, il fisico Philip Frank, il sociologo Otto Neurath. Nuovo impulso alla vita del Circolo fu poi dato dall’arrivo a Vienna di Rudolf Carnap e dall’iniziativa di discutere insieme il “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, che partecipò qualche volta ad alcune sedute del Circolo. Nel 1928 esso assunse il nome di “Associazione Ernst Mach”, mentre nello stesso anno veniva fondata a Berlino una parallela “Società per la filosofia scientifica”, di cui erano membri Hans Reichenbach, Richard von Mises, Carl Gustav Hempel e Hilbert. Tra i due gruppi vebnnero intrecciate relazioni che culminarono nell’organizzazione di una serie di congressi, nella fondazione della rivista “Erkenntnis” (Conoscenza), pubblicata dal 1930 al 1938 sotto la direzione congiunta di Carnap e Reichenbach, e di una collana di volumi, in cui uscirono anche opere di Carnap e di Popper. Le riunioni del Circolo a Vienna continuarono fino al 1936 e ad esse presero parte anche visitatori stranieri come Ayer (da Oxford) e Quine (dagli USA), ma fra il 1932 e il 1938, anno dell’annessione dell’Austria da parte di Hitler, quasi tutti i suoi membri emigrarono all’estero, in Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti. Qui entrarono in rapporto con filosofi americani, tra i quali Dewey e Charles W. Morris, e insieme diedero vita al progetto di una “Enciclopedia della scienza unificata”. La posizione filosofica di quanti parteciparono alle iniziative del Circolo è influenzata dalla tradizione empiristica, da Mach e dal “Tractatus” di Wittgenstein ed è stata variamente denominata: “neopositivismo” o “positivismo logico” o anche “empirismo critico” o “empirismo critico”. I caratteri generali di essa emergono nel manifesto del Circolo, che fu pubblicato nel 1929 con il titolo “La concezione scientifica del mondo”, dedicato a Schlick e sottoscritto da Hahn, Carnap e Neurath, ma redatto essenzialmente da Neurath. L’obiettivo è reagire contro la svalutazione del sapere scientifico, mostrando che la nuova immagine del mondo, costruita dalla scienza, è in grado di fornire una migliore spiegazione dei dati forniti dall’esperienza. A ciò è possibile provvedere coordinando i risultati raggiunti dalle varie scienze in modo da elaborare la scienza unificata , attraverso la ricerca di un linguaggio quotidiano. Il presupposto è che la scienza è un linguaggio ed è l’unico linguaggio dotato propriamente di significato dal punto di vista della conoscenza. In sintonia con il primo Wittgenstein, le proposizioni scientifiche sono distinte in tautologiche, proprie della matematica e della logica, e in enunciati empirici: questi ultimi sono significanti, soltanto se sono riducibili ad asserzioni elementari riguardanti i dati immediati della sensazione. Le teorie scientifiche si fondano quindi su una base empirica e vengono costruite mediante l’elaborazione di questo materiale grazie agli strumenti forniti dalla logica matematica, che per i neopositivisti è sostanzialmente quella dei “Principia mathematica” di Russell e Whitehead. Il significato di una proposizione consiste, secondo una formula introdotta da Waismann, nel metodo della sua verificazione : Schlick dice che “ la gioia di conoscere è la gioia della verificazione, l’entusiasmo di aver colto nel segno ”. Sul senso da attribuire a questa nozione di verificazione si aprirà un dibattito, soprattutto sulla rivista “Erkenntnis”, che vedrà differenziarsi le varie posizione, mentre rimarrà sostanzialmente uniforme l’accettazione di una delle conseguenze di questa impostazione generale, ovvero la dimostrazione dell’ insignificanza della metafisica tradizionale, mediante l’analisi logica delle sue proposizioni. Questa analisi, infatti, mette in luce l’inverificabilità delle proposizioni della metafisica, le quali pretendono di parlare di entità che vanno al di là di ogni esperienza possibile: tali proposizioni sono dunque prive di significato. Sotto questo profilo, dice Carnap, il linguaggio della metafisica appare soltanto come un’espressione di sentimenti e i metafisici vengono da lui paragonati a “ musicisti senza talento ”.
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
Nel febbraio del 1923 viene aperto ufficialmente a Francoforte, grazie ad una donazione privata, l’ “Institut für Sozialforschung” (Istituto per la ricerca sociale), sotto la direzione dello storico marxista Karl Grünberg. Di esso fece parte anche Max Horkheimer (Stoccarda 1895 – Norimberga 1973), che nel 1931 ne diventa a sua volta direttore. Nato nei pressi di Stoccarda da ricca famiglia ebrea, dopo aver lavorato presso l’impresa paterna, si laurea con una tesi su Kant nel 1922 a Francoforte, dove nel 1929 diventa professore di Filosofia sociale. Nel 1932 iniziano le pubblicazioni della rivista dell’Istituto, la “Zeitschrift für Sozialforschung”, alla quale collaborano anche altri filosofi del calibro di Adorno, Fromm, Marcuse e sulla quale Horkheimer pubblica diversi articoli, che saranno successivamente raccolti dopo la guerra sotto il titolo di “Teoria critica” (1968). Nel 1933, con l’avvento del nazismo, Horkheimer è espulso dall’università, l’Istituto viene chiuso e trasferisce la propria sede in Svizzera e poi, nel 1934, a New York, mentre la rivista continua le sue pubblicazioni a Parigi, fino al 1940, e successivamente negli Stati Uniti. Horkheimer stesso si trasferisce a New York e dal 1941 in California, acquistando la cittadinanza americana. Durante il soggiorno statunitense, egli pubblica in inglese l’ “Eclisse della ragione” (1947) e in tedesco la “Dialettica dell’illuminismo”, composta in collaborazione con Adorno. Nel 1950 escono, sempre negli Stati Uniti, i risultati di una ricerca collettiva dell’Istituto, sotto il titolo “Studi sulla personalità autoritaria”, ma nel frattempo Horkheimer torna in Germania per insegnare Sociologia e Filosofia all’università di Francoforte, anche se conserva la cittadinanza americana; con lui torna anche l’Istituto, soprannominato dagli studenti “Caffè Max”. Nel 1951 è nominato rettore dell’università e nel 1954 si stabilisce sul lago di Lugano, dove conclude la propria esistenza nel 1973. In primo luogo, l’Istituto si propone il ripristino del marxismo , ma tenendo conto dei profondi mutamenti della situazione storico-sociale: soprattutto, dopo la grande crisi economica divampata nel 1929, il capitalismo sembra assumere un nuovo aspetto e trasformarsi, sia nelle democrazie occidentali, sia nelle dittature di Destra, sia nell’Unione Sovietica, in capitalismo di Stato. Ciò implica che non è più possibile parlare di una struttura economica autonoma rispetto alla politica: contrariamente alla teoria di Marx, lo Stato sembra riassumere il primato rispetto alla società civile e impedire, col suo intervento diretto nella sfera economica, l’impoverimento crescente del proletariato. In questa situazione, si assiste ad una graduale perdita di impulso rivoluzionario nella classe operaia, con la conseguente sfiducia, comune agli autori della Scuola di Francoforte, nel fatto che essa possa ancora essere il motore di una trasformazione radicale della società. Ostili alla socialdemocrazia, poiché traditrice degli obiettivi rivoluzionari, ma anche alla burocratizzazione e alla bancarotta, verificatasi anche sul piano teorico, del comunismo sovietico, essi si tengono per lo più lontani dall’attività politica diretta: l’organizzazione totale della società, comune ai paesi occidentali come a quelli orientali, non è spiegabile solo attraverso la coercizione materiale a cui sarebbero sottoposti gli individui. Si tratta, invece, di individuare anche le mediazioni psicologiche e culturali che rendono possibile la costituzione del dominio sociale e, dall’altra, l’accettazione passiva di esso. A questo scopo sono dedicate le ricerche collettive dell’Istituto sul problema dell’autorità. Non scorgendo più all’orizzonte un agente sociale della rivoluzione e ritenendo ormai impossibile su questa base una previsione scientifica del crollo del capitalismo, i pensatori della Scuola di Francoforte ritornano, in qualche modo, ad un’impostazione simile a quella della sinistra hegeliana dopo la scomparsa di Hegel: infatti, essi riconoscono la discrepanza tra la realtà storica e la razionalità e, quindi, il carattere irrazionale della società esistente, rispetto alla quale il compito primario da esercitare è la critica; si tratta pertanto, attraverso un lavoro di critica, di far diventare reale ciò che è razionale. Ecco perché i pensatori della Scuola di Francoforte vogliono elaborare una teoria critica della società , in cui occupa una posizione assolutamente centrale la dialettica , concepita (sulla scia del primo Lukàcs) come metodo per la trasformazione della realtà. A differenza di Lukàcs, però, la teoria critica non viene intesa come semplice espressione della coscienza di classe, senza per questo scivolare nell’illusione opposta che l’intellettuale sia al di sopra della mischia e della lotta di classe. L’intellettuale critico non è un ripetitore delle tendenze conformistiche del proletariato e la dialettica, di cui egli si serve, è orientata ad accertare le contraddizioni esistenti, ma senza la certezza di un superamento di esse in una sintesi finale. E poi, se Marx considerava la scienza, acquisibile mediante il metodo dialettico, diversa sia dall’ideologia, sia dall’utopia, per i pensatori della Scuola di Francoforte la scienza e la tecnica sono anch’esse causa ed espressione, al tempo stesso, del dominio totale della società e quindi forme di ideologia, non nel senso di essere semplici riflessi di interessi di classe, ma in quanto esprimono le contraddizioni della società. In questa prospettiva torna dunque ad aprirsi un nuovo spazio per l’ utopia , la quale però consiste, più che nella delineazione di un programma dai contenuti positivi da perseguire e nella definizione dei caratteri della società libera del futuro, nella denuncia di ciò che è falso nel presente e nel rifiuto di esso: e così nel pensiero dialettico assume grandissimo rilievo il momento della negazione.
IL NEO-CRITICISMO TEDESCO
Già nella seconda metà dell’Ottocento si andò sviluppando negli ambienti culturali tedeschi un ritorno a Kant in funzione antipositivistica. A cavallo tra Ottocento e Novecento si andò formando un movimento d’ispirazione kantiana, definito Neocriticismo, rappresentato principalmente dalla Scuola di Marburgo, e dai grandi nomi di Cohen, Natorp, Cassirer. Contemporaneamente al Neocriticismo, e sempre ispirandosi alla filosofia di Kant, fiorì lo Storicismo tedesco, ad opera di Windelband e Rickert, massimi esponenti della Scuola di Baden. Riconducibile tanto alla Scuola di Baden, per l’attenzione alla problema ermeneutico della Storia, quanto alla Scuola di Marburgo, per l’interesse rivolto alla teoria dei valori di marca kantiana, è la filosofia di Dilthey, che, proprio per il progetto di creare una metodica delle “Scienze dello Spirito”, rappresenta un passo avanti verso la nascita del pensiero ermeneutico novecentesco, oltre ad essere importante in sé, come modello di riferimento d’ogni matura metodologia delle scienze umane e sociali che non voglia rinunciare alla mediazione filosofica. Il pensiero filosofico tra Ottocento e Novecento è caratterizzato (soprattutto in Germania, ma anche in Francia) da una serrata polemica antipositivistica, portata avanti soprattutto da due correnti filosofiche abbastanza diverse tra loro: lo spiritualismo di Lotze, Eucken, Spir, Hartmann, che adotta il metodo della riflessione interiore e non quello della costruzione dialettica, approdando verso forme di misticismo religioso, pessimismo cosmico, irrazionalismo inconscio; l’altra corrente è il neo-criticismo delle due scuole di Marburgo (Cohen, Natorp e soprattutto Cassirer) e del Baden, nelle due Università di Heidelberg e Friburgo (Windelband e Rickert). In entrambe le correnti il tentativo era quello di recuperare quei valori spirituali trascurati dal positivismo e di ribadire l’esigenza di attribuire alla filosofia un compito diverso da quello di una semplice coordinazione unitaria del sapere scientifico ammessa dal positivismo. Ma delle due correnti quella che diede i risultati più fecondi fu la seconda. Il neo-criticismo rappresenta la sistematica ripresa della filosofia kantiana, nel senso di una riflessione sui fondamenti, metodi e limiti della scienza (in seguito gli ambiti si amplieranno a storia, morale, arte, religione, linguaggio). Mentre per i positivisti l’oggettivo sono i fatti e l’apriori è sinonimo di soggettività/arbitrarietà, per i neo-criticisti l’apriori è il fondamento dell’oggettività scientifica . La scienza, cioè, non sarebbe progredita tramite l’accumulazione pura e semplice dei fatti, ma piuttosto con l’unificazione di questi fatti in ipotesi, leggi, teorie (gli elementi apriori). Compito della filosofia è appunto quello di studiare criticamente gli elementi apriori (filosofia=logica/metodologia scientifica). Il neo-criticismo non è solo contrario all’affermazione del carattere assoluto o metafisico della verità scientifica, ma è anche contrario a ogni tipo di metafisica o di integrazione metafisico-religiosa del sapere scientifico , secondo l’indirizzo dell’idealismo e dello spiritualismo. Il neo-criticismo contesta sia la metafisica della materia (positivismo e naturalismo) sia quello dello spirito (idealismo e spiritualismo). Per i neo-criticisti, Kant si è proposto anzitutto di criticare il sistema scientifico newtoniano (questo viene detto per superare l’interpretazione psicologistica allora dominante del pensiero kantiano). La filosofia critica vuole diventare la scienza delle determinazioni necessarie e universali di valore (della verità, del bene, del bello). La preoccupazione di questi neo-kantiani è quella di ridimensionare l’assoluta oggettività di ogni scienza o filosofia, valorizzando l’apporto dell’individuo concreto (storicamente determinato) alla conoscenza complessiva delle cose (della cui validità teoretica vanno poste le fondamenta gnoseologiche). In due punti il neo-criticismo di Marburgo ha corretto l’impostazione kantiana: ha eliminato il riferimento al noumeno (che lo sviluppo delle scienze esatte aveva reso obsoleto) e ha eliminato la distinzione tra sensibilità (facoltà passiva) e intelletto (facoltà attiva) . L’oggetto dell’attività scientifica è frutto dell’attività produttiva del pensiero (ad esempio, nel calcolo infinitesimale si fa nascere un ente geometrico senza alcun riferimento a dati intuitivi, ma solo attraverso operazioni logiche). Tuttavia, l’oggetto di studio della filosofia (il pensiero) non è l’attività pensante soggettiva, ma il pensato (non è possibile cogliere l’attività della coscienza, tanto è vero che i marburghesi metteranno la psicologia tra le scienze “generalizzanti”, al pari della fisica, chimica, biologia…). Il processo conoscitivo non è più l’analisi di un dato iniziale, ma l’analisi del passaggio da un oggetto indeterminato (per esempio un colore) a uno più determinato (per esempio l’onda luminosa di cui parla la fisica), attraverso un processo di sintesi che non giunge mai a compimento. Il processo/metodo è tutto, mentre l’oggetto/fatto è solo in fieri. In pratica, il neo-criticismo accetta le esigenze del positivismo di eliminare un noumeno pensabile ma non conoscibile, rifiutandone nel contempo la pretesa di determinare l’essenza delle cose mediante la scienza: l’essenza sta nel rapporto che le collega. Il neo-criticismo della Scuola di Marburgo cade però nel limite del funzionalismo o relativismo nei nessi relazionali che collegano le cose. Qualunque organizzazione sociale o qualunque enunciato teorico può essere giustificato se se ne trovano i nessi logico-coerenti. Il neo-criticismo si preoccupa soltanto di fissare i criteri di legittimità di una teoria, ma l’unico vero criterio che pone è il rifiuto di considerare possibile la conoscenza vera, esatta, sostanziale della realtà in sé (naturalmente a livello di approssimazioni sempre più vicine alla verità assoluta). Esso ammette unicamente la conoscenza della realtà che ci appare, cioè di quella che in ultima istanza siamo noi stessi a costruire. In tal modo, viene meno la possibilità di contraddire in modo assoluto una determinata teoria sulla base dei fatti. Le teorie per il neo-criticismo si contraddicono da sole quando assolutizzano i fatti, mentre restano coerenti quando mantengono i fatti nella loro relatività (rispetto ad altri fatti). La contraddizione non diventa mai per il neo-criticismo così oggettiva da determinare un ripensamento dei criteri generali di organizzazione della società o della conoscenza. Cassirer dice che “l’uomo non può sottrarsi alle condizioni di esistenza che lui stesso si è creato”, cioè l’esistenza può solo essere accettata, non può essere trasformata. “I contrari non si escludono a vicenda ma dipendono l’uno dall’altro”. L’uomo insomma, per il neo-criticismo, non può più tornare ad essere un ente di natura, che vive rapporti umani naturali, perché è costretto a pagare il prezzo della sua pretesa manipolativa del reale. L’uomo non può più comprendere la verità delle cose, perché ha di fronte a sé solo le proprie verità. “La” verità non esiste, esistono solo “le” molte verità che l’uomo si dà. Cassirer dice che l’uomo si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi a tal punto da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione. Il rapporto colla natura quindi si è irrimediabilmente perso in questa mediazione culturale artificiale creata dall’uomo. Cassirer esclude categoricamente che da una trasformazione della mediazione culturale si possa tornare a un rapporto più equilibrato dell’uomo con la natura. Gli esponenti più significativi della Scuola del Baden sono Windelband e Rickert. Ciò che accomuna le due scuole è sia il rifiuto della concezione positivistica della conoscenza come “riproduzione della realtà”, sia l’esigenza kantiana di considerare la validità della conoscenza indipendentemente dalle condizioni soggettive/psicologiche in cui la conoscenza si verifica. Tuttavia, diversamente dai marburghesi, l’attenzione di questi neo-kantiani non è volta all’indagine/formulazione di un “metodo” che spieghi l’origine del processo conoscitivo e la funzione logica del pensiero in ogni sua espressione, ma alla ricerca di una “norma/criterio” che determini la verità/falsità di un oggetto conoscitivo. Tale criterio è visto nel “valore” (donde “filosofia dei valori”), considerato indipendente dal soggetto che lo formula (Windelband p.es. è stato il primo a trattare la storia della filosofia per problemi, considerando i problemi stessi nel loro sviluppo come relativamente indipendenti dai filosofi che li pongono). WINDELBAND si pone come obiettivo quello di creare una “filosofia critica” che sia scienza delle determinazioni “necessarie e universali” del valore della “verità”, del “bene” e del “bello”. La filosofia cioè non ha per oggetto dei “giudizi di fatto” -come le scienze naturali- ma dei “giudizi di valore”, che hanno validità normativa. Come la legge naturale non è mai un principio di valutazione, così la norma non è mai un principio di spiegazione. Windelband parte da Kant, sottolineando di questi la scoperta che i principi a priori garantiscono la validità della conoscenza, il che ha distrutto definitivamente la concezione greca che credeva esterna all’uomo la realtà che permette di determinare la verità delle cose. Le categorie kantiane -dice Windelband, chiamandole col termine “valori”- sono valori necessari e universali, aventi carattere normativo indipendente dalla loro effettiva realizzazione. A differenza però dai marburghesi, Windelband e Rickert cercano di applicare questa scoperta kantiana (Kant aveva parlato di valore solo nei confronti del “bene”) non solo alla gnoseologia o al sapere fisico-matematico, ma anche all’estetica e all’etica, ovvero a tutto il mondo storico, senza contraddizione tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”, che Windelband chiama, rispettivamente, “scienze generalizzanti” o “nomotetiche” (cioè legate alle leggi, e sono la biologia, la fisica, la chimica, la matematica, ecc.) e “scienze individualizzanti” o “idiografiche” (cioè legate alla singolarità, come la filosofia e la storia). Windelband e Rickert propongono una spiegazione della storia a partire dall’interpretazione del fatto singolo e individuale, che abbia naturalmente un valore universale. Il valore quindi si configura come un a-priori, un “dover essere” (la rappresentazione “vera” come quella che deve essere pensata, l’azione “buona” come quella che deve essere compiuta, la cosa “bella” come quella che deve piacere), indipendente dall’oggetto, in relazione al soggetto, in grado di determinare la validità di qualsiasi tipo di giudizio e che la filosofia deve portare alla coscienza del soggetto. In polemica con Dilthey, Windelband e Rickert affermano l’unità del sapere umano, ovvero il rifiuto di distinguere (se non a livello metodologico) le scienze della natura da quelle della cultura/spirito. La realtà indagabile è sempre la stessa, anche se cambia il punto di vista (scientifico o storico) dal quale viene considerata. Rickert accentua però la differenza “oggettiva” dei due tipi di scienza, facendo del valore un’entità trascendente, come un essere per sé, trascendente l’attività umana. Il neo-criticismo si è diffuso in tutti i paesi, ma le manifestazioni più significative le ha trovate in Francia e soprattutto in Germania. In Italia l’esponente più importante è stato Antonio Banfi (1886-1957), che ha elaborato il “razionalismo critico”. HERMANN COHEN (1842-1918), nel suo “Sistema di filosofia”, sviluppò i presupposti metafisici del criticismo kantiano, soprattutto il concetto del noumeno, o “cosa in sé”, che avanzava una frattura tra ciò che è in se stesso e ciò che si conosce. Inoltre, la dicotomia tra “estetica” e “analitica”, che postulava una distanza non di minore momento tra ciò che si conosce mediante l’intuizione e ciò che si conosce attraverso l’intelletto, limitando successivamente l’oggetto d’intuizione a substrato materiale della conoscenza intellettiva. Nell’interpretazione di Cohen, il pensiero e l’essere sono due concetti coincidenti, tuttavia non nella maniera idealistica, che li unifica nell’Io, ma in quanto essi costituiscono l’oggettività pensabile. Strettamente collegate a quella che Cohen ha definito “logica della conoscenza pura” sono altre due scienze filosofiche teorizzate dal filosofo neokantiano: un’etica della volontà pura e un’ estetica del sentimento puro . Dal punto di vista etico, Cohen riprende il kantiano “dover essere” aggiungendo che senza “dover essere” c’è solo desiderio, negatore di ogni volontà autentica. Da Kant egli desume anche il principio etico di scorgere nell’umanità, in sé e negli altri, un fine e non un mezzo, concezione che per Cohen trova un corrispettivo filosofico-politico all’interno della “Weltanschauung” socialista. Nel Socialismo, asserisce il filosofo tedesco, l’uomo è un fine in sé, per cui è un dovere morale rispettarne la libertà personale e la dignità sociale. Tale principio egli vede a fondamento della concezione socialista: per il socialismo, egli dice, l’uomo è fine in sé, e pertanto bisogna rispettarne la libertà e la dignità. Tuttavia Cohen non accetta il socialismo d’ispirazione marxista, in quanto in contraddizione con il kantiano “regno dei fini”, cioè verso un valore etico a cui sembra tendere il mondo moderno nella sua evoluzione storica. L’esplicitazione etica del socialismo fu poi delineata ed approfondita anche da Paul Natorp (1854-1924), tra l’altro noto come esperto della filosofia di Platone e dei suoi sviluppi. Tuttavia, se la critica dei valori di Cohen e Natorp rischia di apparire anacronistica nel momento in cui rimane ancorata alla tavola di categorie etico-sociali di stretta ortodossia kantiana, ha una sua importanza decisiva se si considerano gli sviluppi di Cassirer, che fa una brillante ed originale ripresa dell’a priori del filosofo di Köenigsberg, nel senso di una presa di coscienza sull’importanza della realtà simbolica ai fini della gnoseologia, o teoria psichica della conoscenza umana. ERNST CASSIRER (1874-1945), noto come uno dei più importanti storici delle idee, va annoverato tra i principali filosofi del Novecento soprattutto grazie alle brillanti intuizioni esposte in due opere: “Concetto di sostanza e concetto di funzione” e in “Filosofia delle forme simboliche”. La scienza, dice il grande filosofo tedesco, non è capace di mostrarci l’immagine di oggettive entità di natura. Le strutture che sottostanno ai contenuti della conoscenza sono “funzioni”. In questa filosofia il linguaggio assume una sua peculiare “funzione costitutiva” degli enti della conoscenza. La dimensione linguistica non rappresenta solo una modalità di approccio comunicativo, ma organizza l’esperienza tipicamente umana della conoscenza, è anzi la stessa organizzazione del pensiero a dover fare continuamente i conti con l’attivo uso del linguaggio e delle sue dinamiche. È la dimensione linguistica che fa da tramite tra le nostre impressioni dettate dal momento e il livello dell’oggettività razionale. Questa operazione è mediata dal simbolo che svolge un suo ruolo specifico come un mezzo necessario e imprescindibile del pensiero per realizzarsi come tale. Non è un semplice agente formale che permette di veicolare, comunicandolo, un contenuto di pensiero preformato nella nostra mente, ma è lo strumento che rende possibile determinare concettualmente lo stesso contenuto. Per Cassirer l’atto di determinare concettualmente un contenuto di pensiero va di pari passo con l’atto del suo riconnotarsi in un non meglio precisato simbolo caratteristico. Dal momento che spetta al simbolo di costituire i concetti, esso determina anche l'”oggetto” della realtà spirituale. Quando con Aristotele si afferma che “l’uomo è un animale razionale”, si è certamente nel giusto. Ma l’aggettivo “razionale” richiama il sostantivo corrispondente, “ragione”, che a Cassirer sembra una parola inadeguata. L’uomo, infatti, si realizza in moltissime forme nella sua vita spirituale, nella sua cultura. La cultura non dà vita soltanto al mondo scientifico, informa di sé una civiltà multiforme, poliedrica e complessa, che crea arti, religioni, istituzioni, etc. Parimenti alla dimensione conoscitiva umana, anche qualsiasi altra forma della sua creazione spirituale è una “forma simbolica”. Per il filosofo tedesco l’uomo andrebbe a ragione definito “animale simbolico”, in tal modo correggendo l’impostazione filosofica tradizionale, sia di marca empiristica che razionalistica, che poneva principalmente l’accento sulla razionalità umana, almeno da Socrate e Platone in poi. Da questo principio si ricava che la comprensione della storia umana non può essere se non ermeneutica dei simboli, quei simboli che rendono possibile la realizzazione e l’oggettivazione della vita culturale, che costituisce una parte essenziale della più ampia vita umana. La filosofia di Cassirer, che rivaluta il simbolo anche in senso linguistico come garanzia della conoscenza, sembra anticipare il cognitivismo e la filosofia della mente che, in corrispondenza analogia con l’indagine sui sistemi informatici, viene a determinare i processi conoscitivi della mente umana tramite l’uso inconscio dei codici simbolici, in questo riconoscendo una qualche corrispondenza tra la mente e il computer, il cui funzionamento richiede un linguaggio peculiare fondato su una rete di simboli alfanumerici. L’interesse per la teoria della conoscenza, d’altra parte, si lega in Cassirer ad un forte interesse per la storia delle idee e dei fatti umani, che, se non concorre direttamente alla costruzione di una propria filosofia della storia, si intreccia con altre coeve teorie della storia, con due filosofi importanti anche per gli sviluppi successivi che ne daranno gli ermeneuti successivi: Windelband e Rickert.
DIETRICH BONHOEFFER
Con l’avvento del nazismo al potere, la Chiesa protestante si adattava a convivere con esso, seguendo l’insegnamento impartito da Lutero stesso, secondo cui il vero cristiano deve essere fedele al potere temporale. Tuttavia, la vita e la personalità eroica di Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) testimoniarono l’assoluta incompatibilità fra il dettato evangelico e il torbido e fosco paganesimo del regime hitleriano. Bonhoeffer fu infatti tra i principali promotori della cosiddetta ” Chiesa confessante che rappresentò in Germania la resistenza cristiana al nazismo e, coinvolto nel fallito attentato a Hitler compiuto dal gruppo di Von Stauffenberg e Canaris, venne impiccato nel campo di concentramento di Flossenburg. La meditazione teologica di Bonhoeffer appare intimamente coerente con la sua vita in quanto, mentre s’innesta in modo conseguente sul filone barthiano e sulla nozione dell’assoluta alterità di Dio, svolge un tema lasciato da Barth in posizione secondaria: quello dell’ impegno concreto dell’uomo nella storia . In una situazione in cui tutto, nel mondo moderno, porta l’uomo a non riconoscersi più nel messaggio cristiano, la riflessione di Bonhoeffer muove dalla domanda su come sia ancora possibile professare il Vangelo. Di qui il suo sforzo, da un lato, di accettare sino in fondo l’autonomia dell’umana, la sua “maggiore età”, cioè il retaggio della cultura moderna dall’illuminismo in poi e, dall’altro, di prospettare la possibilità di un cristianesimo “non religioso”, che richieda di vivere il Vangelo in un mondo totalmente secolarizzato e lontano da Dio. ” Vivere in nome di Dio e di fronte a Dio senza Dio ” è la formula in cui si condensa questo tentativo di accogliere senza mezzi termini le istanze dell’umanesimo ateo e di scorgere la presenza di Dio non nella debolezza, ma nella pienezza e nella forza dell’umano. Nelle sue opere (fra le quali le più note sono certamente l’ “Etica”, il capolavoro incompiuto, e la densa raccolta di lettere degli ultimi anni, pubblicata postuma nel 1951 dal titolo “Resistenza e resa”) tutto ruota intorno alla domanda di fondo: chi è Cristo oggi per noi, abitatori di un mondo che ha imparato a fare a meno dell’ipotesi Dio poiché è finalmente diventato “adulto? Oppure, detto in altri termini, come e perché volgerci ancora a Dio, quando la nostra attuale condizione è di poterne fare a benissimo a meno? Non vi è infatti alcun dubbio, per Bonhoeffer, che non vi sia più alcun bisogno di un Dio “tappabuchi” cui l’uomo ricorra per darsi sicurezza nelle sue crisi e nelle sue debolezze. ” Io vorrei parlare di Dio non ai confini ma nel centro, non nella debolezza ma nella forza, non nella morte e nella colpa ma nella vita e nella bontà dell’uomo. Giunto ai limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolubile. La fede nella risurrezione non è la soluzione del problema della morte. L’aldilà di Dio non è l’aldilà delle nostre possibilità di conoscenza. La trascendenza della gnoseologia non ha nulla a che fare con la trascendenza di Dio. Egli è al di là in mezzo alla nostra vita. La chiesa non risiede là dove la capacità dell’uomo non ce la fa più, ai confini, ma in mezzo al villaggio ” (“Resistenza e resa”, lettera 16.7 del 1944). Ora, questa operazione che rassicura l’uomo nelle sue incertezze era propria della religione, la quale, su questo piano, non ha più nulla da dire. E’ dunque necessario abbandonare la religione come via d’accesso a Dio; ma ciò non vuol dire abbandonare la fede , che può essere davvero ritrovata solo sganciandola dal suo rapporto religioso. Bonhoeffer procede così ad una radicale distinzione tra religione e fede . Se la religione aveva fatto leva sulla debolezza dell’uomo per convincerlo della necessità dell’ipotesi Dio, la fede ricorderà invece che Gesù Cristo ci ha chiamati alla vita e non ha inteso fondare una religione (ipotesi radicalmente opposta a quella di Nietzsche, per cui la fede cristiana ammazza la vita). Si tratta, insomma, di scoprire il nuovo (o il vero) volto di Dio in un quadro di riferimento dove la rinuncia cosciente del “Deus ex machina”, che è un residuo pagano, conduce a vedere nella vicenda cristica la presenza concreta e storica di un Dio che si è abbandonato al potere degli uomini, salvandoli con la sua morte e con la sua sofferenza. E’ dunque per seguire l’esempio di Cristo che gli uomini hanno non solo il diritto ma il dovere di assumere sino in fondo la loro umanità, di realizzare in pieno quella vita che Cristo ha riscattato per loro con la morte: è per questo che un’ etica cristiana non deve respingere la vita, ma affermarla ed esserle fedele. E’ questo il tema che percorre l’ “Etica” di Bonhoeffer il quale, nel rifiutare ogni forma di morale astratta e di legalismo etico, muove (anche sulla scorta di un’operazione d’innesto del pensiero di Nietzsche sul tronco del Vangelo) a richiamare l’uomo all’amore per la vita e alla responsabilità che esso comporta. Nel suo amore per il mondo, Cristo lo riconduce al Padre, ma proprio così ne fonda la libertà e la responsabilità, chiamando l’uomo a un impegno che in ogni scelta concreta riaffermi e rinforzi l’amore per tutta la realtà. L’uomo, dunque, non può e non deve rifiutare le realtà “penultime” (o umane e naturali) in nome di quelle “ultime” (o sovrannaturali) ma, pur con l’occhio rivolte alle seconde, deve agire completamente all’interno delle prime. L’atteggiamento contrario non è che un autoinganno o menzogna, poiché è falso promettere il regno di Dio laddove non siano stati soddisfatti i bisogni primari dell’uomo, sia fisici sia morali sia sociali, e non ci si sia impegnati fino in fondo per correggere le storture del mondo. Compito dell’etica cristiana sarà allora non di distogliere l’uomo da questo impegno, ma di ricordargli che soltanto esercitandolo egli potrà aprirsi la strada verso la comprensione e la conquista delle realtà “ultime”; ma, al tempo stesso, di rammentargli che il rischio dell’agire nella storia sta nella permanente tentazione di farsi fine a se stesso, escludendo le realtà ultime e affermando semplicemente l’ideologia dell’umanesimo ateo. Insomma, per trovare Dio non è necessario espungere l’uomo, ma per trovar l’uomo non bisogna espungere Dio: lo sforzo dell’etica di Bonhoeffer sta tutto nel tentativo di affermare insieme Dio e l’uomo , e proprio per questo essa può dirsi un’ etica cristologica , il che ne rende illegittime le ricorrenti letture in chiave unilateralmente mondana e immanentistica.
WILHELM DILTHEY
A cura di Domenico Turco
L’inizio del movimento storicistico tedesco è si fa solitamente risalire alla pubblicazione, avvenuta nel 1883, della Introduzione alle scienze dello spirito di Dilthey, che era pervenuto ad affrontare questioni di metodologia delle scienze storiche in connessione con la sua principale attività di storico della filosofia. Wilhelm Dilthey nacque a Biebrich, in Renania, nel 1833 e, dopo aver studiato ad Heidelberg e a Berlino, dove fu allievo di alcuni fra i maggiori esponenti della scuola storica, divenne professore di filosofia a Basilea nel 1867; successivamente insegnò in altre università tedesche. Dal 1882 succedette a Lotze all’università di Berlino dove ultimò il suo insegnamento nel 1906. Morì a Siusi, nel Tirolo allora austriaco, nel 1911. I suoi primi interessi di storico si rivolsero in primis alle manifestazioni letterarie, religiose e filosofiche del romanticismo tedesco e trovarono la loro massima espressione nella pubblicazione di un’ampia biografia di Schleiermacher rimasta incompiuta e iniziata nel 1867. In seguito Dilthey ampliò il proprio campo di indagine alla cultura del Rinascimento e della Riforma, all’illuminismo e all’idealismo: frutto di quest’interesse sono Introduzione del mondo e analisi dell’uomo nel Rinascimento e nella Riforma (1891-1894), Il secolo XVIII e il mondo storico (1901), Esperienza vissuta e poesia (1906), La storia generale di Hegel (1905-1906). Nel 1883 era apparso, come accennato, Introduzione alle scienze dello spirito , il primo grande studio teorico di fondamentale importanza, considerato il fondamento del movimento storicistico tedesco, in cui Dilthey cercava di giustificare l’autonomia delle scienze dello spirito nei confronti di quelle naturali. La ricerca elaborata in quest’opera è ripresa e ampliata in una sfilza di opere successive; nelle Idee di una psicologia descrittiva e analitica (1894), Dilthey attribuisce alla psicologia una funzione fondatrice nei confronti delle altre scienze dello spirito. Questa sua presa di posizione verrà abbandonata, però, nelle sue ultime opere, che rappresentano il traguardo delle sue ricerche: si tratta di Studi sulla fondazione delle scienze dello spirito (1905-1910) e La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). Va poi ricordata la raccolta di saggi sull’ Essenza della filosofia (1907) e I tipi di intuizione del mondo (1911), in cui la filosofia stessa, intesa come una forma particolare di intuizione del mondo, è ricondotta alla sua relatività storica. Dilthey si propone di restituire autonomia allo studio del sapere storico, luogo di svolgimento del mondo umano. Dilthey crede che lo scopo fondamentale dei filosofi e della filosofia sia quello di proseguire il criticismo kantiano, volgendone i presupposti alla creazione di una scienza dello spirito che si avvalga anche dei risultati di altre discipline che abbiano come loro oggetto d’indagine i fenomeni etici, sociali, psicologici e gnoseologici. Il rinvenimento delle leggi che regolano questi fenomeni deve avere come sua precondizione l'”intuizione dello sviluppo storico come processo in cui sorgono tutti i fatti spirituali”; intuizione che si è espressa, per Dilthey, nella filosofia della storia contemporanea, da Winckelmann, attraverso l’Idealismo Ottocentesco, fino a Boeckh. Il filosofo di riconosce i gravi limiti della scuola storica, che derivano dal non aver approfondito i fatti singolari, dopo aver circoscritto la loro peculiarità ai legami relazionali oggettivi, relativamente alla realtà storica e storicamente sociale. È necessario che questi fatti singolari siano compresi dall’interno, dal momento che “noi li possiamo riprodurre, fino a un certo punto, in noi, in base all’osservazione dei nostri stessi stati”. Possiamo giungere a una conoscenza di base intuendo i singoli eventi rappresentati con il concorso attivo e fattivo della nostra esperienza vissuta (Erlebnis). C’è una corrispondenza di tipo analogico tra l’esperienza vissuta individuale e l’esperienza vissuta altrui, che ci consente di interpretare, a livello di consapevolezza storica, le varie espressioni della realtà umana d’ogni tempo come un’esperienza vissuta collettiva che risulta dalla generalizzazione di un’Erlebnis individualmente connotata. Gli stessi fatti acquistano la fisionomia di segni, che, relativamente all’esperienza vissuta dal singolo, gli consentono di aderire all’Erlebnis di chi li ha prodotti. La scienza storiografica deve quindi correlarsi alle altre Geisteswissenschaften, psicologia compresa, data la preminenza che assume l’esperienza vissuta individuale nella presa di coscienza storica. Tuttavia questa correlazione tra la storiografia e le altre scienze dello spirito non può non riconoscerne l’autonomia speculativa a fronte delle Naturwissenschaften, cioè l’insieme delle scienze naturali: Fisica, Biologia, Matematica, Chimica, etc… Nell’interpretazione di Dilthey le scienze dello spirito sono distinte e separate dalle scienze della natura in quanto queste studiano fatti che si mostrano alla coscienza estrinsecamente, quali fenomeni dati singolarmente, invece nelle Scienze dello Spirito i fatti si mostrano subito in maniera intrinseca, come una realtà autonoma ed una correlazione vivente. Nelle Scienze della Natura la correlazione con quest’ultima deriva da una concettualizzazione chiamata ad integrare i fenomeni, attraverso una connessione congetturale basata su ipotesi sperimentali, mentre le Scienze dello Spirito trovano un principio regolatore nella correlazione elementare dell’esistenza psicologica. Come Dilthey scrive nell’opera Idee su una psicologia descrittiva e analitica, “noi spieghiamo la natura, mentre intendiamo la vita psichica […]. La connessione vissuta è qui l’elemento primo, la distinzione dei suoi singoli membri sopravviene in seguito”. Il fondamento delle Naturwissenschaften, o scienze naturali, è la concettualizzazione, basata sull’equivalenza tra causa/effetto, e la loro modalità d’espressione è nel ragionare mediante equazioni. Il fondamento delle scienze dello spirito è l’ermeneutica comprendente della prospettiva storica e sociale umana sulla base della correlazione e della condivisione comunitaria insita in ogni vita psichicamente connotata. Dilthey distingue tra le scienze dello spirito, da un lato, quelle che si pongono come obiettivo intrinseco le generalizzazioni, quelle che in sostanza mirano a trovare le uniformità della realtà umana, e, dall’altro, la storia. La scienza storica infatti studia i fenomeni umani nella loro peculiarità singolare. sulle manifestazioni umane nella loro specificità individuale. Delle scienze generalizzanti fanno parte: psicologia, antropologia, arte religione, filosofia, scienza, economia e diritto. Ogni scienza particolare dello spirito conosce la realtà storico-sociale solo relativamente, in quanto ha coscienza della propria relazione con le altre scienze dello spirito. Ma come comprendiamo il mondo storico nella sua globalità? Anzitutto mediante l’idea della “oggettivazione della vita”. La vita si esprime in una molteplicità di oggettivazioni relazionate. La comprensione del mondo storico è la comprensione di esse, in quanto tali oggettivazioni sono prodotti storicamente determinati della vita dell’uomo, sono fenomeni obiettivi del processo di produzione della vita. E ciò che si trova come oggettivazione storica della vita degli uomini del passato, è comprensibile in quanto oggettivazione della nostra stessa vita. Per questa ragione, argomenta Dilthey, la storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di staccato dal presente a causa della sua distanza nel tempo. Ogni prospettiva filosofica, come ogni manifestazione culturale, è del tutto storicizzata e condizionata anche quando si mostra come un sistema isolato. Essa si caratterizza per una propria intuizione del mondo, che, travestita in panni concettuali, si fa metafisica. Le varie metafisiche, pur avanzando la pretesa di risolvere una volta per tutte i misteri del mondo sono molte e diversificate. È impossibile trovare una filosofia totale che riunisca concettualmente tutti le forme delle diverse metafisiche, in quanto ognuna di esse rispecchia il contesto storico in cui nasce, si sviluppa e conclude il suo ciclo vitale.
ERNST CASSIRER
INTRODUZIONE GENERALE
Con l’insegnamento di Cohen e di Natorp si crea una scuola che tra i due secoli esercita una vasta influenza sulla cultura filosofica tedesca; tale influenza si propaga anche attraverso pensatori che daranno vita ad orientamenti di pensiero innovativi, come Husserl, Hartmann e, in parte, lo stesso Heidegger. E’ però nell’opera di Ernst Cassirer che il legame con l’impostazione neocriticistica rimane più stretto. Esponente del Neokantismo, egli nasce nel 1874 a Breslau (Breslavia). Nel 1886 la sua famiglia si trasferisce a Berlino, dove in seguito potrà seguire le lezioni su Kant prima di Paulsen poi di Simmel. A Marburgo studia filosofia e segue i corsi di Cohen e Natorp. Nel 1898 scrive la prima stesura del Leibniz System . Nel 1902 va a Berlino insieme alla moglie, Toni Cassirer. Nel 1919 ottiene la cattedra all’università di Amburgo e nel 1929 ne diviene rettore. Nel 1933, con l’avvento al potere di Hitler, lascia la Germania perché ebreo e fino al 1935 insegna ad Oxford; perfino in Italia Giovanni Gentile si era battuto per censurare le sue opere. Si trasferisce all’università di Goteborg per qualche anno e dal 1941, negli Stati Uniti, insegna come visiting professor all’università di Yale. Tra le sue opere meritano di essere ricordate: Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’età moderna (in quattro tomi, dal 1906 al 1920), Vita e dottrina di Kant (1918), Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (1927), La filosofia dell’illuminismo (1932), Concetto di sostanza e concetto di funzione (1910), Filosofia delle forme simboliche (in tre volumi, dal 1923 al 1929), Saggio sull’uomo (1944). Negli Stati Uniti muore il 13 aprile del 1945, a Princeton. Il punto di partenza neocriticistico di Cassirer è evidente soprattutto nelle opere di carattere storico, in cui egli si mantiene sostanzialmente fedele al privilegiamento del problema filosofico della conoscenza. Però, se l’interpretazione kantiana di Cassirer deve molto a Cohen, essa rappresenta una novità laddove, pur ribadendo la normatività della struttura logica dell’esperienza scientifica, ammette la possibilità di più forme che rendono possibile non soltanto la scienza, ma anche la morale, l’arte e la religione. E in luogo della preferenza per la Critica della ragion pura si ritrova in Cassirer una considerazione privilegiata per la Critica del Giudizio in quanto approdo problematico del criticismo ad una filosofia della cultura in generale. Anche nel suo lavoro storiografico di maggior rilievo, quello sulla storia del problema della conoscenza (tradotto in italiano con il titolo fuorviante di Storia della filosofia moderna ), l’impostazione si era venuta evolvendo da un iniziale interesse (nei primi due volumi) volto quasi esclusivamente alla trattazione dei problemi gnoseologici riferiti alle scienze esatte, ad una più ampia considerazione delle diverse forme culturali. E nello studio sul concetto di funzione, che nella scienza moderna si è venuto sostituendo a quello di sostanza, Cassirer mette in luce l’importanza del linguaggio , e quindi del segno, nella costituzione degli oggetti di cui si occupa la scienza. Veniva in questo modo aperta la via ad un ampliamento della rivoluzione copernicana a tutte le forme della cultura, riconosciute nella loro irriducibile autonomia, cioè alla filosofia delle forme simboliche . Non soltanto di ampliamento si tratta, ma anche di un autentico mutamento di prospettiva. Nella Filosofia delle forme simboliche permane, infatti, l’esigenza sistematica caratteristica del neocriticismo marburghese, ma essa si realizza in una “critica della cultura” in cui si considera ogni attività spirituale nella sua forma caratteristica, nel suo manifestarsi peculiare, nel suo (come dice Cassirer) ” esser così “, in una ricchezza di forme che rispecchiano la stessa ricchezza della vita. Ciò che accomuna le diverse sfere della cultura (linguaggio, mito, religione, arte, ecc) è la loro natura di ” forme simboliche ” in quanto rappresentano mediante segni simbolici il contenuto dello spirito: ” il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero ma il suo organo necessario ed essenziale […]. L’atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l’atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratteristico “. Il compito della filosofia sarà allora quello di mostrare come attraverso l’espressione simbolica si generino le varie forme della realtà spirituale; e a questo compito è preliminare la considerazione del linguaggio, inteso come l’attività specificamente umana attraverso la quale si organizza l’esperienza, che dalla sua espressione immediata e grezza si trasforma in un mondo di simboli. Il mito, l’arte, la religione, la storia fanno parte dell’universo simbolico, sono ” i fili che costituiscono l’aggrovigliata trama dell’esperienza umana “. Se tutte le forme della vita culturale dell’uomo sono forme simboliche, allora anche l’uomo potrà ormai essere definito animal symbolicum : ” in tal modo si indicherà ciò che lo caratterizza e che lo differenzia rispetto a tutte le altre specie, e si potrà capire la speciale via che l’uomo ha preso: la via verso la civiltà “.
IL PENSIERO
Il simbolo per Cassirer è lo strumento che permette all’uomo d’operare una mediazione attiva tra il concreto e il concetto; la forma simbolica è ogni energia dello spirito mediante la quale un contenuto spirituale dotato di significato viene collegato a un segno sensibile e viene ad esso intimamente attribuito. In altre parole, la forma simbolica è un codice attraverso cui si oggettiva lo spirito, mediante cui si esprime lo spirito umano. Passiamo alla conoscenza scientifica in Cassirer: essa s’inquadra a pieno titolo nell’ambito della filosofia delle forme simboliche. La scienza si configurerebbe, anzi, come la realizzazione della più alta forma di cultura umana, basata naturalmente sulla complessa funzione spirituale, che in questo grado di sviluppo approderebbe al livello pienamente razionale e – al tempo stesso – sul terreno dell’astrazione pura. La conoscenza scientifica darebbe “compiutezza” al cammino umano indirizzato alla razionalità dell’esistenza. La filosofia matematica di Cassirer è detta “costruttivismo”; si oppone all’intuizionismo e al formalismo. Cassirer propone una matematica fondata sulla costruzione nell’ambito delle forme pure di spazio e tempo. Per questa ragione, tutte le riflessioni svolte da Cassirer intorno alla conoscenza scientifica prendono le distanze dal progetto positivistico (empiriocriticista) di Mach. Secondo Cassirer lo spirito (cioè il pensiero) si struttura trascendentalmente ( e kantianamente) per mezzo di categorie (vale a dire forme invarianti del pensiero) come l’io, lo spazio, il tempo, la causalità, ecc. Queste strutture fondamentali dello spirito sono presenti in tutte le forme simboliche, sebbene tale loro fissità implichi di volta in volta configurazioni differenti: si tratta, perciò, di diversi modi di darsi una struttura invariante. Per fare un esempio, lo spazio estetico ha caratteri eterogenei rispetto allo spazio scientifico e anche rispetto allo spazio mitico, così come differiscono spazio scientifico e spazio mitico; in particolare, l’intuizione mitica dello spazio è uno spazio mitico, concreto: si configura come una distinzione tra sacro e profano che dà vita a uno spazio, tendente all’universalità (e in ciò differisce dallo spazio geometrico), che è una forma di organizzazione, è insomma una sorta di “spazio strutturale”. Sulla base di queste sue convinzioni, Cassirer è alla ricerca di uno schema che sia in grado di ordinare le cose attraverso le categorie. Mito e scienza per Cassirer sono modalità di comprensione del mondo dotate di specifica e irriducibile identità; esisterebbe tuttavia un rapporto gerarchico tra mito e scienza, e il mito sarebbe inferiore in quanto valutato da Cassirer meno razionale della scienza. Secondo Cassirer il mito rappresenta la forma spirituale che porta a conoscere il senso dell’io e del tu e il senso dell’io e del mondo. Il mito ha quindi un proprio significato preciso, da non confondere con quello delle altre forme spirituali. Per Cassirer sarebbero individuabili due filosofie della mitologia: 1) quella di Schelling; 2) quella positivistico-psicologico-sociologica. Cassirer, elogiando Schelling, sostiene che suo merito grande fu quello di porsi per primo il problema del mito, nel quale vide l’espressione dello spirito. Cassirer critica invece lo studio positivistico della mitologia, riscontrandovi una giustificazione della forma culturale mitica a partire unicamente dalla storia e dall’organizzazione sociale. Cassirer oppone all’interpretazione positivistica del problema mitico una riflessione trascendentale che si sforza di non dipendere dall’esterno, dalla società e dalle influenze storiche. Questo è il cuore, l’essenza della filosofia delle forme simboliche Cassirer: la ricerca delle condizioni di possibilità del fatto culturale. In altre parole, Cassirer effettua una critica della coscienza mitica; ed è una critica in senso lato, non negativo. Il mito per lui è un modo di conferire significato alla realtà, essendo il mito a suo avviso una produzione spirituale, e non un coacervo di elementi privi di senso intrinseco e relazioni reciproche. Si è visto che Cassirer considera il mito dotato di una propria logica, nonostante esso si configuri ancora come una forma pre-scientifica del pensiero. E il mito è una forma pre-scientifica, e non pre-logica, di pensiero dal momento che possiede una legalità trascendentale fondamentalmente affine alla strutturazione essenziale tipica del pensiero scientifico. Cassirer si occupa del mito nel secondo dei suoi quattro volumi dedicati alle forme simboliche. La sua maggior preoccupazione critica consiste nello studiare le strutture logiche portanti del mito, vale a dire le forme di elaborazione mitica del mondo, ma senza riscontrare sostanziali differenze fra la concettualizzazione scientifica e la concettualizzazione mitica, considerate semplici tappe di un processo di razionalizzazione e di astrazione dei linguaggi umani e, più in generale, del mondo. Cassirer trascura l’analisi del prodotto mitico per dedicarsi all’indagine delle forme in cui il mito sorge, valorizzando quindi, in primis, le condizioni che permettono la sua nascita. E’ convizione di Cassirer che i numeri razionali abbiano valore perché posti in serie e, dunque, in relazione gli uni con gli altri. Nel 1922 egli si chiede se anche il mito sia da considerarsi un concetto seriale oppure se si tratti di un concetto-genere. La risposta è perentoria: il discorso mitico è da intendersi come concetto seriale, in quanto diretto a ordinare il molteplice; in altre parole, il mito non ricopia la realtà, ma piuttosto la struttura. Anche nello studio del mito, perciò, Cassirer palesa un’impostazione trascendentale diretta a studiare le condizioni che permettono la nascita di determinati “fenomeni” nella storia e nelle diverse culture, anziché limitarsi a enumerarne acriticamente e disordinatamente le variopinte forme via via assunte. A parere di Cassirer, inoltre, il mito non può che essere una forma pratica, visto il suo intimo legame con la vita dell’uomo, col suo operare, oltre che col suo pensare e strutturare il mondo. Il mito è, in senso forte, una modalità (la modalità “antica”, di comprensione del mondo). Rileva Cassirer che la prima strutturazione del mito è data dallo spazio, dal tempo e dal numero visti miticamente. Grazie al mito l’uomo antico pervenne a comprendere il senso mitico dell’io e dell’intersoggettività (io e non-io, regole comuni di vita accanto agli altri e con gli altri in comunità). In Cassirer è riscontrabile una dialettica della coscienza mitica; esistono rapporti tra religione e mito, anche se – a dire il vero – quando viene a predominare il momento religioso il superamento della visione mitica è ormai inesorabimente in atto. Nel mito i simboli sono essenziali per la comprensione, mentre nella religione si fa maggiormente largo la razionalità a scapito del simbolo: il numero meno cospicuo di simboli utilizzati dalla religione non impedisce però che essi siano usati con più consapevolezza e per supportare una certa idea di divinità, così come questa immagine emerge dai testi sacri (si tenga presente che nelle considerazioni di Cassirer la religione contemplata di preferenza è quella ebraica). Secondo Cassirer lo spirito, possedendo una forte propensione naturale a strutturare la realtà, dà vita a forme simboliche, quale ad esempio il mito, che è da considerarsi a pieno titolo una forma di oggettivazione dello spirito. Per il Cassirer del 1922 la funzione mitica, vale a dire l’operare con concetti, è spontanea, dal momento che lo spirito tenderebbe a suo avviso a informare di sé la realtà, strutturandola, alla stregua di quanto avviene nel campo scientifico. Per questa ragione, Cassirer indaga le strutture (trascendentali) del pensiero mitico. A giudizio di Cassirer, le forme simboliche nascono per dar risposta alle scienze dello spirito, le quali corrispondono propriamente alle scienze del mondo umano. Sullo sfondo c’è chiaro in Cassirer l’intento di pervenire a un’ unità delle scienze , tanto delle scienze della natura quanto delle scienze dello spirito: già nel 1910, in Sostanza e funzione , egli aveva infatti confutato le tesi di Richer, il quale riteneva che le scienze storiche sarebbero in grado di cogliere soltanto l’individuale, in contrasto netto con le scienze della natura che parlerebbero dell’universale; per Cassirer il concetto, lungi dall’essere “genere”, è piuttosto “seriale”, concetto “funzione”, e dunque, potendo cogliere l’individuale, priva di senso la distinzione di Richer. Il mondo umano e il mondo naturale possono allora trovare un loro dialogo nella filosofia proposta da Cassirer, perché nelle sue concezioni si riconosce nello spirito la capacità attiva di strutturare la realtà in ogni campo, conferendo così significato alla realtà stessa. In Cassirer riscontriamo quindi una teoria del concetto che anela ad unificare il mondo della natura e il mondo della storia. In quanto sensibile rappresentato nello spazio e nel tempo, l’ intuizione si colloca come tappa intermedia fra sensibile e intelligibile. Per Cassirer l’intuizione sfrutta la corporeità, attraverso la quale sarebbe possibile introdursi alla conoscenza il mondo. Mentre lo spazio permette immediatamente di collegare l’Io e il mondo, la determinazione di tempo fatica ad essera appresa con la stessa rapidità, come dimostra con tutta evidenza il bambino, da subito in grado di capire il riferimento all’oggetto indicato, ma in difficoltà di fronte a collocazioni cronologiche di eventi. Negli ultimi (e più maturi) stadi di sviluppo dei codici linguistici, la parola e il numero prendono il sopravvento grazie alla loro fondamentale capacità d’identificare una cosa che può anche non essere presente in quell’istante (ammesso, ovviamente, i riceventi del messaggio abbiano accesso al codice utilizzato: ogni lingua, infatti, simbolizza con vocaboli diversi la stessa realtà; è il principale inconveniente legato alla sempre maggior astrattezza del linguaggio). Humboldt fornisce a Cassirer l’idea che il linguaggio non sarebbe un’opera compiuta, ma piuttosto un’attività. Entrambi ritengono che compito prioritario del filosofo sia la ricerca di un metodo adeguato per studiare il linguaggio (problema epistemologico). Come abbiamo già notato più volte, osservare le cose in un’ottica di processo e l’indagine dell’attività dello spirito attraverso lo studio del linguaggio sono i pilastri della filosofia delle forme simboliche di Cassirer. Guardiamo più a fondo la questione. Cassirer parla di tre fasi di maturazione del linguaggio :
1) fase “sensibile”;
2) fase “intuitiva”;
3) fase del “pensiero concettuale”.
Quest’ordine di sviluppo, fisso, si deve intendere valevole tanto per il terreno ontogenetico quanto per quello filogenetico. Nello studio della fase sensibile del linguaggio, Cassirer si serve sovente di analogie col linguaggio dei bambini e degli animali, fondati sulla gestualità. Nel caso specifico dei bambini, si tratta di una gestualità che indica e imita quella dell’uomo adulto; l’animale, invece, pur essendo assolutamente incapace di indicare, impara presto a imitare, ma in forme proprie e affatto diverse dalle forme tipicamente umane di imitazione, fondate sulla comprensione del complesso e dinamico contesto culturale vigente. Cassirer suddivide l'”espressione” dall'”impressione”: la prima equivarrebbe all’impronta creativa dello spirito, mentre la seconda rimanderebbe più direttamente a una concezione sensistica della realtà. Il concetto di espressione è molto importante nel lavoro di Cassirer e, per quanto concerne la prima fase di maturazione del linguaggio, egli ritiene di dover discernere tre tappe del linguaggio parlato: ” espressione mimica “, costituita da onomatopee (i sentimenti, però, sono espressi in forme diverse: ogni popolo, ad esempio, esterna diversamente il dolore); ” espressione analogica “, che comincia a staccarsi dal sensibile (come quando si dice, ad esempio, “il tran tran della vita”); ” espressione simbolica “, grazie alla quale compaiono i simboli, in larga parte slegati dal sensibile e quindi incapaci di richiamare im-mediatamente l’oggetto concreto che si vuol significare (se, ad esempio, non conosco un determinato codice linguistico i vocaboli che leggo o sento pronunciare in quella lingua non mi indicano alcunché). Secondo Cassirer i simboli (cioè, in senso lato, il linguaggio) non sono il riflesso, la riproduzione delle cose. La sua filosofia delle forme simboliche contrasta, quindi, le pretese della diffusissima Abbildtheorie, inaugurata di fatto da Democrito e dagli Stoici, e rielaborata poi nel Medioevo da Tommaso e nell’Età moderna da Berkeley. In questo seguace ideale di Kant, Cassirer non intende la conoscenza come copia, in quanto non crede che l’uomo possa arrivare all’in-sé delle cose. Il segno, anziché rimandare alla cosa pura, sarebbe la costruzione delle cose. Secondo Cassirer per illustrare icasticamente il processo della conoscenza, l’abusata metafora dello specchio quindi non calzerebbe, almeno nella forma consueta: la si può tuttavia ribaltare ad hoc, asserendo che il linguaggio è lo specchio di noi stessi, della coscienza delle cose, e non lo specchio delle cose stesse. Compito del filosofo è perciò quello di esaminare il linguaggio allo scopo di rinvenire in esso tracce dei meccanismi del pensiero che hanno reso possibile e generato i simboli così come si presentano. Ritenendo che i nostri modi di pensare permangano in tracce nel linguaggio, Cassirer studia dunque il linguaggio per attuare la morfologia dello spirito; tuttavia, non si comprende bene se il linguaggio a suo avviso debba essere considerata come la forma privilegiata per l’esplicitazione dello spirito. Già dai primi anni di studio delle forme simboliche, Cassirer afferma che con “espressione simbolica” si deve intendere espressione di una realtà spirituale compiuta attraverso segni o forme simboliche (come, ad esempio, il linguaggio), laddove una “forma simbolica” è intesa come ogni forma che si va oggettivando per mezzo segni sensibili. Maturando le sue concezioni, Cassirer indica la “forma simbolica” come ogni energia spirituale legata a un simbolo (arte, linguaggio, ecc.). A suo avviso – e sulla scorta di una lunga tradizione filosofica in materia -, qualsiasi rapporto umano con la realtà non può che essere mediato; da questa convinzione trae la sua condizione di possibilità la filosofia delle forme simboliche, e cadono invece le istanze vitalistiche che considerano la vita coincidente con la forma: riprendendo Hegel, Cassirer ritiene che l’uomo possa soltanto ritradurre la realtà nel linguaggio dello spirito. E il simbolo non sarebbe altro che il mezzo di cui lo spirito si serve per mantenere il suo rapporto mediato con la realtà. Il rapporto simbolico è dinamico: arte, scienza, linguaggio, mito, ecc. sono stadi dello sviluppo dell’espressione simbolica: la conoscenza scientifica è la forma più astratta, mentre il mito è ricollegabile direttamente all’intuizione, alla sensibilità. A questo riguardo, mediante la sua filosofia delle forme simboliche, Cassirer vanta una finalità precisa, assiologica, quella di liberare il simbolo dalla sensibilità, come a dire che il linguaggio scientifico appartiene a una fase più evoluta, “moderna”, della storia dell’umanità. In questo, Cassirer si dimostra più “ottimista” di Warburg, il quale, dichiarando che non esiste una tal connessione teleologica fra i diversi codici simbolici, sottolinea che la storia vede continuamente uno scontro serrato fra simboli mitici e simboli scientifici. A una realtà dove il predominio della ragione non è mai scontato non crede tuttavia Cassirer, che anche nell’astrologia riscontra un (prematuro) tentativo di scoprire i nessi causali tra i fenomeni, quasi fosse l’astrologia la progenitrice diretta della concezione scientifica della realtà emersa poi con forza a partire dall’Età moderna. A partire dal secondo decennio del Novecento, nell’elaborazione di taluni concetti inerenti alla sua filosofia, Cassirer sembra risentire non poco del magistero goethiano, ad esempio quando egli definisce morfologia dello spirito le forme simboliche. Nel 1916 Cassirer contrappone Goethe a Hegel , rimproverando a quest’ultimo di aver partorito un universo assoluto, strettamente vincolato ai limiti fissati alle possibilità del pensiero soltanto per chiudere, con estrema arroganza intellettuale, il proprio sistema filosofico. Negli stessi anni, come appare in Libertà e forma , all’avvicinamento di Cassirer a Goethe si affianca il recupero del Kant della Critica del Giudizio . In Vita e dottrina di Kant (1918) Cassirer conferma una prossimità ideale con la seconda parte della Critica del Giudizio , in cui Kant si occupa di forme viventi, dell’individuo e dell’organismo (lungi dal risultare alla stregua di una mera somma di parti, si configurerebbe come il tutto che sovrasta le parti), in particolare di quegli organismi complessi che sono le culture. Rafforzando certe tesi kantiane, Cassirer intende impostare uno studio filosofico della cultura, di cui tutto farebbe parte, dal linguaggio al mito, dalla scienza all’arte, ecc. Se pensiamo che per Cassirer la cultura non è altro che l’oggettivazione dello spirito – in senso lato – in forme simboliche, sarà più agevole comprendere le ragioni del suo spiccato interesse per i codici attraverso cui si esprimono le oggettivazioni dello spirito, appunto il mito, il linguaggio, la tecnica, ecc. Tuttavia, l’elenco di questi codici non trova una sua sistemazione ultima, definitiva, negli studi di Cassirer, tanto che in opere diverse compaiono di frequente elenchi in parte eterogenei. Esiste una continuità di fondo tra neokantismo di Marburgo e filosofia delle forme simboliche di Cassirer, in quanto il metodo di approccio alla realtà si rivela il medesimo. Studiando la filosofia delle forme simboliche è quindi necessario far riferimento agli esordi accademici di Cassirer sotto la guida dei celebri Cohen e Natorp. Di filosofia della cultura si parlava già alla fine dell’Ottocento, epoca in cui si andò formando il giovane Cassirer: l’obiettivo era quello – come si affermava – di aprire all’indagine e alla speculazione la “totalità dello spirito oggettivo”, approfondendo non solo gli aspetti razionali, interesse esclusivo di Kant, ma criticando la cultura tutta, compreso aspetti eterogenei e “superati” come il mito. Il primo Novecento tedesco prestando particolare attenzione alla “totalità dello spirito oggettivo” testimoniava la coeva rinascita dell’Hegelismo, tanto che lo stesso Cassirer avrebbe presto rivalutato testi come la Fenomenologia dello spirito , aperto a temi diversi e ricco di prospettive giudicate feconde dal punto di vista filosofico. Pur stimolata dal pensiero di Hegel, la scuola di Marburgo accusava tuttavia la sua dialettica di uccidere lo spirito oggettivo. Il neokantismo pensava che la filosofia fosse in grado di dare unità alla cultura; Cassirer si spinse oltre e cercò, tra il 1910 e il 1920 circa, di approfondire i fondamenti storici della “sua” filosofia delle forma simboliche, prendendo però le distanze dai suoi maestri già a partire dalle loro posizioni intorno a una presunta superiorità culturale della Germania contemporanea, e quindi di una missione teutonica da esplicarsi su scala universale. La riforma del neokantismo di Marburgo attuata da Cassirer s’incentrò sulla rilettura di Goethe, che egli giudicò superiore a Kant e che in breve tempo divenne quasi il patrono e il nume tutelare della costituenda filosofia delle forme simboliche.
CHARLES SANDERS PEIRCE
“La parola o il segno che l’uomo usa è l’uomo stesso. Perché il fatto che ogni pensiero è un segno, insieme al fatto che la vita è un seguito di pensieri, prova che l’uomo è un segno. Cosí, il fatto che ogni pensiero è un segno esterno, prova che l’uomo è un segno esterno. In altri termini, l’uomo e il segno esterno sono la stessa cosa, nello stesso senso in cui la parola homo e man sono identiche. Cosí il mio linguaggio è la somma totale di me stesso; poiché l’uomo è il pensiero“.
Quasi nello stesso tempo in cui si stava sviluppando l’idealismo con Royce, negli Stati Uniti si assistette alla nascita della corrente del pragmatismo, che costituisce il più originale contributo americano alla filosofia novecentesca ed esercita una vasta influenza anche sulla cultura europea: il termine pragmatismo mette in rilievo la tesi fondamentale secondo cui il significato di qualsiasi cosa è determinato dalla sua rilevanza pratica. L’iniziatore di questa nuova corrente, destinata a grande successo, é Charles Sanders Peirce, anche se egli non tarderà a prendere le distanze dal movimento. Nato a Cambridge nel Massachussetts nell’anno 1839, figlio di un famoso matematico che insegnò fisica e astronomia ad Harvard, tentò con insistenza, senza riuscire, di ripercorrere la carriera accademica paterna. Non ottenne successo neanche nella pubblicazione delle sue opere che, fatta eccezione per alcuni importantissimi articoli, rimasero inedite e uscirono solo quando Peirce era già morto (morì nel 1914 a Milford, in condizione di miseria). Una prima antologia dei suoi scritti apparve, postuma, nel 1923 con il titolo di Caso, amore e logica . Le sue opere sono ora raccolte nei sei volumi della Raccolta di scritti di Ch. S. Peirce (Collected Papers of Ch. S. Peirce), edite negli anni 1931-1935. Benché sia uno dei più grandi filosofi americani, Peirce in vita non pubblicò nemmeno un libro. Pubblicò solo articoli apparsi su giornali e riviste e molti dei suoi scritti rimasero inediti fino a dopo la sua morte. La prima edizione di tutti i suoi scritti sono i Collected Papers pubblicati tra il 1931 e il 1958 dall’Università di Harvard: tutte le citazioni appresso riportate sono tratte da quest’opera e sono indicate con C.P., il numero di volume, un punto e il numero di paragrafo. Dal 1982 sono in pubblicazione i Writings of Charles Sanders Peirce. A chronological edition, a cura del Peirce Edition Project, presso l’Università dell’Indiana. Charles Sanders Peirce (1839–1914) è con De Saussure uno dei padri della «semiotica» moderna. Ma Peirce è anche il fondatore del «pragmatismo», a cui cambierà poi il nome in «pragmaticismo» per differenziarsi da William James. Infatti Peirce rimproverava James di aver impoverito il pragmatismo attraverso l’esclusione del suo fondamento logico–semiotico, che per Peirce è parte integrante di una teoria della conoscenza. Peirce afferma: “Il concetto di essere contiene la mera unione del predicato con il soggetto, unione nell’esprimere la quale le due accezioni della copula («è effettivamente» e «sarebbe») concordano. Il concetto di essere, insomma non ha contenuto”. (C.P. 1.547) Questa affermazione si spiega attraverso il concetto di conoscenza di Peirce: non esiste una conoscenza che non sia segnica. Il segno è sempre frutto di una mediazione interpretativa inferenziale. Il concetto di “essere” viene quindi definito da Peirce come: “Un concetto che riguarda un segno, cioè un pensiero o una parola, e dal momento che non è applicabile a ogni segno, non è originariamente universale, sebbene lo sia nella sua applicazione mediata alle cose” (C.P. 5.292). Per Peirce solo ciò che è pensabile è reale: il pensiero non può essere altro che pensiero di segni e il concetto di essere è appunto un concetto che diviene attribuibile solo attraverso una relazione inferenziale, in quanto i segni sono essi stessi prodotto dell’attività inferenziale. Questa posizione è da Peirce chiamata Realtà Logica. Quindi il concetto di essere, in assoluto, sciolto cioè dalle relazioni segniche, non ha contenuto, né significato e neppure senso, come del resto qualunque altro concetto. L’essere di un segno insomma è proprio il suo sviluppo semiosico, il suo essere in relazione con gli altri segni. Non esiste al di fuori della semiosi altro modo di concepire la realtà Si può conoscere, e quindi si considera reale, solo una relazione segnica e non un supposto oggetto assoluto, in sé irrelato. Ma perché per Peirce il pensiero è solo pensiero di segni? Peirce rifiuta l’intuizione. Col termine “intuizione” si indica “Una cognizione non determinata da una cognizione precedente dello stesso oggetto, e perciò determinata da qualcosa fuori dalla coscienza. […] Intuizione sarà qui quasi la stessa cosa che «premessa, che non è a sua volta conclusione». […] Proprio come una conclusione (giusta o sbagliata) è determinata nella mente di chi ragiona dalla sua premessa, cosi anche cognizioni che non sono giudizi possono essere determinate da cognizioni precedenti; e una cognizione non determinata in questo modo, e quindi determinata direttamente dall’oggetto trascendentale, dovrà essere chiamata una «intuizione»”. (C.P. 5.213) Nel saggio “Questions Concerning Certain Faculties Claimed for Man” pubblicato sul Journal of Speculative Philosophy nel 1868 (C.P. 5.213 – 263) Peirce, dimostra che sia la conoscenza del mondo esterno al soggetto sia quella del mondo interiore del soggetto, come la propria autocoscienza e la conoscenza dei propri moti interiori, dipendono da mediazioni inferenziali di fatti esterni. Egli ritiene che tutta la nostra conoscenza della mente e dei processi mentali – della nostra mente e di quella degli altri – deriva dalla conoscenza di certi fatti fisici “esterni”: E alla domanda “se possiamo pensare senza segni” risponde in C.P. 5.250 “Se ci basiamo sui fatti esterni, i soli casi di pensiero che possiamo trovare sono quelli di pensiero in segni. È chiaro che nessun altro pensiero può essere evidenziato da fatti esterni. Ma abbiamo visto che il pensiero si può conoscere solamente attraverso i fatti esterni, dunque, il solo pensiero che è possibile conoscere è, senza eccezione, il pensiero in segni. Ma il pensiero che non può essere conosciuto non esiste. Perciò ogni pensiero deve necessariamente essere pensiero di segni”. (C.P. 5.260) “L’unico modo in cui si può conoscere […] è per inferenza ipotetica da fatti osservati. Ma citare la cognizione dalla quale una cognizione è stata determinata, significa spiegare le determinazioni della cognizione in causa. Ed è il solo modo di spiegarle. Poiché qualche cosa completamente fuori dalla coscienza, che si può supporre che la determini, può, come tale, essere riconosciuta e citata solo nella determinata cognizione in questione. [,..] Inoltre le facoltà cognitive di cui siamo a conoscenza sono relative, e conseguentemente i loro prodotti sono relazioni. Ma la cognizione di una relazione è determinata da cognizioni precedenti. Dunque, nessuna cognizione non determinata da una cognizione precedente può essere conosciuta. Essa, allora, non esiste, primo, perché è assolutamente inconoscibile, secondo, perché una cognizione esiste solo in quanto è conosciuta”. (C.P. 5.262). Non esiste per Peirce un termine primo, una causa prima, un fondamento su cui si basa la conoscenza. Essa è un processo autoalimentantesi: il pensiero è una serie continua ed infinita di termini. In questo orizzonte, conoscere è inteso come dare significato ad un evento, applicando ad esso regole e criteri di classificazione appresi precedentemente. Non esiste un punto di partenza, nel modello della conoscenza peirciana, ma per ogni singolo individuo, la nascita è l’inizio del suo processo mentale di conoscenza, con l’ingresso nella Realtà Logica, costituita dall’insieme di segni in uso alla comunità degli interpretanti, di cui l’individuo viene a fare parte. Si è detto sopra che il segno, e quindi la conoscenza, è il risultato di un processo inferenziale. Si analizzerà ora quali sono le tipologie di inferenza attraverso cui si costruisce la conoscenza: Peirce distingue tre specie di inferenza: Deduzione, Induzione ed Abduzione. Non sono però riducibili l’una all’altra, perché sono governate da diversi principi logici, ma tuttavia appartenenti ad un unico genere. L’abduzione è un’ipotesi probabile che si formula della causa di un effetto osservato. L’induzione fornisce, con la scelta corretta dei campioni, regole per formulare notizie corrette su essi, fino a prova contraria. La deduzione rimane analitica, ma l’analisi dipende ora dalle ipotesi scelte, per cui non è rigidamente necessaria. L’Abduzione o Ipotesi permette di ipotizzare quindi una regola che dia spiegazione di un evento o di un fatto. Essa “Procede come se si conoscessero tutti i caratteri richiesti per la determinazione di un dato oggetto o di una data classe”. C.P. 5.272 In pratica, osservati alcuni caratteri di un dato oggetto, gli si attribuiscono ipoteticamente ulteriori caratteri che lo fanno riconoscere come occorrenza di una legge. Questo modo di procedere implica la possibile fallibilità della conoscenza, ma anche che i ragionamenti fallaci si adeguano alla forma dell’inferenza valida. Peirce afferma: ” Nessun pensiero, nessun sentimento, in sé considerati, contengono altri pensieri o altri sentimenti, ma sono assolutamente semplici e non analizzabili. […] Ogni pensiero […] in quanto immediatamente presente, è un sentire puro, senza parti, e quindi, in sé, senza similarità con nessun altro, anzi, non comparabile e assolutamente sui generis”. (C.P. 5.284) Se consideriamo il pensiero in sé, irrelato, non facciamo altro che prendere in considerazione la sua peculiare qualità che lo distingue da tutti gli altri pensieri precedenti e successivi e che scomparirà irrimediabilmente con lo scomparire di quello specifico pensiero. Questa qualità, essendo qualcosa di unico ed irripetibile, non è in sé e per sé esprimibile come caso di una regola più generale e quindi risulterà inesprimibile. Continua però Peirce: Nessun pensiero presente in atto (che è un mero sentimento) ha alcun significato, né valore intellettuale; perché il significato non sta in ciò che è pensato nell’atto in cui è pensato, ma in ciò a cui questo pensiero può essere connesso da pensieri successivi nella rappresentazione; cosicché il significato di un pensiero è qualcosa di virtuale. […] In nessun istante, nel mio stato mentale, vi è cognizione o rappresentazione, ma essa consiste nella relazione dei miei stati mentali in istanti diversi. (C.P. 5.284) Aggiunge poi in nota: Di conseguenza, esattamente come si dice che un corpo è in movimento e non che il movimento è in un corpo, si dovrebbe dire che siamo in pensiero e non che i pensieri sono in noi. La virtualità del significato di un pensiero, cui accenna Peirce nel passo precedente, è relativa alla sua idea di semiosi; infatti un pensiero segno ha una sua vita, un suo sviluppo che altro non è che il percorso della costruzione della conoscenza; questo processo ha uno sviluppo certo intersoggettivo, ma anche intrasoggettivo. Infattti: “Non vi è […] cognizione che non sia determinata da cognizioni precedenti [quindi] l’irruzione di una nuova esperienza non è mai un fatto istantaneo, ma è un evento che occupa del tempo e che passa attraverso un processo continuo. Perciò il suo emergere nella coscienza deve probabilmente essere il coronamento di un processo di crescita. [invece] se un filo di pensiero si spegne gradualmente, con ciò nella sua durata segue liberamente la propria legge di associazione e non vi è nessun momento in cui, a un pensiero appartenente a questo filo, non succeda un pensiero che lo interpreti o lo ripeta”. (C.P. 5.284) Tutta la conoscenza per Peirce è dunque conoscenza di segni; a partire dalla sensazione, non esiste altra modalità conoscitiva che quella inferenziale. E’ attraverso serie intersecantesi di inferenze che gradualmente si sviluppa in maniera sempre più precisa l’interpretante di un segno. Peirce così definisce un segno: “[qualcosa che] sta per qualcuno al posto di qualcos’altro sotto certi aspetti o capacità” (C.P. 2.228). Questa definizione sottolinea il rapporto triadico tra il segno, l’oggetto che questo segno sta ad indicare e la concezione che ne ha colui che interpreta, detta interpretante. Possiamo però prendere in considerazione almeno due tipi di oggetti: 1. la cosa bruta, la cui presenza hic et nunc scatena la semiosi, che è L’Oggetto Immediato; 2. la relazione segnica da cui parte l’elaborazione cognitiva, che è l’Oggetto Dinamico. La conoscenza si sviluppa a partire dall’oggetto immediato che non sarà mai toccato dal processo inferenziale, ma che ne è la molla che ne provoca l’inizio. L’oggetto reale del segno, che è comunque segno a sua volta perché non possiamo pensare altro che segni, è l’oggetto dinamico. Questo si trasformerà nella concezione della comunità degli interpretanti man mano che il suo interpretante logico acquisterà sempre maggiori e nuovi significati grazie al processo di semiosi che è poi il processo stesso della conoscenza. Questo è il significato per Peirce del concetto di Semiosi Illimitata. E solo alla luce di questi chiarimenti si comprende il significato delle seguenti parole di Peirce: In ogni momento siamo in possesso di certe informazioni, cioè di cognizioni che sono state logicamente derivate per induzione e ipotesi da cognizioni precedenti che sono meno generali, meno distinte, e delle quali abbiamo una conoscenza meno viva. Queste a loro volta sono state derivate da altre ancora meno generali, meno distinte, e meno vivaci; e così via a ritroso fino a quel primo ideale, che è assolutamente singolare, e assolutamente fuori dalla coscienza.( C.P. 5.311) Ma perché conoscere? Charles Sanders Peirce è il fondatore del Pragmatismo. Egli elabora questa massima pragmatica: Consideriamo quali effetti, che possano avere concepibilmente conseguenze pratiche, pensiamo abbia l’oggetto della nostra concezione. Allora la nostra concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto. (C.P. 5.2) Lo sviluppo semiosico di un segno lo porta ad avere come Interpretante Logico Finale un abito di comportamento. Questo è una legge che permette di regolare il comportamento, appunto, in base alle concepibili conseguenze pratiche determinate dagli effetti che nell’inferire si attribuiscono all’oggetto-segno. Ad esempio è possibile fare una torta di mele perché le concepibili conseguenze pratiche degli effetti del segno-ricetta sono proprio la realizzazione di quel dolce. La prova di tutto questo è l’induzione sperimentale, cioè la realizzazione della torta di mele. Il segno-ricetta è così il segno dell’idea di torta, che è una legge. La torta ottenuta sperimentalmente è così un’occorrenza di quella legge. Ovvero, se a parità di conoscenze e di condizioni di attrezzature sperimentali, la ripetizione di un esperimento porterà i medesimi risultati, la legge ipotizzata come quella regolante l’esperimento è considerata certa dalla Comunità degli Interpretanti. Questa comunità è il garante intersoggettivo di una nozione di verità non intuitiva, non ingenuamente realistica, bensì congetturale. Questa concezione dinamica della verità permette l’elaborazione di strategie comportamentali creative in risposta agli stimoli dell’ambiente ed è portatrice di una concezione non teleologica e non necessaria del mondo e del destino umano.
WILLIAM JAMES
A promuovere la diffusione del pragmatismo – la più originale tra le filosofie americane – sul piano internazionale fu William James, frequentatore come Peirce del ‘Club metafisico’ di Chauncey Wright. James, nato a New York nel 1842, proveniva da una ricca e colta famiglia americana: il padre, Henry James, era esponente di rilievo della filosofia trascendentale e il fratello maggiore era invece famosissimo scrittore. Dopo aver viaggiato a lungo in Europa, William James insegnò psicologia e filosofia ad Harvard. Morì a Chocorua (New Hampshire) nel 1910. Di fondamentale importanza, infatti, sono i suoi Princìpi di psicologia (1890). Tra le opere filosofiche più importanti vanno senz’altro ricordati La volontà di credere e altri saggi di filosofia popolare (1897), La varietà dell’esperienza religiosa (1902), Pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare (1907), Il significato della verità (1909), nonchè i postumi Saggi sull’empirismo radicale (1912). I Princìpi di psicologia , sebbene non abbiano un oggetto specificamente filosofico, già contengono alcuni assunti che prefigurano la successiva teorizzazione del pragmatismo da parte di James. Dopo essersi laureato in medicina nel 1869 prosegue gli studi da autodidatta indirizzandosi verso la psicologia. Nel 1872 prende avvio la sua carriera universitaria che si svolge interamente all’università di Harvard dapprima come semplice istruttore e divenendo poi nel 1876 professore assistente di fisiologia. Nel 1885 ha l’incarico di professore di filosofia e nel 1890 assume l’incarico di professore di psicologia. Qui all’università di Harvard creerà uno dei primi laboratori di psicologia sperimentale degli Stati Uniti. Sempre nel 1890 anticipando il funzionalismo pubblica una delle sue opere maggiori, “Principi di Psicologia”, in due volumi. I “Principi” sono universalmente considerati come uno dei testi più influenti e rilevanti dell’intera storia della psicologia, e sono stati per decenni uno dei manuali di base nella formazione accademica degli psicologi nordamericani. Nel 1907 si ritira definitivamente dall’insegnamento accademico. I suoi lavori di psicologia influenzarono Henri Bergson, di cui fu a sua volta un grande ammiratore. wiliam James,padre del funzionalismo ci lascia il concetto di pragmatismo e funzionalismo.Il pragmatismo per il quale le idee e i concetti sono veri solo se consentono all’individuo di operare sulla realtà e il funzionalismo, l’idea di una psicologia funzionale ovvero delle funzioni adattive per l’organismo-uomo in relaione all’ambiente. Con la sua opera monumentale Principles of psycology,contrasta fortemente la psicologia tedesca del tempo sostenendo che non esiste una sensazione semplice ma la coscienza è un continuo pullulare di oggetti e relazioni la parte più importante dei Principles è quella relativa a the stream of thought nella quale descrive le caratteristiche del pensiero che associa alla quelle della corrente e dice: ogni pensiero appartiene ad una coscienza personale grazie al concetto di esperienza personale il pensiero è in continuo movimento qiundi il nostro stato mentale varia continuamente, di conseguenza non lo posso studiare. Nei Princìpi di psicologia la vita psichica dell’individuo viene descritta nei termini di un flusso di sensazioni ( stream of feelings ), che si succedono ininterrottamente, compenetrandosi le une con le altre: in questo modo James si contrappone alla scuola associazionistica, che presuppone una giustapposizione successiva e meccanica di sensazioni distinte e indipendenti. La mente umana non é comunque una realtà distinta rispetto al mondo naturale: piuttosto, l’una e l’altro sono i due aspetti diversi di un’unica realtà o, perlomeno, di un unico complesso di realtà integranti. Trova così una spiegazione la celebre teoria jamesiana dell’ azione riflessa , in base alla quale ogni atto psichico non é che la risposta a uno stimolo proveniente dal mondo esterno, senza che si possa separare la prima dal secondo. L’ambiente esterno influenza la vita psichica, la quale a sua volta, tramite l’azione maturata in risposta alla sollecitazione ricevuta, trasforma l’ambiente. Questa interazione non va però concepita in chiave deterministica, dal momento che la risposta dell’individuo all’ambiente contiene sempre una componente di spontaneità che é espressa da quello che James definisce il ‘ dipartimento della volontà ‘, al quale sono sottoposti in funzione strumentale sia il ‘ dipartimento della sensibilità ‘, preposto alla ricezione dello stimolo, sia il ‘ dipartimento del pensiero cogitativo ‘, che interpreta le impressioni esterne in vista della risposta motoria. Dopo aver letto Materia e memoria di Bergson, nell’ultima fase del suo pensiero, James riprenderà la concezione psicologica di una completa integrazione tra mondo psichico e mondo naturale, dandone una riformulazione filosofica sotto la denominazione di empirismo radicale . Nei saggi postumi dedicati a questa prospettiva egli parla infatti di un’unica sostanza reale, che di per sè non é nè spirituale nè materiale: questa sostanza si rifrange in una miriade di elementi, anch’essi nè pura coscienza soggettiva nè puro oggetto di coscienza, i quali prendono il nome di esperienza pura . Il processo della conoscenza é dato esclusivamente dal fatto che i diversi elementi dell’esperienza pura si determinano secondo rapporti reciproci diversi, configurandosi ora come ‘conoscente’ ora come ‘conosciuto’. La teoria psicologica dell’azione riflessa aveva altri due aspetti filosoficamente importanti: l’esito pratico di ogni processo mentale e il suo orientamento verso il futuro. Questi due elementi fanno ritorno, filosoficamente rivalutati, anche nella concezione jamesiana del pragmatismo. Per James come per Peirce, il significato di un’idea o di una teoria è dato dalle sue conseguenze pratiche future. Ma, se per Peirce quest’affermazione implica solamente una teoria del significato, per James essa si trasforma in una teoria della verità . Le conseguenze di cui parla Peirce sono sempre conseguenze generali e oggettivabili, per cui il metodo pragmatistico viene pensato specialmente in vista della sua utilizzabilità in campo scientifico, rendendo possibile la distinzione tra le diverse teorie sulla base dei loro diversi effetti pratici. Per James, al contrario, le conseguenze in questione sono individuali, per cui la validità di un’idea o di una teoria è misurata dalla sua capacità di sortire l’effetto che l’individuo soggettivamente si attende, senza pretendere riscontri sul piano oggettivo. In altre parole, la verità di un’idea viene a coincidere con la sua efficacia pratica : questo Peirce lo negava in modo esplicito. Si spiega così perchè il pragmatismo di James assuma una coloritura differente da quello di Peirce e sia strettamente connesso con la sua teoria più famosa, quella della volontà di credere . In base a questa teoria James sostiene che vi sono casi in cui l’uomo non ha bisogno di aspettare una verifica empirica della sua credenza, ma può credere esclusivamente in base ad una disposizione emotiva o passionale. Perchè questo sia legittimo, però, bisogna che vi siano alcune condizioni. In primis, bisogna che la questione non sia immediatamente verificabile tramite l’esperienza scientifica o storica: non posso credere che un asino possa volare o che Lincoln non sia esistito. Inoltre, occorre che l’opzione, cioè la scelta di credere o di non credere, sia viva (cioè stimoli il mio interesse), importante (cioè non banale) e obbligata (cioè non rinviabile senza che ciò comporti una scelta negativa). E’ questo il caso delle questioni etiche (si può promuovere un miglioramento morale del mondo?) o religiose (esiste Dio?). In questi casi non solo si ha il diritto di credere, ma la credenza può creare essa stessa la propria verifica. Un alpinista che, per superare un precipizio, deve compiere un salto al limite delle proprie capacità, avrà maggiori probabilità di riuscire nell’impresa se, credendo di avere energie sufficienti, le userà tutte nel salto: nello stesso modo il mondo può diventare davvero migliore se noi crediamo in questa possibilità e lavoriamo in questa direzione. Il pragmatismo si configura dunque in James come filosofia dell’ottimismo e dell’intrapresa , come filosofia che risponde pienamente alle esigenze culturali e sociali degli USA che, smarriti gli ideali del pionerismo e della frontiera ed accingendosi a diventare la prima potenza mondiale, aveva un grande bisogno di nuovi contenuti spirituali e di nuove sollecitazioni ideali. A questa esigenza americana risponde anche l’ etica di James, che vuol essere allo stesso tempo una morale del sacrificio e dell’ottimismo. Ogni esigenza umana ( in inglese claim )ha per lui il diritto di essere realizzata, essendo di per sè priva di connotazioni morali. Ma, dato che le esigenze non sono tutte compatibili tra loro, acquisteranno valenza etica (e dovranno essere realizzate) solo quelle che, promuovendo ‘ un ordine sempre più inclusivo ‘, cioè una sempre maggiore armonia tra le esigenze umane, contribuendo alla realizzazione del maggior numero possibile di esse. Con questa teoria James formulava una prospettiva morale in cui l’esito positivo non era assicurato da nessuna teoria del progresso necessario, ma dipendeva dalla volontà e dall’impegno dei singoli uomini. Una filosofia morale per esseri finiti, come sono gli uomini; perchè in questa sfida non entrasse alcuna forza assoluta, che predeterminasse la sua ricerca, James non esita a raccogliere un suggerimento di John Stuart Mill e a parlare di un Dio finito , che collabora con gli uomini nella produzione dell’ordine morale senza poter fornire, però, neppure lui la garanzia del successo: se Dio fosse onnipotente, del resto, si chiede James, come si spiegherebbe il male? Ecco allora che affiora il ‘ migliorismo ‘ di James, la teoria secondo la quale la salvezza dell’universo é attuabile solo con la collaborazione di tutte le sue componenti, Dio compreso (secondo un tema già emerso dall’opera di Mill).
JOHN DEWEY
L’educazione è ricostruzione e riorganizzazione dell’esperienza che accresce il significato dell’esperienza stessa e aumenta l’abilità di dirigere il corso dell’esperienza stessa.
LA VITA, LE OPERE E LA FORMAZIONE CULTURALE
John Dewey nacque a Burlington, nel Vermont nel 1859, studiò alla John Hopkins University e all’università del Michigan, ad Ann Arbor, dove seguì corsi di psicologia. Dal 1894 al al 1904 insegnò nell’università di Chicago, dove fondò la Laboratory School, una scuola sperimentale per bambini, e dal 1904 al 1929 nella Columbia University di New York, dove morì nel 1952. Si interessò sia alla filosofia che alla pedagogia e la sua influenza in questo campo è ancora notevole, sia negli Stati Uniti che nel mondo anglosassone. Dopo un primo periodo di adesione all’idealismo neohegeliano, dovuto all’influenza di G S Morris, il giovane Dewey si accostò al pragmatismo di William James. Giova ricordare che nella formazione intellettuale del giovane Dewey svolse un ruolo fondamentale la sue educazione “cristiana” pratica ed, in particolare, il pensiero di Coleridge, che aveva completamente rigettato la religione come “corpo dottrinario”, per intenderla soprattutto come “volontà di azione” ed esperienza di vita. Le idee religiose di Dewey sono peraltro sempre rimaste un fatto “privato”, a parte il volumetto “A Common Faith” (Una fede comune, La Nuova Italia, Firenze 1959). Nel periodo degli studi universitari aveva vissuto una sorta di crisi spirituale attraverso la quale era giunto ad emanciparsi alla tendenza della personalità di isolarsi “da sè e dal corpo” e questo lo aveva portato a considerare un errore anche il dualismo Dio-natura, spirito e carne. Cercò in Hegel il superamento filosofico del “dualismo” ( e non crediamo che l’abbia trovato, visto che abbandonò ben presto l’idealismo), ma soprattutto cercò in Darwin il senso, non solo filosofico, dell’evoluzionismo. Elaborò quindi una interpretazione progressista e non reazionaria (tipica del cosiddetto “darwinismo sociale”) dell’evoluzionismo. Per capire subito la qualità della filosofia di Dewey dobbiamo intendere che questo superamento del dualismo diventò il leit motiv di tutta la sua ricerca filosofica e pedagogica e venne già a delinearsi nel saggio “Is logic a dualistic science?” (Open Court,III, 1890, pag 2040-2043) Qui Dewey si opponeva chiaramente alla statica dicotomia tra pensiero e realtà esterna, insistendo piuttosto sulla relazione dinamica e reciprocamente condizionante tra mondo dei fatti e realtà del pensiero.
Lo strumentalismo
La filosofia di Dewey venne da lui stesso definita “strumentalismo” in quanto egli interpretò la facoltà di “ragionare” come uno strumento per elaborare l’esperienza. Ciò suppone che il soggetto non sia riducibile alla sola ragione, ma si dia, appunto, un soggetto protagonista attivo, che usa la ragione, indagando, per colmare gli squilibri tra sè e l’ambiente circostante a partire dai propri bisogni. Scrisse in “How we think”:
“Il pensiero non è un caso di combustione spontanea: non accade punto secondo “principi generali”. Vi è qualcosa che lo occasiona e lo evoca.>>
Ed ancora:
<<[…] il pensiero non è un separato processo mentale: è una faccenda che riguarda il modo in cui una gran quantità di fatti osservati e suggeriti nel corso dell’esperienza viene impiegata, il modo in cui essi concorrono insieme e sono fatti concorrere assieme, il modo in cui sono trattati. Di conseguenza tutte le materie, gli argomenti, le questioni, sono intellettuali non per se stessi, ma in ragione del ruolo che, nella vita di una determinata persona, viene fatto loro giocare nella direzione del pensiero” (idem)
Nella “Logica come teoria dell’indagine” egli scrisse:
“Indagare e dubitare sono, fino ad un certo punto, termini sinonimi. Noi indaghiamo quando dubitiamo; ed indaghiamo quando cerchiamo qualcosa che fornisca una risposta alla formulazione del nostro dubbio. Pertanto è peculiare della natura stessa della situazione determinata che suscita l’indagine, di essere fonte di dubbio; o, in termini attuali anzichè potenziali, di essere incerta, disordinata, disturbata. La qualità peculiare di ciò che investe i materiali dati, costituendoli in situazione, non è esattamente un’incertezza generica; è una dubbiosità unica nel suo genere che fa si che la situazione sia appunto e soltanto quella che è. E’ quest’unica qualità che non soltanto suscita la particolare indagine intrapresa ma esercita anche il controllo sopra i suoi speciali procedimenti. Altrimenti nell’indagine un qualunque processo potrebbe aver luogo e riuscirvi fecondo con altrettanta probabiltà che qualunque altro. Ove una situazione non sia univocamente qualificata nella sua propria indeterminatezza, si da uno stato di completo panico: la risposta ad esso assume la forma di attività palesi cieche e selvagge. Enunciando la cosa da un punto di vista personale, noi abbiamo “perso la testa”. Una grande varietà di parole serve a caratterizzare le situazioni indeterminate. Esse sono disturbate, penose, ambigue, confuse, piene di tendenze contrastanti, oscure, ecc… E’ la situazione che ha questi caratteri. Noi siamo dubbiosi perchè la situazione è nella sua essenza dubbiosa.>>
Ancora:
“E’ un errore credere che la situazione sia dubbiosa solo in senso “soggettivo”. La nozione che nell’esistenza reale ogni cosa sia completamente determinata è stata posta in discussione dai progressi della stessa scienza fisica. Anche se ciò non fosse avvenuto, la completa determinazione non avrebbe potuto valere per le cose esistenti in quanto costituenti un ambiente. Infatti la Natura è un ambiente soltanto in quanto si trovi ad essere in interazione con un organismo, o io, o che altro nome si voglia usare.>>
Per Dewey dunque l’individuo vive un processo nel quale la civiltà e la cultura lo differenziano dalla natura. Ogni individuo come organismo vivente incorpora l’ambiente nelle sue funzioni biologiche e, in qualche modo, lo modifica dopo averlo incorporato. Questa distinzione tra sfera soggettiva ed oggettiva comincia a presentarsi coscientemente quando l’equilibrio tra organismo ed ambiente vien meno e si determina la necessità di un adattamento diverso. Dewey fa l’esempio dell’animale che deve cercarsi il cibo: questi è in una situazione diversa dall’animale ben pasciuto, e sente la differenza tra sè ed il mondo proprio in quanto ha un problema da risolvere. Per Dewey la vita è un’altalena di di squilibri e ristabilimenti di equilibri, cioè di bisogni e di soddisfazione degli stessi. La reintegrazione dell’equilibrio non è un semplice ritorno alla situazione precedente, ma comporta delle modificazioni sia nell’organismo che nell’ambiente. Tra l’evoluzione delle specie animali e lo sviluppo della cultura umana c’è tuttavia uno scarto. Il livello della cultura differenzia l’uomo da tutti gli animali perchè non consente una risposta istintiva ed automatica alle difficoltà ed alle privazioni. Il compito del pensiero, ovvero della logica, è di chiarire ed ordinare, organizzare l’insieme confuso ed oscuro delle esperienze fatte e perciò il pensiero si avvale strumentalmente di concetti, ragionamenti e teorie. Queste però non sono che operazioni mentali, cioè strumenti che consentono di rendicontare ciò che sappiamo in modo intellegibile e secondo un senso. Per Dewey il sapere ha dunque un carattere essenzialmente pratico ed operativo. Tuttavia la ricchezza peculiare dell’uomo consiste nel linguaggio; esso consente la comunicazione tra i propri simili e quindi il confronto di esperienze ed una elaborazione comune. Ma il linguaggio non è qualcosa di soprannaturale, è un comportamento biologico particolare, derivante da una naturale continuità con le precedenti esperienze organiche dell’umanità. Dewey definisce la propria teoria della logica come una teoria naturalistica della logica e sostiene che vi è continuità tra i processi più semplici e i processi più complessi dell’attività umana. Pertanto anche la ricerca scientifica è la prosecuzione naturale del comportamento organico con il quale l’uomo affronta le difficoltà primordiali dell’esistenza. Lo scarto tra la vita mentale e culturale e quella fisica, secondo Dewey, risale alla rottura cartesiana tra razionale e fisico (res cogitans e res extensa), ma non è altro che un pregiudizio filosofico che deve essere rimosso per poter finalmente comprendere che è l’esperienza biologica il fondamento della ragione e dunque dello stesso pensiero astratto e simbolico. Nella “Logica dell’indagine” Dewey definisce il modello dell’indagine secondo un modello costante a qualsiasi livello si svolga. Essa parte sempre da una situazione reale problematica, anche drammatica, e quindi indeterminata. Attraverso l’osservazione si raccolgono dati e si intuiscono-vedono dei collegamenti e delle relazioni tra i dati.
“Donde la domanda: come può controllarsi la formazione di un problema genuino in modo che le ulteriori indagini muovano verso una soluzione? Il primo passo da fare per rispondervi è riconoscere che nessuna situazione completamente indeterminata può essere convertita in un problema fornito di elementi definiti. Il primo passo è dunque la ricerca degli elementi di una data situazione che, come elementi, siano ordinati. Quando un segnale d’incendio risuoni in una sala d’adunanza affollata, v’è la più grande indeterminatezza circa ciò che può portare a un risultato favorevole. Uno può finire sano e salvo o può finire calpestato o bruciato. Tuttavia il fuoco è caratterizzato da alcuni tratti ben definiti. E’, per esempio, localizzato in qualche posto. Inoltre i passaggi e le uscite sono in posizioni fisse. Poichè sono definiti o determinati nella realtà, il primo passo nella posizione del problema è di definirli nell’osservazione. Vi sono altri fattori che, mentre non sono temporalmente e spazialmente fissati, costituiscono tuttavia fattori osservabili; per esempio, il comportamento ed i movimenti degli altri membri dell’adunanza. Tutte queste condizioni osservate, ove vengano riunite, costituiscono “i fatti del caso”. Essi sono i termini del problema, in quanto condizioni delle quali occorre tener conto o prendere atto quando ci si voglia proporre una soluzione adeguata. Una possibile soluzione adeguata è allora suggerita dalla determinazione delle condizioni di fatto accertate mediante l’osservazione. La possibile soluzione si presenta perciò come un’idea, proprio come i termini del problema (che sono fatti) vengono stabiliti con l’osservazione. Le idee sono conseguenze anticipate (previsioni) di ciò che capiterà, ove certe operazioni vengano eseguite in preciso rapporto con le condizioni osservate. L’osservazione dei fatti e le significazioni o idee suggerite hanno origine e sviluppo strettamente corrispondenti. Quanto più chiari si profilano i fatti del caso per essere stati assoggettati a osservazione, tanto più chiare e rispondenti si fanno le concezioni circa i modi di trattare il problema costituito da tali fatti.” (idem)
Le idee come fattori operazionali Avendo dunque chiaro come vengono le “idee” intese come fattori operazionali si può dunque convenire sul fatto che esse ci consentono di dirigere ulteriori azioni per migliorare le osservazioni e far venire in luce nuovi fatti ed elementi nella ricerca. Gli scienziati usano un sistema di simboli concettuali più astratto e riflettono su informazioni più elaborate di quelle di cui dispone l’uomo comune, ma anch’essi tendono a riordinare le esperienze e le condizioni ambientali per discernere e contestualizzare il campo delle possibilità. Nella logica di Dewey, che è viva e non esasperatamente formale, si evidenzia una visione inedita tra mezzi e risultati e, per certi aspetti i principi “primi” vengono apparentemente messi da parte. La logica fondata su principi a priori, come quella di Kant, si fonda per Dewey su un modello storicamente determinato, quello della geometria euclidea. Teoreticamente invece, nemmeno nella matematica, i principi sono in sè a priori, ma solo il frutto di criteri direttivi e convenzioni, principi guida che hanno una loro eterna validità in quanto rendono possibile un campo deduttivo coerente. Ma è la base biologica della logica a fare la logica, anche quella matematica.
Le radici sociali dell’intelligenza
Ciò che consente il passaggio da un comportamento organico semplice ad un comportamento “umano” in senso anche intellettuale, contraddistinto da logica e razionalità, è dunque la socializzazione. Anche per Dewey, come per Aristotele, la società, la polis, è la dimensione naturale dell’uomo, è scritto nelle sue informazioni genetiche, è il suo destino. E’ quindi del tutto inutile, secondo Dewey, che la psicologia sociale si ponga problemi intorno all’origine della società. Il passaggio dal branco, alla tribù, alla formazione sociale più evoluta è determinato, Marx direbbe, dal sistema di produzione. Per Dewey dall’intelligenza e dal sentimento che la cooperazione è meglio del solipsismo, perchè è nella cooperazione che l’individuo trova risposte ai suoi problemi. Ciò che va, per così dire, studiato è come dalle abitudini, dai costumi, dalle tradizioni, cioè dai sistemi di interazione, nascano le diversità delle menti e dei caratteri individuali. La riflessione capace di smuovere una persona dal tran tran sociale e dai modelli circostanti non si fa da sè, secondo Dewey, e nemmeno è un dono degli dei. Nasce da circostanze eccezionali che pongono problemi inediti e richiedono nuove risposte e nuovi adattamenti. Dunque anche se il prodotto del genio è indubbiamente un prodotto delle capacità intellettive individuali, esso ha dietro di sè una storia, mediazioni e conflitti, insufficienze e privazioni, a volte anche “contraddizioni”.
Progettazione operativa e ideologia politica
Per Dewey l’opposizione tra riformatori e conservatori ha una dimensione del tutto americana ed anglosassone (se vogliamo) nella quale l’opposizione tra destra e sinistra non è totalmente ideologica, e quindi artificiosa, come nei paesi europei, latini (e cattolici) in generale. A noi resta difficile capire come e perchè, date le caratteristiche della storia recente del nostro paese dove le contrapposizioni ideologiche hanno sempre avuto la meglio su quelle reali. Eppure è vero: in America la destra è “destra” e la sinistra è “sinistra”! E questo perchè, probabilmente, la sinistra non è mai stata complice di quella banda a delinquere contrabbandata come stato sociale (delle tangenti e delle clientele politiche). I riformatori puntano sull’efficacia delle abitudini e delle istituzioni per formare la natura umana secondo un modello evolutivo. I conservatori parlano invece di immutabilità degli istinti come “costanti” della natura umana. Dewey riconosce che l’inerzia, la pigrizia mentale delle masse è enorme e difficilmente modificabile. Tuttavia nega recisamente che la natura umana sia immodificabile, anche perchè in questa idea alligna sempre l’eterno ritornello del conservatore che giustifica così il ricorso ad atti repressivi e selettivi. Per Dewey non esiste nemmeno un naturale istinto umano che predisponga alla guerra ed alla bellicosità. Sono sempre le condizioni sociali a determinare i conflitti ed è perchè le situazioni vengono strumentalizzate, spesso con argomenti irrazionali, che gli impulsi umani vengono convogliati verso la guerra.
Critica al capitalismo
La critica al capitalismo comincia, in modo non del tutto scontato, con una critica indiretta del marxismo. Dewey soggiornò molti anni in Unione Sovietica per studiare i modelli scolastici e la pedagogia marxista. Molte delle sue riflessioni in questo campo sono dunque dovute ad esperienze dirette. Egli vide, giustamente, che non è vero che lo sfruttamento della classe operaia da parte dei capitalisti sia reso necessario da una sorta di legge naturale, di logica intrinseca alla proprietà privata dei mezzi di produzione. Sono le forme e le modalità del lavoro, che dipendono dalle abitudini sociali dominanti a rendere costrittivo e penoso il lavoro stesso. Su questo piano Dewey rimprovera al marxismo soprattutto la mancanza di un piano della ragione operativa e l’astrattezza della dialettica storica in quanto la lotta di classe non è l’elemento determinante e risolutivo dei conflitti sociali, ma un dato di fatto su cui bisogna agire razionalmente. La critica di Dewey al capitalismo non è una critica astratta al modello metastorico di un capitalismo ottocentesco che sfrutta spregiudicatamente tisici, vecchi e bambini per creare “plusvalore”, ma si indirizza ad una critica del capitalismo concreto, ad esempio del “taylorismo” come modello organizzativo che di fatto inibisce la crescita culturale del lavoratore, lo costringe ad un lavoro “senza pensiero”, consentendo così il riproporsi di una opposizione alla vita intellettuale del “pensiero senza lavoro” cara ai filosofi “contemplativi”. Per Dewey la filosofia di Bergson che separa la vita di routine dallo slancio vitale, considerato come esperienza eccezionale, è una posizione reazionaria volta alla conservazione di pochi privilegiati (siano essi borghesi o intellettuali). In questo giudizio su Bergson Dewey si avvicinò molto ai marxisti francesi degli anni trenta. In questo progetto di ricomposizione dell’uomo che deve rimanere se stesso in tutti i momenti della sua vita ne va della stessa filosofia. A che diavolo serve, altrimenti, la filosofia?
La crisi della società
Dewey legge correttamente i processi sociali e denuncia con chiarezza che quando le istituzioni invecchiano e si sclerotizzano portano al soffocamento delle spinte evolutive e quindi alla necrosi delle società. Il tramonto dell’Occidente non è dovuto a fattori mistici di declino dello spirito ma, all’incapacità di pensare razionalmente ed operativamente e nel progettare soluzioni ai problemi. La crisi è sempre dovuta al decremento dell’intelligenza sociale, alla caduta del dibattito e della ricerca, al prevalere di comportamenti irrazionalistici e misticheggianti. (oggi diremmo alle stupidaggini del pensiero positivo e della new age) Dewey, darwiniano, non condivide il darwinismo razzista e romantico che vedeva la civiltà come un luogo di confronto tra razze vecchie e nuove, tra popoli biologicamente sani ed altri deteriorati. Non sono i popoli giovani che possono salvare le vecchie razze. Bisogna ringiovanire la società, deburocratizzarla, liberarla dal vecchiume ideologico.
La polemica antiprimitivistica
Anche per questo Dewey irride ovviamente tutte le idealizzazioni del “buon selvaggio” e dello spirito vitalistico dei popoli primitivi. Vede con chiarezza nella stessa epopea degli Indiani d’America la prova del loro stretto legame al ritualismo, spesso ingiustificato, e tipico delle società che non si evolvono mai. Critica una delle massime sciocchezze dello stupidario filosofico e culturale, quella che solo la società primitiva consenta la spontaneità dei sentimenti e la purezza del cuore. Del resto basta pensare che il commercio delle mogli, ad esempio, in cambio di un cavallo o due, è l’esatto contrario di quanto teorizzano i “primitivisti” sognatori. Spontaneità e libertà appartengono al futuro di una società evoluta e non al passato primitivo.
Il “New Deal”
Dewey fu dunque uno dei filosofi del “New Deal”, se non il filosofo per eccellenza di questo tentativo vigoroso di rinnovare culturalmente la società americana ed il vecchiume moralistico del New England, stanco erede della filosofia dei pellegrini del Mayflower. Furono queste idee guida a portare gli Stati Uniti a superare la terribile crisi del 29, e poi a scendere decisamente in campo contro il nazismo nella seconda guerra mondiale.
VLADIMIR LENIN
VITA E STORIA DI UN EROE
Lenin (pseudonimo di Vladimir Ilic Uianov) era nato nel 1870 a Simbirsk (oggi Uianovks) e suo padre era un ispettore scolastico. Gli anni di studio e di adolescenza coincisero con uno dei periodi più travagliati della storia sociale e politica della Russia. Il governo zarista dopo l’uccisione dello zar Alessandro II nel 1881, da parte dei populisti, si era affrettato ad annullare quelle limitate riforme che erano state introdotte durante il decennio precedente. In questo clima con Lenin ancora 17enne, il fratello Alessandro con più anni di lui e a cui era molto affezionato, viene arrestato e condannato a morte sotto l’accusa di aver partecipato alla preparazione di un attentato allo zar. Anche Lenin viene espulso dall’Università di Kazan per la sua adesione a un circolo studentesco di tendenze rivoluzionarie. Si avvicina allo studio del marxismo, e in particolare al Capitale di Marx, poi nel 1893 si trasferisce a Pietroburgo entrando in contatto con il movimento fondato da Plechanov, “Emancipazione nel lavoro”. Movimento che confluisce nel 1898 al Congresso di Minsk, nel partito operaio socialdemocratico di Russia (POSDR). Lenin sempre sotto stretta sorveglianza politica, viene alla fine arrestato e condannato a tre anni con la deportazione in Siberia. E qui che nel 1899, porta a compimento il suo primo saggio: Lo sviluppo del capitalismo in Russia; ed è un’altra polemica contro i populisti. Polemica già iniziata nel 1894 a Pietroburgo con l’articolo “ Che cosa sono “Gli amici del Popolo” e come lottano contro i socialdemocratici “. La questione controversa era -sostenevano i populisti- che la Russia a differenza dell’Europa, sarebbe passata dal feudalesimo al socialismo, senza attraversare la fase dello sviluppo capitalistico. La replica di Lenin, fu nel dimostrare con una minuziosa analisi economica e statistica, che l’agricoltura russa era già entrata nella fase del suo sviluppo capitalistico; e che l’idea populista di una rivoluzione contadina, senza la guida della moderna classe operaia (più sveglia, determinata, consapevole politicamente, unita, e forte, pur non essendo ancora numerosa) era quindi un’utopia. Per molti intellettuali radicali, dalla metà dell’Ottocento, il problema centrale era ” ma la Russia è Europa? “, questo orientamento dei radicali era chiamato narodnik , da narod popolo; e s’intendevano le masse rurali in cui si scorgeva la base di una società socialista con una versione rivoluzionaria di tipo marxista. Invece per altri intellettuali (con Lenin in prima fila) la Russia faceva parte già dell’Europa o almeno era in via di europeizzazione, ed era già presente il capitalismo e quindi già presente quella classe operaia che doveva prendere la guida della rivoluzione (e fu questo secondo orientamento rivoluzionario che poi si trasformò in bolscevismo). La prima domanda posta dai radicali, divise i pensatori russi per tutto l’Ottocento e continua a dividerli ancora oggi. Ed anche Marx quella domanda se la pose, e nel 1877 rispose a un saggio di un noto radicale della linea narod secondo il quale la sua teoria Marxista presupponeva ” lo scioglimento delle comunità agricole e l’avvento del capitalismo come condizione preliminare all’affermarsi del socialismo “. Poi Marx dissentì da questa impostazione enunciando altre alternative; che però convinsero poco quelli della narod e meno ancora i loro avversari che seguitarono a guardare in avanti dando ragione solo a quello che Marx aveva affermato in quelle due righe. Quando Lenin poi ottenne la sua vittoria politica, costrinse all’esilio chi preferiva il Marx della prima maniera. Ma le difficoltà nell’attuazione del socialismo in Russia – sostennero poi i critici di Lenin – sono insite appunto nel tentativo di realizzare una rivoluzione proletaria in un paese che era prevalentemente agricolo. Lenin nel 1901 emigrato in Svizzera fondò un periodico rivoluzionario intitolato Iskra (la scintilla), per guidare e organizzare all’estero le lotte e le agitazioni degli operai russi. Ma al secondo congresso del partito socialdemocratico russo, tenutosi a Londra nel 1903 il partito si spaccò in due fazioni; quella maggioritaria (bolscevica) capeggiata da Lenin e quella minoritaria (menscevica) capeggiata da Plechanov e altri: i Menscevichi volevano instaurare un movimento sul modello della Socialdemocrazia tedesca, i Bolscevichi guardavano invece alla rivoluzione e volevano un partito ‘di quadri’, costituito da pochi esponenti altamente qualificati che guidassero la rivoluzione. In effetti, in Germania, dove spazio per la democrazia ve n’era (sebbene poi il parlamento, con Bismarck, non contasse nulla), poteva avere un senso un movimento di massa quale la Socialdemocrazia; ma in una realtà quale la Russia, in cui ogni cosa che si intraprendeva naufragava miseramente e tutto era dominato dal rigido regime zarista, aveva molto più senso un movimento elitario a mò di setta segreta, una sorta di seme sotto la neve , per dirla con Silone, che sotto la fredda coltre dell’inattivo regime zarista in mano allo stregone ciarlatano Rasputin, potesse cogliere il momento opportuno per dare una fioritura magnifica. . Lenin intendeva creare l’organizzazione del partito con una struttura fortemente centralizzata alla quale dovevano essere ammessi solo i “rivoluzionari di professione”, non le masse popolari (sul modello della Socialdemocrazia tedesca). La divisione interna si approfondì in occasione della rivoluzione del 1905, scoppiata a seguito dell’ingiuriosa sconfitta inflitta dai Giapponesi ai Russi . I menscevichi intendevano lasciare la guida della rivoluzione alle forze della borghesia liberale russa, mentre Lenin pur riconoscendo il carattere democratico-borghese della rivoluzione, sosteneva che essa dovesse essere capeggiata dalla classe operaia e dai contadini, giudicando che la borghesia russa, per la sua debolezza, sarebbe stata incapace di portare la rivoluzione sino all’abbattimento dello zarismo e avrebbe sempre ripiegato su un compromesso con la monarchia e con l’aristocrazia terriera. ‘ Quando Lenin andò all’estero all’età di trent’anni ‘ racconta Trotsky, che proprio a Londra, dopo essere fuggito dalla Siberia, lo conobbe per la prima volta, ne La mia vita, ‘ era già completamente maturo. In Russia, nei circoli studenteschi, nei gruppi socialdemocratici e nelle colonie degli esiliati, egli era un personaggio di spicco. Non poteva non realizzare questo suo potere, se non altro per il fatto che chiunque lo incontrasse o lavorasse con lui glielo dimostrava in modo chiaro. Quando lasciò la Russia, possedeva già un ottimo equipaggiamento teorico ed un solido bagaglio d’esperienza rivoluzionaria. All’estero, c’erano collaboratori che lo attendevano: il gruppo di ‘Emancipazione del lavoro’ e, primo fra loro, Plechanov […] ‘con questi Lenin entrò presto in contrasto, ‘ ma Lenin era vigoroso. Tutto ciò di cui necessitava era la convinzione che i più anziani erano incapaci di assumersi una leadership diretta dell’organizzazione militante dell’avanguardia proletaria nella rivoluzione ch’era chiaramente vicina. I più anziani – e non erano gli unici – si sbagliavano nel loro giudizio; Lenin non era semplicemente un rimarcabile lavoratore del partito, egli era un leader, un uomo in cui ogni fibra era tirata verso il raggiungimento di un fine particolare, un uomo che infine, dopo aver lavorato fianco a fianco coi più anziani, aveva realizzato di essere un leader e di essere più forte e più necessario di loro. Nel mezzo degli ancor vaghi atteggiamenti che eran comuni nel gruppo che sorreggeva le bandiere dell’Iskra, Lenin solo, ed in modo definito, concepiva il ‘domani’, con tutte le sue severe fatiche, i suoi crudeli conflitti e le innumerevoli vittime ‘. Dopo il fallimento della rivoluzione del 1905 (conclusasi in un bagno di sangue per il movimento operaio, fucilato sulle piazze dalla polizia), si videro i bolscevichi e i menscevichi impegnati sempre di più in questa aspra polemica; i secondi si identificavano sempre di più con il movimento di “revisione” del marxismo rivoluzionario, inaugurato in Europa occidentale da Bernstein. Ma la rottura definitiva si completa nella II Internazionale e con lo scoppio della prima guerra mondiale. La parola d’ordine di Lenin è quella di trasformare la “guerra imperialista” in “guerra civile”: Lenin era sì convinto che la guerra imperialista fosse un male, ma tuttavia ne vedeva anche gli aspetti positivi. Tutto stava nel riuscire a trasformare la guerra in rivoluzione e così effettivamente fu. Tuttavia il partito bolscevico, a differenza di quello menscevico, fu contrario alla guerra e la Russia bolscevica, all’indomani della rivoluzione, pur di uscire dalla guerra stipulerà accordi con le nazioni nemiche a tal punto sfavorevoli che Lenin li definirà ‘vergognosi’. L’unico scontro conflittuale riconosciuto dai Bolscevichi era, del resto, lo scontro di classe, non la guerra, quell’inutile strage contro cui Lenin si scaglia in chiusura di Stato e Rivoluzione : La deformazione e la congiura del silenzio intorno al problema dell’atteggiamento della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato non potevano mancare di esercitare un’immensa influenza, in un momento in cui gli Stati, muniti di un apparato militare rafforzato dalle competizioni imperialiste, sono diventati dei mostri militari che mandano allo sterminio milioni di uomini per decidere chi, tra l’Inghilterra e la Germania, tra questo o quel capitale finanziario, dominerà il mondo. Quando scoppia la Rivoluzione in Russia nel febbraio del 1917 Lenin era ancora esule in Svizzera. Rientrato a Pietroburgo con la sua celebre Tesi di Aprile traccia il programma per l’abbattimento del governo liberal-democratico nel frattempo salito al potere dai Cadetti (di ispirazione liberale) e per il passaggio della rivoluzione alla sua fase socialista. Nei successivi mesi compone la sua famosa opera Stato e Rivoluzione , poi guida l’insurrezione di Ottobre che si conclude con la formazione del primo governo sovietico da lui capeggiato. Gli anni dal 1918 al 1921, sono gli anni del “comunismo di guerra”, della “nuova politica economica”, ma anche dei forti contrasti con Stalin, che Lenin non può più avversare ma di cui ha già presagito la pericolosità (celebre è lo scritto ‘ Quello Stalin è pericoloso ‘) , gravemente ammalato muore il 21 gennaio del 1924, all’età di 54 anni.
CHE FARE?
Alla fine del secolo diciannovesimo, Lenin dovette sostenere, prima in Russia e poi all’estero, una dura lotta contro i “marxisti legali” e gli “economisti”. In quegli anni particolarmente difficili, carichi di contraddizioni sociali ed economiche, privi di una vera prospettiva rivoluzionaria, in quanto il movimento socialdemocratico era ancora troppo debole, soprattutto nei livelli direttivi, il marxismo legale era riuscito a emergere nella letteratura sottoposta a censura solo perché il governo zarista, vendendolo impegnato a combattere le idee populiste, pensava che fosse una corrente meno pericolosa. In realtà i marxisti legali contribuivano alla diffusione del marxismo rivoluzionario, benché tale teoria -osserva Lenin- venisse esposta in un “linguaggio esopico”, cioè indiretto, mediato, non trasgressivo. Il progressivo declino del populismo fece diventare il marxismo molto popolare in Russia. Lenin e la sua “Unione di lotta” non disdegnavano l’intesa con i marxisti legali in funzione antipopulistica, pur essendo consapevoli che tali pseudo-marxisti erano nati dalla fusione di “elementi estremisti con elementi molto moderati”. Quando infatti -dopo che il governo s’accorse della loro pericolosità- ci si trovò di fronte all’alternativa di radicalizzare il taglio rivoluzionario degli interventi o di rinunciarvi definitivamente, la maggioranza dei marxisti legali non ebbe dubbi: scelse il revisionismo di Bernstein. A questo punto la rottura, fra marxismo rivoluzionario e legale, divenne inevitabile. Gli “ex-marxisti” continuarono a scrivere su giornali e riviste autorizzati dal governo, rivendicando una piena “libertà di critica” nei confronti dello stesso marxismo, ma questa volta con lo scopo principale di subordinare il movimento operaio agli interessi della borghesia. Affermavano, da un lato, che lo sviluppo capitalistico in Russia era una necessità storica, ma, dall’altro, non ne chiedevano il superamento immediato. Il loro marxismo era “senza socialismo”. Molti di questi “compagni di strada” -come li chiamava Lenin- diventeranno dei “cadetti” (il partito principale della borghesia russa) e persino delle “guardie bianche” durante la guerra civile. Nel tentativo di superare gli evidenti limiti del marxismo legale, si sviluppò all’interno del movimento socialdemocratico una corrente più pratica e concreta, ma unicamente interessata a risolvere i problemi di natura sindacale: era la corrente che Lenin chiamava col nome di “economicismo”. Non si trattava di una vera alternativa al marxismo legale ma di un suo complemento. Sul piano “legale” infatti si continuava a predicare, anche da parte degli economicisti, la fusione degli intellettuali marxisti coi liberali, mentre su quello “illegale” si chiedeva agli operai di lottare sindacalmente contro i padroni. Gli economicisti -che, come dice Lenin, rifuggivano da qualsiasi ” discussione teorica, dissenso di frazione, ogni vasta questione politica, ogni progetto di organizzare i rivoluzionari ecc. “- avevano un loro manifesto: il Credo (redatto dalla Kuskova), che Lenin e altri 17 compagni sottoposero a dura critica scrivendo dalla prigione siberiana la Protesta dei socialdemocratici russi (1899). Con la Protesta, pubblicata sul Raboceie Dielo, Lenin rivendicava l’unità della lotta economica della classe operaia con quella politica e condannava il revisionismo di Bernstein, che voleva trasformare il partito operaio da rivoluzionario a riformista, spazzando via l’ingrediente fonfdamentale del marxismo: la rivoluzione . Lenin e gli altri autori della Protesta volevano integrare la battaglia contrattuale della classe operaia con una lotta politico-rivoluzionaria organizzata in un partito indipendente, che portasse, anche attraverso il consenso e l’appoggio degli elementi democratico-borghesi del Paese, all’emancipazione di tutti i lavoratori oppressi. Nello stesso tempo Lenin scrisse, fra le altre cose, Il nostro programma , che però rimase inedito fino al 1925. In esso si costatava che l’opinione dominante in seno alla socialdemocrazia russa considerava il marxismo rivoluzionario “invecchiato e inadeguato”. L’influenza del revisionismo si faceva sempre più sentire. Alla stregua di Bernstein ci si limitava -dice Lenin- ad elaborare “piani per riorganizzare la società”, a proporre “ai capitalisti e ai loro reggicoda il modo di migliorare la situazione degli operai”, a predicare agli operai “la teoria dell’arrendevolezza”. Lenin si rendeva conto che un’interpretazione dogmatica del marxismo poteva trasformare questa scienza in una fraseologia senza senso; però teneva a precisare che qualsiasi critica del marxismo non poteva andare oltre le “pietre angolari” da esso poste, “i principi direttivi generali”. La teoria di Marx -diceva Lenin nel Programma- non è qualcosa di “definitivo e di intangibile”; i socialisti devono anzi farla progredire “se non vogliono lasciarsi distanziare dalla vita”; ma con ciò -prosegue Lenin- resta vero che mai potrà esistere “un forte partito socialista se manca una teoria rivoluzionaria che unisca tutti i socialisti”. Queste idee Lenin, a causa delle persecuzioni dell’infame regime zarista, dovette portarle avanti all’estero. Con l’aiuto di molti compagni pubblicò per tre anni il giornale Iskra. Nell’importante articolo di fondo scritto nel primo numero, I compiti urgenti del nostro movimento , Lenin, rifiutando le teorie opportuniste dell’economicismo, rivendicava l’unità del socialismo col movimento operaio. Solo mediante questa unità si poteva -a suo giudizio- superare la mera attività propagandistica esercitata, a livello di circolo, dai socialdemocratici russi negli ultimi decenni e, nel contempo, evitare che il movimento operaio e il socialismo cadessero nell’ideologia borghese o degenerassero nello sterile terrorismo individuale (come quello dell’organizzazione clandestina “Volontà del popolo”, che, dopo aver assassinato nel 1881 lo zar Alessandro II, venne immediatamente liquidata dal governo). L’unità, in sostanza, era indispensabile non solo per l'”ortodossia” del socialismo, ma anche per la “ortoprassi” del movimento operaio. “Nessuna classe della storia -dice Lenin nell’articolo suddetto- ha conquistato il potere senza esprimere dei propri capi politici, dei propri rappresentanti d’avanguardia capaci di organizzare e dirigere il movimento”. A contatto con le organizzazioni socialdemocratiche all’estero, Lenin poteva facilmente rendersi conto di come la tendenza economicistica avesse acquistato sempre più seguaci. Infatti, dopo il giornale Rabociaia Mysl, stampato in Russia, anche la rivista Raboceie Dielo, stampata a Ginevra, decideva, a partire dal numero 10, di compiere la svolta revisionista verso l’economicismo. Alle giustificazioni ch’essa ne dava, e cioè: 1) l’inesistenza delle condizioni “oggettive” per compiere una rivoluzione (donde l’inutilità di organizzare un partito politico); 2) il timore di vedere la propria attività equiparata a quella dei terroristi – Lenin ribatteva dicendo: 1) “si deve lavorare per creare un’organizzazione combattiva e condurre un’agitazione politica in qualsiasi situazione”, anzi, proprio nei momenti di declino dello “spirito rivoluzionario” è particolarmente necessario tale lavoro, “poiché nei momenti degli scoppi e delle esplosioni non si farebbe in tempo a creare un’organizzazione”; 2) “oggi il terrorismo non viene affatto proposto come un’operazione dell’esercito operante, strettamente legata e adeguata a tutto il sistema di lotta, ma come mezzo di attacco singolo, autonomo e indipendente da ogni esercito” (così in due articoli pubblicati nei numeri 23 e 24 dell’Iskra). In altre parole, la situazione di quel momento storico non era “oggettiva” per la rivoluzione solo in questo senso, che non si doveva compiere un “assalto frontale” alle postazioni nemiche prima di aver organizzato debitamente un “regolare assedio”. E, allo scopo -pensava Lenin-, nulla era più indispensabile di un giornale politico panrusso: ecco perché era nata l’Iskra. “La maggiore o minore frequenza e regolarità dell’uscita (e diffusione) del giornale -diceva Lenin, con grande senso della concretezza- potrà essere l’indice più esatto della solidità con la quale saremo riusciti a organizzare [il settore della] propaganda e dell’agitazione multiformi e conseguenti”. La scelta di un giornale politico, comune a tutto il marxismo rivoluzionario, era stata imposta dalla situazione di frazionamento localistico del movimento operaio. Essendo “l’enorme maggioranza dei socialdemocratici quasi completamente assorbita dal lavoro puramente locale”, l’instabilità e l’incertezza del movimento e dei suoi dirigenti diventavano un fatto inevitabile. Ciò spiega il motivo per cui il giornale non era nato solo per svolgere un ruolo di propagandista e agitatore collettivo, penetrando, attraverso il proletariato, “nelle file della piccola borghesia urbana, degli artigiani rurali e dei contadini”, che avrebbe conquistato alla rivoluzione: esso doveva pure svolgere la funzione di “organizzatore collettivo”. Nel senso cioè che la rete di “fiduciari” del partito preposta alla redazione e diffusione del giornale, doveva mantenere strettissimi legami “con i comitati locali (gruppi, circoli) del partito”, o almeno con quelli che desideravano la loro unificazione in un partito. Attraverso questo lavoro tutti i militanti avrebbero avuto la possibilità non solo di osservare gli avvenimenti da un punto di vista nazionale, ma, in virtù dell’organizzazione capillare, anche l’opportunità d’intervenire direttamente su tali avvenimenti. Gli stessi militanti insomma dovevano diventare i protagonisti dell’Iskra. Un altro importante articolo pubblicato sul no 12 del giornale è il Colloquio con i sostenitori dell’economicismo. Qui Lenin risponde, approfondendo gli argomenti soprattutto nel capitolo Secondo di Che fare? , a una lunga lettera che “un gruppo di compagni” aveva fatto pervenire alla redazione del giornale. In particolare, Lenin rilevava il fatto che “i dirigenti coscienti sono in ritardo sullo sviluppo del movimento spontaneo della massa operaia e degli altri strati sociali”. Ai dirigenti, di cui il movimento dispone, mancano le cose più necessarie: solida teoria, vasti orizzonti politici, energia rivoluzionaria, capacità organizzativa. Il grave però è che “dalla fine del 1897 e specialmente dall’autunno del 1898” -dice Lenin-, cioè proprio quando si è voluto costituire il partito operaio socialdemocratico, essi hanno fatto di questi difetti una “virtù”, portando il “ritardo” della coscienza rivoluzionaria al livello di una “giustificazione teorica”. Tutte le questioni che in quel periodo più urgevano nel dibattito interno alla socialdemocrazia russa, saranno efficacemente sintetizzate e magistralmente risolte in Che fare? (1902), il libro più importante che Lenin scrisse prima della rivoluzione del 1905. Dopo la svolta del Raboceie Dielo verso l’economicismo, con la quale, fra l’altro, s’impedì d’unificare le organizzazioni socialdemocratiche all’estero in nome del marxismo rivoluzionario, Lenin fu costretto a radicalizzare, anche nello stile letterario, i termini dello scontro. Rendendosi d’altra parte conto che l’economicismo aveva molto più seguito di quel che non si credesse, egli non poteva agire diversamente. L’opposizione fra le due correnti di pensiero era per lui così netta da imporre una “chiarificazione sistematica” su tutti gli aspetti fondamentali del dissenso. Proprio nella drammaticità del confronto con il marxismo “ufficiale”, “dominante”, venivano alla luce le indicazioni più sicure da seguire.
LA CRITICA ALLA LIBERTA’ DI CRITICA
La “libertà di critica” è il primo aspetto che Lenin esamina nella sua importante opera anti-opportunista Che fare? Trattasi di quella libertà che i marxisti legali e soprattutto gli economicisti, in Russia, si erano presi per indurre il neonato Posdr a trasformarsi da rivoluzionario a riformista. Emulando i colleghi revisionisti di Germania e Francia, essi chiedevano di rinunciare alla pretesa di dare un fondamento scientifico al socialismo e di limitarsi ad accettarlo solo sul piano utopistico, in quanto l’opposizione di principio fra socialismo e liberalismo era per loro inesistente. Essi inoltre negavano il fatto della crescente miseria sociale, cioè della proletarizzazione di ampi strati sociali e dell’inasprimento delle contraddizioni capitalistiche. Respingevano, in sostanza, la teoria della lotta di classe e l’idea della dittatura del proletariato. In un contesto del genere, la “libertà di critica” -pensava Lenin- altro non significava che “critica borghese di tutte le idee fondamentali del marxismo”. Naturalmente la novità non era piovuta dal cielo. “Già da tempo -scrive Lenin- si muoveva contro il marxismo questa critica dall’alto della tribuna e della cattedra universitaria, in innumerevoli opuscoli e in una serie di dotti trattati; da decine di anni tutta la nuova gioventù delle classi colte è stata educata a questa critica”. In pratica, la linea opportunistica del marxismo era stato il risultato di un trasferimento di concezioni borghesi dalla letteratura liberale a quella socialista. A livello europeo i migliori rappresentanti di questa nuova tendenza erano Bernstein, sul piano teorico, e Millerand su quello pratico. Avvalendosi della “libertà di critica” come di una rivendicazione politica, essi e gli economicisti in genere evitavano di confrontarsi con le tesi del marxismo rivoluzionario, tacciato preventivamente di “dogmatismo”. Ma in tal modo -spiega bene Lenin- la tanto declamata parola d’ordine, libertà di critica anche nei confronti del marxismo, “si riduceva all’assenza di ogni critica”, anzi, “all’assenza di ogni giudizio indipendente”. Di nuovo, in realtà, c’era solo questo, che “l’urto delle diverse tendenze in seno al socialismo si era per la prima volta trasformato da nazionale in internazionale”. Storicamente parlando, gli economicisti rappresentarono una reazione all’intellettualismo parolaio dei marxisti legali. Là dove, nell’ultimo decennio dell’800, si lottò con successo contro il populismo, paventando però l’idea della rivoluzione proletaria, qui invece si pretendeva una maggiore concretezza, una più sollecita attenzione ai problemi di natura sindacale dei lavoratori, benché i tempi -a giudizio di Lenin- fossero maturi per ben altro che non per una semplice politica tradunionista. Di fronte alle posizioni rinunciatarie e rigorosamente circoscritte, a livello sia teorico che pratico, degli economicisti, Lenin raccomandava anzitutto di “riprendere [sottoponendolo a critica] quel lavoro teorico appena cominciato all’epoca del marxismo legale”; dopodiché occorreva rimediare alla confusione e all’esitazione prodotte dagli economicisti nel movimento “pratico”. “Libertà di critica [per gli opportunisti] non significa -scriveva Lenin- la sostituzione di una teoria con un’altra, ma la libertà da ogni teoria coerente e ponderata, eclettismo e mancanza di principi”. Quando una tendenza del genere diventa dominante nel movimento operaio o addirittura nel partito, non resta che separarsene – e Lenin operò appunto in questa direzione. “Ci hanno biasimato -disse- per aver costituito un gruppo a parte e preferito la vita della lotta alla via della conciliazione”. Ma non si trattava di settarismo o di frazionismo fine a se stesso. Il fine era quello di realizzare l’unità della classe operaia con un’avanguardia rivoluzionaria. E perché questo potesse avvenire “occorreva anzitutto -dice Lenin- definirsi risolutamente e nettamente” (un’altra traduzione italiana usa il termine delimitarsi). Quando l’unità di un partito o di un movimento è palesemente, irrimediabilmente nociva agli interessi della verità delle masse che aspirano a liberarsi dallo sfruttamento capitalistico, non resta che denunciarla, che rompere il suo formalismo e la sua ipocrisia, ricostituendola su fondamenta più solide, soprattutto più autentiche. Certo, sarà il consenso delle masse popolari a decidere dell’efficacia di una iniziativa del genere. D’altra parte “senza teoria rivoluzionaria -ha detto Lenin- non ci può essere movimento rivoluzionario”: “la predicazione opportunistica venuta di moda, viene accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica”. Non deve dunque spaventare l’idea d’essere una piccola minoranza (cosa peraltro inevitabile agli inizi); è invece indispensabile avere le idee chiare, saper dove andare, lottare contemporaneamente sul fronte teorico, politico ed economico – questo l’insegnamento che si trae dalle prime pagine di Che fare? .
SPONTANEITA’ DELLE MASSE E COSCIENZA RIVOLUZIONARIA
Nell’esordio dell’importante libro Che fare? , in particolare nel capitolo dedicato alla “libertà di critica” degli opportunisti, Lenin imposta e conduce la sua battaglia sul fronte “teorico”, un fronte che nel capitolo 2° viene approfondito a livello “filosofico” e “ideologico”, per poi esplicitarsi compiutamente in modo “politico” nel capitolo successivo e “organizzativo” negli ultimi due (il primo dei quali di carattere generale, mentre l’altro -delineante il piano di un giornale politico panrusso- a titolo esemplificativo). Il capitolo 2° porta come titolo significativo: La spontaneità delle masse e la coscienza della socialdemocrazia. Lo scopo che lo muove è quello di dimostrare la validità di una precisa tesi posta nella premessa: “La forza del movimento contemporaneo consiste nel risveglio delle masse (e principalmente del proletariato industriale) e la sua debolezza nella mancanza di coscienza e d’iniziativa dei dirigenti rivoluzionari”. Per “risveglio spontaneo delle masse” Lenin intende quelle manifestazioni popolari di protesta, tipo scioperi, tumulti, distruzioni di macchine ecc., che in Russia, a partire dal 1890, avvennero non con una coscienza esatta della natura dello sfruttamento, ma con l’istinto, giunto a maturazione, di ribellarvisi senza indugio. Il sentire la necessità di una resistenza collettiva, ovvero il bisogno di rompere risolutamente “con la sottomissione servile all’autorità”, faceva parte appunto di quegli atteggiamenti “di disperazione e di vendetta” che, se solo fosse esistita una direzione cosciente e attiva degli intellettuali, avrebbero potuto aprire le porte alla lotta rivoluzionaria vera e propria. “L’elemento spontaneo infatti non è che una forma embrionale della coscienza”. Lenin non sta qui a discutere, in astratto, su quale debba essere il rapporto ideale tra spontaneità delle masse e coscienza dei dirigenti. Il problema, per lui, non stava neppure nel criticare quei dirigenti che non avevano saputo prevedere l’evolversi dei tempi. Certo, questo era un difetto che andava corretto. Ma il problema più grave da risolvere restava un altro, e precisamente quello di come valorizzare la spontaneità delle masse portandola a un livello di consapevolezza politica, tale per cui l’istintiva protesta fosse indotta a rifiutare una semplice opposizione “legale” o “settoriale” al sistema. Per Lenin ciò che più contava era che il dirigente sapesse convincere le masse ad avvertire i loro interessi generali e quelli del sistema di sfruttamento come direttamente antitetici. In effetti, per cambiare qualitativamente la situazione non basta la coscienza di sentirsi sfruttati, né quella di voler reagire in qualche modo: occorre piuttosto -dice Lenin- avere coscienza che l’antagonismo fra gli interessi degli operai e di tutto l’ordinamento politico-sociale capitalistico è irrimediabilmente inconciliabile. Cioè l’antagonismo tra capitale e lavoro non è relativo ma assoluto. Questo significa che se le masse si limitano a una protesta spontanea e locale, al massimo riusciranno ad ottenere una parziale vittoria sul terreno economico, potranno cioè sentirsi soddisfatte d’aver conseguito nell’immediato determinati obiettivi contrattuali, ma in nessun modo esse saranno riuscite ad eliminare i motivi di fondo che le obbligano, con maggiore o minore frequenza e intensità, ad avanzare queste ed altre rivendicazioni. Ora, perché le masse si rendano conto della realtà di questo irriducibile antagonismo non basta -dice Lenin- che la loro situazione economica peggiori drammaticamente: occorre anche che vi siano dei dirigenti capaci d’iniziativa rivoluzionaria sulla base d’una teoria scientifica, oggettiva. Le masse cioè, in virtù dell’apporto di questi dirigenti, devono arrivare a trasformare la loro lotta sindacale in una lotta generale, rivoluzionaria, per la conquista del potere politico. E perché questo accada occorre ch’esse abbiano la coscienza esatta dei termini dell’antagonismo. Una coscienza del genere può essere il frutto solo di uno studio approfondito, scientifico, uno studio che l’operaio normalmente non fa, sia perché non ne ha il tempo materiale, sia perché non rientra nei suoi immediati interessi. “La classe operaia, con le sole sue forze -dice Lenin-, è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionistica, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni ecc.”. Ma in tal modo essa non giunge mai a considerarsi in “alternativa” a tutto il sistema: lotta sì contro il capitale ma sentendovisi legata. Il fatto stesso di dover lavorare alle sue totali dipendenze, subendone i ritmi e le condizioni di lavoro, le impedisce di assumere una posizione radicale, capace di trasformare la rivendicazione economica in una lotta politica di carattere generale. Ecco perché la coscienza rivoluzionaria “può essere apportata alla classe operaia solo dall’esterno”. Da chi precisamente? Da quell’intellettuale (od operaio colto) che dopo aver compreso il carattere inconciliabile delle contraddizioni capitalistiche, si dedica a tempo pieno, sostenuto dal partito, alla lotta politico-rivoluzionaria, organizzando le forze di quelle classi sociali i cui interessi sono antagonistici agli interessi del capitale. Un operaio “cosciente”, cioè un operaio che sa quanto l’emancipazione della sua classe corrisponda all’emancipazione di tutti i lavoratori, è un operaio che deve essere valorizzato più come “militante” del partito che non come “lavoratore” della fabbrica. L’ideologia politica che aiuta meglio a comprendere la necessità di un rivolgimento totale della società è -come noto- il socialismo scientifico. “La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate -dice Lenin- dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali”. Anche in Russia il socialismo scientifico è sorto “come risultato naturale ed inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari”. Lo sviluppo della teoria, pur basandosi sulla prassi storico-sociale, procede indipendente da questa e può giungere a intravedere delle soluzioni finali ai problemi fondamentali delle classi sociali, mentre la coscienza di tali classi è ancora ferma a un tipo di lotta parziale, riduttiva, contro il capitale. Ciò che il leader rivoluzionario deve assolutamente evitare è che lo sviluppo spontaneo delle masse arrivi a soffocare -seppure in modo spontaneo- lo sviluppo della loro propria coscienza. Quando si è consapevoli dell’irriducibile antagonismo fra capitale e lavoro non si può mai giustificare lo spontaneismo delle masse adducendo, come pretesto, la mancanza di condizioni oggettive per la rivoluzione. Se queste condizioni mancassero non vi sarebbe neppure la loro coscienza riflessa. “Se certi elementi spontanei dello sviluppo -dice Lenin- sono accessibili in generale alla coscienza umana, l’errata valutazione di essi equivarrà a una sottovalutazione dell’elemento cosciente. E se sono inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne possiamo parlare”. Il che vuol dire, in altre parole: se il dirigente non prende coscienza dello sviluppo spontaneo della rivolta, quando questa c’è, non sottovaluta l’elemento spontaneo, ma la sua stessa coscienza. Ora, sottovalutare la coscienza rivoluzionaria significa subordinare il movimento alla spontaneità e questo, nelle condizioni del capitalismo, significa, inevitabilmente -come dice Lenin- determinare “un rafforzamento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai”. Ciò in quanto: 1) “in una società dilaniata dagli antagonismi di classe non potrebbe mai esistere un’ideologia al di fuori o al di sopra delle classi”; 2) “l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione”. Ecco perché “quanto più giovane è il movimento socialista di un determinato Paese, tanto più energica dev’essere la lotta contro tutti i tentativi di consolidare l’ideologia non socialista”. Né si deve pensare che il pericolo dell’”imborghesimento” degli operai sia infondato solo perché essi vanno “spontaneamente” verso il socialismo. Che essi ci vadano è dovuto al fatto che la teoria socialista sa meglio interpretare le cause di tutti i loro mali; cionondimeno, se l’adesione immediata, istintiva, non viene approfondita in sede scientifica e non trova nella prassi un adeguato impegno rivoluzionario, l’ideologia borghese, che è “la più diffusa e che resuscita costantemente nelle più svariate forme”, non tarderà a imporsi nuovamente, spontaneamente, alla coscienza dell’operaio. Paradossalmente è proprio il movimento meramente spontaneo delle masse che conduce al rifiuto (inconsapevole) del socialismo. In sintesi, la teoria riflette sempre una realtà che la precede, ma essa la riflette adeguatamente solo se sa portare la realtà stessa a un livello di autoconsapevolezza critica. Traendo insegnamento dagli errori interpretativi compiuti nel passato, il socialismo scientifico deve saper portare la spontaneità del movimento operaio ad un livello cosciente e rivoluzionario. La spontaneità è la forma istintiva, immediata di lotta: “I primi mezzi di lotta che cadono sottomano saranno sempre nella società contemporanea [capitalistica] i mezzi tradunionistici”. Lenin tuttavia non ha alcuna intenzione di accusare lo spontaneismo in sé: la sua critica è rivolta a quegli intellettuali che lo giustificano per impedire agli operai di sviluppare una coscienza veramente rivoluzionaria. Egli infatti afferma che “quanto più è grande la spinta spontanea delle masse, quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell’attività teorica, politica e organizzativa”. L’intellettuale che non comprende questo fa, anche senza volerlo, gli interessi del capitale. “Dal fatto che gli interessi economici esercitano una funzione decisiva non consegue affatto che la lotta economica (professionale) sia di sommo interesse, poiché gli interessi essenziali, “decisivi”, delle classi possono essere soddisfatti solamente con trasformazioni politiche radicali”. E’ da questa e da altre analoghe affermazioni di Lenin, contenute in Che fare?, che si è compreso come nell’imperialismo si sia attuato, nell’ambito del marxismo, il passaggio dal primato dell’economia a quello della politica.
LENIN E CHE FARE?
E’ impressionante la sicurezza con cui Lenin afferma, in Che fare? , che la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica o della sfera dei rapporti contrattuali tra operai e imprenditori: ‘ la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni ‘ egli scrisse. Perché questa necessità? Perché l’operaio che lotta sindacalmente contro l’imprenditore capitalistico non ha per questo la consapevolezza che la sua stessa lotta economica, se non si traduce in lotta politica, non serve che a perpetuare il suo sfruttamento. “La politica tradunionistica della classe operaia -dice Lenin- è precisamente la politica borghese della classe operaia”. Ora, un operaio che ha consapevolezza di questo non può continuare a fare l’operaio: deve lottare per un fine superiore, organizzando la propria attività in modo politico. “Le masse non impareranno mai a condurre la lotta politica fino a quando non contribuiremo a educare dei dirigenti per tale lotta, sia fra gli operai colti che fra gli intellettuali”. Ma come può un operaio passare dalla lotta economica a quella politica? Egli deve acquisire la consapevolezza che tutta la società borghese va superata e non solo il suo rapporto contingente coll’imprenditore. Se non ha consapevolezza di questa necessità di ordine generale, se non ha rinunciato a tutte le illusioni sulla possibilità di “riformare” la società borghese, egli continuerà per tutta la vita a chiedere aumenti salariali o migliori condizioni di lavoro, senza mai riuscire a superare l’idea in sé dello sfruttamento. Noi invece -dice Lenin- “dobbiamo occuparci di spingere coloro che sono insoddisfatti [di singoli aspetti sociali] a convincersi che quel che non va è l’intero regime politico”. Ma, di nuovo, come può l’operaio acquisire tale consapevolezza politica? E’ forse l’intellettuale che deve dargliela? Un intellettuale staccato dalle classi sociali non è in grado di fare alcunché. Lenin dice chiaramente che “per dare agli operai cognizioni politiche, i socialdemocratici devono andare fra tutte le classi della popolazione”. Ciò in pratica significa che la coscienza politica della necessità di superare in maniera globale la società, può essere solo il frutto di una sensibilizzazione di tutte le classi popolari. Ovvero, quando la stragrande maggioranza è convinta che la società nel suo complesso va superata, ecco che allora si realizza il socialismo. La consapevolezza politica deve maturare nelle masse in modo progressivo, ma chi già la possiede non deve aspettare ch’essa maturi da sola. Egli anzi deve “reagire -dice ancora Lenin- contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa si manifesti e qualunque sia la classe o la categoria sociale che ne soffre”. L’operaio cioè di per sé, solo perché “operaio”, non ha maggiore consapevolezza politica di chi non lo è.
LA COSCIENZA DALL’ESTERNO
Perché, secondo Lenin, gli operai non possono avere “la coscienza dell’irriducibile antagonismo fra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo” ? Risposta: perché tale coscienza non riesce a sorgere in loro spontaneamente, naturalmente, ma deve essere data “dall’esterno”, dall’intellettuale consapevole. Lenin arriva a porsi questa domanda guardando la storia del movimento operaio russo, euroccidentale e mondiale. Questa storia dimostra che “la classe operaia con le sole sue forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista”, cioè sindacale. Perché questo limite? Per due ragioni: 1) all’operaio manca il tempo di farsi una consapevolezza teorica dell’irriducibile antagonismo tra lavoro e capitale (non dispone cioè delle condizioni materiali favorevoli); 2) il capitalismo, stando al potere, è in grado di disporre d’ingenti mezzi per propagandare l’ideologia borghese, che è molto più antica di quella socialista: chi detiene il potere materiale detiene anche quello ideologico. Dunque al massimo l’operaio arriva a “sentire”, a “percepire” il suddetto antagonismo, ma non arriva -proprio perché il lavoro da schiavo e il condizionamento dell’ideologia borghese glielo impediscono- a maturare la consapevolezza della necessità di un’alternativa organica, globale, al sistema dominante. Questo è un compito che spetta ai rivoluzionari di professione. “La dottrina del socialismo -dice Lenin- è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali”. Ciò significa ch’esiste un processo autonomo del pensiero, indipendente “dallo sviluppo spontaneo del movimento operaio”, che porta alla consapevolezza della necessità del socialismo. Gli intellettuali progressisti arrivano a “comprendere” sul piano teoretico ciò che gli operai arrivano a “sentire” su quello pratico. Cosa proponeva Lenin? Due cose: 1) permettere anzitutto agli operai dotati di capacità intellettuali, di dedicarsi esclusivamente all’attività politica del partito (le capacità ovviamente vanno dimostrate, cioè possono essere riconosciute solo a-posteriori); 2) far convergere la teoria rivoluzionaria degli intellettuali verso la protesta sindacale degli operai, al fine di creare un movimento di massa capace di prassi rivoluzionaria. Altrimenti la teoria resterà utopica e la prassi velleitaria. Lo sviluppo coerente di queste due condizioni è in grado di evitare due pericoli: 1) quello di credere che la coscienza dell’irriducibile antagonismo sia un processo che possa maturare solo “dall’esterno” e non anche “dall’interno”; 2) quello di credere che senza “teoria rivoluzionaria” possa esserci una “prassi rivoluzionaria”, ovvero che una “teoria rivoluzionaria”, per funzionare praticamente, possa essere formulata una volta per tutte, e non continuamente riformulata. L’elemento spontaneo e quello consapevole devono quindi integrarsi in un’unica esperienza. Lenin aveva così chiarito il motivo fondamentale per cui, a suo parere, erano falliti tutti i tentativi rivoluzionari condotti in Europa occidentale e in Russia. Ma mentre in Russia si arrivò ad accettare questo suo nuovo modo d’impostare la lotta politica, in Europa invece, in un modo o nell’altro, lo si è sempre rifiutato: sia perché l’individualismo non permetteva di accettare, da parte degli operai, l’idea di una consapevolezza trasmessa dall’esterno; sia perché l’intellettualismo non permetteva di accettare, da parte degli intellettuali, la responsabilità di dover organizzare lo sviluppo di tale consapevolezza in un’esperienza politico- rivoluzionaria.
L’INCONSCIO IN LENIN
Qualunque attività (persino quella onirica) ha un significato per il soggetto solo se egli è consapevole. La psicanalisi ha sì scoperto l’inconscio, ma nella misura in cui ha preteso di conoscerlo lo ha reso “conscio”, intelligibile. L’inconscio era sicuramente più oscuro e misterioso in quei filosofi romantici tedeschi che ne parlarono prima della psicanalisi (Herbart, Hartmann, Brentano e altri ancora). L’analogia tra questi filosofi e Freud sta nell’aver delineato, dopo aver costatato le contraddizioni della civiltà borghese, un’identità irrazionale dell’inconscio, senza però riuscire a comprendere l’origine economico-sociale di tali contraddizioni; la differenza sta nell’aver cercato di dimostrarlo con esempi concreti: sotto tale aspetto, l’importanza di Freud è decisamente superiore, anche se le sue interpretazioni dei sintomi nevrotici sono spesso arbitrarie. In particolare, Freud ha dimostrato (e qui la differenza da quei filosofi tedeschi è molto netta), che se l’inconscio fosse assolutamente “inconscio”, nessuno ne potrebbe parlare, essendo del tutto incomprensibile. In seguito però, Freud è arrivato a sostenere che gli effetti dell’inconscio possono essere rilevanti anche su un soggetto che non ha consapevolezza della propria malattia, in quanto l’Es (fonte di tutti gli istinti) è una forza cieca e irrazionale. Cioè, in pratica, Freud non ha mai abbandonato l’idea tradizionale che l’inconscio fosse una realtà, in ultima istanza, incomprensibile. Questo non gli ha mai permesso di approfondire adeguatamente l’idea secondo cui le nevrosi più significative sono quelle per le quali il soggetto è cosciente della propria alienazione: maggiore è la coscienza e maggiore è la nevrosi, se con una diversa esperienza disalienante non la si risolve. Il che apre le porte alla comprensione del campo delle psicosi, il cui profondo significato sfugge ancora all’indagine analitica. La psicanalisi pretende di conoscere l’inconscio attraverso i sogni, i lapsus, gli errori di lettura, le dimenticanze dei nomi, i tic, le manie…, ma in realtà l’inconscio può essere conosciuto solo in rapporto alla coscienza. Un lapsus ci indica che esiste un inconscio, ma finché non parliamo col soggetto, a partire dal lapsus, interrogandolo sul perché e sul come, noi non faremo un passo avanti. La stessa follia è il frutto di una coscienza distorta delle cose, anche se il soggetto non vuole ammetterlo e ha rimosso nell’inconscio le cause della sua malattia. Non è possibile risalire a queste cause se non passando attraverso la coscienza del malato. Se vogliamo, l’inconscio non ha realtà propria: è come la tasca in cui la mano si nasconde dopo aver gettato il sasso. Nascondiamo la mano perchè ci sentiamo giudicati, da noi stessi e soprattutto dagli altri. Naturalmente è anche possibile che un’azione negativa sia compiuta da un’intera collettività, più o meno grande: in tal caso dovrà essere una coscienza sociale alternativa (che può anche essere minoritaria) a porre il giudizio. L’inconscio, in ogni caso, resta subordinato alla coscienza. Ciò che inoltre si deve accettare è l’idea che non è l’inconscio che può avere la forza di opporsi all’alienazione di una determinata coscienza sociale, ma è la stessa coscienza, la quale può essere superficiale, istintiva, o riflessiva, matura. Parlare di “opposizione inconscia” (p.es. a una ingiustizia, a un’etica formalizzata) altro non vuol dire che parlare dell’opposizione più superficiale della coscienza, destinata a durare poco e a non essere molto efficace. Questo viene in mente leggendo il Che fare? di Lenin (cap.II). “L’elemento spontaneo -dice Lenin- [cioè poco consapevole, istintivo, di cui non si ha ancora piena coscienza e che non permette di acquisirla] non è che la forma embrionale della coscienza”. E ancora: “La coscienza dei propri errori [fatti coll’istinto e quindi solo parzialmente consapevoli] equivale già ad una mezza correzione [cioè ad un aumento del lato conscio], ma il mezzo male [cioè la scarsa consapevolezza] diventa un male effettivo quando questa coscienza comincia ad oscurarsi, cioè quando si tenta di giustificare teoricamente la propria sottomissione servile alla spontaneità [o all’inconscio]”. Lenin voleva dire che il “mezzo male” (o la mancanza di forte consapevolezza), viene utilizzato dagli intellettuali borghesi, regressivi, come pretesto per non prendere consapevolezza dei propri errori (il che porta a un “male intero”). Il “vero male”, quello “totale”, nasce quando si vuole imporre la logica dell’inconscio alla coscienza, cioè quando si vuole opporre all’esigenza di un’alternativa, di una transizione, la logica della rassegnazione, dell’opportunismo, del relativismo, sino all’irrazionalismo. Tuttavia, il male peggiore di tutti -dice Lenin- è quello per cui “il soffocamento della coscienza da parte della spontaneità avviene in modo spontaneo, cioè senza lotta dichiarata fra due concezioni diametralmente opposte”, ma attraverso una “lotta occulta”, invisibile, difficilissima da combattere. Vi sono degli intellettuali, infatti, che, in piena coscienza, cercano di far passare alle masse, in un modo che dia l’impressione della naturalezza, l’esigenza di conservare inalterato il sistema. Questa tattica porta gli individui a credere che il prevalere dell’inconscio sulla coscienza delle cose, sia un fatto normale, inevitabile, e non un fatto opinabile, su cui si può e si deve discutere. Lasciare che l’inconscio predomini significa affidarsi alla spontaneità degli eventi, alla casualità del vivere quotidiano, non avere un progetto di vita su di sé, credere ciecamente nel destino o nel potere di un “duce”, ovvero lasciarsi dominare dai rapporti di forza. In realtà è la discussione ad essere inevitabile: potrà essere poca o tanta, in rapporto alla coscienza che abbiamo dei nostri problemi, ma è impossibile che non ci sia. Una vita affidata alla spontaneità delle cose può far contento qualcuno, non la maggioranza delle persone o comunque non per un periodo illimitato. Finché queste persone istintive sono ignoranti e sottomesse, non vi sarà dibattito democratico, ma appena inizia ad aumentare la consapevolezza e la cultura, grazie alle quali possiamo capire gli inganni, i meccanismi dello sfruttamento, la protesta s’impone da sé, anche di fronte alla reazione più dura del sistema. “Se certi elementi spontanei dello sviluppo [sociale] sono accessibili in generale alla coscienza umana -dice Lenin-, l’errata valutazione di essi equivarrà a una sottovalutazione dell’elemento cosciente. E se sono inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne possiamo parlare”. Dunque, ciò che condiziona negativamente non è tanto l’inconscio, quanto piuttosto il suo prevalere (specie quello teorizzato dagli intellettuali) sulla coscienza. Ecco perchè la spontaneità delle masse esige da parte degli intellettuali progressisti un alto grado di coscienza politica.
CENTRALISMO E DEMOCRAZIA
Nella storiografia marxista spesso si notano dei giudizi positivi circa il fatto che lo sviluppo degli Stati borghesi implicò la fine delle autonomie locali e regionali, in quanto -si afferma- senza la centralizzazione dei poteri difficilmente la borghesia avrebbe potuto avere la meglio su feudatari e clero. Tuttavia, la stessa storiografia, subito dopo aver costatato il successo della centralizzazione politica, afferma che proprio essa creò nuovi problemi, nuove contraddizioni antagonistiche, che finirono col danneggiare soprattutto gli interessi dei ceti non proprietari. Questo modo di vedere le cose oggi può essere considerato superato, poiché una qualunque forma di centralizzazione dei poteri (anche la più progressista sul piano ideologico), senza una forte democratizzazione a livello locale e regionale, porta sempre a favorire gli interessi di una ristretta minoranza (anche se le intenzioni originarie andavano nella direzione opposta). Lenin si accorse subito di questo pericolo, ma non ebbe il tempo per scongiurarlo (il suo testamento politico, purtroppo, non venne neppure preso in considerazione). La centralizzazione non può servire a giustificare il superamento più agevole del passato regime, se in tal modo si rischia di compromettere, anche nel breve periodo, l’interesse della maggioranza dei cittadini. Il socialismo sovietico fu favorevole (anche con Lenin) al centralismo, al fine di combattere meglio l’aristocrazia feudo-clericale e la borghesia, e pensò che nel lungo periodo -dopo la vittoria sulla controrivoluzione- le masse avrebbe beneficiato di una ricaduta positiva delle conquiste rivoluzionarie. Ma tale ricaduta, in realtà, non si è mai verificata, se non in termini molto limitati (relativamente alla situazione socioeconomica, poiché in quella delle libertà civili e politiche la ricaduta non ci fu per nulla). Oggi bisogna affermare che il centralismo può essere condiviso solo a condizione che si affermi, nel contempo, un’ampia democrazia di base e che, in ogni caso, il centralismo ha senso solo se è funzionale alla democrazia e non questa a quello. Nessun centralismo può vincere l’antagonismo sociale e politico senza l’appoggio delle masse.
DALLE TESI D’APRILE A STATO E RIVOLUZIONE
Nel 1917 Lenin ritorna in Russia dall’esilio svizzero, godendo dell’appoggio del governo tedesco, che ha astutamente capito che nel partito bolscevico (favorevole alla pace) può sperare una breve uscita della Russia dallo scacchiere bellico. Rientrato in Russia, Lenin trova un partito bolscevico dalle idee confuse e decide di stabilizzarlo sfruttando la propria abilità di teorico marxista. Ed è per questo che egli pubblica le celeberrime Tesi d’aprile . In esse si affrontano molti dei problemi che travagliavano la Russia: in primis, come effettuare una rivoluzione in un paese tanto arretrato quale era la Russia. I Menscevichi, in sintonia con il pensiero marxiano, intendevano fare la rivoluzione solo dopo il pieno sviluppo del capitalismo, poiché ritenevano assurdo fare la rivoluzione ancor prima che si fosse giunti al capitalismo. Lenin la pensava diversamente: ci voleva una rivoluzione immediata, senza passare per il capitalismo, il che sembra assurdo poiché non ha senso fare la rivoluzione socialista in un paese dove non c’è il capitalismo. Ma Lenin sosteneva l’esigenza della rivoluzione proprio per questo: in un paese che di più arretrati non ce n’erano, non aveva senso alcuno che a governare fosse la borghesia. Ne venne fuori una situazione paradossale, in disaccordo con le previsioni di Marx: la piena industrializzazione russa doveva essere gestita non dalla borghesia (come era avvenuto in tutti i paesi europei), bensì dal proletariato. Lenin ci tiene a precisare che il capitalismo non è un fatto di un singolo paese, bensì è un processo di portata mondiale, sicchè non ci si deve aspettare la rivoluzione da paesi capitalisticamente progrediti (quali la Germania o l’Inghilterra), ma dal più arretrato e feudale di tutti (la Russia appunto), poiché essa è ‘ l’anello debole ‘ della catena del capitalismo mondiale. La rivoluzione sarebbe dunque divampata in Russia (il paese più arretrato) per poi coinvolgere l’intero mondo, trovando il suo epicentro in paesi progrediti quali la Germania o l’Inghilterra: non è dunque corretto parlare di tante e singole rivoluzioni, bensì vi è una sola grande rivoluzione, destinata ad abbattere l’unico capitalismo che infesta il mondo. E del resto, notava Lenin, se la rivoluzione avesse attecchito solo in Russia, una volta terminata la guerra, le grandi potenze reazionarie europee si sarebbero coalizzate per estinguerla brutalmente. Questo ci permette di capire come il Lenin delle Tesi d’ aprile avesse in mente un’idea che verrà poi meglio esplicitata da Trotsky : l’idea di ‘rivoluzione permanente’, che altro non era che la convinzione che la rivoluzione dovesse svilupparsi in tutto il mondo per annientare in esso il capitalismo. Una delle grandi novità proposte da Lenin nelle Tesi d’aprile fu la parola d’ordine ‘ il potere ai soviet ‘: aveva dichiarato aperta ostilità al governo provvisorio di Kerenskij, in nome della lotta intransigente contro la guerra, definita come imperialista indipendentemente dall’assetto politico del paese e aveva espresso la volontà di trasformare il partito di forza minoritaria in forza di maggioranza, guida di una nuova rivoluzione, quella appunto destinata a conseguire il potere ai soviet. Secondo Lenin il partito bolscevico doveva ‘ spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, gli errori della loro tattica […], sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai consigli dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dai loro errori sulla base dell’esperienza ‘. Una parola d’ordine che comportava il massimo di democrazia diretta e di autogoverno per le masse popolari veniva così sostenuta attraverso l’esaltazione del ruolo del partito, posto implicitamente al di sopra delle masse stesse, alle quali doveva insegnare a vincere. L’iniziativa spontanea delle masse, che aveva portato ai soviet (Lenin riconobbe sempre il carattere spontaneo delle nuove organizzazioni), doveva assoggettarsi alla direzione del partito: le masse potevano sbagliare, anzi il loro cammino era disseminato di errori, mentre il partito era infallibile. La concezione di Lenin sulla rivoluzione era nettamente diversa da quella di tutte le altre forze socialiste, poiché infatti Lenin, come accennavamo, voleva arrivare immediatamente al regime socialista, senza passare per il capitalismo. In una delle prime Tesi d’aprile egli dice che ‘ l’originalità dell’attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di coscienza del proletariato alla seconda fase che deve dare il potere al proletariato e agli strati più poveri dei contadini ‘. Lenin voleva arrivare al socialismo bruciando le tappe del capitalismo per diversi motivi: uno di questi consisteva nella convinzione che la guerra avesse creato una crisi profonda degli equilibri politici e dei rapporti di forza nella società in tutta Europa. La Russia sarebbe stato il punto di partenza della rivoluzione che avrebbe presto (secondo Lenin) raggiunto tutto il pianeta proprio perché essa era l’anello debole della catena imperialista, ovvero era il paese in cui il rovesciamento del potere esistente era più facile e rapido. Questa tesi era già stata sostenuta con grande precisione da Lenin, nel marzo 1917, dall’esilio svizzero: ‘ la Russia è un paese contadino, uno dei paesi più arretrati d’Europa. Il socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente. Ma il carattere contadino del paese […] può dare alla rivoluzione democratica borghese in Russia un’ampiezza formidabile e far sì che la nostra rivoluzione sia il prologo della rivoluzione socialista mondiale, sia un passo verso di essa ‘. Giocava poi a favore della Russia un altro fattore, notava Lenin: la rivoluzione in Russia non avrebbe assunto il carattere di rivoluzione proletaria (come nel resto d’Europa), non sarebbe cioè stata una ribellione di una sola classe sociale (gli operai), ma della stragrande maggioranza della società (operai e contadini), all’interno della quale il partito bolscevico doveva avere un ruolo di guida. Considerando il nuovo stato come il potere della stragrande maggioranza del popolo, contrapposto ad un’esigua minoranza (sia pure la minoranza degli ex privilegiati), Lenin vedeva nel parlamentarismo un inutile orpello, reso oltre tutto antiquato dalle trasformazioni politiche in tutto il mondo. La formula ‘ dittatura democratica degli operai e dei contadini ‘ riassumeva bene il concetto: si sarebbe dovuto trattare di una dittatura, poiché non avrebbe lasciato alla minoranza borghese e aristocratica il diritto di opporsi, ma democratica poiché avrebbe comunque rappresentato la stragrande maggioranza della popolazione. Di questa dittatura democratica i soviet sarebbero stati la migliore espressione ed è per questo che nelle Tesi d’aprile campeggia il motto ‘il potere ai soviet’. Oltre che nelle Tesi, Lenin tratta dello stato anche in un altro suo scritto, intitolato Stato e Rivoluzione (composto nell’estate del 1917) , in cui sostiene che la rivoluzione deve mettere lo stato in mano al proletariato, ovvero al partito del proletariato poiché il Bolscevismo è un partito di quadri. Lo stato non viene abolito, bensì resta ed è strumento della dittatura del proletariato: qualsiasi regime è sempre, per definizione, la dittatura di una classe sulle altre, anche quando si dà una maschera democratica (il regime pre-rivoluzionario è per esempio dominio della borghesia). Si tratta dunque non di instaurare una dittatura, ma di passare da una dittatura ad un’altra: da quella borghese a quella proletaria. Ed è una dittatura ‘democratica’ perché a favore della stragrande maggioranza contro pochi contrari. Dopo un po’ di tempo di tale dittatura, però, lo stato porterà all’eliminazione definitiva delle vecchie classi sociali (borghesia in primis), sicchè verrà meno il conflitto di classe (non essendoci più classi antagoniste) e anche la dittatura, in quanto ad esistere sarà solo più il proletariato e la dittatura era sui non-proletari. A questo punto lo stato perderà ogni significato: se prima serviva come strumento di dittatura, ora sarà del tutto inutile. Esso dunque si estingue (l’intera macchina statale finisce ‘ nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all’ascia di bronzo ’, diceva Engels) e si passa all’anarchia. Tuttavia nella storia della Russia rivoluzionaria non si riuscirà mai a sorpassare la fase di dittatura del proletariato e lo stato non verrà mai eliminato, come già temeva Bakunin quando accusava Marx sostenendo che dalla dittatura non si sarebbe mai usciti. Quando Lenin dice che bisogna dare tutto il potere ai soviet, intende soprattutto dire che è opportuno uscire, il più presto possibile, da quella strana ambiguità di potere per cui il potere effettivo è in mano al governo democratico-liberale dei Cadetti ma senza il consenso dei soviet non può fare nulla. La soluzione la si otterrà quando i Bolscevichi attueranno la Presa del Palazzo d’Inverno. E’ curioso il fatto che Lenin si accorga di come, con la guerra mondiale, lo stato, a livello europeo ma anche mondiale, abbia cessato di essere un puro e semplice strumento del dominio di classe per diventare la massima potenza economica: sul piano dei rapporti delle classi, restava e anzi si esasperava il capitalismo, ma sul piano economico era stata avviata una statalizzazione della produzione che anticipava il socialismo o, addirittura, cominciava ad attuarlo. ‘ La metà materiale, economica ‘ del socialismo era già realizzata; si trattava di realizzare l’altra metà, cioè quella politica. ‘ Il socialismo non è altro che il capitalismo monopolistico di stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico. Non vi è via di mezzo. La guerra imperialista è la vigilia della rivoluzione socialista. E non solo perché la guerra con i suoi orrori genera l’insurrezione proletaria, ma perché il capitalismo monopolistico di Stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo ‘. Lenin avvertiva che con la guerra lo stato si era sempre più militarizzato anche nella sua politica interna (reprimendo ovunque i movimenti socialisti) e andava sempre più maturando la convinzione che alla fine lo stato andasse eliminato, tant’è che fu più volte accusato duramente di anarchismo (soprattutto da Kamenev).
IL MARXISMO E LA SUA APPLICAZIONE PRATICA IN LENIN
Lenin era convinto nel 1917 della possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia, nonostante tale arretratezza. Da tempo Lenin aveva criticato i populisti russi, fautori di un comunismo agrario anticapitalistico, opponendo ad essi la necessità di passare attraverso la fase capitalistica. Ciò non significava che la transizione al socialismo dovesse avvenire attraverso le riforme e la lotta parlamentare: anche per Lenin l’ unica via era data dalla rivoluzione. Ma per condurre ad essa era necessaria la formazione di un partito di rivoluzionari professionisti, inteso come avanguardia della classe operaia. Già nel 1902, in Che fare? , Lenin aveva elaborato la sua concezione del partito, come gruppo fortemente cementato al suo interno dall’ unità ideologica, disciplinato e centralizzato nelle sue decisioni ed efficiente sul piano operativo. Con queste tesi egli si opponeva a tutte le forme di anarchismo e spontaneismo, che affidavano l’ iniziativa rivoluzionaria a moti spontanei e improvvisi delle masse, non preparati, organizzati e guidati dal partito, o indulgevano ad atti di terrorismo puramente individuali, svincolati dai movimenti di massa. Su questi temi Lenin tornerà ancora nel 1920 con lo scritto Estremismo, malattia infantile del comunismo . Questi erano i problemi preliminari alla presa del potere, ma alla vigilia della vittoria della rivoluzione nel 1917 egli affrontava in Stato e rivoluzione la questione dei caratteri che avrebbe assunto il periodo di transizione al comunismo, con il passaggio del potere nelle mani del proletariato. Lenin riteneva necessaria una fase transitoria di dittatura del proletariato, ossia un momento coercitivo caratterizzato dall’ uso della forza per preparare il passaggio al regno della libertà. Infatti il controllo operaio sulla produzione e la partecipazione dei lavoratori alla direzione dello Stato, attraverso la formazione dei Soviet (consigli) degli operai e dei contadini, avrebbero avviato il processo, che avrebbe condotto all’ estinzione dello Stato stesso. Per la formazione dei membri del partito, in quanto guida consapevole della classe operaia nei suoi momenti di lotta e di esercizio del potere, è essenziale una componente teorica, fornita dal marxismo. Lenin individua i due elementi fondamentali della teoria marxiana nel materialismo e nella dialettica e torna a collegarli, mentre per ragioni opposte i marxisti di stampo positivistico ed evoluzionistico e i marxisti revisionati li avevano scissi o eliminati. Per combattere la diffusione dell’empiriocriticismo tra i marxisti russi egli pubblica Materialismo e empiriocriticismo (1909). Qui egli sostiene che la materia , agendo sui nostri sensi, produce le sensazioni: questo significa che essa e, quindi, le cose in generale esistono indipendentemente dalle nostre sensazioni e dalla nostra coscienza. In questo senso la scienza conferma l’ esistenza della terra prima che esistesse l’ umanità in grado di conoscerla. Non si può dunque affermare che esista una di9fferenza di principio tra i fenomeni, ossia le cose come appaiono a noi, e le cose in sè, come pretendevano certe forme di kantismo. L’ unica differenza rilevante è quella intercorrente fra quel che è conosciuto e ciò che non lo è ancora. Esiste dunque una verità oggettiva assoluta, a cui ci si avvicina progressivamente: dire che la conoscenza è relativa equivale soltanto a dire che essa non è ancora in possesso della verità totale, non che non esiste una verità unica, ma esistono soltanto verità diverse in relazione a ciascun individuo. L’ errore dei positivisti, dei neokantiani e degli empiristi consiste, secondo Lenin, nel considerare i dati della conoscenza come qualcosa di già costituito e invariabile. Si tratta invece di analizzare questi dati all’ interno del processo dinamico che conduce alla conoscenza. In questo senso la conoscenza è il “riflesso” della realtà, ma ciò non significa che essa sia un rispecchiamento puramente passivo di una realtà intesa come qualcosa di fisso e immutabile. La realtà e il processo della conoscenza devono, invece, essere interpretati alla luce della dialettica. Su questo punto Lenin insisterà anche nei Quaderni filosofici , pubblicati postumi nel 1933, frutto anche della sua rilettura delle opere di Hegel. Egli giunge alla conclusione che ” non si può comprendere perfettamente il Capitale se non si è compresa e studiata attentamente tutta la logica di Hegel. Di conseguenza, mezzo secolo dopo nessun marxista ha compreso Marx “. Hegel e Marx avevano insegnato che la dialettica non è un movimento o un’ evoluzione puramente meccanica, ma è sviluppo che ha il suo motore nella lotta degli opposti. In questo senso la dialettica offriva secondo Lenin, la chiave di lettura della storia come lotta di classi, alla quale sarebbe seguito il momento sintetico della società senza classi. In Stato e Rivoluzione riprende a sviluppare le idee di Marx sulla dittatura del proletariato e sulla trasformazione rivoluzionaria dello Stato nell’autogoverno dei produttori (che egli intendeva attuare attraverso il movimento dei Soviet).
LA RELIGIONE
Nel primo articolo pubblicato da Lenin, su Novaia Gizn, riguardo all’interpretazione marxista della religione, intitolato Socialismo e religione (1905), sono presenti, in nuce, non solo tutte le tesi fondamentali del marxismo, ma anche tutti gli argomenti sui quali Lenin, in seguito, tornerà per approfondirli ulteriormente. L’articolo si può dividere in cinque punti: 1) “La religione è una delle forme dell’oppressione spirituale” che nella società borghese è realizzata in virtù dell’oppressione materiale dei capitalisti e proprietari fondiari su operai e contadini. Lenin, come si può notare, si riferisce qui a una religione storicamente individuabile, quella sotto il regime capitalistico, ma i suoi giudizi, in realtà, presumono di avere un valore anche in retrospettiva. 2) Come si realizza questa oppressione è presto detto: a) “La religione predica l’umiltà e la rassegnazione nella vita terrena a coloro che trascorrono tutta l’esistenza nel lavoro e nella miseria, consolandoli con la speranza di una ricompensa celeste”. A Lenin qui non interessa dimostrare che la religione non ha sempre avuto una funzione del genere: interessa solo far capire che la funzione “reazionaria” è sempre stata prevalente nella storia della religione. b) “Invece, a coloro che vivono del lavoro altrui la religione insegna la carità in questo mondo, offrendo così una facile giustificazione alla loro esistenza di sfruttatori”. Un giudizio del genere, ovviamente, può essere applicato anche alla religione di ogni regime antagonistico. 3) Il proletariato, cosciente di questo, deve anzitutto rivendicare una precisa libertà politica: “La religione dev’essere dichiarata un affare privato” (della coscienza). Di qui la separazione completa della chiesa dallo Stato. “Ognuno dev’essere libero di professare qualsiasi religione o di non riconoscerne alcuna, cioè di essere ateo”. “E’ inammissibile tollerare una sola differenza nei diritti dei cittadini che sia motivata da credenze religiose”. Qui Lenin, nel tentativo di garantire una vera giustizia a tutti i cittadini, atei o credenti che fossero, commette l’errore di voler azzerare giuridicamente le differenze quando, nei fatti concreti, esse sussistono e da esse non si può assolutamente prescindere. Lenin cioè pensò di dover ritenere la giustezza della propria consapevolezza ateistica così evidente da poterla far valere alla consapevolezza religiosa del credente. E non si accorse che una rigorosa uguaglianza sul terreno giuridico non può che causare delle discriminazioni su quello sociale, poiché qui si ha a che fare con due atteggiamenti verso la religione del tutto opposti, che non possono essere resi equivalenti per decreto, soprattutto in considerazione del fatto che la storia della religione ha radici molto più profonde nella coscienza sociale dei cittadini. Negli atti ufficiali non va riportata l’eventuale confessione religiosa cui si appartiene -prosegue Lenin. Nessuna sovvenzione statale va data alle chiese. Questo va inteso nel senso che le chiese non possono godere di alcun privilegio. Tuttavia qui Lenin non aggiunge che le chiese possono continuare a svolgere i loro servizi grazie al sostegno materiale dei loro fedeli, i quali sono anche cittadini che pagano le tasse, per cui nei loro confronti una qualunque discriminazione sociale, dovuta a motivi ideologici, non è legittima. Questo significa che non si può pretendere che la religione resti un fenomeno privato della coscienza, senza alcuna manifestazione pubblica o sociale. 4) Questa privatezza della religione è valida solo di fronte allo Stato, non di fronte al partito. “La nostra propaganda comprende necessariamente anche quella dell’ateismo”, in forma materialistica e scientifica, non volgare e anticlericale. La quale comunque non è sufficiente, di per sé, a vincere i pregiudizi religiosi, in quanto è necessaria la trasformazione socialista dei rapporti produttivi. Lenin qui raccomanda la diffusione delle opere dei filosofi materialisti francesi (Diderot, Holbach, Helvetius ecc.) che in Russia non erano ancora state tradotte. In pratica Lenin voleva un partito non solo politico (capace di combattere la religione sul terreno giuridico, mediante la separazione di Stato e chiesa), ma anche ideologico (capace di combattere la religione sul terreno culturale, mediante la propaganda scientifica dell’ateismo). Lenin però doveva prevedere che un partito del genere, una volta giunto al potere, avrebbe avuto molte più difficoltà a comportarsi in maniera democratica nei confronti della religione. In nome infatti di una superiorità ideologica il partito avrebbe potuto impedire alla religione di manifestarsi non solo sul terreno politico (cosa che qui solo i cittadini possono decidere), ma anche su quello culturale, il che avrebbe comportato un abuso di tipo giacobino. 5) Il fatto che l’oppressione economica sia più importante di quella spirituale obbliga il partito a “non dichiarare l’ateismo nel suo programma”. Ciò significa che il partito accetta la militanza di proletari che conservano “residui di vecchi pregiudizi”, La professione di ateismo non è quindi una condizione per diventare comunisti; e tuttavia il militante deve sapere che l’ateismo è parte integrante della filosofia marxista. Lenin distingue chiaramente, senza però separarle, le questioni ideologiche da quelle politiche. E’ chiaro però che, stando le cose in questi termini, difficilmente un credente avrebbe potuto militare in un partito del genere. Avrebbe potuto farlo solo se motivato da cause oggettive di ordine sociale, ma a rivoluzione compiuta, se fosse rimasto credente, avrebbe inevitabilmente lasciato il partito. Un partito politico non può esprimersi così nettamente nei confronti dell’atteggiamento da tenere verso la religione: gli è sufficiente appoggiare il libero dibattito culturale sul problema, lasciando che sia il tempo, oltre che la coscienza dei cittadini, a decidere quale atteggiamento sia migliore. L’altro articolo metodologico è quello intitolato: L’atteggiamento del partito operaio verso la religione (1909). La prima parte non aggiunge nulla a quanto già detto nell’articolo precedente. Lenin precisa e conferma: 1) che il materialismo dialettico, sul piano filosofico, si riallaccia alle “tradizioni storiche del materialismo del XVIII sec. in Francia e di Feuerbach (prima metà del sec. XIX) in Germania”, portandole alle loro ultime conseguenze; 2) che “tutte le religioni e chiese moderne, tutte le organizzazioni religiose d’ogni tipo sono sempre considerate dal marxismo quali organi della reazione borghese”; 3) che l’ateismo -come vuole Engels- non va inserito nel programma del partito (cfr. invece i blanquisti e Dühring); 4) che il programma di Erfurt (1891) della socialdemocrazia tedesca non va interpretato nel senso che la religione va considerata come un affare privato per i marxisti (cioè di fronte anche al partito). Per Lenin l’indifferenza nei confronti della religione equivaleva a una posizione opportunistica, che avrebbe sicuramente avuto un riflesso sul terreno politico. Questo perché Lenin tendeva a subordinare la politica all’ideologia, anche se si rendeva conto che non si poteva in nome dell’ideologia rischiare di non conseguire determinati obiettivi politici. Infatti, la novità più rilevante di questo secondo articolo sta in alcune precisazioni fatte riguardo all’atteggiamento del partito verso la religione. 1) Lenin cominciò a considerare un grave errore credere che “l’apparente ‘moderazione’ del marxismo verso la religione si spieghi con le cosiddette considerazioni ‘tattiche’, come il desiderio di ‘non spaventare’, ecc.”. La realtà è che se il marxismo rifiuta d’inserire l’ateismo nel programma politico del partito non è per ragioni di tipo strumentale, ma perché è convinto: a) che la propaganda atea deve restare “subordinata” allo sviluppo della lotta di classe (subordinata non vuol dire “esclusa”); b) che la presenza della religione nelle masse va spiegata “materialisticamente”, cioè in rapporto ai problemi di natura economico-sociale, problemi che devono essere affrontati e risolti anzitutto in modo politico. La religione va superata non tanto o non solo in una contrapposizione frontale coll’ateismo (ciò che, in sostanza, si ridurrebbe a un’astratta, illuministica, predicazione ideologica), quanto piuttosto in collegamento con la lotta di classe che elimina le radici sociali della religione (“la forza cieca del capitale”). Di volta in volta, quindi, va deciso quale rapporto tattico tenere con la religione. Mentre infatti sul piano ideologico il contrasto è irriducibile, sul piano politico invece sono possibili alleanze fra credenti e atei sulla base di piattaforme programmatiche che nulla hanno a che vedere né con l’ateismo né con la religione. Tuttavia, Lenin non è ancora arrivato a formulare l’idea che la religione va rispettata anche nel caso in cui, dopo aver affrontato i problemi socioeconomici attraverso la lotta di classe (e l’aiuto dei credenti), la coscienza dei credenti coinvolti in tale lotta voglia restare religiosa. Un partito operaio così caratterizzato ideologicamente avrebbe mai permesso ai credenti di poter acquisire delle posizioni di potere nei propri ranghi? 2) Un’altra questione da considerare, per Lenin, è appunto questa: visto che nel programma del partito non è richiesta un’esplicita professione di ateismo, fino a che punto è legittimo accettare la militanza di un credente? La risposta a questa domanda viene posta da Lenin a un duplice livello: a) “la contraddizione fra lo spirito o i principi del nostro programma e i convincimenti religiosi del credente può restare una contraddizione puramente personale, che riguarda esclusivamente questo credente; e il partito non può sottoporre i suoi iscritti a un esame sull’assenza di contrasti tra le loro opinioni e il programma del partito”. Ciò in pratica significa che se un credente accetta la linea politica del partito, deve poi preoccuparsi da solo di risolvere le sue incoerenze sul piano ideologico. Dal partito avrà l’assicurazione che non sarà discriminato per la sua diversa ideologia. b) E tuttavia -aggiunge Lenin- “noi ammettiamo all’interno del partito la libertà di opinione, ma entro i limiti precisi fissati dalla libertà di associazione: non siamo tenuti ad andare d’accordo con i predicatori attivi di concezioni respinte dalla maggioranza del partito”. Il partito quindi garantisce al credente la libertà di restare credente, ma a condizione che il credente rinunci alla propaganda religiosa all’interno del partito, o comunque a una propaganda ostile al socialismo (cfr. Gorki e Lunaciarskij). Si tratta, come si può notare, di una soluzione di compromesso: il partito operaio non può rinunciare alla propria ideologia, però farà in modo di non far pesare questa ideologia sulla coscienza del credente, a condizione naturalmente che il credente faccia altrettanto. Lenin comunque mostra d’essersi reso conto con questo articolo che le questioni politiche possono avere un’importanza equivalente a quelle ideologiche, per cui non si può in nome dell’ideologia sacrificare gli interessi della politica. Naturalmente questo modo di impostare il problema deve fare molto affidamento sull’atteggiamento soggettivo di tutti i militanti del partito. 3) L’ultima questione che Lenin affronta in questo articolo è quella della privatezza della religione. Lo fa non tanto per ribadire la differenza, ormai acquisita, fra la posizione dello Stato e quella del partito, quanto per sottolineare che il principio della privatezza della religione ha subìto in Occidente un’interpretazione di tipo opportunistico. L’ossessiva indifferenza dei comunisti occidentali per la questione religiosa la si può spiegare: a) col fatto che la lotta contro la religione è stata un compito in gran parte assolto dalla democrazia borghese nell’epoca delle sue rivoluzioni contro il feudalesimo e il medioevo. In Russia invece questo compito è stato affrontato direttamente dalla classe operaia; b) col fatto che la lotta borghese contro la religione ha preso in Occidente la forma dell’anarchismo anticlericale (blanquisti, Dühring, ecc.), ovvero della contrapposizione frontale, inducendo così i comunisti (che allora si chiamavano socialdemocratici) ad assumere posizioni più moderate; c) col fatto che i governi borghesi, esaurita la loro spinta propulsiva progressista, si sono coscientemente serviti anche dell’anticlericalismo pur di poter distrarre le masse dal socialismo, cioè hanno fatto dell’anticlericalismo un terreno comune di lotta fra operai e padroni. Questo in Russia non era mai accaduto. In pratica, Lenin contesta la mancanza di coerenza ideologica del marxismo occidentale, e quindi la sua subordinazione culturale, nelle questioni religiose, alla scienza borghese, infine lascia intravedere il rischio di assumere posizioni strumentali nei confronti della religione. L’indifferenza infatti è “ambiguità” non “chiarezza”, per cui il marxismo occidentale potrebbe arrivare all’opportunismo in materia di atteggiamento verso la religione appunto per avere dalla sua parte, per un obiettivo politico, il maggior numero possibile di credenti. Nel Progetto di programma del PC bolscevico (1919) Lenin precisa che nella propaganda scientifica antireligiosa “bisogna evitare con cura di offendere i sentimenti dei credenti, il che condurrebbe soltanto al rafforzamento del fanatismo religioso”. Fanatismo che non nuoce solo alla politica di classe del partito (il quale cerca di far convergere in un medesimo programma politico forze sociali diverse e ugualmente ostili al capitale), ma nuoce anche ai rapporti etico-sociali di queste stesse classi. Lenin in pratica s’era accorto che, nel rapporto dei militanti comunisti coi credenti all’interno o all’esterno del partito, non esistevano dei criteri oggettivi che salvaguardassero il rispetto delle opinioni religiose. Ora pone quello etico della tutela della dignità umana, che non può certo essere violata per motivi di opinione. Lenin tuttavia, cercando di stabilire una ragione primaria di questa tutela, fa leva sul fatto che la violazione dei sentimenti religiosi comporterebbe un danno politico nei confronti dello stesso ateismo, e cioè il rafforzamento del fanatismo religioso. Non vi sono ragioni di carattere ontologico. Cioè Lenin non avrebbe mai accettato l’idea che una religione può essere vissuta praticamente meglio dell’ateismo, se il credente manifesta una coscienza umanistica superiore a quella dell’ateo. Lenin guardava le cose da un punto di vista prevalentemente politico. Un altro documento molto importante è la seconda lettera spedita a Gorki nel 1913 da Cracovia. Essa contiene alcune affermazioni che ancor meglio chiariscono l’atteggiamento politico che deve tenere il militante iscritto al partito. Lenin rimproverò Gorki per aver espresso considerazioni “piccolo-borghesi” nell’analisi del rapporto fra socialismo e religione. Lo scrittore russo, infatti, aveva lasciato intendere, in uno dei suoi articoli, che il socialismo era stato capace di depurare o di purificare l’”idea di Dio” da tutte quelle sovrastrutture ideologiche del clericalismo cristiano. Lenin lo ammonì scrivendo: “Questa vostra buona intenzione rimane vostro patrimonio personale, un ‘pio desiderio’ soggettivo. Una volta che l’avete scritto, è bell’e passato fra le masse, e il suo significato viene determinato non dalla vostra buona intenzione, ma dal rapporto tra le forze sociali, dal rapporto oggettivo tra le classi. In virtù di questo rapporto ne consegue (malgrado la vostra intenzione e indipendentemente dalla vostra coscienza), che voi avete imbellettato, inzuccherato l’idea dei clericali”. In pratica cosa significano queste parole? 1) Che il socialismo è un fenomeno integralmente laico, cioè assolutamente umanistico, e che quindi, come tale, esso non ha nulla da spartire con la religione (il “socialismo cristiano” -aveva precisato Lenin poche righe più sopra- è “la peggior specie di ‘socialismo’ e la sua peggiore deformazione”); 2) che qualsiasi opinione religiosa sul socialismo, cioè sull’utilità laica del socialismo nei confronti della “purificazione” della religione, deve necessariamente restare privata, altrimenti (cioè divenendo pubblica e trasformandosi quindi in giudizio politico) essa farà immediatamente il gioco dei clericali. Lenin vedeva le cose solo in maniera conflittuale e, per questa ragione, non voleva concedere al “nemico” (in questo caso i “clericali”) alcuna opportunità. I “clericali”, per Lenin, in pratica, coincidevano con tutti coloro che avevano delle opinioni religiose, o che comunque le usavano in funzione antisocialista. Lenin fa capire a Gorki che il giudizio politico del socialismo sul fenomeno religioso è esplicitamente e irreversibilmente negativo, senza soluzione di continuità. Nei tempi passati -dice Lenin- “la lotta della democrazia e del proletariato assumeva la forma di lotta di un’idea religiosa contro un’altra. Ma anche questo tempo è passato da un pezzo. Oggi, tanto in Europa che in Russia, ogni difesa o giustificazione dell’idea di Dio, persino la più raffinata, la meglio intenzionata, è una giustificazione della reazione”. Una giustificazione per l’appunto “oggettiva” della reazione, a prescindere cioè dalle intenzioni soggettive di chi si fa carico di tali apologie. Lenin giustamente non faceva alcuna differenza tra idea “nuova” e “vecchia” di dio: su “dio” tutte le idee, per lui, erano “vecchie”, incredibilmente superate. Tuttavia, Lenin non s’è mai posto il problema se possa esistere un diverso modo, più laico ed umanistico, d’interpretare la figura del “Cristo” così com’essa appare nei vangeli canonici. In sostanza “l’idea di Dio -aggiunge Lenin- non ha mai legato l’individuo alla società, ma, al contrario, essa ha sempre legato le classi oppresse con la fede nella divinità degli oppressori”. Ciò, in altri termini, vuol dire che qualsiasi giustificazione pubblica dell’idea di dio fa sempre gli interessi dell’oppressione padronale. Se c’è dunque la possibilità che un credente lotti per l’emancipazione degli oppressi, ciò è dovuto non tanto alla sua religione, quanto alle cause oggettive e concrete dello sfruttamento economico. E’ su questo che i marxisti devono organizzare il consenso col mondo dei credenti. Le religioni tradizionali, in specie il cristianesimo (e soprattutto il cristianesimo politico, quale s’è venuto configurando da Costantino in poi), di fatto e di diritto, hanno sempre legittimato -a volte contro le loro stesse intenzioni- l’oppressione materiale dei popoli; sicché, la dove esiste l’ideologia religiosa, ovvero una religione “ideologizzata”, esiste pure l’oppressione materiale ed economica. Nel senso che la religione è un indice, un sintomo, di un’oppressione esistente sul piano socioeconomico. A questa tesi di Lenin si può forse aggiungere che là dove manca l’oppressione materiale, manca anche la pretesa della religione a volersi porre in modo politico nella società. Il che però non significa che alla mancanza di oppressione materiale segua o debba necessariamente seguire la fine della religione. La religione avrà una fine quando saranno le coscienze degli uomini a deciderlo. Nel Discorso pronunciato al III Congresso dell’Unione della gioventù comunista di Russia (1920) Lenin afferma che i comunisti, pur essendo generalmente atei, non sono amorali. “Per noi la moralità dipende dagli interessi della lotta di classe del proletariato”. Non quindi una morale astratta, dogmatica, da applicare alle diverse situazioni, ma piuttosto una morale che emerga dalle diverse situazioni in cui il proletariato è soggetto protagonista. Naturalmente un discorso del genere dà per scontato che i motivi della lotta politica del proletariato siano giusti e che lo stesso proletariato, combattendo per degli ideali giusti, si comporti in maniera adeguata. Difficilmente Lenin avrebbe accettato l’idea che pur perseguendo ideali politicamente giusti, il proletariato può commettere delle azioni moralmente riprovevoli. Nell’ultimo scritto di Lenin sulla questione religiosa, e cioè Sul significato del materialismo militante (1922), Lenin mette in guardia i comunisti dall’illusione di poter edificare il socialismo senza l’aiuto dei credenti, riconosce chiaramente che esistono dei materialisti anche nel campo dei “non comunisti” e ammette la totale inutilità della mera propaganda ateistica ai fini del superamento dell’ideologia religiosa: senza un rapporto sociale di attiva collaborazione coi contadini e gli artigiani per un miglioramento delle loro condizioni di vita, i marxisti non potranno mai sperare di vincere le idee del passato. Lenin arrivò a mitigare il duro approccio ideologico nei confronti della religione solo dopo che il partito bolscevico conquistò il potere politico. Egli infatti si rese subito conto che “conquistare il potere in un’epoca rivoluzionaria è molto più facile che sapersene servire correttamente”.
LA COOPERAZIONE
Lenin cominciò a studiare il problema della cooperazione nel 1918. Fino alla svolta della NEP, egli ha sempre considerato “utopico” il socialismo cooperativistico. Il limite dell’”utopia” risiedeva -a suo giudizio- nella pretesa di poter realizzare la transizione dal capitalismo al socialismo senza “lotta politica della classe operaia per l’abbattimento del dominio degli sfruttatori” (così nell’art. Sulla cooperazione, scritto per la “Pravda” nel 1923). Lenin non ha mai accettato l’idea di poter utilizzare questa forma di socialismo per spingere le contraddizioni del capitalismo verso una soluzione socialista (che implicasse ovviamente anche la rivoluzione politica). Le energie impiegate per sviluppare la cooperazione in ambito capitalistico sarebbero state inevitabilmente tolte -secondo Lenin- alla causa rivoluzionaria vera e propria. La cooperazione poteva diventare utilissima dopo la rivoluzione, non prima. In caso contrario essa avrebbe finito coll’imborghesirsi, diventando una forma “socializzata” di produzione o di consumo capitalistici. Negli anni del “comunismo di guerra” Lenin era prevalentemente interessato alle cooperative dei consumatori, che svolgevano la funzione di assicurare la distribuzione dei prodotti alimentari. Peraltro, in quegli anni, il termine “cooperazione” designava, il più delle volte, il sistema territoriale di razionamento (relativamente alla cooperazione massiccia e forzata tipica del “comunismo di guerra”). Mentre la vera cooperazione risiede -come noto- sul principio della partecipazione volontaria. Lenin, tuttavia, fu sempre contrario all’idea di una cooperazione di produzione forzata nelle campagne. Lo attesta la risoluzione redatta per l’VIII congresso del partito, relativa all’atteggiamento da tenere verso i contadini medi: “Nell’incoraggiare le cooperative d’ogni tipo, così come le comuni agricole dei contadini medi, i rappresentanti del potere sovietico non devono esercitare alcuna costrizione durante la loro creazione. Soltanto le associazioni dovute alla libera iniziativa dei contadini, hanno un qualche valore”. Negli anni immediatamente seguenti alla rivoluzione, la cooperazione non veniva identificata col socialismo. Questo era anche il frutto di un condizionamento ideologico. Molti bolscevichi infatti credevano che il comunismo si dovesse costruire velocemente, rifiutando le forme sociali ereditate dal passato. In pratica essi identificavano la statizzazione dei mezzi produttivi e della terra con la loro diretta, immediata, socializzazione. Fu però la NEP a mettere in discussione questo schematismo. Lenin rivalutò la cooperazione quando s’accorse del fallimento del “comunismo di guerra”, cioè quando costatò che il socialismo non poteva essere imposto in alcun modo, neanche avvalendosi delle situazioni più critiche e drammatiche. Nel suo articolo Sulla cooperazione, Lenin affermò che “ogni nostro punto di vista sul socialismo è radicalmente mutato”. La cosa -a suo stesso giudizio- dipendeva dal fatto che si era spostato il “centro di gravità” dalla lotta politica per la conquista del potere, alla costruzione pacifica, culturale, del socialismo. Le cooperative, che nella fase politica non erano state considerate utili dal partito, ora, nella fase culturale, diventavano uno strumento fondamentale per la costruzione del socialismo. Per cui -diceva Lenin- “nelle nostre condizioni, la cooperazione coincide interamente col socialismo”: il socialismo cioè non è che “un regime di cooperatori colti”, ovvero la sua realizzazione in URSS doveva per forza passare per la tappa della cooperazione. Questa tesi non venne capita a sufficienza dai leaders del partito. Nella cooperazione -diceva Lenin- “abbiamo trovato il modo di combinare l’interesse commerciale privato, da una parte, con il suo controllo statale, dall’altra, cioè il modo di subordinare l’interesse privato a quello generale”. Già nello scritto del 1918, Sull’infantilismo di sinistra e lo spirito piccolo-borghese, Lenin aveva sottolineato che l’economia reale del periodo di transizione doveva necessariamente contenere elementi di socialismo e di capitalismo di stato. Questi elementi potevano anche avere degli aspetti in “comune”, in quanto il socialismo non è che “l’assimilazione e l’applicazione, mediante l’avanguardia del proletariato al potere, di ciò che è stato creato dai trusts”. Anzi, secondo Lenin, certi processi manageriali e organizzativi della produzione capitalistica avrebbero potuto dimostrare veramente il loro potenziale soltanto sotto il socialismo. In questo stesso scritto, polemizzando coi comunisti di “sinistra”, Lenin era arrivato alla formidabile intuizione – rimasta però quasi suo patrimonio esclusivo- che nessuna “nazionalizzazione” avrebbe potuto portare di per sé alla “socializzazione” dei mezzi produttivi. Le forme collettive di realizzazione della proprietà presuppongono necessariamente una diversità d’interessi e metodi adeguati per la loro organizzazione, ovvero un sistema sociale ampiamente democratico e pluralistico. Le forze sociali devono cooperare tra loro. Di questo Lenin era perfettamente consapevole. Non a caso nei suoi ultimi interventi (soprattutto nel “testamento politico”) egli mise l’accento sulle questioni della democrazia. Di fatto Lenin rivalutò la democrazia politica dopo averla vista realizzare sul piano economico, dopo essersi accorto che il centralismo del partito-stato rischiava, concedendo troppo all’autoritarismo, di minare le basi della NEP. Anzi, la cooperazione, per l’ultimo Lenin, doveva essere una forma di positivo superamento della stessa NEP, poiché questa era stata concepita soltanto come una “concessione al contadino in quanto mercante, al principio del commercio privato”. Attraverso la cooperazione -diceva Lenin- si poteva realizzare “quel grado di coordinazione dell’interesse commerciale privato con la verifica e il controllo da parte dello Stato, quel grado di subordinazione dell’interesse privato all’interesse generale”. Ciò, in sostanza, significava che mentre con la NEP il partito era stato costretto a fare delle “concessioni” al contadino privato, con la cooperazione invece si sarebbe potuti arrivare “automaticamente” al socialismo. Dov’era il limite di questo ragionamento, che pur in quel periodo superava di gran lunga quelli dei suoi compagni di partito? Nel fatto che si considerava la cooperazione un modo per realizzare al meglio il socialismo di stato e non un modo per superarlo. Per Lenin e per gli altri dirigenti di partito, non era lo Stato a doversi porre al servizio della cooperazione ma il contrario. La cooperazione cioè veniva considerata come un mezzo non come un fine: il fine era lo Stato socialista. L’interesse “generale” per Lenin poteva essere soltanto quello deciso dallo Stato. L’interesse generale della collettività locale era considerato alla stregua di un interesse “particolare”, che andava appunto mediato dalla cooperazione per poter diventare “generale”. La cooperazione, per Lenin, non era ancora, e giustamente, “la vera costruzione della società socialista”, poiché questa presuppone la fine della legge del valore, del denaro, del mercato, ecc., mentre la cooperazione continua ad avvalersi di queste cose. Sennonché, il rapporto Stato/cooperazione -nell’ottica di Lenin, doveva avvenire unicamente dall’alto al basso, per ritornare poi in alto. Lo Stato finanziava ciò che poteva incrementare i suoi poteri e solo il partito-stato avrebbe potuto stabilire quando la costruzione del socialismo sarebbe stata compiuta. Nella seconda parte dell’art. Sulla cooperazione, Lenin specifica che esistevano in URSS diverse forme d’imprese produttive: 1) quelle capitalistiche private (sotto controllo statale e senza proprietà terriera), 2) quelle di tipo socialista conseguente (dove tutto è statalizzato), 3) quelle cooperativistiche (che erano collettive e non private come le prime, ma socialiste come le seconde, perché terra e mezzi produttivi erano statali). Per Lenin dunque le cooperative erano tanto più socialiste quanto più assomigliavano alle aziende statali. Il carattere del “socialismo” era dato anzitutto dal monopolio statale della terra e dei mezzi produttivi, nonché dalla gestione collettiva dell’economia. Lo Stato non lasciava alla società il compito di decidere quale fisionomia dare al futuro socialismo. Non solo, ma come lo Stato andava considerato superiore alla società civile, così la classe operaia andava considerata superiore a quella contadina, poiché i partiti operai rivoluzionari avevano conquistato il potere, mentre quelli tradizionalmente contadini non vi erano riusciti. Era dunque il partito-stato che, in nome del proletariato industriale, deteneva il monopolio dei mezzi produttivi, mediante il quale esso avrebbe consolidato l’alleanza operaio-contadina. In questa visione delle cose non c’è mai stato un rapporto paritetico tra operai e contadini. La superiorità politico-organizzativa dimostrata dal proletariato industriale nel corso della rivoluzione (la quale pur ottenne vasti appoggi dal mondo contadino) rischiava, in ogni momento, d’essere ipostatizzata nel periodo post-rivoluzionario. Probabilmente la scoperta più sensazionale che fece Lenin all’inizio degli anni ‘20 (testimoniata non solo dall’art. Sulla cooperazione, ma anche da quello contro il menscevico N. Sukhanov, Sulla nostra rivoluzione), è l’importanza fondamentale della “cultura”, una volta compiuta la rivoluzione politica. Contro Sukhanov, Lenin difende la legittimità dell’Ottobre, dicendo che non si può aspettare che le masse abbiano un’elevata cultura prima di decidersi per la rivoluzione. Le rivoluzioni, infatti, scoppiano quando ve n’è la necessità, con o senza cultura di massa. Peraltro, afferma con acume Lenin: 1) non si può stabilire a priori il grado esatto di cultura, necessario a giustificare una rivoluzione (esso peraltro varia da nazione e nazione), e 2) è certamente indice di cultura volersi liberare con decisione degli sfruttatori, permettendo così a tutti di accedere alla cultura e al benessere. In sostanza, Lenin sosteneva che né Sukhanov né alcun altro aveva il diritto di contestare la legittimità dell’Ottobre, facendo leva sul basso livello culturale dei rivoluzionari russi. La legittimità dell’Ottobre stava unicamente nel fatto che la rivoluzione fu un movimento di vaste masse popolari e non un colpo di stato di pochi estremisti. Che poi i bolscevichi abbiano dato più peso alla politica che alla cultura, ciò andava considerato -diceva Lenin- come una mera contingenza storica, non come una legge del marxismo. Lenin era disposto ad accettare delle contestazioni sul piano del merito, non su quello della legittimità. In effetti, nel tentativo di dare un risvolto democratico al processo post-rivoluzionario, egli riconosceva che il partito aveva commesso molti errori dovuti all’ingenuità, all’infantilismo di sinistra, alla fretta del “tutto e subito”. D’altra parte se l’URSS stava diventando totalitaria, ciò non dipendeva solo da cause interne, ma anche dall’ostilità dell’Occidente capitalistico, che cercò immediatamente di rovesciare il nuovo potere in modo economico e militare. Lo sviluppo privilegiato dell’industria pesante fu determinato anche dalla paura di dover soccombere a un nuovo attacco dell’imperialismo. Lenin si rendeva perfettamente conto che il socialismo avrebbe potuto sopravvivere, sul piano economico, solo a tre condizioni: 1) sostenere l’azienda agricola individuale-familiare, 2) sviluppare la cooperazione a tutti i livelli, 3) risparmiare le risorse per sviluppare la grande industria, parallelamente a quella leggera (al fine di poter offrire delle merci ai contadini in cambio del grano). Sempre relativamente al tema della cultura, Lenin era dell’avviso che per formare e sviluppare la cooperazione occorreva istruire i contadini circa i suoi vantaggi, creando un “commerciante intelligente e colto” (alla maniera europea, non asiatica). “Nelle nostre condizioni” -diceva Lenin- il sistema del socialismo è quello dei “cooperatori colti”. La cultura era l’unico mezzo a disposizione, poiché la cooperazione aveva senso solo in quanto fenomeno volontario. Dato il basso livello di cultura del suo Paese, Lenin prevedeva di poter realizzare gli obiettivi nell’arco di “uno o due decenni, se tutto andava per il meglio”. In realtà, egli sapeva che sarebbe occorsa un’intera epoca storica, però aveva fiducia che il socialismo avrebbe potuto accelerare i tempi. Lenin non considerava anomalo il fatto che in Russia “il rivolgimento politico e sociale avesse preceduto quello culturale”. Anzi, forse con eccessiva sicurezza, sosteneva che il contrario era “teoria da pedanti”, in quanto con tutti i suoi rivolgimenti “culturali”, l’Europa occidentale, di fatto, non era mai giunta a porre le premesse politiche per l’edificazione del socialismo. Su questo era impossibile dargli torto. Lenin concentrò tutta la sua attenzione e tutte le sue energie verso un unico obiettivo: portare al potere un partito e una classe rivoluzionari. La scienza ch’egli doveva necessariamente privilegiare era quella della politica. Solo dopo la rivoluzione si poteva pensare al “pacifico lavoro organizzativo culturale”. In questo senso il gramscismo può validamente rappresentare una variante significativa del leninismo, poiché esso ha la pretesa di partire proprio dall’esperienza socioculturale per rovesciare politicamente il sistema borghese. L’importante, naturalmente, è che a questo obiettivo ci si arrivi, altrimenti la ricerca delle mediazioni e dei compromessi rischierà di vanificare la qualità dell’opposizione. Lenin, in fondo, non ha mai avuto torto nel ritenere impossibile costruire il socialismo senza conquista politica del potere da parte delle classi oppresse. Bisogna dunque riprendere le sue idee economiche sulla cooperazione e politiche sulla democrazia, ma a un livello superiore, tenendo conto degli sviluppi storici. Infatti, anche se per molti aspetti tragica, la storia non può essere trascorsa invano, come se nulla fosse. L’aggancio al passato non può mai avvenire sic et simpliciter. Ad es. l’idea che le cooperative diventano “socialiste” solo perché edificate su un terreno nazionalizzato, usando mezzi produttivi statali, è decisamente superata. D’altro canto Lenin aveva già superato l’idea che le cooperative potevano essere utilizzate dal punto di vista meramente tattico, ai fini della costruzione del socialismo. A causa del fatto che nella sua concezione politica del “centralismo democratico”, la democrazia si trovava spesso sacrificata al centralismo, Lenin non arrivò a comprendere adeguatamente l’idea che doveva essere lo Stato socialista a porsi al servizio della cooperazione socializzata e non il contrario. Per Lenin doveva piuttosto essere lo Stato, che, guidato dal partito politico, avrebbe dovuto gestire dall’alto il processo di socializzazione progressiva della produzione e della distribuzione. Esso avrebbe cominciato a estinguersi soltanto quando tutto sarebbe stato socializzato per iniziativa del vertice. Questa tesi in sé non sarebbe stata del tutto sbagliata, se Lenin avesse accettato l’idea che il modo di socializzare la società doveva essere un compito da svolgersi liberamente, lasciando cioè libera la società di capire i vantaggi del socialismo. Senza questa fondamentale libertà (ovviamente possibile quando la stragrande maggioranza dei cittadini rivendica la fine della proprietà privata dei mezzi produttivi), è destino che, nella dialettica tra centralismo e democrazia, il centralismo, in ultima istanza, abbia sempre la meglio, proprio perché non emerge mai con nettezza la convinzione che il centralismo ha senso solo in quanto è funzione della democrazia. Lenin di fatto pensava che il centralismo fosse di per sé capace di democrazia o che la democrazia fosse un’esperienza che il centralismo del partito-Stato avrebbe dovuto consegnare alla società. Quand’egli s’accorgeva che il centralismo tendeva a prevaricare, perdendo il contatto con le masse, abusando dei mezzi coercitivi ed amministrativi, l’accortezza di promuovere subito le esigenze della democrazia gli impediva di peggiorare la situazione. Ma questa era una sua caratteristica personale, non una strategia costante del partito. Ecco perché morto Lenin, il centralismo prese subito il sopravvento. Anche Stalin e Trotski tendevano al centralismo, ma quanto più forti erano le contrapposizioni della democrazia tanto più tendevano ad accentuare le pretese autoritarie. Lenin aveva posto le basi della futura democrazia socialista, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Si poteva andare avanti anche senza di lui: lo dimostra il fatto che è nata la perestrojka anche nell’ambito del Pcus e che diversi tentativi in direzione della democrazia economica e quindi politica sono stati fatti in URSS prima del 1985. Il passaggio tuttavia dal socialismo centralizzato a quello democratico non è cosa che si possa compiere facilmente: lo hanno dimostrato i fatti dell’agosto 1991 accaduti in URSS. Oggi più nessun politico democratico mette in dubbio il principio che vede il partito al servizio del popolo e non viceversa. Il partito “guida” il popolo finché il popolo non è in grado di “autoguidarsi”, e tanto prima il popolo vi riuscirà quanto più saprà tenere sotto controllo il potere delegato e rappresentativo del partito. Il centralismo dev’essere al servizio della democrazia in qualunque momento, anche in quelli più critici, che minacciano la riuscita di una rivoluzione, la realtà del socialismo, quelli che per questa ragione esigono l’unità delle forze politiche e sociali. Il centralismo, senza la democrazia, è da subito una forma di autoritarismo, e nulla può giustificare la sospensione della democrazia per poter salvare la stessa democrazia. Una democrazia può essere salvata solo da se stessa, e il centralismo che pretende di farlo al suo posto, eo ipso la nega. Il primato politico spetta sempre e comunque alla democrazia. Il valore del centralismo è organizzativo. Peraltro le funzioni del centralismo devono diminuire (in quantità e qualità) in maniera inversamente proporzionale alla distanza degli organi centrali dagli ambiti delle realtà locali, da gestirsi con la pienezza dei poteri e non sulla base d’un mandato ricevuto dall’alto. Quanto più il “centralismo” è lontano dalle masse tanto meno potere deve disporre, semplicemente perché sarebbe molto difficile controllarlo. Centralismo, partito, Stato e istituzioni devono tutti essere al servizio della società, nel comune destino di estinguersi progressivamente in virtù del socialismo democratico. Oggi, nell’URSS della perestrojka, si sta affermando, in sede economica, che le cooperative non devono essere in funzione dello Stato, ma deve essere il contrario; che proprio lo sviluppo della cooperazione (su basi volontarie) può comportare l’estinzione graduale dello Stato e la piena autonomia locale; che una cooperativa oggi è “socialista” se applica metodi socialisti e persegue finalità socialiste, volontariamente e consapevolmente, non tanto se la terra e i mezzi produttivi sono di proprietà statale. La statizzazione dev’essere in funzione della socializzazione, altrimenti il socialismo diventa autoritario e burocratico. Non solo, ma la perestrojka è stata anche in grado di scoprire che un piano dall’alto non può mai essere realizzato e se lo è (quando le cifre non sono truccate), i suoi indici sono sempre inferiori a quelli che si sarebbero potuti realizzare con una serie di piani locali. Il piano infatti ha senso solo a livello locale. Esso può essere impostato solo dalle persone che conoscono adeguatamente un determinato territorio e le sue risorse, nonché le potenzialità intrinseche a una determinata attività produttiva. Esso può essere rispettato solo dalle stesse persone che lo hanno impostato e che sanno in anticipo di quali vantaggi potranno beneficiare. Gli abusi non possono essere limitati ope legis. La possibilità dell’abuso (speculazione, furto, aggiotaggio, ecc.) non può mai essere evitata a priori. Allorquando l’abuso si manifesta, i cittadini, se resi responsabili a livello locale, sapranno presto individuarlo e superarlo.
RIFLESSIONI FAMOSE
Revisionisti : Sul piano politico il revisionismo ha tentato di rivedere il fondamento reale del marxismo, la dottrina della lotta di classe. La libertà politica, la democrazia, il suffragio universale, ci è stato detto, distruggono le basi stesse della lotta di classe e confutano la vecchia tesi del Manifesto comunista secondo cui gli operai non hanno patria. In regime di democrazia, dove domina la “volontà della maggioranza”, non si può più considerare lo Stato come un organo del dominio di classe e non ci si può più sottrarre all’alleanza con la borghesia progressista, propugnatrice di riforme sociali, contro i reazionari. E’ incontestabile che queste obiezioni dei revisionisti danno vita a un sistema abbastanza irganico di idee, cioè; al sistema già noto da un pezzo delle concezioni liberali borghesi. I liberali hanno sempre sostenuto che il parlamentarismo borghese distrugge le classi e la divisione in classi, perché tutti i cittadini senza distinzione hanno diritto al voto, hanno diritto di partecipare agli affari dello Stato. Ma tutta la storia dell’Europa nella seconda metà del XIX secolo, tutta la storia della rivoluzione russa all’inizio del secolo XX dimostrano chiaramente quanto siano assurde queste concezioni. Con la libertà del capitalismo “democratico” le differenze economiche non si attenuano, ma si accentuano e si inaspriscano. Il parlamentarismo non elimina ma mette a nudo l’essenza delle repubbliche borghesi più democratiche come organi dell’oppressione di classe. (Lenin, Marxismo e revisionismo, marzo-aprile 1908)
Cretinismo parlamentare : Soltanto dei mascalzoni o dei semplicioni possono credere che il proletariato debba prima conquistare la maggioranza alle elezioni effettuate SOTTO IL GIOGO DELLA BORGHESIA, sotto IL GIOGO DELLA SCHIAVITU’ SALARIATA, e poi conquistare il potere. E’il colmo della stupidità o dell’ipocrisia; ciò vuol dire sostituire alla lotta di classe e alla rivoluzione le elezioni fatte sotto il vecchio regime, sotto il vecchio potere. Il proletariato conduce la sua lotta di classe senza aspettare le elezioni per incominciare uno sciopero, benché per il completo successo dello sciopero occorra la simpatia della maggioranza dei lavoratori (e di conseguenza anche della maggioranza della popolazione). Il proletariato conduce la sua lotta di classe abbattendo la borghesia, senza aspettare nessuna votazione preliminare (organizzata dalla borghesia e che si svolga sotto la sua oppressione), e nel farlo sa benissimo che per il successo della sua rivoluzione, per l’abbattimento della borghesia E’ ASSOLUTAMENTE NECESSARIA la simpatia della maggioranza dei lavoratori (e di conseguenza della maggioranza della popolazione). I cretini parlamentari e i moderni Louis Blanc “esigono” assolutamente delle elezioni, e assolutamente organizzate dalla borghesia, per determinare la simpatia della maggioranza dei lavoratori. Ma questo è; un punto di vista di pedanti, di cadaveri o di abili ingannatori. La realtà viva, la storia delle vere rivoluzioni mostrano che assai spesso “la simpatia della maggioranza dei lavoratori” non può essere dimostrata da nessuna votazione (per non parlare delle elezioni organizzate dagli sfruttatori, con l'”eguaglianza” tra sfruttatore e sfruttato!). Assai spesso “la simpatia della maggioranza dei lavoratori”è dimostrata NON da votazioni, ma dallo sviluppo di un partito, o dall’aumento del numero dei sui membri nei soviet, o dal successo di uno sciopero che, per un qualche motivo, abbia acquistato grandissima importanza, o dal successo della guerra civile, ecc. ecc. (…) La rivoluzione proletaria è impossibile senza la simpatia e l’appoggio dell’immensa maggioranza dei lavoratori per la loro avanguardia, il proletariato. Ma questa simpatia, questo appoggio non si ottengono di colpo, non sono le elezioni a deciderli, ma SI CONQUISTANO con una lunga, difficile, dura lotta di classe. La lotta di classe del proletariato PER la simpatia, PER l’appoggio della maggioranza dei lavoratori non si esaurisce con la conquista del potere politico da parte del proletariato. DOPO la conquista del potere questa lotta CONTINUA, ma in ALTRE forme. (Lenin, Saluto ai comunisti italiani, francesi e tedeschi, 10 ottobre 1919)
La Borsa : La potenza del capitale è tutto, la Borsa è tutto, mentre il parlamento, le elezioni, sono un gioco da marionette, di pupazzi. (Lenin, Sullo Stato., 11 luglio 1919)
Concezione del mondo : Tutta l’esperienza della storia moderna e, in particolare, la lotta rivoluzionaria del proletariato di tutti i paesi, sviluppatasi per più di cinquant’anni, dopo la pubblicazione del MANIFESTO COMUNISTA, dimostrano inconfutabilmente che la concezione marxista del mondo è; la sola espressione giusta degli interessi, delle opinioni e della cultura del proletariato rivoluzionario. (Lenin, Sulla cultura proletaria, 8 ottobre 1920)
Dottrina marxista-leninista La dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta. Essa è completa e armonica, e dà agli uomini una concezione integrale del mondo, che non può conciliarsi con alcuna superstizione, con nessuna reazione, con nessuna difesa dell’oppressione borghese. Il marxismo è il successore legittimo di tutto ciò che l’umanità ha creato di meglio durante il secolo XIX: la filosofia tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese. (Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo, marzo 1913)
Concezione proletaria : Tutta l’esperienza della storia moderna e, in particolare, la lotta rivoluzionaria del proletariato di tutti i paesi, sviluppatasi per più di cinquant’anni, dopo la pubblicazione del MANIFESTO COMUNISTA, dimostrano inconfutabilmente che la concezione marxista del mondo è la sola espressione giusta degli interessi, delle opinioni e della cultura del proletariato rivoluzionario. (Lenin, Sulla cultura proletaria, 8 ottobre 1920)
Gioventù : Il compito della Gioventù Comunista consiste nell’indirizzare la propria attività in modo che, studiando, organizzandosi, raggruppandosi, lottando, questa gioventù educhi se stessa e tutti coloro che vedono in essa una guida così da formare dei comunisti.
GIACOBINISMO LENINIANO, SOVIET E ACCUSE DI BLANQUISMO
L’accusa di essere una tendenza “giacobina” e “blanquista” è quella che più di frequente si muove alla Corrente Leninista Internazionale e al suo Manifesto. E’ sintomatico che essa ci sia lanciata da organizzazioni che, pur accusandosi reciprocamente delle peggiori nefandezze teoriche e pratiche, fanno a gara nel considerarsi “trotskyste ortodosse”. Caratteristica comune di tutti i trotskysti più o meno ortodossi è quella di avere introiettato il peccato originale di Trotsky (peccato di cui egli si vergognerà per tutta la vita): quello di aver inizialmente combattuto il bolscevismo come “deviazione giacobina”. E’ tipico dei trotskysti dimenticare quanto Trotsky stesso ebbe modo di dire più volte negli anni ’20 e ’30, e che cioè sul Partito, cioè sulla questione del “giacobinismo”, Lenin, e non lui o Rosa Luxemburg , ebbe ragione sin dall’inizio. Tutta la titanica lotta per costruire la Quarta Internazionale (lotta che egli considerò il compito più importante della sua vita), Trotsky la condusse infatti sotto la bandiera del leninismo più intransigente: “Non si possono esprimere gli interessi di classe se non sotto forma di programma; non si può difendere il programma se non costituendo un Partito. La classe in sé considerata non è che oggetto di sfruttamento. Il ruolo specifico del proletariato comincia nel momento in cui una classe sociale in sé diviene una classe politica per sé. Ciò può avvenire solo tramite il Partito. Il Partito è l’organo storico mediante il quale la classe acquista coscienza di sé. Dire “la classe è al di sopra del partito”, significa affermare: la classe allo stato bruto è al di sopra della classe che sta per acquistare coscienza di sé. Non solo questo è falso, ma è reazionario”. ( L.D.Trotsky. “E ora?”. Gennaio 1932) Molti trotskysti non hanno fatto mistero che, dalla scissione del POSDR al 1917, sarebbero stati con Trotsky contro Lenin, dimostrando così di non avere capito nulla né del leninismo né del trotskysmo. E’ un fatto che la gran parte delle correnti trotskyste, sulla questione del Partito, dell’insurrezione e della dittatura proletaria, cioè del “giacobinismo”, sono molto più vicine alle posizioni della Luxemburg che a quelle di Lenin. Esse attaccano il giacobinismo ma in realtà il loro vero bersaglio è la concezione leninista. E’ degno di nota che la critica al giacobinismo ha sempre tentato di mascherare la sua natura opportunista e socialdemocratica camuffandosi coi panni dell’estremismo parolaio e con il culto della spontaneità operaia. I trotskysti hanno anche un altro difetto, di non aver mai afferrato il contenuto reale della parola d’ordine leninista del 1905 che va sotto il nome di “dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini”, dimenticando quanto Trotsky stesso ebbe modo di precisare nel 1940. L. Trotsky. “Tre concezioni della rivoluzione”. 1940 Per loro Lenin voleva tenere, durante la rivoluzione democratico-borghese, il proletariato russo a rimorchio della borghesia. Ma questa era la posizione dei menscevichi (per i quali, siccome la rivoluzione era borghese, occorreva spingere al governo il Partito liberale) non dei bolscevichi! Già nel giugno 1905 Lenin affermava: “I giacobini della socialdemocrazia contemporanea, i bolscevichi, vogliono elevare, con le loro parole d’ordine, la piccola borghesia rivoluzionaria e repubblicana, e specialmente i contadini, al livello del democratismo conseguente del proletariato, senza che questo perda la sua fisionomia di classe. Vogliono che il popolo, cioè il proletariato e i contadini, regoli i conti con lo zarismo e l’aristocrazia “alla plebea”, sterminando implacabilmente i nemici della libertà, reprimendo con la forza la loro resistenza, non facendo alcuna concessione al maledetto passato di schiavitù, di asiatismo, di oltraggio all’essere umano”. (V.I.Lenin. “Due tattiche della socialdemocrazia russa”. Giugno 1905) In altre parole Lenin non era affatto per una coalizione con la borghesia, per appoggiare la borghesia, ma per prendere a calci nel sedere la borghesia, riteneva, in polemica con i menscevichi, che “Alcuni mesi di dittatura rivoluzionaria del proletariato e dei contadini faranno molto di più che decenni di pacifica e abbrutente atmosfera di stagnazione politica”. (V.I. Lenin “La dittatura democratica rivoluzionaria”. Aprile 1905) Con estrema chiarezza affermava che la rivoluzione del 1905 non doveva essere un nuovo 1789, ma un 1793 (nel senso della dittatura giacobina dal giugno 1793 al 27 luglio 1794) o, per essere più precisi, un 1848, nel senso che “Il compito della socialdemocrazia deve essere spingere più in là possibile la rivoluzione borghese, senza dimenticare mai l’obbiettivo principale: l’organizzazione autonoma del proletariato”. (V.I.Lenin “Una rivoluzione del tipo 1789 o del tipo 1848?” . Marzo 1905) I sostenitori di una supremazia di Trotsky su Lenin, non solo mostrano una pericolosa sottovalutazione della questione del Partito;la cui costruzione è stato il principale merito strategico di Lenin su tutte le altre correnti di sinistra della II. Internazionaleas; essi giustificano la loro tesi con l’argomentazione (notoriamente di origine staliniana) secondo cui Lenin avrebbe fino all’ultimo respinto l’idea che il proletariato doveva prendere il potere durante la rivoluzione democratica. In realtà Lenin giunge alle conclusioni essenziali di Trotsky (rivoluzione permanente) molto prima dell’aprile del 1917: “Nessuno è in grado di predire fino a che punto saranno attuate in Russia trasformazioni realmente democratiche nell’epoca delle sue rivoluzioni borghesi, ma non v’è ombra di dubbio che solo la lotta rivoluzionaria del proletariato determinerà il grado e il successo delle trasformazioni. Tra le “riforme”
BENEDETTO CROCE
L’arte è visione o intuizione. L’artista produce un’immagine o fantasma: e colui che gusta l’arte volge l’occhio al punto che l’artista gli ha additato, guarda per lo spiraglio che colui gli ha aperto e riproduce in sé quell’immagine.
” Un sistema filosofico è una casa che, subito dopo costruita e adornata, ha bisogno di un lavorio, più o meno energico, ma assiduo di manutenzione, e che a un certo punto non giova più restaurare e puntellare, e bisogna gettare a terra e ricostruire dalle fondamenta. Ma con siffatta differenza capitale: che, nell’opera del pensiero, la casa perpetuamente nuova è sostenuta perpetuamente dall’antica, la quale, quasi per opera magica, perdura in essa. ” (“Breviario di estetica”)
INTRODUZIONE AL NEO-HEGELISMO ITALIANO
L’indirizzo di cui Croce e Gentile sono espressione ha preso originariamente l’insegna del neo-hegelismo: è cioè l’indirizzo corrispettivo in Italia agli analoghi indirizzi di ritorno a Hegel che, marginalmente però ad altre correnti di pensiero, fiorivano tra l’Otto e il Novecento anche in altri Paesi. Per quanto riguarda nondimeno in particolare i due pensatori italiani, è più vivo e più accentuato in essi, rispetto a tutti gli altri, l’intento di operare una revisione critica innovatrice dell’hegelismo. E, ad onor del vero, dei due è più propriamente hegeliano Gentile, per essersi formato direttamente alla scuola, rigida e metafisicizzante, di Spaventa. Nipote di Spaventa, invece, Croce si è formato alla scuola del de Sanctis (risalendo, attraverso il de Sanctis, a Vico) e del Labriola (risalendo, attraverso il Labriola, a Herbart e a Marx), cosicchè alla diretta conoscenza del pensiero hegeliano egli è giunto (per influenza del suo stesso amico Gentile) solo in una fase giù matura (nel 1905) del suo sviluppo intellettuale. Sia Croce sia Gentile hanno accolto del pensiero di Hegel il principio animatore: l’idea cioè dello Spirito come attività dialettica che si svolge nel ritmo di sempre rinascenti opposizioni. E’ il principio per il quale la realtà è attività pensante, è Soggetto che si oggettiva e si naturalizza per tornare in se stesso fatto più altamente personale e più consapevole. Diversamente da Hegel, tuttavia, essi prescindono del tutto, nella loro speculazione, dai problemi della natura, ritenendo pertinenti alla vita dello spirito solo i problemi propriamente umani. Ne consegue che non si è avuta in Italia la polemica che invece divampò e fu assai vivace nel mondo culturale tedesco tra scienziati assertori del metodo sperimentale e hegeliani propugnatori d’una razionalistica e aprioristica interpretazione della natura. In Italia, al contrario, l’indifferenza di Croce e di Gentile per i problemi della scienza ha solo concorso (in virtù del peso culturale dei due personaggi) ad approfondire il solco tra ricerca scientifica e investigazione filosofica, a rendere estranea quella a questa e, di conseguenza, questa a quella. Ne deriva dunque anche la crescente influenza ch’essi hanno esercitato nel campo letterario e nella vita politica del Paese: nel campo letterario hanno notevolmente innovato gli studi di estetica e di ricerca storica, giungendo per tale via a diffondere largamente tra le giovani generazioni del loro tempo il gusto e il modo della visione e della valutazione idealistica dei relativi problemi. Nella vita politica hanno esercitato un’influenza ancor maggiore e, soprattutto, ancor più differenziata: Croce s’è fatto espressione ideologica delle istanze liberali, Gentile è divenuto il filosofo e, al tempo stesso, il padre ideologico del fascismo.
LA VITA E I RAPPORTI CON GENTILE
La vita dei due filosofi si intreccia strettamente per una lunga serie dapprima di reciproci rapporti, successivamente di reciproci contrasti. Benedetto Croce, nato a Pescasseroli, in Abruzzo, il 25 febbraio 1866 da famiglia assai agiata e formatosi negli anni universitari a Roma presso il Labriola, si trasferì intorno all’86 a Napoli, dove visse da allora la sua lunga e operosa vita. Dalle iniziali ricerche di carattere erudito nel campo dell’arte e della storia egli passò ben presto all’indagine sulla natura stessa dei problemi di cui si era venuto occupando. Un primo tentativo di dare ad essi una sistemazione teoretica lo troviamo nel suo saggio giovanile ” La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte ” (1893): saggio nel quale, in polemica con la visione naturalistica dei positivisti, egli asserisce appunto che il conoscere storico dev’essere ricondotto sotto il concetto generale dell’arte, cosicchè gli eventi umani non sono, come i fenomeni fisici, soggetti a un principio meccanico di necessità, ma sono, come le figurazioni artistiche, espressione di una libera attività creatrice. Ciò che nondimeno resta indeterminato nel saggio è il concetto stesso di arte: ed è proprio su tale concetto che Croce, negli anni successivi, concentrò la propria attenzione. Frutto di tali sue meditazioni fu la pubblicazione, avvenuta nel 1902, dell’ ” Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale “. Da quest’opera, che è la prima grande opera crociana, egli trasse via via, come per sviluppo sempre maggiore di concetti già impliciti embrionalmente, le altre opere: la ” Logica come scienza del concetto puro ” (1909), la ” Filosofia della pratica, economica ed etica ” (1909), la ” Teoria e storia della storiografia ” (1917). Sono queste le opere che formano la tetralogia, in cui Croce ha dato trattazione organica di sistema al suo pensiero, alla sua Filosofia dello Spirito. Ma, congiuntamente ad esse, egli pubblicò negli stessi anni una serie di saggi (sul materialismo storico, su Hegel, su Vico, ecc), traendo di volta in volta in tali saggi le conclusioni del suo dialogo ideale coi filosofi con cui era venuto direttamente o indirettamente a contatto per l’influenza del De Sanctis, di Labriola e di Gentile. Proprio Gentile fu suo collaboratore per circa vent’anni nella rivista ” La critica “, da lui fondata nel 1903 e diretta ininterrottamente per più di quarant’anni. Con ” La critica ” egli si foggiò lo strumento della più larga penetrazione nella vita culturale dell’Italia, orientando le giovani generazioni per lungo tratto di tempo così come prima dopo l’avvento del fascismo. L’avvento del fascismo segna il progressivo distacco di Croce da Gentile, o, meglio, di Gentile da Croce: l’accentuato contrasto o atteggiamento critico di Gentile verso il pensiero di Croce e, più ancora, la diversa posizione da essi assunta nei confronti della dittatura fascista valsero a cambiare i loro rapporti di sincera amicizia in rapporti d’irriconciliabile inimicizia. Se, infatti, Gentile aderì pienamente al nuovo regime dittatoriale e soffocatore di ogni libertà e se ne fece anzi propugnatore, Croce, dopo un periodo d’incertezza e di cautissima adesione, si scostò da esso e decisamente gli si oppose, giocando contro il fascismo la carta di un liberalismo ormai tramontato definitivamente. E bisogna riconoscere che Croce fu l’unico oppositore del regime a non essere brutalmente massacrato (come invece accadde a Gobetti) o indegnamente incarcerato (come accadde a Gramsci): gli fu anzi sempre riconosciuta la sua carica di senatore, forse anche in virtù del fatto che la sua era un’opposizione meramente teorica e che si appellava ad un liberalismo ormai incompatibile con la nuova temperie culturale e con la situazione in cui l’Italia versava; tanto più che il fascismo ci teneva a dimostrarsi un regime “aperto”, pronto a dar voce agli oppositori. Liberale conservatore, Croce vide dapprima nel fascismo un’utile e, come s’illudeva, temporanea forza di contenimento del movimento socialista, il quale, dopo il celebre “biennio rosso” (1918-1920), pareva avanzasse quasi a travolgere anche in Italia come in Russia le dighe della struttura borghese della società. Ma, trasformatosi il nuovo regime in dittatura permanente col colpo di stato del 3 gennaio 1925, le istanze liberali prevalsero sempre più nel suo animo e lo indussero, senza comunque smettere l’aspra polemica contro il socialismo (per il quale da giovane aveva pure simpatizzato), ad avversare senza più esitazioni il totalitarismo fascista: si accorse che il fascismo, seppur idoneo per tenere a bada gli appetiti socialisti e per conservare la società così com’era, non era uno strumento di cui ci si poteva servire solo quando faceva comodo per poi rimetterlo nel cassetto; viceversa, il fascismo era una malattia passeggera dello Stato, quasi una sorta di deviazione nel corso assolutamente razionale della storia: si trattava dunque, una volta terminata la parentesi fascista, di ritornare allo Stato liberale vigente prima dell’avvento della “malattia” fascista. Il liberalismo di cui Croce si fece vessillifero fu, tuttavia, sempre di stampo conservatore, senza troppe aperture sul versante socialista: quando gli parlarono della possibilità di creare un liberal-socialismo, che coniugasse le istanze proprie del socialismo con quelle proprie della tradizione liberale (nella convinzione che la vera libertà è possibile solo in condizioni di uguaglianza sociale), Croce bollò questa iniziativa come ” ircocervo “, ovvero come fantasticheria inattuabile. Croce, poi, rispose al manifesto con cui Gentile aveva raccolto l’adesione al fascismo da parte di alcuni intellettuali fascisti (tra cui Pirandello) con un manifesto di vibrante protesta firmato da un mare magnum di intellettuali antifascisti (tra cui ricordiamo Antonio Banfi). In questa seconda fase della sua vita Croce venne pertanto gradatamente accentuando il suo interesse speculativo per il problema politico (che aveva fin da allora considerato con un certo distacco), per il problema di un più intimo nesso tra il pensiero e l’azione, per il problema della libertà (centrale in Hegel). Frutto di tali sue nuove meditzioni è la pubblicazione in questo periodo di una serie di scritti, di cui meritano di essere menzionati, per la grande risonanza che ebbero e per la larga efficacia educativa che esercitarono sui giovani di allora, la ” Storia d’Italia dal 1871 al 1915 ” (1928), la ” Storia d’Europa nel secolo XIX ” (1932), ” La storia come pensiero e come azione ” (1938). Sono gli scritti nei quali la nozione di libertà è, secondo la stessa espressione crociana, innalzata a ” religione della libertà ” e identificata con lo Spirito nel suo dispiegarsi. La definizione molto vaga (e pressochè mistica) del problema della libertà doveva rivelarsi nondimeno, per l’istanza morale da cui procedeva, strumento efficace di educazione antifascista, finchè il fascismo imperò nel Paese; e anche, caduto il fascismo, continuò a ispirare in qualche modo le nuove generazioni nella loro azione per la ricostruzione del Paese, ma impregnandosi via via di nuove e più concrete istanze, in virtù delle quali non pochi degli antichi discepoli di Croce finirono col prendere, un poco alla volta, altre vie. Croce sopravvisse all’avversato regime: con la caduta di esso, però, riprese con rinnovato vigore, nella mutata condizione culturale determinatasi nel Paese, la polemica contro il marxismo. Si spense nel 1952, circondato dalla generale stima per quel che il suo nome aveva significato, per circa cinquant’anni, nella vita culturale della penisola. Egli fu una delle menti più poliedriche e versatili che il Novecento ricordi.
IL PENSIERO
Croce è, secondo la sua stessa definizione, il ” filosofo dei distinti “: nella sua revisione della dialettica hegeliana, infatti, egli ha scoperto che l’errore precipuo di essa sta nel confondere insieme concetti puri e concetti empirici da un lato, momenti opposti e momenti distinti dall’altro lato. E in realtà altra cosa sono, egli dice, i concetti puri (o categorie filosofiche), che concernono le forme fondamentali dell’attività dello spirito; altra cosa sono i concetti empirici (o pseudoconcetti), che risultano da pure generalizzazioni e classificazioni, utili ai bisogni della pratica, ma destituite di ogni verità. Solo i concetti puri sono, nel senso hegeliano dell’espressione, universali concreti; solo per mezzo di essi è dato concepire la realtà spirituale (che è la sola realtà e la sola universalità) nella sua concretezza, nel suo concreto dispiegarsi o procedere secondo il movimento dialettico che le è proprio. Gli pseudoconcetti , invece, sono o universalità senza concretezza (come le astrazioni matematiche) o concretezza senza universalità (come le empiriche e sempre mutevoli classificazioni delle scienze naturali). Il vizio della filosofia hegeliana della natura, ed in parte anche di quella dello Spirito, risiede pertanto, secondo Croce, nell’aver voluto includere nel procedimento dialettico molti concetti empirici che, come determinazioni irrigidite e astratte, non sono per questo stesso motivo suscettibili di mediazione, di sintesi. Ma, per quel che riguarda i concetti puri, nell’ambito solo di ciascuno di essi, è valido il procedimento dialettico degli opposti, afferma Croce: il procedimento per il quale i termini dell’opposizione si risolvono nella sintesi, perdendo in essa ogni loro esistenza distinta. Nei loro reciproci rapporti, invece, i concetti puri non si risolvono l’uno nell’altro, ma restano sempre distinti l’uno dall’altro: vale per essi un diverso principio di unificazione filosofica. Ecco perché Croce sdoppia l’unica dialettica hegeliana in una dialettica degli opposti e in una dialettica dei distinti: l’errore di Hegel, infatti, consiste, stando a Croce, nell’aver esteso indebitamente la dialettica degli opposti ai distinti, cioè ai concetti puri o alle forme categoriali dello Spirito: “ Hegel non fece, fra teoria degli opposti e teoria dei distinti, la distinzione importantissima, che io mi sono sforzato di dilucidare. Egli concepì dialetticamente, al modo della dialettica degli opposti, il nesso dei gradi; e applicò a questo nesso la forma triadica, che è propria della sintesi degli opposti. Teoria dei distinti e teoria degli opposti diventarono per lui tutt’uno ” ( “ Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel ”, cap. IV). Il vero precursore della dialettica dei distinti è da Croce ravvisato, più che in Hegel, in Vico: secondo Croce, tra le forme dell’attività spirituale si svolge l’eterno processo, che Vico aveva chiamato “storia ideale eterna”; queste forme, infatti, sono eterne, ma si sviluppano e manifestano di volta in volta arricchite di nuovi contenuti. Pubblicato come volume autonomo nel 1906, il saggio “ Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel ” (tradotto presto anche in francese e in tedesco) è emblematico a partire dal titolo: esso simboleggia l’atteggiamento con cui Croce guarda ai filosofi del passato per trarne alimento al proprio pensiero e, in particolare, con cui si rapporta a Hegel. Questi, secondo il filosofo abruzzese, ha fatto oggetto del suo pensiero “ non solo la realtà immediata, ma la filosofia stessa, contribuendo per tal modo a elaborare una logica della filosofia ”. Contro ogni filosofia meramente individuale fondata su una conoscenza immediata, egli ha rivendicato la centralità del metodo della filosofia e della teoria di questo metodo. Nell’affrontare questo problema, Hegel ha individuato l’importanza della dialettica degli opposti, come motore del processo della realtà e del pensiero, ma ha commesso l’errore di estendere questa forma di dialettica anche al rapporto fra le forme dell’attività spirituale. Su questo punto, Croce non può più seguirlo, sicchè la coscienza moderna, a suo avviso, si troverebbe di fronte a Hegel come il poeta latino di fronte alla sua donna, quando affermava “nec tecum vivere possum, nec sine te”. E in realtà bello e brutto, vero e falso, utile e dannoso, bene e male sono realmente termini opposti tra loro: vale per essi il principio hegeliano secondo cui il termine positivo (il bello, ad esempio) non ha vita se non trionfando sul negativo (il brutto). Nell’ambito di ciascuna di queste coppie di opposti dunque ogni termine ha significato solo nell’altro e per l’altro (chi prende il vero senza il falso, il bene senza il male, fa del vero qualcosa di non pensato – perché pensiero è lotta contro il falso – e quindi qualcosa di non vero; del bene qualcosa di non voluto – perché volere il bene è negare il male – e quindi qualcosa di non buono): al di fuori della loro sintesi, che sola è reale, gli opposti non sono, in conclusione, che delle vuote astrazioni. Ma lo stesso non può dirsi di ciascuno dei termini positivi che si son sopra elencati (il bello, il vero, l’utile, il bene): nei loro rapporti, infatti, essi non si annullano l’uno nell’altro, ma si armonizzano l’un con l’altro. Sicchè il vero non sta al falso nello stesso rapporto in cui sta al buono, il bello non sta al brutto nello stesso rapporto in cui sta alla verità filosofica: bello e vero, vero e bene sono invece tra loro in un nesso di gradi, per il quale bello, vero e bene sono forme distinte e insieme unite. Questa unità-distinzione è il nesso, è la dialettica dei distinti o, meglio, la dottrina dei gradi dello Spirito. Per essa, lo Spirito si distingue in due gradi teoretici (mediante cui l’uomo vede, comprende le cose) e in due corrispondenti gradi pratici (mediante cui l’uomo muta, crea le cose). Le forme proprie dei due gradi teoretici sono quella, estetica, dell’intuizione o della visione-espressione dell’individuale e quella, logica, della concezione dell’universale. Le forme proprie dei due corrispondenti gradi pratici sono quella, economica, della volizione del particolare e quella, morale, della volizione dell’universale. Ne deriva che, come si è venuto chiarendo, le quattro forme fondamentali dello Spirito sono: quella estetica del bello, quella logica del vero, quella economica dell’utile, quella morale del bene. All’infuori di tali forme non vi sono altri concetti puri, non vi sono altri valori in cui o mediante cui si esplichi l’attività dello Spirito. Evidente è, nella loro determinazione, l’influenza che, attraverso Labriola, hanno esercitato su Croce la triade herbartiana, per un verso, dei tre supremi valori del vero, del bene e del bello e la concezione di Marx, per l’altro, del valore assoluto dell’attività economica: i quattro valori, fusi in unità di sistema, sono gli elementi costitutivi del pensiero crociano. Il rapporto tra queste quattro forme dello Spirito è tale che il passaggio, nell’attività teoretica, al grado superiore della concezione dell’universale può avvenire solo attraverso il grado inferiore dell’intuizione dell’individuale: nel senso che la logica, in quanto produttrice di concetti, implica l’estetica, mera produttrice di intuizioni (non può esservi concetto senza intuizione) e non viceversa (cosicchè può esservi intuizione senza concetto). E, in modo corrispettivo, il passaggio, nell’attività pratica, al grado superiore della volizione dell’universale può avvenire solamente attraverso il grado inferiore della volizione del particolare: nel senso appunto che anche per l’attività pratica vale il criterio che la morale implica l’economia (non può esservi azione morale senza la consapevolezza che l’ideale etico rappresenta il grado più alto di utilità), non viceversa (sicchè può esservi azione volta al perseguimento del mero vantaggio individuale, del tutto scevra di preoccupazione morale). E le due attività teoretica e pratica sono, infine, anch’esse legate l’una all’altra in modo tale che la prima è presupposto e condizione del dispiegarsi della seconda (l’agire è un agire secondo ragione, secondo conoscenza); e la seconda, a sua volta, è presupposto e condizione dell’ulteriore dispiegarsi della prima (per ciò che diventa materia di nuova intuizione, di nuova conoscenza). E’ così che, secondo Croce, il ciclo teoretico-pratico si rinnova eternamente ed eternamente si arricchisce, nell’incessante svolgersi e crescere su se stesso della realtà spirituale. Di conseguenza, per la circolarità della vita spirituale appena illustrata, le quattro sue forme s’implicano a vicenda: si affermano tutte insieme nella loro positività e nella solidarietà che le lega e le fa compresenti in ogni singolo momento della vita dello Spirito. In questo propriamente consiste il rapporto di unità-distinzione: rapporto per il quale le quattro forme categoriali sono distinte nell’unità dello Spirito o (il che è la stessa cosa) lo Spirito è uno nella distinzione delle sue forme. Ora, passando ad esaminare il modo di esplicarsi delle singole forme, la prima forma dello Spirito teoretico è l’ arte , la conoscenza intuitiva. L’arte è, cioè, visione-espressione di un’immagine contemplata per sé, senza che ci si chieda se essa sia corrispettiva o meno a una realtà oggettiva o che si tenti di determinare la natura della realtà di cui è espressione: essa è, perciò, solo conoscenza intuitiva, non conoscenza concettuale del contenuto della vita dello Spirito. E, oltre a non essere conoscenza concettuale, l’arte, a maggior ragione, in quanto forma teoretica, non è né atto utilitario, né atto morale: non è, cioè, né determinazione dell’utile, né in dipendenza di un fine morale. Ciò che conferisce unità e significato all’intuizione artistica è il sentimento: non il sentimento immediato, nella sua tumultuosa passionalità, bensì il sentimento mediato e, per così dire, trasfigurato, elevato a pura forma, a pura immagine, a pura espressione. Ciò equivale a dire che l’arte è intuizione lirica, è sintesi a priori di sentimento e di immagine, è unità indissolubile di contenuto (il sentimento) e di forma (l’immagine, l’espressione). Ne deriva che per Croce l’arte, in quanto intuizione di un sentimento, di un contenuto di vita, si identifica con l’espressione stessa di quel sentimento, di quel contenuto di vita: l’intuizione è la stessa espressione, l’espressione è la stessa intuizione. E da tale identificazione deriva anche, secondo Croce, l’ identificazione di linguaggio e di poesia : è questo il motivo in parte tratto dalle dottrine del Romanticismo e, più ancora, dalla viva esperienza critica del De Sanctis e, attraverso il De Sanctis, dalla filosofia di Vico; ed è questo il motivo per il quale il linguaggio non è un segno convenzionale mediante cui gli uomini comunicano tra loro, ma è espressione viva, immagine spontaneamente prodotta dalla fantasia, dallo Spirito. Con l’identificazione di linguaggio e di poesia si spiega l’universalità dell’arte: il linguaggio poetico, quali che siano i modi tecnici (del suono, del colore, ecc) attraverso cui è espresso, è il linguaggio stesso degli uomini; quindi ogni uomo ha il potere di aprirsi una suggestione dell’arte, di rivivere in sé, contemplandola, l’opera d’arte, in qualsiasi tempo o luogo sia stata creata. Altra considerazione relativa all’arte è che, risolto il concetto di arte in quello di intuizione lirica, è negata da Croce ogni validità alla tradizionale dottrina dei generi letterari: alla dottrina che, come dice, è del tutto estranea al problema estetico ed è solamente espressione del bisogno pratico (economicistico, classificatorio) dello Spirito e, di conseguenza, è solamente costruttrice di preconcetti. All’estetica Croce dedica l’opera “ Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale ”: essa (che è l’opera che diede immediata celebrità a Croce) è lo sviluppo di una memoria che il filosofo aveva letto in tre sedute, all’Accademia Pontaniana di Napoli nel 1900. Croce individua i caratteri costitutivi dell’arte nel fatto di essere conoscenza intuitiva, inscindibile dall’espressione. L’espressione, però, non deve essere confusa con l’estrinsecazione fisica in lettere scritte, suoni o colori materiali: Croce chiarisce che questo aspetto rientra nell’attività pratica dello Spirito, non in quella conoscitiva che è specifica dell’arte. Curioso è il metodo impiegato da Croce: egli procede alla determinazione dei significati dei concetti mediante negazioni e distinzioni rispetto ad altri concetti imparentati o affini o opposti.
“ La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti. […] Della conoscenza intellettiva c’è una scienza antichissima e ammessa indiscussamente da tutti, la Logica; ma una scienza della conoscenza intuitiva è appena ammessa, e timidamente, da pochi. La conoscenza logica si è fatta la parte del leone; e, quando addirittura non divora la sua compagna, le concede appena un umile posticino di ancella o di portinaia. Che cosa è mai la conoscenza intuitiva senza il lume della intellettiva? E’ un servitore senza padrone; e, se al padrone occorre il servitore, è ben più necessario il primo al secondo, per campare la vita. L’intuizione è cieca; l’intelletto le presta gli occhi. Ora, il primo punto che bisogna fissare bene in mente è che la conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché ne ha in fronte di suoi propri, validissimi. […] I concetti che si trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi sono davvero misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi d’intuizione. […] Noi non possiamo volere o non volere la nostra visione estetica: possiamo, bensì, volerla o no estrinsecare, o, meglio, serbare e comunicare o no agli altri l’estrinsecazione prodotta. ” (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, parte I, cap. I).
Croce impiega una procedura dicotomica, distinguendo le due forme possibili di conoscenza, caratterizzate da due serie parallele di proprietà; da una parte, la conoscenza intuitiva, che avviene mediante la fantasia, ha per oggetto l’individuale, ossia entità singole, e dà luogo alla produzione di immagini; dall’altra, invece, la conoscenza logica (cui Croce dedicherà una trattazione apposita, la “ Logica come scienza del concetto puro ”), che avviene mediante l’intelletto, ha per oggetto l’universale, cioè le relazioni tra le cose, e dà luogo alla produzione di concetti. Contro la tradizionale subordinazione della conoscenza intuitiva, immediata, rispetto a quella intellettiva e concettuale, Croce rivendica a pieno titolo l’autonomia e la dignità di essa. In campo estetico, Croce mostra una netta chiusura verso l’allora trionfante decadentismo: esso è, ai suoi occhi, una grave malattia, una mancanza di sincerità, poiché con esso si crede e non si crede, si annega la confusione mentale in un mare magnum di parole altisonanti e suadenti che suggestionano, si creano miti nei quali si finisce per credere troppo. In altre parole, la cultura del decadentismo è un’offesa che l’uomo di cultura conduce contro i suoi lettori; la stessa nascita della dittatura fascista è da Croce, per alcuni versi, letta come produzione estrema del decadentismo: per usare le sue stesse parole, è “ un’industria del vuoto ”, che si adopera per non produrre nulla. La poesia, secondo Croce, non è tale in quanto dice belle cose imbevute di patriottismo (com’era per D’Annunzio): la vera poesia non è propagandistica, ma è intuizione pura, rappresentazione alimentata da un forte sentimento individuale in cui l’artista realizza una perfetta ed armoniosa fusione fra contenuto e forma: tipico esempio è la figura di Polifemo, che rappresenta in modo impeccabile la forza bruta. D’Annunzio è, del resto, secondo Croce il “ padre spirituale ” del nazionalismo italiano: il poeta e soldato, la cui sola musa fu la violenza, è un mistificatore del pensiero di Nietzsche, dice Croce, e ciò è perfettamente espresso nella frase crociana “ letto che ebbe qualcosa del Nietzsche ”, con cui sottolinea come D’Annunzio fosse andato incontro a colossali fraintendimenti del pensiero nietzscheano, in buona parte dovuti al fatto che l’aveva letto in modo non sistematico. Dal primo momento (appena descritto) dello spirito teoretico si passa, nel sistema crociano, al secondo momento, che è costituito dal pensiero logico . Come l’arte è conoscenza dell’individuale, così il pensiero logico è pensamento dell’universale; e, per il principio dell’implicazione dei distinti, il pensamento dell’universale è unità di universale e d’individuale, di concetto e d’intuizione. Come tale, il pensiero logico è rapporto di soggetto (ossia di un fatto, quale che esso sia) e di predicato, è determinazione della particolarità del fatto (che si è intuito) nell’universalità del concetto (di cui lo si predica): è, in fin dei conti, giudizio su singole realtà di fatto. E, giacchè il giudizio sulle singole realtà di fatto è giudizio sui fatti nel loro farsi (per la ragione che fatti che non si facciano, che non diventano, o fatti per così dire immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà), evidente è che tale giudizio è e non può essere che un giudizio storico. Ne consegue che il pensiero logico è, in quanto tale, un pensare storico : proprio in ciò risiede la tesi portante della ” Logica ” e, anzi, di tutta l’opera crociana. E’ la tesi per la quale la filosofia, scienza dei concetti, si identifica con la storia, scienza dei giudizi: ecco perché Croce può asserire che ” i veri filosofi, se ne avvedessero o no, non hanno mai fatto altro che rinvigorire e raffinare i concetti per far sì che meglio si intendano i fatti, cioè la realtà, cioè la storia “; è dunque necessario, per usare le stesse parole impiegate da Croce, rendere ” filosofica la storia, ma nell’atto stesso storica la filosofia, e indirizzandola a non altro che a risolvere i problemi che il corso delle cose propone sempre nuovi “. Questa identità tra filosofia e storia implica un approfondimento storico dei problemi della filosofia e, insieme, un approfondimento filosofico della storia, cosicchè la storia non si compendia in un’arida registrazione e giustapposizione di nudi fatti individuali, ma in un’interpretazione e connessione mentale di essi, per cui il loro svolgimento coincide con lo sviluppo stesso della vita dello Spirito: e poiché lo Spirito è pura razionalità, allora la storia (come già aveva sottolineato Hegel) procede in modo assolutamente razionale. L’identità della filosofia con la storia rappresenta, di conseguenza, per Croce un’istanza decisiva contro la vecchiaia e, possiam dire, teologica filosofia della storia, che avanzava la pretesa di compendiare in astratti schemi e di predeterminare le leggi del divenire storico: il divenire storico, viceversa, ha in se stesso, e non fuori né al di sopra, la norma e la misura dei suoi valori. Ma, identificata la filosofia con la storia e intesa la storia come una realtà piena dello Spirito, ne consegue anche che l’idea di una scienza distinta ed autonoma che si occupi di problemi “massimi” ed “eterni” è un’idea antiquata (che non ha più ragion d’essere) della filosofia, dovuta alla sopravvivenza in essa delle vecchie sue forme metafisicizzanti. L’idea adeguata della filosofia è invece, nella prospettiva di Croce, quella per la quale essa diviene un semplice momento trascendentale della conoscenza storica, sicchè il suo solo compito è di apprestare alla conoscenza storica le categorie della sensibilità del reale. Ne deriva che la filosofia è, come dice Croce, il mero momento metodologico della storiografia, la mera delucidazione delle categorie costitutive dei giudizi storici; e poiché la storiografia ha per contenuto la vita concreta dello Spirito, e questa vita è vita di fantasia e di pensiero, di azione e di moralità (quali sono appunto le forme in cui si estrinseca) e in questa varietà delle sue forme è pur una, la delucidazione delle categorie storiche si muove secondo la distinzione dell’estetica e della logica, dell’economia e dell’etica, e le congiunge tutte nella filosofia dello Spirito: questa tesi Croce la esprime in ” Teoria e storia della storiografia ” e, più particolarmente, in ” La storia come pensiero e come azione “. In questa concezione, tuttavia, vi è qualcosa di più della mera identità tra la filosofia e al storia: la filosofia, infatti, negata come scienza a sé stante e considerata come categoria della storia, finisce col trovare solo in quest’ultima il suo inveramento, finisce cioè col risolversi integralmente nella storia. E’ così che Croce è via via pervenuto al pieno capovolgimento della posizione iniziale del suo pensiero di fronte al problema storico: dalla considerazione iniziale della storia come arte (nel saggio giovanile ” La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte “) a quella che ne fa una forma di realtà autonoma, inferiore alla filosofia, a quella dell’identità e reciprocità piena con la filosofia, infine a quella dell’integrale risoluzione della filosofia nella storia come ” storia pensata “, egli ha, come si vede, descritto un ciclo evolutivo, parallelo all’evolversi stesso e all’arricchirsi progressivo del suo pensiero. Ecco perché si è soliti definire la filosofia di Croce come la “filosofia dello storicismo assoluto”. Per essa, infatti, tutta la realtà è Spirito, tutta la realtà è storia: anche ciò che chiamiamo natura è processo storico, è processo spirituale che abbiamo, nondimeno, distanziato così tanto che, per il fatto che ci limitiamo a considerarne le manifestazioni sommariamente e dall’esterno, ci sembra che siano manifestazioni di una realtà meccanica e quasi esterna allo Spirito. E’ così mostrata l’umanità della storia nel senso più largo, nel senso inclusivo anche della storia della cosiddetta natura: come dell’uomo si può fare una storia naturale (esteriore e meccanizzata), così della natura si può fare una storia umana (interiore, cioè, e spiritualizzata). L’opposizione tra natura e spirito è pertanto opposizione non tra due realtà, ma tra due metodi diversi d’investigazione della medesima realtà, dice Croce. Il metodo interno al reale, o della spiritualità e storicità del reale, è il metodo per il quale la storia, per remoti o remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti presi a considerare, è sempre storia contemporanea, è sempre storia riferita al bisogno e alla situazione presente che la suscita e la crea: ecco perché ” ogni storia è storia contemporanea “, in quanto la ricerca sul passato è sempre frutto di interessi, domande, curiosità, che nascono dall’oggi. Ed è, insieme, il metodo per il quale ogni storia, per particolare che sia il problema preso in considerazione, è sempre storia universale, è sempre storia procedente dall’universalità del soggetto e comprendente nella particolarità di quel problema la totalità dello Spirito. Il metodo invece esterno al reale, o della materializzazione e meccanizzazione del reale, è il metodo del giudizio classificatorio (produttore di pseudoconcetti), che, a differenza del giudizio storico (fondato sui concetti), dà d’una realtà oggettiva e resa estranea e delle infinite sue determinazioni una rappresentazione schematica, abbreviata secondo formule che non sono né vere né false ma sono solo utili ai bisogni della pratica. Si è pervenuti, per questa via, ad esaminare la sfera dell’ attività pratica e, più precisamente, economica dello Spirito. E’ la sfera nella quale, appunto, rientrano, secondo Croce, i “giudizi classificatori”, che si son detti, e le scienze empiriche, che su quei giudizi si costruiscono. Appare qui evidente l’influenza delle filosofie empiriocriticistiche (specialmente quella di Mach) per le quali, come si ricorderà, le leggi formulate dalle scienze sono solo espressione di economia di pensiero; ma è anche evidente che, diversamente da quelle filosofie e conformemente in qualche modo alle filosofie spiritualistiche francesi, il sapere scientifico, come totalmente estraneo all’attività teoretica, non è per Croce che una sorta di sapere inferiore, non è anzi alcun sapere affatto (dato che il vero o il solo sapere è quello filosofico). Con le scienze della natura, o con la considerazione naturalistica della realtà, rientrano anche nella sfera dell’economico, dell’utile, le altre attività pratiche dello Spirito: quali quelle del diritto, della politica, dell’economia in senso stretto. Sono le attività su cui Croce si è soffermato con particolare attenzione, per la viva influenza che ha esercitato su di lui (anche se volto a tutt’altro segno) il pensiero di Marx. Come Marx, infatti, egli riduce a economia, a espressione dell’attività economica, il diritto e la politica; ma, in contrasto con Marx, da tale attività distingue, secondo la sua dottrina, e afferma come aventi propria assoluta autonomia così i valori morali (che stanno a quelli economici come l’universale all’individuale) come, e a maggior ragione, i valori del bello e del vero. Si conclude così l’esame delle forme categoriali dello Spirito, che (per il nesso dei distinti) sono insieme congiunte in un procedimento circolare, per il quale la teoresi è condizione per la prassi e la prassi è condizione per la nuova teoresi, e così via nell’infinito procedere della realtà. Giacchè la realtà, come è noto, non è altro se non storia: storia intesa come pensiero e come azione, come libero esplicarsi e incessante progredire della vita attraverso il dispiegarsi delle forme o dei valori (teoretici e pratici) che sono ad essa immanenti.
A cura di Giuseppe Di Donato
VITA
Benedetto Croce nacque a Pescasseroli (L’Aquila) il 25-2-1866, in una famiglia di proprietari terrieri, ricca ma molto conservatrice (era attaccata ancora ai Borboni!), e frequentò le scuole secondarie in un collegio di religiosi, anch’esso culturalmente chiuso.
Nel 1883 villeggiò a Casamicciola (nell’isola d’Ischia), ed un terremoto durato 90 secondi gli uccise i genitori Pasquale e Luisa Sipari e la sorella Maria, rimanendo lui stesso “sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo”.
Fu allora accolto a Roma dallo zio, il senatore Silvio Spaventa (famoso storico e fratello di Bertrando Spaventa, filosofo idealista che aveva tentato una riforma dell’Hegelismo): fu un gesto nobile da parte dello Spaventa anche perché era in rotta coi Croce, dal momento che questi, a causa del tradizionalismo a cui abbiamo accennato, gli avevano rimproverato un eccessivo liberalismo (e del resto i Croce si erano allontanati anche da Bertrando, perché apostata).
Nel salotto di Silvio, Benedetto incontrò importanti uomini politici ed intellettuali, tra i quali ad esempio Antonio Labriola (che allora era herbartiano), del quale frequentò le lezioni di filosofia morale all’università di Roma (anche se era iscritto a giurisprudenza a Napoli); Benedetto non finì gli studi universitari, non volendo conseguire titoli accademici, ma continuò comunque a studiare, trascurando inizialmente Hegel, poiché i libri che circolavano in casa Spaventa gli diedero l’idea ch’esso dovesse essere un filosofo quasi incomprensibile.
Nel 1886 lasciò la “politicante società romana, acre di passioni”, e tornò a Napoli, dove comprò la casa nella quale aveva vissuto il filosofo Giambattista Vico; negli anni seguenti viaggiò in Spagna, Germania, Francia ed Inghilterra, ed aumentò l’interesse per la storia, grazie alle letture di Francesco De Sanctis (letture già iniziate durante gli studi ginnasiali, assieme a quelle del Carducci: De Sanctis e Carducci diventeranno per lui due punti fissi).
Nel 1895 Labriola (che intanto aveva abbandonato la filosofia di Herbart), col quale Benedetto aveva mantenuto il dialogo intellettuale, gli fece conoscere le idee del Marxismo, alle quali inizialmente il filosofo napoletano si interessò, studiando i saggi di Labriola, leggendo libri di economia, riviste e giornali italiani e tedeschi d’ispirazione socialista, e l’interesse si diresse così verso la politica; tra l’altro aveva espresso sul Marxismo, tra il 1895 ed il 1899, una “critica tanto più grave, in quanto voleva essere una difesa e una rettificazione del Marxismo stesso”, pensando egli che la società capitalista studiata da Marx non esistesse, né fosse mai esistita, ma gli interessi per il Marxismo fecero sentire al nostro il bisogno di risalire ad Hegel, al cui studio lo invitava anche il suo amico e filosofo Giovanni Gentile.
Col Gentile fondò, nel 1903, la rivista “La Critica”, il cui progetto era maturato nell’estate del 1902, ma l’amicizia col Gentile, che aveva conosciuto quando quest’ultimo era studente a Pisa, si ruppe quando quest’ultimo aderì al fascismo.
“La Critica” fu pubblicata dal 1903 al 1944, ed il suo prestigio culturale ne rese impossibile al fascismo la soppressione: è noto che Mussolini chiese “Quante copie tira Critica?”, ed essendogli stato risposto “1500”, disse “allora lasciatelo stare”.
Nel 1910 Benedetto fu nominato senatore per censo e fu ministro della Pubblica Istruzione nel 1920-21, nel quinto ministero Giolitti: elaborò anche una riforma scolastica, che non volle attuare per la propria non adesione al fascismo, ma essa fu comunque ripresa e realizzata dal Gentile nel 1923 (oggi quella riforma è infatti nota come “riforma Gentile”).
Nel 1914 sposò Adela Rossi, con la quale ebbe 4 figlie (Alda, Elena, Livia e Silvia).
Come s’è detto, Croce ruppe con Gentile in occasione della sua adesione al fascismo (ma già da tempo c’era forte dissenso tra i due): dopo l’avvento al potere di Mussolini ed il delitto Matteotti (1924) fu pubblicato il 1-5-1925 su “Il Mondo” (rivista liberale per la quale scrisse, nel 1950, la prefazione a “1984” di George Orwell, tradotto da Gabriele Baldini), in risposta al “Manifesto degli intellettuali fascisti” di Gentile, il suo “Manifesto degli intellettuali anti-fascisti” (al quale aderirono Eugenio Montale ed Aldo Palazzeschi, e tra i matematici Leonida Tonelli, Ernesto e Mario Pascal, Vito Volterra, Giuseppe Bagnera, Guido Castelnuovo, Beppo Levi, Tullio Levi Civita, Alessandro Padoa, Giulio Pittarelli e Francesco Severi), scritto su invito di Giovanni Amendola, e smise di intervenire direttamente nella politica, attività che esercitò dopo la caduta del fascismo, essendo stato presidente del ricostituito Partito Liberale nel 1943-1947 (fu avverso al comunismo ma lodò il valore letterario di Gramsci), ministro nei governi Badoglio e Bonomi, membro dell’Assemblea Costituente e poi del Senato.
Alcuni accusano Benedetto di falso liberalismo, poiché fino al ‘25 aveva appoggiato il fascismo, vedendolo come mezzo per sconfiggere le forze della sinistra: fatto ciò, la classe liberale avrebbe potuto continuare a reggere lo Stato, con le mani pulite; ricordiamoci anche che al grido di “oro alla patria!”, quando lo Stato per sostenere il costo della guerra cambiava (a chi lo sceglieva) le fedi nuziali di oro con anelli di ferro, Croce donò la propria medaglia di senatore.
Dopo la firma dei Patti Lateranensi (11-2-1929), mostrò la sua contrarietà al Concordato tra Stato e Chiesa dicendo in Senato che “accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza”, nella sua replica Mussolini definisce Croce “un imboscato della storia”.
Nel 1946 fondò a Napoli (nel frattempo si era ritirato a vivere nel palazzo di Trinità Maggiore, che era appartenuto ai Filomarino) l’Istituto Italiano per gli studi storici, la direzione del quale venne affidata al prof. Federico Chabod.
Il tradizionalismo di Croce emerge nei suoi giudizi negativi verso i poeti simbolisti francesi: fu apertamente critico di Rimbaud e Valéry, come del resto lo fu verso Pirandello, D’Annunzio e Pascoli (espresse inizialmente perplessità verso il Decadentismo in generale, e le perplessità maturarono poi in decisa avversione): proprio per questo ci fu un lieve contrasto tra il Croce e Cesare Angelini, come racconta Angelini stesso ne “Gli uomini della Voce” (clicca qui se vuoi approfondire)
Nel 1949 fu colpito da un ictus cerebrale, che limitò le sue possibilità di movimento, ed il filosofo non uscì più di casa, dove continuava a studiare: fu colto dalla morte mentre era seduto in poltrona nel suo studio-biblioteca, il 20-11-1952.
PENSIERO FILOSOFICO
Dialettica: Benedetto riprende alcuni aspetti della filosofia di Hegel; innanzitutto concorda con Hegel nel dire che il pensamento filosofico è concetto (non intuizione o sentimento), universale (e non generale, come le nozioni delle scienze empiriche) e concreto (poiché riguarda la realtà): se ti va puoi leggere qui le parole esatte del Croce nel suo “Saggio sullo Hegel”.
In questo modo Hegel riuscì a definire l’universale concreto come sintesi di opposti, “unità nella distinzione e nell’opposizione”; ha però, ad avviso di Benedetto, commesso tutta una serie di errori, che deriva da un unico errore, e cioè l’aver visto la realtà solo come prodotti di opposti che si sintetizzano, mentre Benedetto precisa che esistono anche i distinti, e crea una sua nuova dialettica che prevede la sintesi di opposti (come quella Hegeliana) e il nesso di distinti
I distinti nella filosofia crociana sono fondamentalmente 4, e sono generati dalle 2 attività fondamentali dello Spirito (conoscitiva, o teoretica, e volitiva, o pratica) a seconda che si dirigano verso il particolare o l’universale; detti distinti (o categorie) sono la fantasia, l’intelletto, l’attività economica e l’attività morale, e non si sintetizzano, non essendo opposti, mentre si sintetizzano, al loro interno, rispettivamente il bello ed il brutto (estetica), il vero ed il falso (logica), l’utile ed il dannoso (economia), il bene ed il male (morale).
Arte: Benedetto afferma, nel Breviario di estetica, che “l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia”, perché se non si sapesse nulla di essa non si potrebbe chiedere cosa sia l’arte, perché ogni domanda contiene in sé già delle informazioni sull’oggetto della domanda stessa.
Il filosofo pensa che l’uomo abbia una precomprensione delle verità di fondo, e che la filosofia porti ad un livello di chiarezza critica queste precomprensioni; la differenza tra un buon filosofo ed una persona qualsiasi è che il filosofo pone le domande con maggiore “intensità”, e di conseguenza cerca di rispondere con maggiore intensità.
L’arte viene definita come conoscenza intuitiva, e si identifica la stessa come espressione dell’intuizione: in questo modo Croce critica le persone che dicono di aver dentro di sé grandi idee, grandi intuizioni, ma di non riuscire ad esprimerle: in realtà queste persone non hanno dentro di sé ciò che dicono di avere, perché ciò che si intuisce, automaticamente e spontaneamente si esprime.
Questa intuizione artistica non è propria solo dei grandi artisti, dei geni, ma appartiene ad ogni persona, che sa ricreare e fruire della creazione del genio, infatti se non fosse così il genio non sarebbe un uomo, e del resto gli altri uomini non potrebbero capirlo.
L’arte è anche libera di esprimersi, nel senso ch’essa non è subordinata a nulla, al piacere, all’utile, alla morale (non immorale, ma amorale: se anche rappresentasse situazioni oscene, rimarrebbe arte), questo perché essa è una forma di conoscenza, che è funzionale a sé, senza il problema della veridicità o meno di tale conoscenza perché l’intuizione artistica ha come oggetto un’immagine (non necessariamente corrispondente al vero).
Ci sono, è vero, opere d’arte che tramandano valori morali, religiosi, filosofici (ecc.), ma essi non sono gli scopi dell’opera d’arte, sono solo parte integrante di essa: non viene negata all’artista la possibilità di esprimere determinati valori, ma si sottolinea come essi “integrino” l’intuizione artistica.
A proposito dell’arte come intuizione, il pensatore distingue l’espressione/intuizione dall’estrinsecazione dell’espressione: mentre il primo elemento è caratterizzato dal sentimento, il secondo riguarda delle tecniche, è quindi un’attività pratica; l’intuizione si ha grazie al sentimento, “rappresenta il sentimento, e solo da esso e sopra di esso può sorgere”, perciò il sentimento si identifica con la lirica (“l’arte è sempre lirica”): per Croce “lirica” ed “intuizione” sono sinonimi.
Altra precisazione crociana è che l’arte sia una sintesi a priori estetica, sintesi di sentimento ed immagine nell’intuizione: il sentimento senza l’immagine è cieco, e l’immagine senza il sentimento è vuota; essi possono anche presentarsi distinti, ed in questo caso non si ha arte, che si può presentare come contenuto o come forma, lasciando sottintendere che “il contenuto è formato” e “la forma è riempita”, il sentimento è “sentimento figurato” e la figura è “figura sentita”.
L’arte viene vista anche come sintesi di particolare ed universale, perché un artista opera partendo da determinazioni particolari, dando ad esse, mediante il proprio percorso interiore, valori, significati man mano meno immediati e soggettivi, più generali.
Si criticano anche le espressioni che definiscono i “generi”: i generi letterari non esistono, e le distinzioni che comunemente facciamo (comico, tragico, epico…) sono solamente schemi di comodo introdotti dall’intelletto che, classificando, compie un’operazione estranea all’arte, in quanto tale operazione appartiene alla logica; in questo modo viene anche a mancare la “bellezza fisica” (il “bello” appartiene all’estetica).
La personalità di un poeta scompare naufragando nel mare della poesia: “il poeta è nient’altro che la sua poesia”, la sua opera poetica (è sempre lo Spirito che agisce attraverso l’uomo); la linguistica è estetica, perché il linguaggio è espressione (come l’arte), creazione estetica.
Guardando l’attività di Croce, vediamo con assoluta chiarezza che è stato attento all’aspetto soggettivo-creativo della produzione artistica, ma non si è comportato allo stesso modo con le sue componenti, i suoi momenti tecnico-materiali, ed ha fatto la stessa cosa per determinate attività artistiche: la sua filosofia ha guardato all’arte in generale, ma non ha esaminato attentamente, per esempio, la musica, l’architettura… privilegiando l’attività letteraria.
All’interno dell’attività letteraria ha continuato questa sua “politica”, valorizzando più di altri certi generi e stili, come la poesia (secondo Croce le espressioni non poetiche devono essere intese come “modi” di servirsi dell’unico vero linguaggio, che è quello poetico) e le produzioni con contenuto lirico, fantastico (al posto di quelle più razionali, concettuali); il simbolo della poesia per il nostro filosofo fu l’Ariosto, definito come poeta dell’“armonia” in “Ariosto, Shakespeare e Corneille”.
Infine sull’arte si deve ricordare che per Croce non sono possibili le traduzioni, “in quanto abbiano la pretesa di effettuare il travasamento di un’espressione in un’altra, come di un liquido da un vaso in un altro di diversa forma. Noi possiamo elaborare logicamente ciò che prima abbiamo elaborato solo in forma estetica; ma non possiamo, ciò che ha avuto già la sua forma estetica, ridurre ad altra forma, anche estetica.” (da “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1904, II edizione).
Logica: si propone di studiare la struttura generale dello Spirito, ed in parte, quindi, ne abbiamo già parlato con la dialettica; essa viene definita anche “scienza del concetto puro”, che è l’universale concreto (come già detto, esso è razionale, universale e concreto), chiamato anche “trascendentale”, e guardandolo nella forma, esso naturalmente è unico (“non sussistono più forme nel concetto, ma una sola”), la forma teoretica universale dello spirito è una sola (la logica, appunto), e quando penso una varietà di concetti, è chiaro che si riferiscono ad altrettanti oggetti che vengono pensati in quella forma.
C’è un’idea comune tra estetica e logica, infatti il concetto ha carattere di espressività, è quindi opera conoscitiva, opera espressa dello Spirito, ed essendo quindi il pensare anche esprimere, parlare, “chi non esprime o non sa esprimere un concetto, non lo possiede” (la stessa cosa accade, abbiamo già visto, per l’intuizione estetica).
Il concetto puro è diverso da una rappresentazione empirica (ad es.: “biancospino”, “gatto”, “matita”), ed anche dai concetti usati dalle scienze, che sono concetti astratti (ad es.: “cerchio”), e vengono definiti dal Croce come “pseudo-concetti”, poiché non hanno un elemento corrispondente nella realtà: gli pseudo-concetti si distinguono così in empirici e puri, entrambi sono privi di carattere logico, ma sono di grande utilità (organizzano le nostre esperienze ed aiutano la nostra memoria), perciò sono propri dell’Economia, ed a quest’attività pratica dello Spirito vengono ad appartenere tutte le scienze empiriche e matematiche.
Nella logica crociana concetto, giudizio e sillogismo vengono a coincidere, vediamo il perché: il giudizio è concetto puro, ed il “concetto stesso nella sua effettualità” è l’universale concreto; quando pensiamo un concetto, lo pensiamo nelle sue distinzioni, lo mettiamo in relazione cogli altri concetti e lo unifichiamo con essi “nell’unico concetto” (cioè in un’unica forma concettuale), e perciò si ha un sillogismo.
Nell’ambito della logica c’è un’altra identificazione, quella tra giudizio definitorio (es.: “l’arte è intuizione lirica”) e giudizio individuale (es.: “l’Orlando furioso è un’opera d’arte”), poiché il giudizio individuale ci fa conoscere concretamente il mondo (e di conseguenza possedere), un giudizio, attribuendo un predicato ad un oggetto, lo valorizza come elemento partecipe della realtà.
È possibile dire che il giudizio definitorio è il predicato del giudizio individuale (se dico che l’Orlando furioso è un’opera d’arte, affermo che l’Orlando furioso è quello che si è definito per opera d’arte dando un giudizio definitorio, ed intanto dico anche che è intuizione lirica).
Per questi motivi il giudicare è un atto logico che è sintesi a priori logica.
Da ciò consegue che filosofia e storia coincidono (“non sono già due forme, sibbene una forma sola, e non si condizionano a vicenda, ma addirittura si identificano”), perché la sintesi a priori è concretezza sia della filosofia che della storia, ed “il pensiero, creando se stesso, qualifica l’intuizione e crea la storia”).
Ultimo aspetto della logica, la sua estraneità all’errore: per Croce l’errore infatti ha una natura pratica, non può appartenere alla conoscenza (che è assoluta, proprio perché è conoscenza), non corrisponde al conoscere, ma all’agire, appartiene non al pensiero ma alle azioni umane, che possono essere sbagliate; una persona quindi sbaglia quando, parlando, emette dei suoni “ai quali non corrisponde un pensiero, o, che è lo stesso, non corrisponde un pensiero che abbia valore, precisione, coerenza, verità”.
Economia: l’attività pratica dello Spirito, abbiamo già visto, non produce conoscenze ma azioni, e l’azione coincide con la volontà (già Kant…), poiché non c’è volizione senza azione, né azione senza volizione; quando noi desideriamo, vogliamo, aspiriamo, abbiamo un fine, e se questo fine è individuale, si ha un’attività economica.
L’attività economica “vuole ed attua ciò che è corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui l’individuo si trova”, ed in questa sfera rientrano gli pseudo-concetti e le scienze empiriche e matematiche, come detto precedentemente, ma anche il diritto, l’attività politica, la vita stessa dello Stato, che, come già Machiavelli aveva affermato, non ha una natura etica, ma utilitaria (e quindi, appunto, economica).
Vediamo meglio questi tre elementi: per quanto riguarda il diritto, apparentemente sembra contraddirsi il nostro pensatore, quando mette lo stesso nella sfera dell’economia e non in quella che ci pare più ovvia, quella dell’etica: ciò si spiega col fatto che per il nostro i valori del diritto non sono gli stessi valori della morale, avendo logica e fini diversi: quest’ipotesi viene avvalorata dal fatto che anche una società per delinquere ha una propria giuridicità (basti pensare ai patti tra criminali, od anche solo alle famiglie mafiose, che difficilmente hanno obiettivi etici).
La politica, invece, penso che appaia ad ognuno di noi del tutto naturale se messa nella sfera dell’economia: essa viene vista dal Croce come incontro/scontro tra interessi opposti, e questo scontro non sempre avviene secondo leggi etiche, ma piuttosto secondo leggi di forza, ma ciò non è visto negativamente, essendo simbolo di forza, vigore degli individui.
Lo Stato si basa anch’esso non su un’Idea (astratta), ma sulla realtà (concreta), fatta di individui che con le proprie azioni stabiliscono, “producono”, leggi, istituzioni, strutture, usi, che riflettono le loro volontà.
Lo Stato è quindi il prodotto delle azioni di un insieme di persone, ed è dato dalle mediazioni forza/consenso e autorità/libertà, e di questi 4 elementi il filosofo valorizza quello dell’autorità, perché essa garantisce l’ordinato svolgersi della vita pubblica, e perciò critica l’ideologia democratica, i cui valori (libertà, uguaglianza, fratellanza) non sono certo negativi, ma forse un po’ troppo astratti.
È nell’economia che si riflette la vita dell’uomo, la sua natura, il “pratico processo dei desideri, degli appetiti, delle cupidità, delle soddisfazioni e insoddisfazioni risorgenti, delle congiunte commozioni, dei piaceri e dei dolori”, ma non è un ambito irrazionale, essendoci un principio che vi opera: esso è l’utile (ed ha come opposto il dannoso).
L’utile è visto come un valore positivo, anche se spesso si scontra con gli altri valori, ma è in virtù dell’utile che l’uomo organizza la propria vita e le proprie relazioni, così come fanno i gruppi di uomini (probabilmente gli studi sul marxismo l’hanno aiutato in questa elaborazione): mi sembra indiscutibile a questo punto che nella filosofia crociana ci sia una buona sintesi tra idealismo e realismo.
All’economia come la intendiamo oggi, scienza che si andava sviluppando proprio nell’epoca in cui visse il nostro filosofo, egli non guardò con molta simpatia, accusandola di produrre una conoscenza troppo astratta ed astorica.
Etica
E’ l’attività pratica dello Spirito che si verifica quando il fine che noi desideriamo è universale (quando è individuale è l’economia, come detto prima); questo universale è lo Spirito stesso, Realtà “come unità di pensiero e volere”; l’attività etica vuole ed attua ciò che corrisponde alle condizioni di fatto in cui una persona si trova, ma si riferisce a qualcosa che le trascende.
L’uomo morale quando vuole l’universale (ciò che lo trascende come individuo) guarda “allo Spirito, alla Realtà reale, alla Vita vera, alla Libertà”, in questo modo chi agisce trascende i propri interessi, che sono “particolari” (l’utile), per cogliere valori universali (il bene)
L’etica ha un carattere di totalità, perché l’agire secondo morale raccoglie e “sublima” dentro di sé le diverse istanze date dai diversi fattori che compongono la realtà individuale e sociale; l’ideale supremo di quest’etica è la Vita, che dà valore e sviluppa l’agire umano, infatti tutte le azioni degli uomini che siano conformi al dovere etico sono conformi alla vita, e se la deprimessero e mortificassero, sarebbero immorali.
Evidentissima la critica contro lo Stato che Giovanni Gentile definì sotto la voce “Fascismo” nell’enciclopedia Italiana Treccani, poiché esso viene visto come entità che ingloba in sé gli individui, che è artefice della legge (e fin qui Croce sarebbe d’accordo), e che è artefice anche della morale, ed in seguito il Gentile parlò anche di “Stato etico” (eredità di Hegel, filosofo dal quale anche Croce era partito, ma con conclusioni diverse, come abbiamo visto).
Storia: non è una delle 4 forme dello spirito, ma un altro “capitolo” della filosofia crociana.
Abbiamo già visto come filosofia e storia coincidono, poiché (ripetiamolo) il pensiero autentico è pensiero dell’universale concreto, ed il giudizio definitorio coincide col giudizio individuale; da quest’uguaglianza deriva che qualsiasi realtà alla quale il giudizio storico si riferisce, nascendo quest’ultimo da un bisogno pratico (quello di risolvere i problemi della situazione presente), diventa attuale.
Vediamo facilmente anche come la storia sia vera conoscenza del reale, una sintesi a priori tra intuizione e categoria; secondo il filosofo tutto è storia: tale teoria viene definita come “Storicismo assoluto”.
Nulla sta al di sopra della storia, per cui non ci sono idee o valori eterni, e la storia non è mai “giustiziera”, ma sempre “giustificatrice”: uno storico deve solo conoscere e comprendere certi avvenimenti, senza giudicarli; questo potrebbe essere visto come una contraddizione del nostro pensatore, poiché condannò il fascismo (che è un evento storico).
Per Benedetto ciò che è reale è necessariamente razionale, ma afferma essere razionale anche l’imperativo morale: non giustificò mai il fascismo, ma lo lesse come “malattia morale”, una parentesi nella storia dell’Italia (espresse questa teoria sul New York Times nel novembre del 1943, la riprese in un discorso tenuto nel gennaio del 1944 a Bari, al I Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale, ed in un’intervista del marzo 1947).
La storia, non potendo giudicare, non può né lodare né biasimare un evento: la lode od il biasimo riguardano un singolo nel momento in cui agisce, ma quando la sua azione è diventata evento, non può più essere giudicata.
La storia, inoltre, non si deve discutere coi “se” (es.: “se Garibaldi non avesse organizzato la Spedizione dei Mille…”), perché essendo lo Spirito immanente alla storia, il “se” negherebbe il nesso logico e razionale dell’universale concreto; il “se” non deve riguardare nemmeno l’individuo singolo (“se non avessi fatto l’errore di…”), perché l’individuo è ciò che è, è se stesso, proprio perché ha compiuto ciò che ha compiuto.
La storia ha un effetto catartico: conoscendola, noi che siamo prodotti del passato (già i Decadentisti sottolineavano come l’uomo fosse risultato del passato e seme che germoglierà nel suo futuro), ci liberiamo da esso (già Goethe affermava che scrivere storia è un modo per toglierci dalle spalle il passato ed affrancarci da esso).
La storia inoltre ha un carattere di positività, perché analizzando un evento storico si deve sempre captarne l’intimo senso e razionalità, per quanto negativo l’evento possa apparire.
Nella storia, inoltre, c’è un nesso di pensiero ed azione, infatti la conoscenza storica stimola l’azione, ma è essa stessa stimolata dall’azione.
La nostra epoca presta minor attenzione alla dialettica crociana, e si concentra di più sullo studio degli altri aspetti della filosofia del Croce, una filosofia, direi, molto semplice da comprendere, leggendo gli stessi libri del nostro filosofo, scritti con un stile vivo e chiaro (si dice che pensasse in napoletano e poi traducesse le sue intuizioni sulla carta).
Ci sono però degli effetti negativi nell’attività di Benedetto: la sua critica letteraria tenne l’Italia al di fuori delle novità che maturavano altrove, la sua svalutazione delle scienze della natura approfondì il solco tra cultura umanistica e cultura scientifica, e l’avversione alle scienze umane e sociali (perché cercavamo di “invadere” con metodi empirici il campo filosofico delle scienze dello spirito) ha ritardato lo sviluppo in Italia della linguistica moderna, della psicologia e della sociologia.
APPROFONDIMENTI
Manifesto degli intellettuali anti-fascisti
Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl’intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista.
Nell’accingersi a tanta impresa quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile e famoso manifesto, che, agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intellettuali tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore.
E, veramente, gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica e con le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso.
E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che risplenda di molto delicato sentire verso la Patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni.
Nella sostanza, quella scrittura è un imparaticcio scolaresco, nel quale ad ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini: come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo del secolo decimonono, cioè l’antistorico e astratto e matematico democratismo con la concezione sommamente storica della libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degli individui al Tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale: o, ancora, dove si perfidia nel pericoloso indiscernimento tra istituti economici, quali sono i sindacati, ed istituti etici, quali sono le assemblee legislative, e si vagheggia l’unione o piuttosto la contaminazione dei due ordini, che riuscirebbe alla reciproca corruttela, o, quanto meno, al reciproco impedirsi. E lasciamo da parte le ormai note e arbitrarie interpretazioni e manipolazioni storiche.
Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che vi si fa della parola ” religione “; perché, a senso dei signori intellettuali fascisti, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte, la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l’odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l’odio e il rancore che si accendono da un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere d’italiani e li ingiuria stranieri, e in quest’atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto perfino ai giovani delle università l’antica e fidente fratellanza dei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili: è cosa che suona’ a dir vero, come un’assai lugubre facezia.
In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce ad intendere dalle parole del verboso Manifesto; e, d’altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di aborrimento dalla cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. E, se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un’originale impronta, tale da dare indizio di un nuovo sistema politico, che si denomini dal fascismo.
Per questa caotica e inafferrabile ” religione ” noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna: quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia operarono, patirono e morirono, e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversari, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda in pugno la loro bandiera. La nostra fede non è un’escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale.
Ripetono gl’intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trita frase che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d’Italia di fronte ai contrasti tra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale venne accolto da molti liberali nei primi tempi, il movimento fascistico, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell’inerzia e nell’indifferenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governi assolutistici e quietistici.
Anche oggi, né quell’asserita indifferenza e inerzia, né gli impedimenti che si frappongono alla libertà, c’inducono a disperare o a rassegnarci. Quel che importa, è che si sappia ciò che si vuole e che si voglia cosa d’intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l’Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.”
Cesare Angelini, “Gli uomini della Voce”: lieve contrasto con Benedetto Croce
Ciascuno di noi, qualunque sia il suo orientamento spirituale e l’educazione e l’abito e gli umori, ma che della coltura faccia una condizione di civiltà e di vita e, direi, un aumento di onestà, deve qualcosa a lui: chi più, chi meno, a seconda della sua capacità a prendere da un uomo che ha dato tanto. Molto Croce vive in noi, anche in chi non lo confessa. Se D’Annunzio fu un modo tutto esteriore di vivere, Croce è, più severamente, un modo di pensare, che è un vivere interno e intenso.
E ognuno di noi ha il suo «episodio» con Croce, che vorrà narrare in forma di ricordo o d’augurio, di riparazione o di ringraziamento. Il mio, mi è tanto più caro in quanto c’è di mezzo Renato Serra. Eran gli anni ch’ero capitato a vivere nella pura e cara città di Romagna – ditemi: che ne è di Cesena ? – e Serra, che aveva scoperto qualche piccolo pregio in un mio quadernetto andatogli in mano – ma lo riguardava troppo da vicino, parlava addirittura di lui – mi consigliò di mandarlo a Napoli, al Croce. Aggiunse: “vedrà che lo leggerà e le risponderà”. Croce difatti rispose: alleggerissi le pagine di qualche indugio lezioso e fastidioso, e le mandassi alla Voce di Prezzolini come a luogo naturale: forse l’avrebbe pubblicate. Per una disciplina cui mi piacque esser docile, le tenni invece nel cassetto. Ma il buon consenso di Croce mi rallegrò, e glie ne fui grato come d’un credito che mi faceva e d’uno stimolo al lavoro.
Come fu, dunque, che poco dopo e proprio sulla Voce passata da Prezzolini a De Robertis gli dissi contro male parole con una sufficienza gratuita che non mi pare mi sia mai appartenuta e ancora oggi mi umilia? In quel tempo Croce “aveva detto male” del Pascoli. Ed io, che le Myricae le leggevo in ginocchio quasi per divozione, e a San Mauro di Savignano ci andavo da Cesena ogni settimana come in pellegrinaggio, anch’io mi ritenni offeso. Quasi un fatto personale. Toccava un mio amore; mio e di tanti, in quegli anni sensibili in cui era ancor lecito ammalarsi per la poesia. Più tardi (ma molto più tardi) capii quanto sciocca era la mia irritazione. Anche nel caso del Pascoli, Croce non mutilava ma purificava, non negava ma ripuliva, e le sue osservazioni sul poeta romagnolo – fra tant’altre fluide e sempre perplesse – rimangono ancora oggi severe ma ferme e orientative. A ogni modo Croce era un uomo troppo superiore per volermene male; e mentre so che quel “quadernetto serriano”, con verdissima memoria e sorriso benevolo, ancora negli ultimi suoi anni ne accennava ad amici, dalla sua bocca seppi che quell’altre mala parole egli intese e giustificò come un giovanile amore di poesia; quell’amore per il quale ben più gagliardamente egli spese i suoi grandi e fecondissimi anni. E non conosco più cristiano umanismo di questa comprensione.
Si ricorda quando per la prima volta, nel 1912, lei mi scrisse dal seminario di Cesena? Il suo nome è restato da allora congiunto nel mio animo con quello del povero Serra.
L’ultima volta che lo vidi fu nel ’30 (o ’31), e proprio in questo Borromeo, dov’egli era venuto per incontrarsi (che da anni vi era ospite) col poeta russo Venceslao Ivanov. Ricordo quel loro colloquio su cose di religione e di lettere come un’impegnatissima lotta di due giganti cortesi. L’amico di Merezkovkii, convertito da poco al cattolicismo, spiegava il suo lucente fervore di neofita; il nipote di Spaventa difendeva le sue posizioni idealistiche col sentimento con cui si difende un’eredità. Un vento di foresta soffiava sulle loro parole.
Ma per sapere che avvenimento fu il Croce per la coltura italiana (la Critica è del ‘903 e l’Estetica del ‘902), bisogna essere stati giovani ancora verso il 1910 quando ampiamente si respiravano i benefici del suo rinnovamento prima delle arbitrarie applicazioni e esasperazioni.
Naturalmente non parlo della sua filosofia: e chi la conosce tutta?
Sappiamo poi che c’è su la condanna della Chiesa, e non ne diciamo di più.
Certo molte riserve deve fare un cattolico sulla sua dottrina: e a troppe astiose «postille» egli ha ceduto e non tutte serene. Ma, al di là delle riserve, resta il valore morale del suo insegnamento, che è grande; restano i suoi meriti che non sono facilmente elencabili, specialmente nel campo della critica letteraria, che è il più suo. Rinnovamento di coltura per il Croce voleva dire rinnovamento di spirito, e la serietà del metodo e la sincerità della ricerca in una religiosa tenacia di volontà. Croce insegnava che bisogna leggerli i libri, prima di parlarne o di citarli; che bisogna studiarla la storia d’un soggetto prima di trattarne.
E combatté la superficialità, il dilettantismo, l’equivoco decadentismo e i fabbricatori del vuoto, per giungere a schiettezza di coltura e sanità di gusto.
L’influenza esercitata dalla sua Estetica fu immensa. Non partita dall’università, entrò nelle università e nelle scuole e in tutti gli Italiani. Con l’estetica o scienza della espressione, Croce ha aiutato a chiarire, a ripulire il concetto di poesia. Se l’arte è intuizione, è chiaro il carattere fondamentalmente lirico d’ogni opera d’arte. E, partendo dall’abolizione dei generi letterari, è arrivato alla distinzione fra struttura e poesia o poesia e il diverso dalla poesia, o, più semplicemente, poesia e non poesia, che è la semplificazione di molte situazioni e problemi. Viva è anche l’altra distinzione fra poesia e poesia della poesia, che è tutt’altro che un gioco. Croce ebbe naturalmente una scuola, che si disse dei «critici nuovi»; i quali, dando alle loro pagine presupposti filosofici, parvero opporsi a critici di stampo vecchio o di puro metodo storico-filologico, e che non diremo carducciani per rispetto al Carducci, benché dessero occasione alla «polemica carducciana» del 1912. Fedele alla sua estetica, Croce ha sollevato secoli che parevano decaduti; ha fatto giustizia a scrittori dimenticati, ha risuscitato libri trascurati; ha riveduto tutti i nostri poeti dell’Ottocento, i maggiori e i minori (e i forastieri), in medaglioni pressoché definitivi e con giudizi ai quali si dovrà per sempre tornare ogni volta che si vorrà discorrere di alcuno di essi. Ha sollecitato l’interesse per il Vico; ha fatto conoscere agli Italiani De Sanctis, difendendolo dagli attacchi carducciani.
Punti deboli nella sua critica? Certo, ce ne sono; dovuti più che altro alla rigorosa coerenza del suo sistema. Ma oltre alla potentissima coltura, alla ricchezza del pensiero, alla sicurezza del gusto, alla pienezza dell’informazione, alla sincerità del lavoro, che fanno di lui un maestro, in Croce è particolarmente da notare la chiarezza, la nitidezza dell’espressione. E un giorno, volendoci occupare dello stile di Croce, dovremo pur concludere che, sopra le mode e i rumori e gli ingrati bastardumi che ci infestarono e c’infestano, Croce è stato in questi decenni il nostro scrittore più potente, certo più italiano. Che non è l’ultimo suo insegnamento. Dice che dovere dello scrittore è quello d’essere italiano anche quando scrive.
E in questo è il nostro nuovo classicismo.
(questo brano è il capitolo IX del libro UOMINI DELLA «VOCE», di Cesare Angelini, a cura di Vanni Scheiwiller; Milano 1986.
Il volume è stato impresso dalla stamperia Valdonega di Verona in millecinquecento copie numerate il 27 settembre 1986)
Cesare Angelini, “Questa mia Bassa (e altre terre)”: ricordo di Croce
[…] Leggo in una cartolina di Benedetto Croce, scritta nel settembre del ‘37: “Le rinnovo i ringraziamenti per il ricordo della mia figliola pregante in Cieldoro di Pavia”. In uno dei suoi ritorni a Milano per trovare gli amici, sopra tutti Alessandro Casati, quell’anno il Croce era venuto anche a Pavia a cercare nella biblioteca del Museo civico un libro del Seicento, di rarissima edizione. Gliel’aveva segnalato il Casati, bibliofilo di fiuto sicuro.
Aveva dietro la figlia Elena, e lo accompagnavano lo stesso Casati, Gallarati Scotti, Francesco Flora, Stefano Iacini, Balsamo Crivelli, e un Treves, non so più se Pietro o Paolo: lo stato maggiore della cultura milanese di quegli anni. Nel gruppo c’era anche il volatore-scrittore Beonio Brocchieri, appena tornato dal mondo.
Dopo un caffè al Demetrio (che rischiò d’essere disturbato per zelo politico troppo grossolano) si andò insieme in Cieldoro [Chiesa di S. Pietro in Cieldoro di Pavia, ndr]. Il desiderio era stato dello stesso Croce che, piuttosto loquace per strada, entrando nel tempio s’era fatto silenzioso e quasi allontanato in se stesso, come se i suoi pensieri avessero cambiato registro. Il filosofo si trovava tra i suoi, coi suoi, Agostino e Boezio [nella chiesa pavese ne sono custodite le reliquie, ndr], uomini che avevano udito parlare la Filosofia; e uno ne trascrisse le “consolazioni”, l’altro ne ebbe il colmo della “rivelazione”, la Grazia. Nell’epitaffio metrico inciso sulla tomba di Boezio, giù nella cripta, il Croce notò, puntandovi il dito, l’accenno alla traduzione che il grande romano fece della logica di Aristotele: “Nobis Logicen de graeco transtulit artem”. Altra commozione non lasciò trasparire.
Intanto la figliola che in una cappella di destra aveva visto ardere una gran macchia di lumi, mi domandò quale santo vi si onorasse. E, avendole risposto che si onorava Santa Rita, ritenuta in Pavia “la santa degli impossibili”, disse: “Allora vado a pregarla per mio padre”. E la vedemmo inchinata a quell’altare. Non so se ce ne fosse bisogno; ma certo Dio concede tante cose per le preghiere d’una figliola.
Benedetto Croce, “Saggio sullo Hegel”: il pensamento filosofico
Il pensamento filosofico è, per Hegel: 1°, concetto; 2°, universale; 3°, concreto. È concetto, vale a dire non è sentimento o rapimento o intuizione o altro simile stato psichico alogico e privo di forze dimostrativa. Il che stabilisce la differenza della filosofia rispetto alle teorie del misticismo e del sapere immediato; le quali hanno, tutt’al più, un significato negativo, in quanto riconoscono che la filosofia non può costruirsi col metodo delle scienze empiriche e naturali, delle scienze del finito; e sono, se così si vuole, profonde, ma di una « profondità vuota ». Contro il misticismo, le smanie, i sospiri, il levare gli occhi al cielo e piegare i colli e serrar le mani, gli sdilinquimenti, gli accenni profetici, le frasi misteriose da iniziati, Hegel diventa ferocemente satirico; e mantiene sempre che la filosofia deve avere forma intelligibile e ragionata; dev’essere « non esoterica, ma essoterica », non cosa di setta, ma di umanità.
– Il concetto filosofico è universale, e non già meramente generale: non è da confondere con le rappresentazioni generali, come, ad esempio, la « casa », il « cavallo », l’ «azzurro », le quali, per un uso, come Hegel dice, barbarico, si denominano ordinariamente concetti. Il che stabilisce la differenza tra la filosofia e le scienze empiriche o naturali, che si soddisfano di tipi e concetti di classe.
– L’universale filosofico, infine, è concreto: non ischeletrimento della realtà, ma comprensione di questa nella sua pienezza e ricchezza: le astrazioni filosofiche non sono arbitrarie ma necessarie, e perciò si adeguano al reale, e non lo mutilano o falsificano. E ciò stabilisce la differenza della filosofia rispetto alle discipline matematiche; le quali non giustificano i loro punti di partenza, ma « li comandano », e bisogna (dice Hegel) ubbidire al comando di tirare proprio queste e queste linee, con la buona fiducia che la cosa sarà « opportuna » per l’andamento della dimostrazione. La filosofia invece ha per oggetto ciò che realmente è; e deve giustificare pienamente sé stessa, non ammettendo né lasciando sussistere alcun presupposto.
Nota: il testo citato risale al 1913, ma il “Saggio sullo Hegel” originale è del 1912
Alberto Einstein – Lettera a B. Croce (e risposta del Croce)
Princetown, 7 giugno 1944.
Apprendo che una persona di qui, che ebbe la fortuna di visitarla, ricusò di lasciarle la lettera da me indirizzata a lui ma scritta a Lei. Pure, di ciò mi consolo nel pensiero che Ella è ora presa da occupazioni e sentimenti incomparabilmente più importanti, e particolarmente dalla speranza che la sua bella patria sia presto liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro. In questo tempo di generale sconvolgimento possa a Lei essere concesso di rendere al suo paese un servigio oltremodo prezioso, perchè ella è dei pochi che, stando di sopra dei partiti, hanno la fiducia di tutti.
Se l’antico Platone potesse in qualche guisa vedere quello che ora accade, si sentirebbe come in casa sua, perchè, dopo lungo corso di secoli, vedrebbe ciò che di rado aveva visto, che si viene adempiendo in certo modo il suo sogno di un governo retto da filosofi; ma vedrebbe altresì, e ciò con maggiore orgoglio che soddisfazione, che la sua idea del circolo delle forme di governo è sempre in atto.
La filosofia e la ragione medesima sono ben lungi, per un tempo prevedibile, dal diventare guide degli uomini, ed esse resteranno il più bel rifugio degli spiriti eletti; l’unica vera aristocrazia, che non opprime nessuno e in nessuno muove invidia, e di cui anzi quelli che non vi appartengono non riescono neppure a riconoscere l’esistenza.
In nessuna altra società i vincoli fra viventi e morti sono così vivi, e i nostri simili dei secoli precedenti stanno con noi come amici, i cui detti non perdono mai la loro attrattiva, la loro fecondità e la personale loro magia. E, infine, chi realmente appartiene a quella aristocrazia, potrà bensì dagli altri uomini essere messo a morte, ma non offeso.
Con rispettosi saluti e auguri.
A. EINSTEIN
Sorrentino, 28 luglio 1944
Illustre amico,
La sua lettera mi è stata carissima, perchè ho avuto sempre nel ricordo la lunga conversazione che facemmo in Berlino nel 1931, quando ci accomunammo nello stesso sentimento ansioso sul pericolo in cui versava la libertà in Europa: comunanza di sentimento e di propositi che vidi confermata allorchè mi trovai a collaborare con Lei, – fatta esule dalla sua patria per l’inferocita lotta contro la libertà – nel volume di saggi sulla libertà (Freedom), preparato, or son quattro anni, in New York.
Delle due teorie di Platone, che Ella richiama, non è stata, in verità, ricevuta, anzi è stata respinta, dal pensiero moderno quella della repubblica perfetta, costruita e governata dalla ragione e dai filosofi; ma l’altra è stata serbata, che a lui non era particolare, del circolo delle forme, ossia delle forme necessarie in cui perpetuamente si muove la storia: con questo di più che quel circolo è stato rischiarato dall’idea complementare del perpetuo avanzamento ed elevamento dell’umanità attraverso il percorso necessario, o, secondo l’immagine che piacque al vostro Goethe, del suo <<corso a spirale>>. Questa idea è il fondamento della nostra fede nella ragione, nella vita e nella realtà.
Quanto alla filosofia, essa non è severa filosofia se non conosce, con l’ufficio suo, il suo limite, che è nell’apportare all’elevamento dell’umanità la chiarezza dei concetti, la luce del vero. È un’azione mentale, che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che essa può soltanto sollecitare. In questa seconda sfera a noi, modesti filosofi, spetta di imitare un altro filosofo antico, Socrate, che filosofò ma combattè da oplita a Potidea, o Dante, che poetò ma combattè a Campaldino, e, poichè non tutti e non sempre possono compiere questa forma straordinaria di azione, partecipare alla quotidiana, e più aspra e più complessa guerra, che è la politica. Anch’io frequento la compagnia della quale Ella parla con così nobili parole, di coloro che già vissero sulla terra e ci lasciarono le opere loro di pensiero e di poesia, e mi rassereno e ritempro in esse. Di volta in volta m’immergo in questo bagno spirituale, che è quasi la mia pratica religiosa. Ma in quel bagno non è dato restare, e da esso bisogna uscire per abbracciare gli umili e spesso ingrati doveri che ci aspettano sull’uscio.
Perciò mi sento oggi, conforme ai miei convincimenti e ai miei ideali, impegnato nella politica del mio paese; e vorrei, ahimè, possedere per essa a dovizia le forze che le sono più direttamente necessarie, ma tuttavia le do quelle, quali che siano, che mi riesce di raccogliere in me, sia pure con qualche stento. e ringrazio Lei dell’augurio generoso che fa all’Italia, la quale ha sofferto una triste e dolorosa vicenda preparata dal collasso prodotto in essa come in altri paesi dalla guerra precedente onde fu possibile ai dissennati e violenti d’impadronirsi dei poteri dello Stato, non senza il gran plauso e la larga ammirazione del mondo intero, e volgere e sforzare l’Italia in una via che non era la sua, che tutta la sua storia smentiva. Perchè non mai l’Italia, dalla caduta dell’Impero romano, ha delirato di dominio nel mondo ed essa per secoli ha attuato o ha cercato libertà e nella libertà si è unificata, e il suo nazionalismo e fascismo è venuto da concetti forestieri, che solo quei dissennati e violenti potevano adottare a pretesto del loro malfare. Neppure Roma antica ebbe cotesto delirio, perchè l’opera sua fu di proseguire quella luminosamente iniziata dall’Ellade e creare un’Europa, dando leggi civili ai barbari che non ne avevano o le avevano barbariche.
La guerra è la guerra e non ubbidisce ad altro principio che al suo proprio, e anche le più nobili ideologie sono per essa mezzi di guerra, come ogni conoscitore di storia sa e ogni uomo sagace intende. La lotta interna per la civiltà e la libertà si svolgerà poi, a guerra finita, nei paesi vincitori non meno che nei vinti, tutti sconvolti dalla guerra sostenuta, tutti dal più al meno disabituati alla libertà; e durerà anni e sarà assai travagliosa e assai perigliosa. Ma poichè le guerre mirano, come a naturale loro effetto, a un assetto di pace, è da augurare e da raccomandare che gli uomini di Stato, che oggi le dirigono, pensino sin da ora a non preparare nei vari paesi condizioni tali che renderebbero impossibile una solida pace e danneggiando così la causa stessa della libertà, preparerebbero una nuova guerra, la quale non potrà mai essere impedita dalla semplice coercizione, ma richiede la disposizione degli animi alla pace, alla concordia e alla dignità del lavoro. <<Le lingue legano le spade>>, come diceva un vecchio filosofo italiano.
Ma non voglio tediarla con entrare a discorrere di quel che io osservo e giudico nelle cose della politica internazionale, in riferimento particolare all’Italia; chè anzi dovrei altresì chiederle venia di avere tolto occasione dalle sue parole gentili e cordiali per esporle i miei pensieri sulle alte questioni da Lei toccate. Ma <<naturam expelles furca, tamen usque recurret>>; la natura cioè del filosofo che distingue e teorizza. E, ringraziandola della sua buona lettera, Le stringo la mano
Suo
B. CROCE
Nota 1: la frase in latino del Croce si può tradurre con “caccia quanto vuoi la natura con la forca, questa tuttavia tornerà indietro” (Orazio Epistola I, 10, v. 24).
Nota 2: nel ricopiare le lettere ho ricopiato fedelmente anche gli errori grammaticali, che se non apparvero sulle lettere originali, apparvero di certo sul libretto pubblicato dalla Laterza & figli nel 1944: ogni “e” bisognosa di accento è stata scritta con la “è” chiusa anche quando doveva essere una “é” aperta (vedi “perché”, “poiché” ecc.)
Discorso tenuto da Benedetto Croce il 24-7-1947 all’Assemblea Costituente
Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riservato un così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare, e nell’essere stretto dal dovere di prendere la parola intorno ad esso. Ma il dolore affina e rende più penetrante l’intelletto che cerca nella verità la sola conciliazione dell’interno tumulto passionale.
Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente.
Senonché il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e giuridico e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi o tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano coi vincitori gli altri popoli, anche quelli del continente nero.
E qui mi duole di dovere rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è una legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento giuridico, e che in essa la ragion giuridica si tira indietro lasciando libero il campo ai combattenti, dall’una e dall’altra parte biasimati o considerati traditori se si astengono da cosa alcuna che sia comandata come necessaria o conducente alla vittoria.
Chi sottopone questa materia a criteri giuridici, o non sa quel che si dica o lo sa troppo bene e cela l’utile, ancorché egoistico del proprio popolo o Stato, sotto la maschera del giudice imparziale. Segno inquietante di turbamento spirituale sino ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo), i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto i nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente d’ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro uomini, e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo o concludendo con ciò la guerra.
Giulio Cesare non mandò innanzi a un tribunale ordinario o straordinario l’eroico Vercingetorige, ma esercitando vendetta o reputando pericolosa alla potenza di Roma la vita e l’esempio di lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò per le strade di Roma dietro il suo carro trionfale e indi lo fece strozzare nel carcere. Parimente si è preso oggi il vezzo, che sarebbe disumano se non avesse del tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che lo riconoscano e promettano di emendarsi: che è tale pretesa che neppur Dio, il quale permette nei suoi ascosi consigli le guerre, rivendicherebbe a sé, perché egli non scruta le azioni dei popoli nell’ufficio che il destino o l’intreccio storico di volta in volta a loro assegna, ma unicamente i cuori e i reni, che non hanno segreti per lui dei singoli individui. Un’infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non da parte dei vinti, si piuttosto dei vincitori, non dei giudicati ma degli illegittimi giudici.
Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere. Ma altrettanto dubbio suscita questo documento nell’altro suo aspetto di dettato internazionale che dovrebbe ristabilire la collaborazione tra i popoli nell’opera della civiltà e impedire, per quanto è possibile, il rinnovarsi delle guerre. Il tema che qui si tocca è così vasto e complesso che io non posso se non lumeggiarlo sommariamente e in rapporto al solo caso dell’Italia e nelle particolarità di questo caso.
L’Italia, dunque, dovrebbe, compiuta l’espiazione con l’accettazione di questo dettato, e così purgata e giustificata, rientrare nella parità di collaborazione con gli altri popoli. Ma come si può credere che ciò sia possibile se la prima condizione di ciò è che un popolo serbi la sua dignità e il suo legittimo orgoglio, e voi, o sapienti uomini dei tripartito, o quadripartito internazionale, l’offendete nel fondo più geloso dell’anima sua, perché, scosso che ebbe da sé l’Italia, non appena le fu possibile, l’infesto regime tirannico che la stringeva, avete accettato e sollecitato il suo concorso nell’ultima parte della guerra contro la Germania, e poi l’avete, con pertinace volontà, esclusa dai negoziati della pace, dove si trattava dei suoi più vitali interessi, impedendole di fare udire le sue ragioni e la sua voce e di suscitare in sè spontanei difensori in voi stessi o tra voi?
E ciò avete fatto per avere le sorti italiane come una merce di scambio tra voi, per equilibrare le vostre discordi cupidigie o le vostre alterne prepotenze, attingendo a un fondo comune, che era a disposizione.
Così all’Italia avete ridotto a poco più che forza di polizia interna l’esercito, diviso tra voi la flotta che con voi e per voi aveva combattuto, aperto le sue frontiere vietandole di armarle a difesa, toltole popolazioni italiane contro gli impegni della cosiddetta Carte Atlantica, introdotto clausole che violano la sua sovranità sulla popolazioni che le rimangono, trattatala in più cose assai più duramente che altri stati ex nemici che avevano tra voi interessati padroni, toltole o chiesto una rinunzia preventiva alle colonie che essa stessa aveva acquistate col suo sangue e amministrate e portate a vita civile ed europea col suo ingegno e con dispendio delle sue e tutt’altro che ricche finanze, impostole gravi riparazioni anche verso popoli che sono stati dal suo dominio grandemente avvantaggiati, e perfino le avete, come ad obbrobrio, strappati pezzi di terra del suo fronte occidentale da secoli a lei congiunti e carichi di ricordi della sua storia, sotto pretesto di trovare in quel possesso la garanzia contro una possibile irruzione italiana, quella garanzia che una assai lunga e assai fortificata e assai vantata linea Maginot non seppe dare.
Non continuo nel compendiare gli innumeri danni ed onte inflitte all’Italia e consegnati in questo documento, perché sono incisi e bruciano nell’anima di tutti gli italiani; e domando se, tornando in voi stessi, da vincitori smoderati a persone ragionevoli, stimate possibile di avere acquistato con ciò un collaboratore in piena efficienza per lo sperato nuovo assetto europeo.
Il proposito doveroso di questa collaborazione permane e rimarrà saldo in noi, e lo eseguiremo perché corrisponde al nostro convincimento e l’abbiamo pur ora comprovato col fatto; ma bisogna non rendere troppo più aspro all’uomo il già aspro suo dovere, né dimenticare che al dovere giova la compagnia che gli recano l’entusiasmo, gli spontanei affetti, l’esser libero dai pungenti ricordi di torti ricevuti, la fiducia scambievole che presta impeto ed ali.
Noi italiani, che non possiamo accettare questo documento perché contrario alla verità, e direi alla nostra più alta scienza, non possiamo, sotto questo secondo aspetto dei rapporti fra i popoli, accettarlo, nè come italiani curanti dell’onore della loro patria, né come europei, due sentimenti che confluiscono in uno; perché l’Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formate la civiltà europea, e per oltre un secolo ha lottato per la libertà e l’indipendenza sua e, ottenutala, si era per molti decenni adoperata a serbare con le sue alleanze e intese difensive la pace in Europa.
E cosa affatto estranea alla sua tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta, ma da competizioni di altre potenze, la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui. Libri stranieri hanno testé favoleggiato la sua storia nei secoli come una incessante aspirazione all’imperialismo, laddove l’Italia una sola volta fu imperiale, e non propriamente essa, ma l’antica Roma, che peraltro valse a creare la comunità che si chiamò poi l’Europa; e, tramontata quell’egemonia, per la sua posizione geografica divenne campo di continue invasioni e usurpazioni dei vicini popoli e stati.
Quei libri, dunque, non sono storia, ma deplorevole pubblicistica di guerra, vere e proprie falsificazioni.
Nel 1900 un ben più sereno scrittore inglese, Bolton King, che con grande dottrina narrò la storia della nostra Unità, nel ritrarre l’opera politica dei governi italiani nel tempo seguito all’Unità, riconosceva, nella conclusione del suo libro, che, al confronto degli altri popoli di Europa, l’Italia “possedeva un ideale umano e conduceva una politica estera comparativamente generosa”.
Ma se non approveremo questo documento, che cosa accadrà? In quali strette ci cacceremo? – Ecco il dubbio e la perplessità che può travagliare alcuno o parecchi di voi, i quali nel giudizio di sopra esposto e ragionato del cosiddetto trattato so che siete tutti e del tutto concordi con me ed unanimi, ma pur considerate l’opportunità contingente di una formalistica ratifica.
Ora non dirò ciò che voi ben conoscete: che vi sono questioni che si sottraggono alla spicciola opportunità e appartengono a quella inopportunità inopportuna o a quella opportunità superiore che non è del contingente, ma del necessario; e necessaria e sovrastante a tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio affidatoci dai nostri padri, da difendere in ogni rischio e con ogni sacrificio.
Ma qui posso stornare per un istante il pensiero da questa alta sfera che mi sta sempre presente, e, scendendo anch’io nel campo del contingente, alla domanda su quel che sarà per accadere rispondere, dopo avervi ben meditato, che non accadrà niente, perché in questo documento è scritto che i suoi dettami saranno messi in esecuzione anche senza l’approvazione dell’Italia: dichiarazione in cui, sotto lo stile di Brenno, affiora la consapevolezza della verità che l’Italia ha buona ragione di non approvarlo. Potrebbero bensì, quei dettami, venire peggiorati per spirito di vendetta; ma non credo che si vorrà dare al mondo di oggi, che proprio non ne ha bisogno, anche questo spettacolo di nuova cattiveria, e, del resto, peggiorarli mi par difficile, perché non si riesce a immaginarli peggiori e più duri.
Il governo italiano certamente non si opporrà alla esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte.
Ma l’approvazione no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di se stesso, che è indispensabile a un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela.
Del resto, se prima eravamo soli nel giudizio dato di sopra del trattamento usato all’Italia, ora spiritualmente non siamo più soli: quel giudizio si avvia a diventare un’opinio communis e ci viene incontro da molti altri popoli e perfino da quelli vincitori, e da minoranze dei loro parlamenti che, se ritegni molteplici non facessero per ora impedimento, diventerebbero maggioranze, e fin da ora ci esorta a ratificare sollecitamente il trattato per entrare negli aeropaghi internazionali da cui siamo esclusi, e nei quali saremmo accolti a festa, se anche come scolaretti pentiti; e ci si fa lampeggiare l’incoraggiante visione che le clausole di esso più gravi e più oppressive non saranno eseguite e tutto sarà sottoposto a revisione.
Noi non dobbiamo cullarci nelle facili speranze e nelle pericolose illusioni e nelle promesse più volte provate fittizie, ma contare anzitutto e soprattutto su noi stessi; e tuttavia possiamo confidare che molti comprenderanno la necessità del nostro rifiuto dell’approvazione, e l’interpreteranno per quello che esso è: non un’ostilità contro il riassetto pacifico dell’Europa, ma , per contrario, non ammonimento e un contributo a cercare questo assetto nei modi in cui soltanto può ottenersi; non una manifestazione di rancore e di odio, ma una volontà di liberare noi stessi dal tormento del rancore e dalle tentazioni dell’odio.
L’Unità, 22-1-2000: “Croce, da “papa laico” a grande dimenticato” – di Guido Liguori
Singolare, la sorte di Croce in Italia. Dopo essere stato per decenni grazie anche a una vita e a una attività intellettuale lunghissime il “papa laico” (così lo ebbe a definire Gramsci) della cultura italiana, dopo aver influenzato in vario modo molti passaggi decisivi del Novecento, italiano e non solo dal dibattito marxista di inizio secolo alla lotta al “giolittismo”, dagli anni agitati del primo dopoguerra alla riscoperta della democrazia e all’opposizione al fascismo, fino alla costruzione della democrazia postfascista, a partire dalla morte (1952) Croce è stato sostanzialmente dimenticato. Con eccessivo ottimismo, infatti, si è parlato di “ritorno di Croce”, agli inizi degli anni Novanta, forse in coincidenza con la nuova, pregevole edizione delle sue opere presso l’editore Adelphi, a cura di Giuseppe Galasso.
Perché questo sia accaduto non è difficile a dirsi. Non tanto per colpa di quella “battaglia per l’egemonia” che la “filosofia della prassi”, ossia il marxismo italiano, sulla scorta dei Quaderni del carcere, avrebbe dovuto intraprendere contro il pensiero di Croce: perché anzi riconoscendolo a lungo (e forse erroneamente, cioè in parte fraintendendo lo stesso Gramsci) come il “nemico principale” – il marxismo italiano non faceva altro se non riconfermarne indirettamente la centralità. No, Croce piuttosto è stato sconfitto, o meglio travolto, dalla piena di quella cultura europea e americana che egli a lungo si era adoperato di tenere ai margini del discorso filosofico e ideologico, almeno nel nostro Paese, e che poi, rotti gli argini, tutto ha pervaso e sommerso, con un mare di traduzioni (del resto meritorie), studi critici, tesi di laurea.
“Nessuno dei miei allievi – afferma Norberto Bobbio nel libro che vogliamo qui presentare -, dalla prima generazione degli anni quaranta all’ultima degli anni ottanta, si è mai occupato di Croce. Nessuno mi ha mai chiesto di avviarlo allo studio della filosofia crociana”. E sarebbe ingeneroso obiettare che se ciò è accaduto, la ragione va forse ricercata anche nell’insegnamento del maestro in questione, di Bobbio stesso. La realtà è che – con le profonde trasformazioni vissute dall’Italia dei decenni cinquanta e sessanta – il pensiero di Croce, il suo modo così forte e così peculiare di rispecchiare quel mondo che non c’era più, è irrimediabilmente sembrato lontano. Fino a pochi anni prima la sua presenza era tutto o quasi, sulla scena culturale italiana. Solo pochi anni dopo – per un ingiusto contrappasso, si potrebbe dire – è stato niente, o poco più. Quelle stagioni sono ormai lontane. E se certo Croce non è più destinato a “tornare” in modi e forme paragonabili a quelli registrati mentre ancora egli era in vita, è altrettanto certo che è non solo ingiusto, ma sciocco, per gli intellettuali italiani, lasciarlo nell’oblio in cui è stato a lungo tenuto. Croce è un grande classico. E’ un grande patrimonio della cultura italiana. E come tale va trattato. E’ quindi da apprezzare lo sforzo di Paolo Bonetti, che ha saputo raccogliere in un volume da lui curato “Per conoscere Croce”, a cura di Paolo Bonetti, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 275, £. 35.000) i contributi di alcuni dei migliori studiosi ed esperti di Croce, impegnati a riflettere, in modo anche accessibile a un pubblico colto ma non specialistico, su tutti i principali te mi del vasto sapere crociano: dalla sua lettura del marxismo (Giuseppe Bedeschi) alle varie sfaccettature del suo liberalismo (Norberto Bobbio), dal rapporto con la cultura del suo tempo (Giuseppe Galasso) al rapporto col cristianesimo (Nicola Matteucci), dalla concezione della libertà (Giovanni Sartori) e dal rapporto con la tradizione liberale (Gennaro Sasso) alla polemica col decadentismo (Gianni Vattimo).
La prima parte del volume che comprende le conversazioni di Bonetti con gli autori sopra richiamati – è seguita da una seconda parte, saggistica, in cui altri studiosi completano il quadro ricostruttivo, a volte con risultati di grande interesse. E’ il caso innanzitutto del contributo di Giuseppe Cacciatore, su Filosofia della pratica e filosofia pratica in Croce, o del saggio di Pio Colonnello sullo storicismo di Croce e sulla sua concezione dell’individuo. E di tanti altri ancora. Insomma, un volume ricco e di grande interesse, che permette letture a più livelli.
E che può contribuire a riportare l’attenzione su Croce come sarebbe giusto. In fondo, in un momento in cui tutti parlano, spesso a sproposito, di liberalismo (e spesso anche, ahimè, di liberismo) è davvero originale che non si torni a fare i conti con questo grande classico del pensiero italiano.
Il Mattino, 19-10-2001: “Croce – Un insolito ritratto del filosofo nelle lettere allo zio di Luigi Pintor: perché non ripubblicarle?” – di Giorgio Frasca Polara
Tra poco, l’anno venturo, saranno cinquant’anni dalla morte di Benedetto Croce, ricordato oggi in un importante convegno a Napoli. Tra le prevedibili, innumerevoli iniziative, sarebbe assai utile la ristampa, da parte del Senato, di un prezioso volume curato dieci anni fa dall’allora presidente dell’assemblea di Palazzo Madama: «Il carteggio di Benedetto Croce con la Biblioteca del Senato». Nell’inesauribile produzione di Spadolini questa rappresentò una vera chicca: la pubblicazione di un grosso complesso di inediti crociani – 341 tra lettere, biglietti e cartoline: la gran parte conservati in Senato, e in minor misura ritrovati, grazie a Marino Raicich, in un fondo dell’Archivio centrale dello Stato – che testimoniano di cinquant’anni esatti, dal 1903 sino ai prodromi della morte nel ‘52, di stretti rapporti del filosofo con la ricca biblioteca senatoriale. Sono tutte richieste di prestiti di libri, o suggerimenti di acquisti, o sollecitazioni di pareri o chiarimenti bibliografici e non solo.
È insieme una preziosa documentazione per la storia e del pensiero e degli studi di Croce, una fonte inesauribile di informazioni sul retroterra di molte opere crociane, un ritratto curioso e affascinante di «don Benedetto» e una essenziale integrazione dei poderosi, ormai leggendari Taccuini che Croce stese praticamente per tutta la vita. Ed è proprio il Croce bibliofilo che più affascina, consentendo di misurare il suo atteggiamento nei confronti degli usi e costumi inveterati delle biblioteche. Alcuni manoscritti del primo dopoguerra sono in questo senso assolutamente deliziosi. È l’agosto del ‘18 (Croce da otto anni è senatore del regno: non per meriti culturali attenzione, ma per censo), e dalla villeggiatura, dove sta studiando il teatro elisabettiano, chiede in prestito un libro su Shakespeare di Friedrich Gundolf, stampato a Berlino e non ancora tradotto. Dal Senato gli fanno sapere che il volume è stato rintracciato alla Nazionale di Milano ma che al momento lo ha qualcun altro.
A fine settembre Croce torna alla carica e, scoprendo che il libro non è stato ancora riconsegnato, sbotta: «E Gundolf? Vorrei conoscere quello studioso shakesperiano che vi medita tanto sopra!» (Nell’ordinare il carteggio, i documentaristi della Biblioteca del Senato scopriranno più di settant’anni dopo l’arcano, forse mai rivelato a Croce: era stato lo stesso direttore della Nazionale di Milano a prorogare il prestito al meditabondo studioso ma, allertato da così pressante e prestigiosa richiesta, si affrettò a comunicare al collega del Senato che «con un ritardo di soli pochi giorni il suo illustre cliente potrà essere servito, com’è suo e mio vivissimo desiderio»…).
Un altro ingiallito biglietto, questa volta dell’estate del ‘29 documenta con precisione come, quanto e perché il filosofo e storico napoletano non si desse pace per l’uso disinvolto di un inestimabile bene comune di cui era invidiosissimo, lui che pur poteva contare già allora su una immensa raccolta personale. Da direttore della Critica eccolo dunque chiedere che gli si mandi una miscellanea di libri «assicurata per lire 300». «Io la rimanderò allo stesso modo», e spiega: «Queste precauzioni, dato il mio amore e la mia gelosia per i libri delle pubbliche biblioteche, mi fanno piacere». Dai riscontri, la conferma del rispetto di Benedetto Croce per i libri altrui: di norma egli non trattiene più di un mese i volumi in prestito (che, spiega in un’altra lettera, «sono da me serbati in uno scaffale speciale per non confonderli coi miei propri») e un mese non è certo gran tempo dal momento che le fotocopiatrici sono ancora di là da venire.
Tra richieste sofisticate («Mi occorre il seguente opuscolo: Apologia del genere umano accusato di essere stato una volta bestia, appendice all’opera di G.F. Finetti, Venezia 1786»), e richieste che lo sono assai meno («Abbiate pazienza, desidererei trovare sabato presso il Senato le seguenti opere di Marco Praga (…) Bella roba che sono costretto a leggere! Compiangetemi»), continui sono i suggerimenti su come arricchire e in quale direzione il patrimonio bibliografico del Senato. Una volta il motivo vero è che un certo libro serve a lui, altra volta è che «se la Bibl. del Senato li acquistasse, acquisirebbe volumi di monografie su odierni scrittori italiani, il che non sarebbe ripugnante alla sua indole».
Il suo referente privilegiato è il leggendario Fortunato Pintor, zio di Giaime e di Luigi, filologo e bibliofilo finissimo, per molti anni direttore della Biblioteca del Senato nell’età giolittiana e anche nei primi anni del fascismo, ma che proprio a cagione della dittatura sarà costretto a lasciarne la responsabilità effettiva a soli cinquantatré anni. Così, nel ‘14, «all’amico Pintor presento, e non ho bisogno di raccomandare, il Prezzolini che desidera studiare nella Bibl. del Senato», e nel ‘27 segnala che «l’amico De Ruggero» ha bisogno di consultare alcuni rari libri «per un suo lavoro di storia della filosofia» (che sarà poi la monumentale Storia edita più tardi, come tutte le opere crociane, da Laterza) e suggerisce a Pintor di insistere perché, una volta ottenuto il prestito, «egli venga a studiare quei libri presso la Bibl. del Senato».
Di grande interesse sono anche le tracce del lavoro preparatorio di alcuni classici di «don Benedetto». Nel ‘27 sta scrivendo la Storia d’Italia dal 1871 al 1914. È il momento in cui s’indurisce la sua opposizione al fascismo, e il carteggio rivela non solo il complesso di approfondimenti che andava facendo mentre scriveva, ma anche come la riflessione storica diventi per lui strumento di battaglia politica. La storia del movimento socialista è al centro di gran parte delle richieste. Il 15 ottobre vuole addirittura sapere come e quando esattamente D’Annunzio aveva annunciato alla Camera l’abbandono della Destra: «Mio caro Pintor, volete farmi il favore di darmi questa indicazione: in quale giorno (del 1900, durante l’ostruzionismo) il D’Annunzio, deputato, disse ”Colà è la vita ecc.” e, staccandosi dalla destra, passò all’estrema sinistra? E quali furono le sue precise parole?». Per la Storia d’Europa Croce era andato a caccia di libri alla Biblioteca di Berlino, ed era tornato con una lista di «altre storie molto importanti» che anche a Roma «non dovrebbero mancarvi». Croce la trasmette a Pintor proponendo l’acquisto di 10 opere in 17 volumi: eseguito.
L’ultima pagina del carteggio è del ‘52, poco prima della scomparsa di Croce. Con una cartolina postale il filosofo ricorda di aver fatto acquistare «una trentina di anni fa» un saggio dello storiografo Maritz Ritter. «Ora, dopo tanti anni, ho bisogno di rileggerlo e, sebbene lo abbia richiesto ai librai tedeschi, non so se e quando l’avrò, cosicché incomodo lei per che abbia la cortesia di mandarmi in lettura di nuovo il volume». Ma quando il libro arriverà a Napoli, Croce è appena morto.
Il Mattino, 1-6-2002: “Nel ‘44 doveva diventare la prigione di Benedetto Croce” – di Gennaro Pappalardo
C’è nella millenaria storia della Baia di Jeranto una pagina non scritta ma ben presente nella memoria degli eruditi, degli storici e dei filosofi: nel 1944 la mitica alcova delle Sirene, all’epoca una cava di macigni calcarei destinati agli altoforni di Bagnoli ormai in via di dismissione, avrebbe dovuto essere una prigione fascista per Benedetto Croce.
Il piano per rapire il filosofo napoletano, ospite della Villa del Tritone di Sorrento dopo il suo trasferimento da Napoli nel 1942 a causa dei bombardamenti, era perfetto nella mente dei suoi organizzatori: secondo le disposizioni dei gerarchi fascisti Croce doveva essere rapito perché potesse essere portato a Firenze per commemorare il suo amico-rivale di pensiero, ed anche di azione politica, Giovanni Gentile assassinato il 17 aprile ‘44. La messa in opera del programma era affidata all’avvocato Nando Di Nardo, una vita politica spesa tra la milizia fascista e la carica di deputato del Msi nel dopoguerra: dopo un suo sopralluogo tra Sorrento e Massa Lubrense si costituì un «commando» di volontari, quattro esponenti del fascismo della penisola sorrentina. A capo l’avvocato Sorrentino Stelio Sguanci e tre massesi: l’impiegato comunale Vittorio Marcia, il falegname Domenico Zarrella ed il custode della cava di Jeranto Cataldo Massa. Insomma Benedetto Croce sarebbe stato rapito dai quattro a Sorrento e con un’auto, rubata poco prima, trasportato sulla strada statale 163 amalfitana verso Positano: giunti ai Colli di San Pietro i quattro avrebbero proseguito a piedi col prigioniero fino alla Baia di Jeranto attraverso una serie di stradine da Sant’Agata sui due Golfi fino a Nerano. Il delicato compito di nascondere e vigilare su Benedetto Croce era affidato a Cataldo Massa.
Per fortuna il piano fallì: lo stesso Di Nardo, che ne aveva riferito ai principi Pignatelli per avere l’autorizzazione da Mussolini, si pentì e lasciò che altri consigliassero ed attuassero il trasferimento di Croce e delle figlie Silvia e Lidia nella più sicura isola di Capri, dove poi fu raggiunto dalla moglie Adelina e dalla figlia Alda. Malgrado già avesse nel ‘42 espresso le prime resistenze di a lasciare prima Napoli e poi Sorrento dopo le prime minacce subite per il suo antifascismo Croce accettò a malincuore i convincimenti a raggiungere Capri da parte del genero Raimondo Craveri, dell’amico avvocato Giuseppe Brindisi all’epoca commissario prefettizio nell’isola azzurra e d’un ufficiale della marina inglese di origini spagnole Federico Gallegos. In una sua intervista poco prima della morte (avvenuta a Massa Lubrense il 30 marzo 2000 – gli altri componenti del) commando erano già deceduti anni prima) il mancato carceriere di Croce a Jeranto Cataldo Massa, che intanto era stato operato alla laringe, ebbe ad esprimere a gesti di essersi commosso nel sapere della grandissima statura culturale del suo mancato prigioniero.
La Repubblica, 23-6-2002: “così spiavano don Benedetto” – di Lucio Villari
Era luminosa e calda l’alba del primo giorno d’estate di settanta anni fa, ed erano le 5.55 quando alla stazione di Campobasso si fermava, sbuffando, il diretto proveniente da Napoli. Ne scendevano pochi viaggiatori insonnoliti e tra questi due signori, uno anziano l’altro più giovane, dall’aria tranquilla e distinta. Al cocchiere della vettura pubblica chiesero di essere portati al Grand Albergo. Era il 21 giugno 1932. Poco più di un mese dopo, il 28 luglio, il prefetto di Campobasso veniva raggiunto da un secco telegramma del capo della polizia Arturo Bocchini.
«N° 18440/442. Viene riferito che notte 21 giugno decorso giunse codesta città noto Senatore Benedetto Croce cui sera successiva fu offerta cena dal Ragioniere Alberto Cancellario Vice Podestà codesto Comune et alla quale parteciparono anche Avv. Antonino Mancini Archivista presso codesta Amministrazione provinciale, elemento notoriamente avverso Regime, Avv. Alberto Florio Podestà codesto Comune et tale Cortese Lino stop Pregasi riservati accertamenti riferendo esito pel Ministro Bocchini».
Evidentemente il capo della polizia citava informazioni ricevute da agenti che da tempo, per ordine di Mussolini, tenevano sotto controllo Benedetto Croce e ne seguivano puntigliosamente gli spostamenti segnalando anche (vi era un agente fisso nell’ingresso di palazzo Filomarino di Napoli, dove Croce abitava) le persone che lo frequentavano. C’era però nel telegramma di Bocchini una malcelata irritazione, presagio di una tempesta in arrivo, per la familiarità dimostrata al «noto Senatore» dal podestà e dal vice podestà, autorità di sicura fede fascista.
Il lavoro di Intelligence degli agenti era stato impeccabile ma non era andato oltre il racconto minuzioso della giornata particolare trascorsa da Croce a Campobasso. Il 22 giugno era stata stilata una «Relazione circa il soggiorno in questa città di S.E. il Senatore Croce Benedetto», dove la cronaca nuda e cruda da «mattinale», dell’agente che seguiva i passi di Croce non avrebbe certamente soddisfatto il capo della polizia. Anche in questa occasione il puntuale servizio di Intelligence non investigava, naufragando nel povero linguaggio della burocrazia.
«S.E. Benedetto CROCE furono Pasquale e Sipari Luigia, nato a Pescasseroli il 25.2.1866, Senatore del Regno, residente Napoli, arrivò in questa Città alle ore 5,55 di ieri in compagnia del Prof. di Università CORTESE Lino fu Vincenzo e di Spermide Emilia, nato a Perugia il 25.9.1896, residente a Napoli, prendendo alloggio al locale Grand Albergo.
Verso le 9 circa, in compagnia del Cortese e dell’Avv. Mancini Antonino, archivista della locale Biblioteca di Stato, si recarono sui Monti, ove visitarono quei paraggi.
Verso le ore 11 discesero recandosi al Municipio ove incontrarono il V. Podestà Sig. Cancellario, il quale li accompagnava, a desiderio di S.E. Croce, negli Uffici di detto Municipio.
Alle ore 15 circa discesero dal Municipio recandosi al Grand Albergo ove consumarono il pasto in compagnia anche del Podestà Avv. Florio, del V. Podestà Sig. Cancellario e delle surripetute persone.
Verso le ore 15 circa tanto il V. Podestà che il Podestà e il Mancini se ne andarono.
Verso le ore 17.30 venne rilevato dal Mancini e dal Prof. Verrecchia del locale R. Liceo-Ginnasio e insieme si recarono di nuovo al Monte Monforte ove visitarono la Chiesa di S. Giorgio in quei paraggi, il Castello Monforte e la Chiesa dei Cappuccini discendendo verso le ore 19 circa, per recarsi alla Biblioteca di Stato di via Pennino.
Verso le 20 dopo aver passeggiato per la città rincasava al Grand Albergo ove consumò la cena col prof. Cortese.
Stamane verso le 8.30 è uscito dall’albergo in compagnia del Prof. Cortese del Prof. Verrecchia e dell’Avv. Mancini e si è recato con essi a visitare la Chiesa di S. Antonio Abate.
Alle ore 9,15 sempre insieme si recarono al Convitto Nazionale Mario Pagano per salutare quel Preside.
Alle ore 10 ha fatto visita a S.E. il Vescovo e alle 11 si è recato nello studio fotografico del Prof. Trombetta.
Accompagnato dal Prof. Trombetta verso le 11,40 è tornato all’albergo ove ha pranzato insieme al Prof. Cortese.
Alle ore 12,30 accompagnato dall’Avv. Mancini, dal Prof. Verrecchia e dal Prof. sacerdote Verna e dal Trombetta, si è diretto allo scalo ferroviario e col Prof. Cortese è partito col treno delle ore 12,50 diretto a Benevento e Napoli».
Un profluvio di orari, avvocati, professori, eccellenze (con qualche errore: il nome di Cortese, storico del Risorgimento, era Nino, non Lino; anzi, «tale Cortese Lino», lo definiva Bocchini nel telegramma), anche un fotografo, ma nessuna spiegazione delle ragioni del viaggio di Croce, né degli incontri con le autorità podestarili. Di qui l’intimazione del capo della polizia al prefetto che, a sua volta, chiese immediatamente informazioni al questore. Il 29 luglio, poche ore dopo l’arrivo del tele gramma di Bocchini, il questore era in grado di aggiungere altri particolari alla stringata relazione dell’agente pedinatore. Il questore insinuava il dubbio che Croce potesse essersi recato a Campobasso per ragioni di studio.
L’informazione saliva di tono, anche se la lingua italiana continuava a soffrirne.
«Il Senatore Benedetto Croce, giunse in questa Città col treno delle ore 5.55 del 21 giugno u.s., segnalato dal Commissario di P.S. presso lo Scalo Ferroviario di Napoli con telegramma della sera precedente. Il Senatore arrivò qui assieme al Professore di Università Cortese Lino fu Vincenzo e presero alloggio al Grand Albergo. Verso le 9 i predetti, accompagnati dall’Avv. Antonio Mancini, Archivista del locale Archivio di Stato, si recarono sul
Castello Monforte per visitare quei paraggi. Verso le ore 11 si recarono poi sul Comune per esaminare al cune pergamene antiche, poiché sembra che il Senatore Croce stia scrivendo un libro su Cola Monforte, personaggio appartenente a nobile ed antica famiglia di Campobasso. Verso le ore 13 i soprascritti unicamente al Podestà Avv. Florio ed al Vice Podestà Rag. Cancellario si recarono al Grand Albergo ove le cinque cennate persone consumarono una colazione che venne pagata dal Vice Podestà Rag. Cancellario». Seguivano, con qualche dettaglio in più, informazioni analoghe a quelle dell’agente, ma veniva corretta un’altra svista (restava comunque il nome errato dì Cortese): l’avv. Mancini era archivista dell’Archivio di Stato non di una inesistente Biblioteca di Stato.
Restava però un nodo da sciogliere: che c’entravano il podestà e il vice podestà con il senatore Croce? Spettava al prefetto dare la risposta alla domanda implicita nel telegramma dei capo della polizia. Il prefetto non si scomodò più di tanto: sulla lettera-relazione del questore scrisse a mano aggiunte e postille per poi passare il tutto verosimilmente alla dattilografa che doveva comporre la risposta a Bocchini.
RIASSUNTO DELL’ ESTETICA
L’ ” Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale “, pubblicata per la prima volta nel 1902 dall’editore Laterza di Bari e destinata ad una durevole fortuna editoriale, rappresenta il primo grande lavoro filosofico di Benedetto Croce, nonché il primo dei quattro volumi che costituiscono la “Filosofia dello spirito”. L’opera si compone di due ampie sezioni: la prima, dedicata all’esposizione teorica dell’estetica, intesa come scienza dell’intuizione pura, risulta in realtà un rifacimento, riveduto ed aggiornato, della memoria sulle “Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale”, letta all’Accademia Pontaniana di Napoli nelle tre tornate del 18 febbraio, 18 marzo e 6 maggio del 1900. La seconda parte consiste invece in una storia dell’estetica, ossia in un’analisi delle diverse concezioni della conoscenza intuitiva e della filosofia dell’arte nel corso della storia della filosofia occidentale, a partire dalla negazione platonica dell’arte fino al saggio sul “Riso” di Bergson. La concezione teorica sulla quale si fonda essenzialmente l’estetica crociana consiste nell’individuazione della conoscenza intuitiva (rappresentazione immediata) come primo grado dell’attività conoscitiva dello spirito, e dunque come momento “aurorale” dell’attività spirituale. Inoltre l’intuizione viene prioritariamente distinta da intelletto, percezione e sensazione, per essere piuttosto identificata con l’espressione. Quest’ultima non consiste infatti nell’atto estrinseco (ad esempio, il dipingere o lo stendere le mani su un pianoforte) che viene considerato un aspetto pratico dell’attività spirituale, ma coincide piuttosto con l’atto intuitivo, indipendentemente da ogni abilità tecnica: pertanto l’espressione risulta anch’essa primo momento dell’attività conoscitiva. In questo modo Croce rifiuta categoricamente ogni concezione dell’arte che allontani quest’ultima dalla sua vera natura, che è appunto quella di conoscenza intuitiva, e non può dunque essere intesa come imitazione del vero, né può essere legata ad alcuna concezione filosofica, né risulta in qualche modo connessa ad impulsi sessuali o fisici in generale. La critica stringente del Croce esclude progressivamente tutte le concezioni dell’arte in cui in qualche modo la forma risulti concepita separatamente dal suo contenuto, travolgendo con l’arma della critica ogni teorizzazione dei generi letterari, ritenuti per l’appunto il risultato di astratte catalogazioni. E’ proprio in questa prima parte dell’ “Estetica” che Croce introduce per la prima volta in una sua opera di rilievo la sua proposta di “sistemazione” dell’attività dello spirito, articolata in attività conoscitiva, a sua volta suddivisa in intuizione (arte) e concetto (filosofia), e in attività pratica, distinta in volontà particolare (economia) e volontà universale (etica). Nella sezione storica dell’opera, l’autore prosegue invece la sua requisitoria contro le concezioni dell’arte criticate nella prima parte, ricostruendo una storia dell’estetica orientata sull’esposizione di diverse dottrine e inserendo in tale percorso un senso di progressione che connette idealmente la sua opera a quella di Giambattista Vico e di Francesco De Sanctis, ritenuti entrambi suoi maestri e principali ispiratori.
ANTONIO GRAMSCI
Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.
Io sono stato abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla fanciullezza, a nascondere i miei stati d’animo dietro una maschera di durezza o dietro un sorriso ironico. Ciò mi ha fatto male, per molto tempo: per molto tempo i miei rapporti con gli altri furono un qualcosa di enormemente complicato.
CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
1891-1911
Antonio Gramsci nasce ad Ales (presso Oristano), in Sardegna, il 22 gennaio 1891, quarto dei sette figli di Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias. Nel 1894 la famiglia si trasferisce a Sòrgono (Nuoro): per due anni viene mandato, insieme alle sorelle, in un asilo di suore. A questo periodo, dopo una caduta, risale la malattia che gli lascerà una malformazione fisica: la schiena andrà lentamente incurvandosi e le cure mediche tenteranno invano di arrestare la sua deformazione.
Nel 1897 il padre viene sospeso dall’impiego all’Ufficio del registro di Ghilarza e arrestato per irregolarità amministrative.
Nel 1902 consegue la licenza elementare a Ghilarza. Studia poi privatamente e intanto lavora, per aiutare la famiglia, presso l’ufficio catastale di Ghilarza.
Nel 1905 si iscrive al liceo-ginnasio di Santu Lussurgiu, cittadina a 15 km da Ghilarza. Inizia a leggere la stampa socialista che il fratello Gennaro gli invia da Torino.
Nel 1908 consegue la licenza ginnasiale e si iscrive al liceo Dettori di Cagliari, città dove vive presso il fratello Gennaro, segretario della locale sezione socialista. Con molti giovani del liceo Dettori, Gramsci partecipa alle “battaglie” per l’affermazione del libero pensiero e a discussioni di carattere culturale e politico. Abita in una poverissima pensione in via Principe Amedeo, poi si trasferisce in un’altra del Corso Vittorio Emanuele. A scuola si distingue tra i compagni per i suoi vivi interessi culturali, legge moltissimo (in particolare Croce e Salvemini). Rivela spiccatissime tendenze per le scienze esatte e per la matematica. Cagliari, in quel tempo, è una cittadina culturalmente vivace, dove si diffondono i primi fermenti sociali, che influiranno nella sua formazione di una ideologia socialista. Conseguita la licenza liceale, nel 1911 vince una borsa di studio e si iscrive all’università di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia. Si trasferisce a Torino. Gramsci vive i suoi anni universitari in una Torino industrializzata, dove sono già sviluppate le industrie della Fiat e della Lancia, che hanno eliminato le concorrenti più deboli. Il forte sviluppo industriale ha conferito un aspetto nuovo alla città, che intorno al 1909 ospita circa 60.000 immigrati, che lavorano nelle fabbriche. Data l’alta concentrazione operaia e il ruolo avanzato dell’industria torinese, la organizzazione sindacale costituisce, nella città, una presenza attiva e dinamica, sostenuta da un’ampia mobilitazione dal basso. Sono le iniziative di lotta nelle fabbriche che portano alla costituzione delle prime commissioni interne e alla elezione di delegati di fabbrica, che siedono, durante le vertenze, al tavolo delle trattative con i rappresentanti padronali. È in questo periodo di forti agitazioni sociali che lo studente Gramsci vive i suoi anni universitari e matura la sua ideologia socialista. Studia i processi produttivi, la tecnologia e l’organizzazione interna delle fabbriche e si impegna per far acquisire agli operai “la coscienza e l’orgoglio di produttori”. A Torino frequenta anche gli ambienti degli immigrati sardi; l’interesse per la sua terra sarà sempre vivo in lui, sia nelle riflessioni di carattere generale sul problema meridionale, sulle sue abitudini, sul linguaggio, sui luoghi e sulle persone dell’infanzia; temi ricorrenti anche negli anni della maturità.
Gli avvenimenti. L’Italia è ancora nettamente divisa tra un Nord in cui è presente un relativo sviluppo industriale e un Meridione caratterizzato dal latifondo a coltivazione estensiva. L’assetto del potere nello Stato e nella società è dunque determinato da un’alleanza tra industriali e agrari, fondata sulla politica protezionistica, che esclude ogni partecipazione al potere da parte delle masse popolari. Ma la crisi di fine secolo, con i movimenti dei fasci siciliani (1894) e l’insurrezione proletaria di Milano (1898), costringe la borghesia italiana a scendere a patti con il movimento operaio. Dall’inizio del secolo, Giolitti, che dichiara la neutralità dello Stato nei conflitti di lavoro, apre un nuovo corso politico fondato su un accordo sociale con il movimento socialista riformista. A questo accordo si oppongono l’ala rivoluzionaria del partito socialista e il movimento sindacalista rivoluzionario.
1912
In cattive condizioni economiche e di salute, Gramsci segue i corsi universitari e sostiene alcuni esami. Ha anche i primi contatti con il movimento socialista torinese.-
Gli avvenimenti. Al congresso socialista di Reggio Emilia i riformisti perdono la direzione del partito. Mussolini diventa direttore dell’Avanti!.
1913
Aderisce ad un pubblico appello contro la politica protezionistica. Probabilmente in quest’anno si iscrive alla sezione socialista di Torino.
Gli avvenimenti. Con il patto Gentiloni, i cattolici partecipano alla competizione elettorale in appoggio a Giolitti.
1914
Soffre di periodiche crisi nervose. Sostiene sul Grido del popolo le posizioni della neutralità attiva e operante in contrasto con la politica della neutralità assoluta prevalente in ambito socialista.
Gli avvenimenti. Crisi dell’Internazionale socialista e del movimento operaio europeo che non riescono a far prevalere una politica di pace. Scoppia la Prima guerra mondiale.
1915
Continua la collaborazione con Il Grido del popolo e, a dicembre, entra nella redazione torinese dell’Avanti!, organo del Partito socialista italiano. La sua attività giornalistica s’impone all’attenzione generale non solo per la qualità della scrittura, ma anche per lo spessore della ricerca culturale.
Gli avvenimenti. L’italia entra in guerra a fianco dell’intesa. Lenin lancia a Zimmerwald la parola d’ordine di “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”.
1916
Gramsci cura la rubrica “Sotto la mole” dell’Avanti! dove si occupa di critica teatrale e di note di costume.
Gli avvenimenti. Nel movimento socialista antimilitarista (conferenza di Kientbal) si fanno strada le posizioni radicali di Lenin.
1917
Dopo la sommossa operaia di agosto, Gramsci diventa segretario della commissione esecutiva provvisoria della sezione socialista di Torino. Dirige di fatto Il Grido del popolo.
Nel febbraio del 1917 per conto della Federazione giovanile socialista piemontese esce La città futura, il cui tema di fondo é la contrapposizione tra l’ordine della società borghese e quello della società socialista; a originali articoli di teoria e di propaganda socialista si affiancavano scritti di Croce, Salvemini e A. Carlini. In questo perioda l’influenza di Croce e della polemica antipositivistica dell’idealismo italiano traspare anche nella valutazione entusiastica della rivoluzione russa del novembre 1917, interpretata come “rivoluzione contro il Capitale” (cioè contro la versione deterministica dell’opera di Marx).
Gli avvenimenti. In agosto scoppiano in Italia movimenti di protesta contro il carovita e la guerra. In Russia la rivoluzione di febbraio porta all’abdicazione dello zar Nicola II; il governo provvisorio viene rovesciato in novembre dalla rivoluzione bolscevica.
1918
Cessano le pubblicazioni del Grido del popolo (ottobre) e nasce l’edizione piemontese dell’Avanti! (dicembre), diretta da Ottavio Pastore, nella cui redazione Gramsci entra dall’inizio.
Gli avvenimenti. Finisce la guerra mondiale. Movimenti rivoluzionari in vari paesi d’Europa. In Russia la controrivoluzione si militarizza: scoppia la guerra civile.
1919
Gramsci e altri (tra cui Tasca, Terracini, Togliatti) danno vita al settimanale L’Ordine nuovo (maggio), che si schiera per l’adesione del Psi all’Internazionale comunista e in favore del movimento dei consigli di fabbrica. Nei suoi articoli Gramsci afferma che il consiglio di fabbrica deve essere eletto da tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro collocazione politica, in modo che gli operai assumano in pieno la funzione dirigente che spetta loro come “produttori”. Questa esperienza si collocava, in una prospettiva rivoluzionaria, a sinistra del movimento socialista dell’epoca, ma in consonanza con altri fermenti della cultura italiana del periodo come quelli che facevano capo al neo-liberalismo di Piero Gobetti, che giudicò infatti positivamente l’opera del gruppo.
Gli avvenimenti. La nuova legge per il suffragio universale permette al Psi e al Partito popolare di eleggere rispettivamente 156 e 100 deputati, modificando radicalmente l’assetto del potere politico. A Parigi si inaugura la Conferenza di pace. Viene fondata a Mosca la Terza Internazionale (Comintern). Il congresso socialista di Bologna delibera l’adesione alla nuova Internazionale comunista.
1920
Lo sciopero degli operai dell’industria di Torino di marzo-aprile (sciopero delle lancette) per il riconoscimento dei consigli di fabbrica apre una vivace polemica tra la direzione socialista e il gruppo dell’Ordine nuovo, le cui posizioni politiche ricevono l’approvazione di Lenin. Gramsci si avvicina alla frazione astensionista del Psi, guidata da Bordiga, che prospetta la costruzione del Partito comunista.-
Gli avvenimenti. Giolitti torna a formare il governo. In settembre lo scontro sociale porta all’occupazione delle fabbriche. La sconfitta segna l’inizio del riflusso del movimento proletario. In Russia, i bolscevichi sbaragliano definitivamente gli eserciti controrivoluzionari.
1921
Gramsci si convince che bisogna dar vita a un partito nuovo, secondo le direttive di scissione già indicate dall’Internazionale comunista. Il 25 gennaio 1921 si apre a Livorno il 17° congresso nazionale del Psi; le divergenze tra i vari gruppi: massimalisti, riformisti ecc., inducono Gramsci e la minoranza dei comunisti a staccarsi definitivamente dal Psi. Il 21 gennaio dello stesso anno, nella storica riunione di San Marco, nasce il Partito comunista d’Italia: Gramsci sarà un membro del Comitato centrale. Come organo del nuovo partito Gramsci diresse, ancora a Torino, L’Ordine Nuovo, diventato quotidiano (al quale collaborò anche come critico teatrale Gobetti). Tuttavia nei primi anni del nuovo partito la sua attività fu condizionata dalla direzione di Bordiga, che avendo organizzato una frazione nazionale prima della scissione aveva acquisito una posizione di preminenza, influenzando anche gran parte dello stesso gruppo torinese dell’Ordine Nuovo..-
Gli avvenimenti. 15 gennaio 1921: si apre a Livorno il XVII Congresso del Psi. Il 21 gennaio, da una scissione minoritaria del Psi, nasce il Partito comunista d’Italia (Pcd’I), sezione italiana della Terza Internazionale comunista. Dopo la grande paura dell’occupazione delle fabbriche, gli industriali guardano con favore al movimento fascista. Lenin lancia la Nuova politica economica.-
1922
Nel secondo congresso del Pcd’I (Roma, marzo) Gramsci sostiene le posizioni della maggioranza bordighiana, in dissenso con la politica del “fronte unico” con il Psi proposto dall’Internazionale. A maggio parte per Mosca, delegato del partito italiano nell’esecutivo dell’Internazionale e nel giugno partecipa alla conferenza dell’esecutivo allargato. Il soggiorno in Russia sarà importante sia per la sua formazione politica che per la sua vita privata, infatti Gramsci si innamora di una giovane violinista russa, Giulia Schucht che diventerà sua moglie e dalla quale avrà due figli: Delio e Giuliano. In Russia Gramsci approfondisce le sue conoscenze del leninismo e osserva gli sviluppi della dittatura del proletariato, ciò gli consente di misurare diversamente i problemi dei comunisti italiani, collocandoli in una visione di più ampio respiro. –
Gli avvenimenti. Si moltiplicano le violenze squadristiche e gli assalti alle Camere del lavoro e ai giornali antifascisti. Ulteriore scissione socialista: il congresso di Roma (ottobre) espelle i riformisti. In ottobre marcia su Roma e formazione del governo Mussolini, che in novembre ottiene pieni poteri.-
1923
L’esecutivo allargato dell’Internazionale (giugno) discute la situazione italiana e stabilisce d’autorità la formazione di un comitato esecutivo del Pcd’I maggiormente rispondente alla propria politica. Gramsci, in dissenso con le posizioni di Bordiga e favorevole a quelle dell’Internazionale (che sostiene la parola d’ordine del “governo operaio e contadino”), si fa carico della svolta (lettera di settembre per la fondazione dell’Unità). In novembre, viene inviato a Vienna per tenere i collegamenti tra il partito italiano e gli altri partiti comunisti d’Europa. Inizia, con un fitto carteggio, a ricostruire il gruppo dirigente del Pcd’I attorno a quella che era stata la redazione dell’Ordine nuovo.-
Gli avvenimenti. Nel febbraio arresto di Bordiga e di parte del comitato esecutivo del Pcd’I, che si riorganizza semiclandestinamente. Bordiga, in carcere, si schiera contro le posizioni dell’Internazionale per quanto riguarda i rapporti con il Psi. Il parlamento italiano approva la legge elettorale maggioritaria presentata dal fascista Acerbo. In Bulgaria viene rovesciato il governo di Stambolijski, leader del partito contadino.
1924
Il 6 aprile del 1924, dopo una campagna elettorale contrassegnata da violenze e intimidazioni fasciste, si svolgono le elezioni e Gramsci viene eletto deputato della circoscrizione del Veneto, quindi torna in Italia, dopo due anni di assenza e si stabilisce a Roma. In febbraio esce a Milano, su indicazione di Gramsci, il quotidiano l’Unità. Continua il lavoro per ricostruire il gruppo dirigente del partito. Gramsci entra nel comitato esecutivo del partito e viene eletto segretario generale. Partecipa all’opposizione parlamentare che si forma a seguito del delitto Matteotti e propone un appello per lo sciopero generale. In agosto nasce a Mosca suo figlio Delio. Imposta con Grieco e Di Vittorio la politica del partito verso il Mezzogiorno. In ottobre propone che l’opposizione aventiniana si costituisca in Antiparlamento e in novembre il gruppo parlamentare comunista rientra in aula.
Gli avvenimenti. Le elezioni politiche di maggio, contrassegnate da violenze e intimidazioni, assegnano il 65 per cento dei suffragi ai fascisti. In giugno viene assassinato il deputato riformista Giacomo Matteotti che aveva denunciato i brogli; ne segue una vasta ondata di proteste. In agosto il gruppo socialista che fa capo a Serrati (i “terzini”) aderisce al Pcd’I. Alla morte di Lenin, in Unione Sovietica il potere viene assunto da una direzione collegiale formata da Stalin, Trockij, Zinov’ev e Kamenev.
1925
Tra marzo e aprile partecipa a Mosca ai lavori dell’esecutivo allargato dell’Internazionale. In giugno apre la polemica con la sinistra interna al partito, guidata da Bordiga. Inizia a lavorare all’organizzazione del terzo congresso del Pcd’I.–
Gli avvenimenti. Superata la crisi Matteotti, Mussolini torna saldamente alla guida del governo. Vengono abolite le commissioni interne e soppressa la libertà sindacale.
1926
In gennaio si svolge a Lione il terzo congresso del Pcd’I: le tesi politiche, stese da Gramsci e Togliatti, vengono approvate con una maggioranza che supera il 90 per cento. La linea di Gramsci, che raccolse intorno a sé un nuovo gruppo dirigente “centrista,” prevalse terzo congresso del Partito comunista d’Italia; alcuni mesi dopo però i suoi rapporti con l’Internazionale comunista subirono una prima incrinatura, con la sua iniziativa di scrivere una lettera allarmata al Comitato centrale del Partito bolscevico per le divisioni interne a quel partito. Pur dando torto all’opposizione la lettere conteneva anche riserve sui metodi della maggioranza (Stalin-Bucharin), e per questo motivo Togliatti, allora rappresentante a Mosca dei comunisti italiani, ritenne opportuno non inoltrarla ufficialmente. Ne nacque una vivace polemica personale tra Gramsci e Togliatti, rilevante soprattutto per l’insistenza da parte del primo sulla necessità di “richiamare alla coscienza politica dei compagni russi, e richiamare energicamente, i pericoli e le debolezze che i loro atteggiamenti stavano per determinare.” In agosto nasce Giuliano, il secondogenito di Gramsci. L’8 novembre, a seguito delle leggi eccezionali del regime fascista contro gli oppositori, Gramsci viene arrestato, con gran parte del gruppo dirigente comunista e, nonostante l’immunità parlamentare, è rinchiuso a Regina Coeli. Al processo, tenuto a Roma nel maggio-giugno 1928, fu condannato a oltre vent’anni di reclusione. Il 18 novembre Gramsci è assegnato al confino per cinque anni a Ustica, dove giunge dopo soste nelle carceri di San Vittore a Milano e in quelle di Napoli e di Palermo. A Ustica abita in una casa privata con altri condannati politici con i quali organizza corsi di cultura differenziati a seconda del grado di preparazione dei partecipanti, allo scopo di educare i proletari, per i quali è un dovere, dice, non essere ignoranti, se vogliono essere protagonisti della politica e creatori di una nuova società. Per espiare la pena, Gramsci è poi destinato alla casa penale di Turi (Bari): vi rimane fino al dicembre 1933.
Gli avvenimenti. In Italia vengono sciolti i partiti di opposizione; vengono istituiti il confino di polizia e il Tribunale speciale. La Camera dichiara decaduti i deputati aventiniani. In Unione sovietica Stalin riesce a isolare Trockij e Zinov’ev.-
1927
Trasferito dal febbraio nel carcere di San Vittore a Milano, in attesa del processo, inizia a progettare uno studio di ampio respiro sugli intellettuali italiani. Il 28 maggio inizia il processo e il 4 giugno viene emessa la condanna a vent’anni quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Poiché soffre di emicrania cronica viene destinato alla casa penale di Turi ed è messo in una cameretta con altri cinque detenuti politici.
Gli avvenimenti. Con la Carta del lavoro il fascismo enuncia i principi dello Stato corporativo. Il X congresso del Pcus espelle Trockij, Zinov ‘ev e Kamenev; inizia la politica dell’industrializzazione forzata. –
1928
Alla fine di maggio, a Roma, Gramsci è processato. Il 4 giugno viene emessa la sentenza: come accennato, è di venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione. In luglio Gramsci raggiunge il carcere di Turi.
Gli avvenimenti. Il Gran consiglio del fascismo diviene organo dello Stato. Il VII congresso dell’Internazionale lancia la parola d’ordine dell’intensificazione della lotta alla socialdemocrazia.-
1929
In febbraio, nel carcere di Turi, Gramsci, ottenuto il permesso di scrivere in cella, inizia la stesura dei Quaderni dal carcere: saranno 21 nel 1933, quando lascerà Turi per Civitavecchia e complessivamente 33 nel 1937.
Gli avvenimenti. Patti lateranensi tra Italia e Vaticano. In Unione Sovietica Bucharin si oppone alla politica di collettivizzazione forzata e viene rapidamente emarginato da Stalin. Il X plenum dell’Internazionale enuncia la teoria del social-fascismo. Crollo della borsa di New York: inizia la grande depressione.
1930
Emergono dissensi con altri detenuti comunisti sulla politica da seguire dopo la caduta del fascismo: Gramsci sostiene la necessità di una fase democratica e propone la parola d’ordine della Costituente.
Gli avvenimenti. La grande depressione colpisce anche l’Italia. Il Pcd’I, sulla base dell’analisi dell’Internazionale che ritiene in crisi il regime, fa rientrare decine di quadri in Italia. –
1931
Nel 1931 Gramsci è colpito da una grave malattia, perciò il fratello Carlo ottiene che sia messo in una cella individuale, dove Gramsci cerca di organizzarsi una vita “normale”, fatta di studio, di riflessione, di elaborazione teorica del suo pensiero politico e sociale, di affetti e di ricordi, sforzandosi di restare a contatto con i suoi familiari e con la realtà. Peggiorano le condizioni di salute: in agosto Gramsci ha un’improvvisa emorragia.
Gli avvenimenti. Viene rapidamente smantellata dalla polizia la rete clandestina del Pcd’I. Vittoria elettorale repubblicana in Spagna. –
1932
Non ha esito il progetto di uno scambio di prigionieri politici, che avrebbe incluso anche Gramsci, tra l’Italia e l’Unione Sovietica.
Gli avvenimenti. Condonato alla Germania il debito di guerra. Salazar assume la guida del governo portoghese. Roosevelt promuove negli Usa il regolamento dell’economia.-
1933
In marzo, seconda grave crisi delle condizioni di salute di Gramsci. In novembre viene trasferito nell’infermeria del carcere di Civitavecchia e da qui, in dicembre, nella clinica del dottor Cusumano a Formia.
Gli avvenimenti. In Italia viene creato l’Iri. I nazisti assumono il potere in Germania. In Unione Sovietica viene varato il secondo piano quinquennale.-
1934
Riprende la campagna per la liberazione di Gramsci. In ottobre viene accolta la richiesta per la libertà condizionale.
Gli avvenimenti. Patto di unità d’azione tra Pci e Psi. In Germania Hitler assume la carica di capo dello Stato. In Unione Sovietica Zinov’ev e Kamenev vengono processati per tradimento: iniziano le grandi purghe.
1935
In giugno nuova crisi e aggravamento delle condizioni di salute di Gramsci. In agosto viene trasferito nella clinica “Quisisana” di Roma.
Gli avvenimenti. L’Italia invade l’Etiopia. Leggi antisemite in Germania. L’Internazionale adotta la tattica dei fronti popolari. –
1936
Lo stato di prostrazione fisica impedisce a Gramsci di lavorare ai Quaderni.
Gli avvenimenti. Dopo la conquista dell’Etiopia, l’Italia proclama l’impero. Le sinistre vincono le elezioni in Francia e in Spagna; qui le forze reazionarie rispondono con un pronunciamento militare: è la guerra civile.
1937
Terminato il periodo di libertà condizionale, Gramsci riacquista la piena libertà, ma è in clinica ormai morente. Muore per emorragia cerebrale il 27 aprile. Il giorno seguente si svolgono i funerali. Le sue ceneri vengono inumate al cimitero del Verano a Roma e trasferite, dopo la Liberazione, al Cimitero degli Inglesi.- La sua vita in carcere era stata anche amareggiata dai difficili rapporti stabilitisi con il partito che aveva diretto prima dell’arresto. In disaccordo con la linea politica adottata alla fine del 1929 su pressione del Komintern, allora in lotta non solo con il fascismo ma anche con la socialdemocrazia (definita come “socialfascismo”), si era trovato, come si è detto, in aperto conflitto con la maggioranza degli altri comunisti detenuti a Turi, e ciò lo aveva indotto a fare del suo isolamento la forma esclusiva della propria esistenza. Si spiega così perché la sua situazione non sia stata allora posta in discussione negli organi dirigenti operanti in esilio, con i quale i suoi rapporti furono sempre indiretti (con la mediazione dell’amico economista Sraffa che lavorava a Cambridge). Tuttavia dopo il 1934, con l’abbandono della propaganda sul “socialfascismo” e il prevalere della politica di unità antifascista, furono intensificate le campagne di stampa internazionali per chiedere la sua liberazione.
Gli avvenimenti. Crisi del governo di fronte popolare in Francia. Si internazionalizza la guerra civile spagnola. L’Italia aderisce al patto anti Comintern con Germania e Giappone. In Unione sovietica vengono accusati di tradimento e fucilati Radek e Tukacevskij.
Dovete immaginarvi la Sardegna come un campo fertile e ubertoso la cui fertilità è alimentata da una vena d’acqua sotterranea che parte da un monte lontano. Improvvisamente voi vedete che la fertilità del campo è scomparsa. Là dove erano messi ubertose vi è soltanto più erba bruciata dal sole. Voi cercate la causa di questa sciagura, ma non la troverete mai se non uscite dall’ambito del vostro campicello, se non spingete la vostra ricerca fino al monte da cui l’acqua veniva, se non arrivate a capire che lontano parecchi chilometri un malvagio o un egoista ha tagliato la vena d’acqua che alimentava la fertilità ubertosa del vostro campo.
VITA E OPERE
Nato d Ales, presso Oristano, nel 1891, Antonio Gramsci studiò lettere e filosofia all’ università di Torino. Non conseguì però la laurea perchè assorbito dall’ impegno politico cui si era dedicato appena giunto nel capoluogo piemontese. Esponente del movimento socialista torinese, seguì con profonda simpatia le vicende della rivoluzione di ottobre e l’ azione di Lenin e del partito bolscevico. Nel 1919 fondò a Torino “Ordine Nuovo”, una delle più importanti riviste politiche dell’ immediato dopoguerra. In essa egli sostenne in più modi una linea di sinistra radicale, riprendendo tra l’ altro varie idee sia leniniste che democratico -“consiliari”. Nel 1921, al celebre Congresso di Livorno, fu uno dei promotori della scissione del Partito socialista e della successiva fondazione del “Partito comunista d’ Italia” (PCI). Subito dopo compì, a Mosca e a Vienna, un’ importante esperienza di dirigente politico in seno all’ Internazionale Comunista. Eletto deputato al Parlamento nel 1924, nello stesso anno divenne segretario del Partito comunista e fondò il giornale “L’ Unità” (il cui significativo sottotitolo era “Quotidiano degli operai e dei contadini”). Ma poco tempo dopo, nel 1926, fu arrestato dalla polizia (sebbene godesse dell’immunità parlamentare) e successivamente (1928) condannato dal tribunale speciale fascista a vent’ anni di reclusione. La morte lo colse prematuramente nel 1937. Durante la prigionia, Gramsci riuscì a completare i propri studi e a partecipare in qualche modo al vivace dibattito sviluppatosi negli anni ’30 all’ interno del movimento comunista. Manifestò, in particolare, profonde riserve sulle posizioni dell’ Internazionale Comunista, che sosteneva l’ imminenza della caduta dei regimi capitalistici ed autoritari (a cominciare dal fascismo) e condannava duramente la condotta delle socialdemocrazie europee, accusate di “socialfascismo”. Gramsci respinse radicalmente tali valutazioni, e alla prospettiva di uno scontro rivoluzionario a breve termine col capitalismo contrappose una linea molto più articolata (la cosiddetta “guerra di posizione”), aperta all’ accettazione di fasi e modalità di lotta democratica considerate ineludibili. A fianco della riflessione immediatamente politica Gramsci non trascurò un impegno di carattere più teorico. Ottenuta una certa serie di libri e riviste grazie all’ aiuto di alcuni amici, egli seppe anzi realizzare studi e indagini di grande rilievo. I cosiddetti Quaderni del carcere sono l’ ammirevole frutto di questo lavoro, portato avanti in condizioni psicologiche e pratiche assai difficili. In essi Gramsci condensa sotto forma di appunti, pagine sparse e talora veri e propri saggi una ricerca intellettuale riguardante, con uguale passione e competenza, ambiti culturali diversi: la storia (soprattutto la storia dell’ Italia moderna e contemporanea), la filosofia (soprattutto la filosofia idealista e marxista), la teoria politica (con particolare riferimento ai problemi connessi alla rivoluzione socialista), la critica letteraria e della cultura. I temi principali sui quali conviene qui fermare brevemente l’ attenzione sono i seguenti: a) l’ interpretazione del risorgimento e della prospettiva di una rivoluzione socialista in Italia; b) interpretazione del marxismo teorico nel contesto della tradizione filosofica otto-novecentesca; c) la riflessione sulla società contemporanea e sui modi e gli strumenti di una sua trasformazione in direzione democratico-socialista.
L’indifferenza é il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, é la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perchè inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
RIASSUNTO GENERALE
Indubbiamente Antonio Gramsci é la figura più importante del marxismo italiano. Nato ad Ales (Oristano) nel 1891, grazie ad una borsa di studio si potè iscrivere, nel 1911, alla facoltà di lettere all’università di Torino, ma verso la fine del 1913 aderì al Partito Socialista e abbandonò gli studi per dedicarsi attivamente alla politica. Contrario alla linea riformista, saluta con entusiasmo la rivoluzione russa, da lui interpretata, specialmente in un articolo pubblicato sull’ Avanti! del 24/12/1917 e intitolato La rivoluzione contro il ‘Capitale’ , come la dimostrazione che l’iniziativa rivoluzionaria può avere successo anche saltando fasi (come quella dello sviluppo capitalistico, pressochè assente in un Paese arretrato come la Russia) previste invece come necessarie dalle interpretazioni gradualistiche del processo storico. Nel 1919 fondò il settimanale ‘L’ordine nuovo’ e appoggiò la costituzione dei consigli di fabbrica a Torino. Nel settembre 1920 ebbe luogo l’occupazione delle fabbriche e la lotta si estese in tutta la Penisola, mentre il Governo Giolitti manteneva una posizione neutrale. A Livorno, nel 1921, Gramsci partecipò al Congresso socialista, contribuendo alla scissione che diede luogo al Partito Comunista; nominato rappresentante del Partito Comunista presso la Terza internazionale risiedette per due anni a Mosca. Eletto deputato nel 1924, rientrò in Italia e fondò il quotidiano ‘l’Unità’ , ma nel 1926 fu arrestato (nonostante godesse dell’immunità parlamentare) dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a 20 anni di carcere. Qui la sua salute andò peggiorando fino a portarlo alla morte, avvenuta nel 1937, in una clinica di Roma, poco dopo essere stato amnistiato. Nel 1929, in carcere a Turi, aveva iniziato la stesura di appunti e analisi che sarebbero stati pubblicati in 6 volumi dopo la guerra, fra il 1948 e il 1951, con il titolo Quaderni del carcere . Problema di Gramsci é quello di individuare le condizioni di possibilità per la transizione al comunismo nella specificità della situazione italiana. Egli ne scorse la via in un’alleanza tra gli operai del nord e i contadini del sud e, al tempo stesso, nella conquista di un’ egemonia sulla società civile, come preparazione alla conquista del potere, un’egemonia da attuare anche nei libri di storia, cercando di indurre gli studenti ad abbracciare il comunismo. La supremazia di una classe all’interno della società si manifesta, infatti, attraverso la forza e attraverso la direzione intellettuale e morale. Il momento della forza appartiene alla società politica, mentre quello del consenso appartiene alla società civile; gli intellettuali sono quelli che hanno il compito di ottenere il consenso, mentre la classe politica è costituita da quelli che si servono della forza per raggiungere quel che non é ottenibile con il consenso. Quest’ultima ha, dunque, bisogno di intellettuali al suo servizio, anche se questi pretendono o si illudono di essere indipendenti. Negli Stati moderni sta ai partiti, che Gramsci paragona al principe di Machiavelli, l’organizzazione, all’interno della società civile, delle forze necessarie per conquistare lo Stato, ma a tale scopo occorre prima ottenere l’egemonia nella società civile: di qui l’importanza degli intellettuali organici alla classe, di cui il partito rappresenta la punta avanzata. Gramsci ritiene che già Lenin avesse elaborato la teoria dell’egemonia, rivalutando ‘ il fronte della vita culturale ‘, cioè l’importanza del momento sovrastrutturale. L’egemonia politico-culturale, all’interno di una società, é conseguente alla formazione di quello che Gramsci, mutuando l’espressione da Sorel, definisce blocco storico : in esso le forze materiali sono il contenuto, mentre le ideologie sono la forma; grazie alle ideologie le forze materiali possono essere comprese nella loro specificità storica, mentre senza forze materiali le ideologie sarebbero solo vuote astrazioni. L’elemento popolare, infatti, ‘sente’, ma non sempre comprende e sa; l’elemento intellettuale, invece, ‘sa’, ma non sempre ‘sente’. L’errore dell’intellettuale sta nel ‘ credere che si possa sapere ‘ senza sentire ed essere appassionato, cioè nel credere di poter essere un intellettuale staccato dalle concezioni del mondo e dalle passioni del popolo-nazione: si tratta invece di saper spiegare storicamente e collegare queste visioni del mondo, e le passioni ad esse annesse, a una visione del mondo elaborata scientificamente. Gramsci è convinto che ‘ La maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia ‘ ed è altresì convinto che l’attività pratica e quella intellettuale siano indisgiungibili: ‘ Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare. ‘. Se non avviene il collegamento delle visioni del mondo alla visione scientifica, gli intellettuali si trasformano in una casta o in un sacerdozio; quando, invece, si realizza un’unità organica, si costituisce una nuova forza sociale, un nuovo blocco storico. La politica é il momento di saldatura fra la filosofia, elaborata dagli intellettuali, e il senso comune. La filosofia in grado di fornire la teoria necessaria alla costituzione del nuovo blocco storico, incentrato sulla classe operaia e sull’alleanza coi contadini (da qui lo stemma del Partito Comunista: la falce dei contadini e il martello degli operai), é la filosofia della prassi , cioè il marxismo. Contro la tendenza oggettivistica a fare della dialettica un principio esplicativo sia della natura sia della storia, Gramsci rivendica l’irriducibilità del sapere sociale a quello naturale. La prassi comprende sia la globalità dell’azione umana nel mondo sia la trasformazione rivoluzionaria della realtà. Proprio la tensione rivoluzionaria permette la comprensione dei meccanismi di dominio e dei rapporti tra le classi sociali, nella cui indagine si delinea il pensiero storico e politico di Gramsci. Questo si concentra nella concezione del partito operaio come intellettuale collettivo , erede del compito di unificazione sociale rimasto incompiuto nel Risorgimento; e Gramsci scrive un’opera intitolata proprio ‘Il Risorgimento’: in essa vengono criticamente analizzati i risultati dei moti che portarono all’unita’ d’Italia e se ne denunciano i limiti proprio nella mancata attuazione di una rivoluzione che unisca la borghesia e il proletariato urbano alle campagne. Ad avviso di Gramsci, però, l’egemonia culturale in Italia é rappresentata dalla filosofia di Benedetto Croce, intellettuale organico al blocco storico dominato dalla borghesia. Nei confront i di Croce, egli intendeva in qualche modo compiere l’operazione di rovesciamento compiuta da Marx nei confronti di Hegel. La differenza, però, sta nel fatto che Croce é venuto dopo Marx: gran parte della sua filosofia, infatti, non é che un tentativo, ad avviso di Gramsci, di riassorbire il marxismo e subordinarlo all’idealismo. Individuando la centralità della storia etico-politica, Croce riconosce l’importanza del movimento sovrastrutturale dell’egemonia e, in questo senso, permette di sfuggire alle interpretazioni materialistiche, economicistiche e deterministiche del marxismo. La filosofia della prassi, facendo della concezione crociana della storia etico-politica un canone di ricerca empirica, può fare storia globale, non puramente parziale, cioè solo economica o solo etico-politica. In questo modo, essa si può configurare come vero e proprio storicismo , mentre quello crociano, parlando dello spirito e delle sue attività, rimane ancora imprigionato nelle maglie del linguaggio speculativo e teologico. Come storicismo coerente, la filosofia della prassi può perfino giungere alla conclusione di essere essa stessa un momento storico meramente transitorio, vincolato ad una fase della società, di cui essa esprime coscientemente le contraddizioni. Col passaggio al regno della libertà, cioè al comunismo, é prevedibile che anche la filosofia della prassi arrivi al tramonto per lasciar spazio a nuove forme di pensiero, non più originate dalle contraddizioni, ormai inesistenti nella nuova società comunista, caratterizzata dalla libertà e dall’uguaglianza. Nei Quaderni del carcere Gramsci parla di ‘ cesarismo ‘, riferendosi ad un conflitto in cui le due parti interessate sono in equilibrio, tanto che la situazione può solo risolversi con una distruzione reciproca:
‘ Si può dire che il cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca. Quando la forza progressiva A lotta con la forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A, può avvenire anche che non vinca né A né B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C intervenga dall’esterno assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell’Italia dopo la morte del Magnifico è appunto successo questo, com’era successo nel mondo antico con le invasioni barbariche. Ma il cesarismo, se esprime sempre la soluzione “arbitrale”, affidata a una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica, non ha sempre lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico. È progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente. Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e Bismarck di cesarismo regressivo. Si tratta di vedere se nella dialettica rivoluzione-restaurazione è l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni in toto. Del resto il cesarismo è una formula polemico-ideologica e non un canone di interpretazione storica. Si può avere soluzione cesarista anche senza un Cesare, senza una grande personalità “eroica e rappresentativa”. Il sistema parlamentare ha dato anch’esso un meccanismo per tali soluzioni di compromesso. ‘
Il vero nemico contro cui muovere guerra diventa allora l’ indifferenza : ‘ l’indifferenza é il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, é la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perchè inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica ‘. Il pensiero di Gramsci, dove ideologia, filosofia e prassi politica trovavano una profonda unità, era volto verso la comprensione della reale situazione italiana dell’epoca e nella certezza della possibilità di trasformarla in senso socialista. Gramsci considerava il fascismo come punto massimo di crisi della società borghese (fascismo= massima espressione della dittatura del capitale), poiché alla classe dominante, cui era sfuggita l’egemonia sociale, intellettuale e morale, per la perdita del consenso delle masse, rimaneva solo la forza coercitiva. La valorizzazione del concetto di cultura, non più vista come fatto aristocratico, ma come mezzo per acquistare consapevolezza della realtà, portò Gramsci a elaborare la nozione di “organizzazione della cultura” che metteva in luce la necessità di esplicare rapporti profondi fra organizzazione economico-sociale e visione del mondo, fra lotta di classe e scoperta scientifica e artistica. La convinzione che la cultura aveva le sue radici nel terreno storico-pratico nel quale era contenuta e che quindi vi era identità tra filosofia e storia, lo indusse a polemizzare con l’idealismo di Croce, visto in funzione ideologica di conservazione borghese, e a individuare la funzione del nuovo intellettuale nella società contemporanea come portatore ed elaboratore professionale dell’ideologia del “blocco storico”, cioè della forza politica formata dall’unione di una classe con classi o gruppi alleati, di cui egli stesso era espressione. La straordinaria varietà dei suoi interessi, che lo hanno portato dall’esame della storia d’Italia e del Risorgimento alla teoria di uno Stato socialista e del partito che, “moderno principe”, doveva promuoverne la realizzazione, ha fatto sì che nel pensiero gramsciano fosse presente gran parte della problematica politico- culturale del secondo dopoguerra. Abbiamo già accennato all’interesse che Gramsci nutre per il Machiavelli quando arriva a dire che i partiti sono come il principe illustrato dal pensatore toscano: Gramsci é anche autore di un ‘ Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno ‘ , in cui vengono rovesciate le interpretazioni allora ricorrenti di un Machiavelli precursore dello stato fascista. Gramsci, non senza forzature, vede nel grande politico fiorentino un anticipatore del giacobinismo. Nei quaderni gramsciani il partito stesso assume il ruolo di un “Principe” dominatore e totalitario, quale neppure Machiavelli aveva mai disegnato: ” Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’ imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume.” (Quaderni del carcere) Il partito-Principe si trovava al vertice della piramide sociale e politica del nuovo mondo immaginato da Gramsci. Ma il partito era costituito dagli intellettuali. Essi sarebbero stati il Principe della società rinnovata. ” Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un’ affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di più esatto. Sarà da fare distinzione di gradi […] non è ciò che importa: importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale ” (Quaderni del carcere). Rifuggendo dalle individualistiche torri di avorio, gli intellettuali dovevano immergersi nella vita pratica e trasformarsi in “dirigenti organici di partito”, dovevano diventare insomma “intellettuali organici” come si ripeté tanto spesso nei tempi in cui le idee di Gramsci imperavano. La classe operaia, teoricamente posta al centro della storia, non possedeva la capacità di emanciparsi da sola, come già aveva dimostrato Lenin con il suo ‘partito di quadri’. Per affrancarsi dallo sfruttamento capitalistico aveva bisogno del partito e dunque degli “intellettuali organici”. Da sola, sarebbe rimasta un corpo privo di testa. ” L’innovazione non può diventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una élite ” (Quaderni del carcere). Ecco una delle ragioni per le quali il Partito comunista ebbe sempre tanto successo fra gli intellettuali: prometteva di risolvere il problema della civiltà nuova affidando proprio a loro posizioni di prestigio e di comando di gran lunga superiori a quelle che essi avevano mai raggiunte nel passato. Gramsci, come accennato con la teoria dell’ egemonia , riduceva la democrazia a un meccanismo “molecolare” di mobilità sociale, a un mero rinsanguamento del gruppo dirigente con elementi provenienti dai gruppi diretti: ” Tra i tanti significati di democrazia quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui [lo sviluppo dell’ economia e quindi] la legislazione [che esprime tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente ” (Quaderni del carcere).Non vi son dubbi sul fatto che il pensiero di Gramsci fosse innovativo nei confronti del leninismo e dello stesso marxismo, proprio perché poneva in primo piano i valori politici della cultura.: “ Si può dire che non solo la filosofia della praxis non esclude la storia etico-politica, ma che anzi la fase più recente di sviluppo di essa consiste appunto nella rivendicazione del momento dell’ egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella valorizzazione del fatto culturale, dell’ attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici ” (Quaderni del carcere). Tuttavia questa valorizzazione dei fatti culturali era posta al servizio di un disegno politico molto lontano dalla democrazia liberale. Ed è sintomatico, a questo proposito, che un comunista come Luciano Gruppi, nel 1976, arrivasse ad ammettere che, restando fedeli al disegno gramsciano, non si poteva arrivare al “pluralismo”. Luciano Pellicani, lo studioso che forse più di ogni altro ci ha aiutati a comprendere i limiti di Gramsci, ha sostenuto che restandogli fedeli non soltanto non si poteva arrivare al pluralismo, ma si giungeva addirittura al totalitarismo ecclesiale, vale a dire al monolitismo politico, economico e culturale, l’ esatto contrario della società aperta scaturita dal processo di secolarizzazione.Il comunismo è stato una dei più potenti movimenti politico-religiosi di tutti i tempi e Gramsci non si pose mai al di fuori di esso, contribuendo viceversa a irrobustirne le tendenze messianiche. Per spiegarcelo dobbiamo ricorrere a una spiegazione storica, questa volta legata alla grande crisi spirituale prodottasi nel mondo in seguito alla rivoluzione tecnologica. Stava crollando una grande civiltà, quella agricola, durata ben diecimila anni, e la nuova civiltà tecnologica appariva ancora informe, immatura, incapace di sostituirsi all’ antica. Si attendeva insomma il messia dei tempi nuovi. I terribili strumenti della prima guerra mondiale, dai gas asfissianti agli aereoplani, avevano per di più svelato come anche il progresso tecnologico possedesse un volto demoniaco, rafforzando di molto le attese messianiche indirizzate verso l’ instaurazione di un ordine nuovo, capace di riportare armonia nella civiltà in frantumi. Il giovane Gramsci condivise queste attese e, nella tumultuosa città di Torino, uscì dal suo isolamento di studente sardo, povero, infelice, stringendo legami di amicizia e di partito con tanti altri che, come lui, erano animati da queste eccitanti speranze. Il comunismo avrebbe interpretato la svolta epocale sostituendosi al cristianesimo: ” Il Partito è, nell’ attuale periodo, la sola istituzione che possa seriamente raffrontarsi alle comunità religiose del cristianesimo primitivo “, ma non certo al fine di perpetuarle. A giudizio di Gramsci il comunismo era anzi ” la religione che doveva ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che anch’ esso è una fede, che ha i suoi martiri e i suoi pratici; religione perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell’ uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale ” (Sotto la mole). In campo estetico-letterario , la tesi centrale di Gramsci è stata l’affermazione del nesso inscindibile che deve unire lo scrittore al popolo, delle cui esigenze materiali e spirituali egli deve farsi interprete (concetto di “intellettuale organico”). Di qui la polemica contro il cosmopolitismo, dovuto all’influsso esercitato dalla Chiesa sulla formazione degli intellettuali italiani, e contro l’apoliticismo, tara storica della cultura italiana dal Rinascimento in avanti; e la duplice, correlativa negazione sia di un’arte cosmica, ispirata ai valori astratti dell’umanità, sia di un’arte pura e individuale, che non si può giustificare, dal momento che i fatti artistici non si producono per partenogenesi, ma “con l’intervento dell’elemento maschile che è dato dalla storia”. La letteratura, secondo Gramsci, avrebbe dovuto essere nazionale-popolare, cioè operare una sintesi tra la componente culturale indigena (la “nazione”) e le esigenze di conoscenza che vengono dagli strati subalterni (il “popolo”). In questa prospettiva si colloca l’auspicato ritorno a De Sanctis, che Gramsci considerava come il più valido esponente della cultura della borghesia nazionale nella sua fase progressiva, mentre Croce ne rappresentava la fase difensiva e conservatrice. Gramsci scrive: ‘ Il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi è offerto dal de Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): essa deve fondere la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo, con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo ‘. E bellissimi, dal punto di vista letterario, sono i Quaderni del carcere, in cui Gramsci affronta in forma frammentaria, ma con rigoroso metodo marxista, alcuni fondamentali temi della storia italiana come quello degli intellettuali attivamente impegnati nel dibattito politico e culturale, delle carenze del partito d’azione e dei caratteri della letteratura nazional-popolare. Egli fa inoltre una scrupolosa opera di informazione sull’ evolversi della rivoluzione bolscevica in Russia e di sostegno dello stesso movimento. ‘Bisogna impedire a questo cervello di funzionare’ aveva detto Mussolini a proposito di Gramsci e ne aveva ordinato l’arresto e la reclusione; ma con i 32 Quaderni del carcere, in cui, nell’odissea di indicibili sofferenze che lo distrussero nel fisico, era venuto affidando alla scrittura minuta e precisa il frutto delle sue meditazioni (fortunosamente salvati dalla cognata Tatiana Schucht) proponevano alla commossa ammirazione degli uomini di ogni fede una straordinaria testimonianza di consapevolezza storica e di forza morale, un inestimabile patrimonio spirituale, un grande tesoro di cultura; Mussolini si era sbagliato: sì, perché in carcere il cervello di Gramsci funzionò come non mai, con spirito critico degno di un acuto osservatore e di uno spirito caparbio e tenace. Le ‘Lettere dal carcere’ sono poi uno dei più splendidi e commoventi epistolari della nostra letteratura, hanno messo in luce le qualità di scrittore di Gramsci, la sua intensa umanità, lo straordinario equilibrio con cui seppe affrontare le sofferenze del carcere, che, anche se insostenibili, egli affrontò con cuore sereno: ‘ il mio stato d’animo é tale che se anche fossi condannato a morte, continuerei a essere tranquillo e anche la sera prima dell’esecuzione magari studierei una lezione di lingua cinese per non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo. Il mio stato d’animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista con la volontà ‘. Anche nella triste e tetra solitudine del carcere egli seppe mantenere la forza e la costanza, senza rinunciare ai suoi ideali, che non stentano a trasparire nelle lettere inviate a familiari e amici: in una lettera al primogenito Delio, lasciato ancora infante, egli scrive: ‘ Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa ‘. Sognare ad occhi aperti o fantasticare per Gramsci è inutile, è prova di mancanza di carattere e di passività: ‘ occorre invece violentemente attirare l’attenzione nel presente così com’è, se si vuole trasformarlo ‘. Gramsci, oltre che di filosofia e di politica, si interessò anche di letteratura e, tra le sue tante riflessioni in merito, è doveroso ricordare quella su ‘I promessi sposi’ di Manzoni : in Letteratura nazionale , dopo aver preso in esame il termine di ‘umili’, Gramsci esamina i seguenti caratteri della posizione del Manzoni nei loro confronti. 1) Lo scrittore lombardo assume un atteggiamento di ‘compatimento’ scherzoso verso di loro, mostrando ‘ condiscendente benevolenza, non medesimezza umana ‘ (a differenza di quanto accade in Tolstoij), un senso di distanza e un ‘ distacco sentimentale ‘. 29 Nega loro ‘ vita interiore ‘, riservandola solo ai potenti, ai colti e ai ricchi: a fare riflessioni profonde sono solo personaggi del calibro dell’ Innominato o di Don Rodrigo, non certo gli umili come Agnese, Lucia o Perpetua. 3) La sua opera è priva di ‘ spirito nazional-popolare ‘e nutrita invece di classicismo distaccato e aulico. 4) Il popolo non è voce di Dio, come in Tolstoij, poiché per il cattolico Manzoni è la mediazione della Chiesa a rappresentare l’unico interprete possibile della parola divina.
La maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. (Quaderni del carcere, 10, II)
L’INTERPRETAZIONE DEL RISORGIMENTO
Gramsci ha meditato a lungo sul processo storico che, nel secolo XIX, ha prodotto la travagliata costituzione dello stato italiano unitario. A suo avviso, tale processo è stato diretto fondamentalmente da forze moderate, e il cosiddetto Partito d’ azione (cioè il complesso di gruppi e di correnti che si richiamavano in parte a Mazzini e a Garibaldi) si è rivelato incapace di svolgere un’opera adeguatamente incisiva e trasformatrice nel contesto politico del tempo. Quella risorgimentale è stata, per usare una celebre espressione gramsciana, una ” rivoluzione mancata ” – e la causa e la natura di tale “mancanza” sono state essenzialmente di carattere sociale. In effetti il limite storico del Partito d’ azione va individuato nel fatto che è rimasto sempre un partito borghese di élite, non disposto o non capace di ricercare l’ appoggio dei ceti non borghesi. Quali ceti? E’ qui che Gramsci mostra la sua relativa eterodossia rispetto alle tesi canoniche del marxismo. Egli sa bene che nell’ Italia dell’ Ottocento non c’ era un proletariato industriale e tanto meno una classe operaia organizzata – ossia il solo soggetto sociale in grado, secondo i princìpi marxisti, di promuovere una trasformazione radicale della società. L’ autore dei Quaderni del carcere ritiene però che il risorgimento avrebbe potuto e dovuto ugualmente assumere un carattere rivoluzionario, acquisendo il consenso dei contadini. Proprio questi ultimi costituivano, infatti, quella massa popolare la cui partecipazione all’ azione risorgimentale le avrebbe dato un sostanziale contenuto sociale e un adeguato impulso rinnovatore. Gramsci precisa che il movimento democratico avrebbe realizzato tale disegno e tale strategia se fosse stato capace di farsi partito “giacobino”: se avesse saputo far propri gli interessi e le esigenze della classe contadina attraverso una riforma agraria volta a spezzare il latifondo e a creare un ceto di contadini piccoli proprietari. Proprio questo obiettivo era stato tenuto presente dai giacobini francesi, i quali avevano in tal modo evitato l’ isolamento delle città e convertito le campagne alla rivoluzione. Solo così essi erano riusciti a superare la situazione di minoranza elitaria in cui si erano trovati inizialmente, e a sconfiggere le forze della reazione aristocratica. Tutto ciò non significa per Gramsci che il risorgimento sia stato un processo storico completamente negativo. In effetti esso ha favorito non solo l’ unificazione della penisola ma anche la crescita della borghesia, gettando con ciò alcune premesse per lo sviluppo di una fase capitalistica in Italia. D’ altra parte tale sviluppo si è realizzato in misura insoddisfacente; inoltre il nuovo stato si è costituito su una base sia economico sociale che politica assai ristretta. In effetti, per un verso il neonato capitalismo (concentrato nelle sole regioni settentrionali), non ha potuto usufruire di un adeguato mercato per i suoi prodotti, a causa dell’ arretratezza economica della società italiana, soprattutto meridionale. Per un altro verso le masse indigenti (in primo luogo i ceti contadini) abbandonate sostanzialmente a loro stesse, non sono riuscite a divenire parte attiva della nuova compagine statuale. Quanto ai raggruppamenti politici anche più aperti e democratici, si sono rivelati incapaci di approfondire i loro legami con le forze sociali potenzialmente disponibili a un’ azione di reale emancipazione. Se tutto ciò è vero, si tratta per Gramsci di elaborare le condizioni di una profonda trasformazione della realtà italiana emersa dal processo risorgimentale: una trasformazione il cui obiettivo finale deve essere quella rivoluzione sociale – anzi socialista – che il risorgimento non ha saputo compiere. A giudizio di Gramsci, tale rivoluzione potrà essere fatta solo attraverso un’ alleanza tra proletariato settentrionale e contadini meridionali: sono essi, infatti, i soggetti sociali concretamente interessati alla realizzazione di un progetto politico così impegnativo e radicale.
Il comunismo è la religione che deve ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che anch’esso è una fede, che ha i suoi martiri e i suoi pratici; religione perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell’uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale.
IL MARXISMO STORICISTICO-DIALETTICO
Ma la riflessione gramsciana non mira soltanto a un determinato, pur complesso e ambizioso, obiettivo politico. Non diversamente da quanto aveva fatto Lukàcs, essa mira anche a rivisitare criticamente il marxismo come teoria: e ciò con lo scopo, in primo luogo, di liberarlo dalle incrostazioni positivistiche ed economistiche e di valorizzarne l’ essenza storicistica e dialettica. Solo attraverso questo lavoro di “depurazione” il marxismo potrà, secondo Gramsci, ritrovare la propria ispirazione più profonda e originale, sostenere il confronto con le filosofie più influenti dell’ età presente (a cominciare da quella idealistica), e diventare così lo strumento teorico-politico rivoluzionario delle classi oppresse. Come Lukàcs, anche Gramsci respinge l’ identificazione del metodo del marxismo coi metodi delle scienze empiriche, perchè ciò lo priverebbe del suo nucleo essenziale, la dialettica. In polemica col filosofo sovietico Bucharin, che aveva presentato il marxismo come una sociologia scientifico-materialistica, Gramsci sostiene che tale sociologia è la ” filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente fatti storici e politici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali “. Alla base della sociologia c’ è secondo Gramsci, un ” evoluzionismo volgare ” che ” non può conoscere il principio dialettico col suo passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico “. E invero la sociologia, e più in generale le scienze empirico-naturali, studiano i fenomeni come dati puramente quantitativi e omogenei, connessi tra loro da legami causali e necessari (sicchè l’ effetto non può mai “superare” la causa). In tal modo esse si vietano a priori di comprendere adeguatamente il mondo umano-sociale. Quest’ ultimo per Gramsci, va concepito in effetti non come un inerte insieme di eventi concatenati deterministicamente l’ uno all’ altro, bensì come un vivente sviluppo storico-dinamico dotato di un suo senso e di una sua direzione. Ora, l’ unico modo e strumento teorico per comprendere la realtà come sviluppo storico è il modo/strumento dialettico. Solo la dialettica, a ben guardare, è in grado di cogliere unitariamente l’ orizzonte complesso (la “totalità”) in cui si inscrivono gli eventi umani, e al cui interno soltanto essi acquistano il loro significato. Solo essa, inoltre è capace di cogliere il movimento, la natura processuale ed autotrasformatrice di questa “totalità”. E non basta. Nella misura in cui la dialettica evidenzia per un verso il senso (il senso anche politico) delle vicende umane e per un altro la non-assolutezza, la storicità di queste ultime, essa sollecita l’ uomo a congiungere all’ analisi puramente cognitiva del mondo una presa di posizione pratica: la presa di posizione di chi vuole (e, insieme, ritiene possibile) trasformare tali vicende. Sotto questo profilo, la dialettica si configura non solo come una certa metodologia di indagine della realtà umana, e neppure come il mero superamento di una concezione naturalistico-meccanicistica di tale realtà, bensì anche come la precondizione di quel nesso di teoria e prassi, di conoscenza e azione che anche per Gramsci (come già per Lukàcs) è il principio più prezioso del marxismo. Risoluto critico di ogni interpretazione positivistico-evoluzionistica del marxismo, Gramsci è avversario non meno radicale di una sua lettura in chiave strettamente materialistica, o ” materialistico-volgare “. Se accetta la definizione canonica del marxismo come “materialismo storico”, sottolinea però con forza la necessità di ” posare l’ accento sul secondo termine ‘storico’ e non sul primo, di origine metafisica “. Si noti: per Gramsci il materialismo è essenzialmente “metafisica”. Anche la distinzione fra soggetto e oggetto e la correlata affermazione della “realtà oggettiva” del mondo esterno sono per lui mere affermazioni del senso comune, che questo ha ereditato dalla religione (secondo la quale è indubitabile che l’ uomo ‘trova’ un mondo già dato e creato da Dio). In verità , avverte Gramsci, per una filosofia laica e moderna ” oggettivo significa sempre ‘umanamente soggettivo’, ciò che non può non corrispondere esattamente a ‘storicamente soggettivo’ “. In altri termini, se nell’ ottica del materialismo e del realismo metafisico “oggettivi” significa un’ oggettività che esiste al di fuori dell’ uomo, per il marxismo, invece, la realtà esiste e può essere conosciuta solo in rapporto all’ uomo. In questa prospettiva Gramsci giunge a vedere una connessione tra l’ affermazione idealistica che la realtà è una creazione dello spirito umano e la concezione marxista del mondo: nel senso che anche per il marxismo non esiste il mondo in sé, ma esiste la coscienza umana del mondo, esiste una certa consapevolezza che gli uomini hanno delle situazioni e delle strutture nelle quali operano. Se questo è vero, allora va detto che il marxismo può e deve sostituire ” la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica ” con una concezione più elevata e sofisticata. Qual’ è questa concezione? Qual’ è la corretta interpretazione della realtà? La filosofia per Gramsci risponde a questo duplice quesito in modo assai preciso. In primo luogo la realtà di cui il marxista deve occuparsi è essenzialmente la realtà umana, oppure la realtà naturale in quanto esperita/trasformata dall’ uomo. In secondo luogo, di tale realtà occorre rilevare e valorizzare anzitutto la sua natura di “sistema”, di “totalità”. Guidato da una razionalità profonda, l’ universo sociale tende per Gramsci a inverare i fenomeni particolari in strutture sempre più complesse, sempre più consapevoli delle proprie leggi e delle proprie contraddizioni. Il primo ispiratore di tale concezione (e, insieme, della particolare versione gramsciana del marxismo) è Hegel. Sotto più profili, Gramsci è (con Gentile e Croce) uno dei più significativi esponenti italiani della rinascita dell’ hegelismo che ha avuto luogo in Europa nel primo terzo del Novecento. Non diversamente da Lukàcs, anch’ egli insiste sulla sostanziale continuità tra il pensiero di Hegel e la dottrina marxiana e marxista. Grazie alla dottrina hegeliana, egli scrive, ” si riesce a comprendere cos’ è la realtà […]. In un certo senso, la filosofia della prassi (= il marxismo) è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni del mondo “. A Hegel e alla tradizione dialettica (della quale Marx è l’ interprete più valido) va inoltre attribuito, per Gramsci, il merito di aver concepito il reale come movimento e come processo. Tale processo è la storia, di cui la dialettica costituisce in qualche modo la legge. Se la storia e la dialettica sono senza dubbio uno dei temi della riflessione gramsciana, è però anche vero che Gramsci non intende assolutamente farne (rispettivamente) una realtà e una norma necessarie-trascendenti. In effetti, l’ unica realtà effettiva è rappresentata per lui solo dai soggetti umani. Solo il loro concreto impegno, la loro concreta attività promuovono il cammino storico e il progresso sociale. Per questo al centro del pensiero gramsciano si colloca non tanto (hegelianamente) la logica del reale e neppure (marxianamente) la dinamica oggettiva delle contraddizioni economico-sociali, bensì (umanisticamente) l’ opera di quelli che vengono chiamati gli ” omini reali “: coi loro bisogni e i loro progetti , i loro conflitti e le loro iniziative.
Il tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa.
LA PRASSI E IL RAPPORTO CON CROCE
Il concetto che esprime nel modo più diretto la prospettiva “umanistica” e “attivistica” della fiosofia gramsciana è quello di “prassi”. La sua origine è rintracciabile nell’ opera di Antonio Labriola, il quale con questa nozione si era proposto di superare criticamente le concezioni da un lato idealistiche e coscienzalistiche, dall’ altro naturalistiche e positivistiche dell’ umano e del sociale. Per quanto riguarda Gramsci, egli intende sviluppare e approfondire un programma teorico per più versi analogo a quello labriolano. Nel suo pensiero la prassi si configura, in qualche misura, come una mediazione tra gli uomini e la realtà in quanto natura ed esperienza e in quanto complesso di tradizioni e istituzioni. La prassi è, infatti, la maniera in cui gli agenti storico-sociali conoscono e trasformano il mondo impegnando le loro cognizioni ed energie e tenendo conto del contesto concreto in cui operano. E’ inoltre, attraverso la prassi che ( a parte subiecti ) gli uomini realizzano la loro crescita ed emancipazione sociale, e che ( a parte obiecti ) la storia procede nel suo travagliato itinerario. In conclusione, l’ essenza più originale e profonda della filosofia gramsciana sembra costruita dal quadruplice tema dell’ assenza di fondamenti trascendenti l’ operare umano (immanentismo), della necessità di concepire la struttura sociale in modo storico-concreto (antispeculativismo), della centralità degli uomini come soggetti, valori e motori del cammino storico (umanesimo) e della radicale storicità delle situazioni pratiche e delle dottrine intellettuali (ivi compreso lo stesso marxismo). ” La filosofia della praxis deriva certamente dalla concezione immanentistica della realtà, ma da essa in quanto depurata da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità o a puro umanesimo. Se il concetto di struttura viene concepito ‘speculativamente’ certo esso diventa un ‘dio ascoso’; ma appunto esso non deve essere concepito speculativamente ma storicamente, come l’ insieme dei rapporti sociali in cui gli uomini reali si muovono e operano. La filosofia della praxis è la concezione storicistica della realtà che si è liberata di ogni residuo di trascendenza e di teologia. ” (Quaderni del carcere, IX, 1, VIII). Un cenno a parte merita, infine, la posizione assunta da Gramsci nei confronti di Croce: e ciò sia per i consensi, sia per i dissensi espressi verso una filosofia di cui il pensatore sardo colse assai bene l’ importanza teorica e le ragioni del successo storico. Per Gramsci il motivo più sostanziale della grande diffusione e popolarità delle concezioni di Croce è ” intrinseco al suo stesso pensiero e al metodo del suo pensare “, ed è da ricercare ” nella maggiore adesione alla vita della filosofia del Croce che di qualsiasi altra filosofia speculativa “. Rispetto a quelle dei filosofi “tradizionali”, infatti, le principali caratteristiche della dottrina crociana sono, secondo Gramsci, le seguenti: ” dissoluzione del concetto di ‘sistema’ chiuso e definito e quindi pedantesco e astruso in filosofia: affermazione che la filosofia deve risolvere i problemi che il processo storico nel suo svolgimento presenta volta a volta “. In questa adesione della filosofia crociana alla vita e alla storia, nella sua lotta contro la trascendenza e la teologia, Gramsci individua il forte influsso esercitato su Croce dalla “filosofia della prassi”. Non è un caso, sottolinea Gramsci, che quando andava gettando le basi della propria concezione Croce avesse assunto verso il marxismo un atteggiamento tutt’ altro che negativo. Egli aveva scorto in esso, in particolare, un fecondo canone empirico per l’ interpretazione della storia. Inoltre, aveva giudicato la teoria del valore-lavoro il risultato di un paragone ‘ellittico’ fra un’ astratta società lavoratrice e la società borghese moderna: ma non aveva negato qualsiasi valore a quel paragone, ammettendo anzi che costituiva un notevole contributo ad un’ economia sociologica comparata. Infine aveva ricavato dalla filosofia della prassi alcune tesi di fondamentale importanza: dalla dottrina dell’ origine pratica dell’ errore (” l’ errore del Croce è l’ illusione dei filosofi della prassi “) alla concezione delle ideologie politiche considerate costruzioni pratiche e strumenti di direzione politica. Senonchè Croce, secondo Gramsci, ha poi inserito tutti questi elementi realistici all’ interno di una dottrina ‘speculativa’ (nel senso negativo del termine) che costituisce un grave arretramento non solo rispetto alla filosofia della prassi, ma anche rispetto allo stesso hegelismo. Anzi la concezione di Croce costituisce per Gramsci una sorta di ” hegelismo mutilato ” in quanto stravolge, ‘addomesticandola’ la dialettica hegeliana: ” L’ errore filosofico (di origine pratica!) di tale concezione consiste in ciò, che nel processo dialettico si presuppone ‘meccanicamente’ che la tesi debba essere ‘conservata’ dall’ antitesi per non distruggere il processo stesso, che pertanto viene ‘preveduto’, come una ripetizione all’ infinito, meccanica, arbitrariamente prefissata. In realtà si tratta di uno dei tanti modi di ‘mettere le brache al mondo’, una delle tante forme di razionalismo antistoricistico. La concezione hegeliana, pur nelle sua forma speculativa, non consente tali addomesticamenti e costrizioni mutilatrici. ” (Quaderni del carcere, X, 1, VI)
Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. (Lettera al figlioletto Delio)
L’EGEMONIA DELLA CLASSE OPERAIA
La forte accentuazione della componente umanistico-‘prassistica’ della realtà sociale ha sollecitato Gramsci a rivedere alcuni concetti centrali del marxismo, soprattutto nell’ ambito della teoria socio politica. Di particolare rilievo è la sua presa di posizione dinanzi alla questione della natura della sovrastruttura e del suo rapporto con la struttura. Gli stessi Marx ed Engels erano parsi in più occasioni ambigui nell’ interpretazione di tale questione. Successivamente, una parte cospicua del marxismo ufficiale aveva inclinato a privilegiare la struttura (economica) e a considerare la sovrastruttura (politica, istituzionale, culturale) una mera conseguenza o proiezione della prima. Ora, tra i marxisti primo-novecenteschi Gramsci è uno di coloro che modifica questa posizione nel modo più radicale. Per lui la sovrastruttura è una dimensione legata si a precise premesse di carattere socio-economiche: ma è dotata anche di una sua precisa e irriducibile specificità, che reclama un tipo di analisi e di intervento appropriato a tale specificità. Questa concezione della sovrastruttura è la premessa di un’ altra importante innovazione introdotta da Gramsci nella concezione marxista: quella relativa al concetto di società civile . Anche a proposito di tale fondamentale ‘figura’ dell’ intera tradizione dialettica il marxismo tra Otto e Novecento era parso poco propenso a fornire un’ immagine in qualche modo autonoma. Per Lenin e per altri teorici marxisti la società civile costituiva puramente la sfera dei rapporti materiali dell’ esistenza associata: essa veniva collegata cioè alla dimensione strutturale. Per Gramsci, invece, la società civile è da riferire essenzialmente alla sovrastruttura. Essa comprende per lui un ricco complesso di istituzioni e di funzioni sociali: la chiesa, i partiti, i sindacati, la stampa, i centri produttori di idee e ideologie. Ora tale complesso, se indubbiamente dipende da una determinata situazione socio-economica, altrettanto indubbiamente opera in un modo articolato, molteplice, che non consente di appiattirne entro schemi semplicistici la sua fisionomia e la sua azione. Con particolare riferimento alla realtà politico-sociale d’ occidente ciò significa che non si può ridurre la società civile a mera proiezione meccanica e passiva del sistema capitalistico. In effetti, secondo Gramsci alcune delle sue componenti contengono tendenze e tensioni conflittuali nei confronti delle strutture socio-economiche dominanti: di quì la necessità di un’analisi capace di cogliere le potenzialità di sviluppo critiche della società civile. Tale concezione ha anche importanti implicazioni pratiche. Essa sollecita infatti a prestare molta attenzione alle possibilità di azione trasformatrice su istituzioni e modalità di vita che un certo marxismo tendeva (perchè “sovrastrutturali”) a trascurare. L’iniziativa politica si viene così articolando per Gramsci in direzioni che investono i più diversi aspetti e livelli della convivenza sociale. A questo proposito egli ha lasciato in eredità tutta una serie di indicazioni sulle quali il pensiero marxista successivo è tornato spesso ad interrogarsi. Sempre nell’ambito della teoria politica è da sottolineare l’interpretazione per molti versi innovatrice che Gramsci dà, da un lato, della dialettica tra le classi, dall’altro delle funzioni e modalità d’azione del partito rivoluzionario. Estremizzando alcune tesi di Marx ed Engels, un certo marxismo aveva innegabilmente semplificato oltre il lecito il tema della lotta di classe, riportandola ad un puro e semplice scontro frontale tra capitalisti e lavoratori. Ora Gramsci, pur senza contestare la concezione marxista della dinamica fondamentale del capitalismo (crescente concentrazione del capitale, crescente impoverimento del proletariato, conflitto finale tra i due), ridisegna tale quadro in modo più sottile. Anzitutto, egli tende a non ridurre la competizione sociale alla meccanica contrapposizione tra le due forze; in secondo luogo prospetta interessanti strategie di alleanza tra diversi ceti e forze sociali; in terzo luogo sembra ammettere processi di trasformazione socialista del mondo capitalistico diversi da quelli teorizzati dal marxismo tradizionale. Sotto questo profilo, particolarmente rilevante appare la preferenza accordata alla nuova nozione di ” egemonia ” rispetto a quella di “dittatura” del proletariato. L’ “egemonia” di cui Gramsci parla a più riprese sembra infatti alludere non solo a un meccanismo più articolato e meno violento di transizione al socialismo, ma anche a un processo in cui le altre forze e ideali hanno la possibilità di cooperare col proletariato alla costruzione di una società più giusta e libera. Ma non basta. A proposito del ruolo privilegiato della classe operaia, Gramsci sottolinea ch’esso non è esclusivamente il prodotto necessario di una certa condizione economico-sociale. O, almeno, è indispensabile che la classe operaia sappia divenire quella che Gramsci definisce la “classe dirigente”. Classe dirigente non è agli occhi di Gramsci la stessa cosa che “classe dominante”: la prima espressione implica la duplice capacità del proletariato organizzato di elaborare una linea d’azione adeguata ai tempi e alle circostanze, e di conquistare autorità e seguito entro il sistema politico-sociale. La principale verifica della capacità dirigenziale della classe operaia è l’acquisizione del ” consenso “, un’altra originale nozione teorica del pensiero gramsciano. Il consenso è il riconoscimento della validità della prospettiva e della strategia elaborate dal partito rivoluzionario da parte di altre organizzazioni politiche e di ampi gruppi sociali. Esso deve essere ottenuto non solo in sede strettamente politica, ma anche nell’ambito della società civile, attraverso un’opera di persuasione che sappia influenzare le varie componenti e istituzioni di quest’ultima. Dal punto di vista politico, è necessario che il consenso sia conseguito a livello di massa, con particolare riferimento ai ceti sfruttati e subalterni. Su un altro versante il consenso può e deve essere ricercato anche presso la borghesia, o almeno presso le sue file socialmente e ideologicamente più avanzate. Su questo piano, in ideale rapporto col concetto di consenso sta l’altra e non meno nuova nozione gramsciana di ” blocco storico “: un’espressione con la quale Gramsci indica la possibilità/necessità di istituire un’alleanza (per più versi inter- o meta-classista) tra tutte le forze politico-sociali interessate alla modernizzazione e all’innovazione in senso democratico (e, in seconda approssimazione, socialista) del paese.
Il partito prende il posto, nella coscienza, della divinità e dell’imperativo categorico .
IL PARTITO E GLI INTELLETTUALI
La realizzazione del consenso, del blocco storico e, ancor prima, di una prospettiva di trasformazione della società richiede per Gramsci un’organizzazione politica appropriata. Non diversamente da Lenin, Gramsci dà anzi un rilievo centrale al momento propriamente organizzativo dell’azione politico-sociale: ” una massa non si ‘distingue’ e non diventa ‘indipendente’ senza organizzarsi “. E anche Gramsci, come Lenin, individua nel partito la struttura in grado di porre in essere nel modo più efficace tale organizzazione. Riflettendo sui caratteri e le funzioni che il partito deve avere nell’età contemporanea, egli riscopre l’attualità delle idee di un autore a lui (come a Croce) molto caro: Machiavelli. Per Gramsci il partito è e dev’essere, in larga misura, la reincarnazione del Principe machiavelliano. Naturalmente, come chiariscono alcune celebri pagine dei Quaderni , questo ” moderno Principe ” non può essere (come in Machiavelli) ” una persona reale, un individuo concreto “: esso è invece ” un organismo, un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta ed affermatasi parzialmente nell’azione . ” Tuttavia, non diversamente dal Principe, il partito opera in modo specificamente ed esclusivamente politi- co, in vista di fini e obiettivi pur essi soltanto politici. Di conseguenza esso si riferisce a una scala di valori e a criteri di condotta, i quali non possono essere valutati alla luce di astratti principi extra-politici. L’unico metro di giudizio è l’efficacia della sua azione: un’efficacia che si misura esclusivamente in rapporto al traguardo della trasformazione democratico-socialista della società. Per vari aspetti la teorizzazione gramsciana del partito-Principe assume toni e accenti simili a quelli che si trovano in Lenin. Il partito, scrive ad esempio Gramsci, ” prende il posto, nella coscienza, della divinità e dell’imperativo categorico “. Esso diventa l’unico principio, l’unico punto di riferimento dei soggetti impegnati nell’azione rivoluzionaria. Sotto altri profili le posizioni di Gramsci sono invece sensibilmente diverse da quelle di Lenin. Intanto egli appare molto più sensibile dell’eroe della Rivoluzione russa all’istanza di una conduzione democratica della vita interna del partito. In secondo luogo (e soprattutto) quest’ultimo non risulta edificato e operante in uno stato di ‘separatezza’ rispetto alla realtà della classe operaia e della restante società civile: al contrario esso viene strettamente intrecciato sia alla prima che alla seconda, così da coglierne adeguatamente i modi d’essere e le esigenze. Ma l’aspetto più caratteristico della concezione gramsciana del partito è il ruolo da essa assegnato agli intellettuali. Per Gramsci ” non c’è organizzazione senza intellettuali “: solo essi, in effetti, possono dare al proletariato ” la coscienza della sua missione storica “. Partito da questa premessa, in larga misura leninista, Gramsci è poi andato molto al di là di Lenin. Nessuno dei grandi teorici del marxismo contemporaneo ha sottolineato più di lui l’indispensabile nesso che deve sussistere fra teoria e politica, fra trasformazione rivoluzionaria del mondo e tradizione culturale borghese. E proprio gli intellettuali sono i preziosi, insostituibili depositari di tale tradizione. Essi sono, scrive Gramsci, i ” rappresentanti della scienza e della tecnica “, in grado di offrire i lumi e gli strumenti di queste alla causa rivoluzionaria. Solo essi, inoltre, possono realizzare appropriatamente quell’azione ammaestratrice in seno alla società che, come si è visto, appare a Gramsci un fattore indispensabile di crescita della coscienza democratico-socialista. E solo essi, infine, possono interpretare adeguatamente le linee di tendenza e le aspirazioni profonde della realtà sociale contemporanea. Naturalmente Gramsci ha in mente non già un intellettuale astratto, dedito a studi puramente speculativi, bensì un uomo capace di ” mescolarsi attivamente alla vita pratica come costruttore, organizzatore, persuasore permanente “. Questo intellettuale deve essere o diventare un uomo capace di parlare alle masse lavoratrici, di mediare l’alta cultura e i princìpi della strategia politica con le energie e le capacità di comprensione della gente comune. Il riferimento di fondo di questa attività di illuminazione e di mediazione resta peraltro il partito, rispetto al quale l’intellettuale viene concepito da Gramsci come una ,sorta di componente organica. E in effetti l’espressione ” intellettuale organico ” viene usata nei Quaderni del carcere per sottolineare la stretta connessione che deve esistere tra l’opera dell’uomo di cultura politicamente impegnato e la realtà del partito. D’altra parte, nella misura in cui quest’ultimo è in parte guidato da intellettuali e più in generale da una robusta coscienza teorica, da un pensiero culturalmente attrezzato, esso stesso si configura come una sorta di ” intellettuale collettivo “: un’espressione che esprime da un lato la già notata esigenza gramsciana che intelligenza e cultura, abbandonata ogni ‘separatezza’ elitaria, si reintegrino nel processo autoemancipativo dei ceti lavoratori; e dall’altro che l’organizzazione (politica) di tale processo dia adeguato spazio e rilievo al pensiero e al sapere. Il partito deve essere per Gramsci la mente non meno che il braccio della trasformazione democratico-socialista del mondo.
La filosofia della praxis č la concezione storicistica della realtā che si č liberata di ogni residuo di trascendenza e di teologia. (Quaderni del carcere, IX, 1, VIII)
QUADERNI DEL CARCERE
I Quaderni del carcere č l’opera che contiene le note, gli appunti, le riflessioni su vari argomenti che Gramsci elaborō nel periodo della sua reclusione compilando i quaderni che gli venivano concessi dalle autoritā carcerarie. La compilazione dei quaderni non aveva, nel progetto dell’autore, lo scopo della pubblicazione: l’opera non aveva perciō un titolo e quello attuale lo dobbiamo all’editore, non a Gramsci. Il pensatore sardo ne iniziō la stesura nel carcere di Turi l’8 febbraio 1929, due anni e tre mesi dopo l’arresto avvenuto l’8 novembre 1926. L’idea del lavoro, perō, era giā vivissima nel 1926 e in una lettera alla cognata Tania del 19 marzo di quell’anno Gramsci manifesta la volontā di ” far qualcosa ‘für ewig’ “, ossia “per l’eternitā”. Egli intendeva cioč occuparsi di argomenti di alto spessore culturale da un punto di vista “disinteressato”, libero dai limiti e dalle contingenze politiche del presente. Gramsci lavora alla stesura di ben 33 quaderni (non tutti compiuti perō) dal febbraio 1929 all’agosto 1935: seguendo l’evoluzione compositiva dell’opera, possiamo individuare tre fasi, di cui le prime due interessano il periodo di reclusione a Turi e la terza quello di Formia (1933-1935); il passaggio da una fase all’altra č annunciato o accompagnato dall’aggravarsi della condizione fisica del detenuto. La prima fase dura circa due anni (febbraio 1929-agosto 1931) e, in questo periodo, Gramsci compone 10 quaderni, di cui tre sono dedicati agli esercizi di traduzione per lo studio delle lingue che doveva servire come ” mezzo terapeutico ” contro l’inaridimento dovuto al carcere. La conclusione di questa prima fase e il passaggio alla seconda sono segnati dalla grave crisi che colpė Gramsci il 3 agosto 1931. La seconda fase si protrae per due anni (dalla fine del 1931 alla fine del 1933) ed č caratterizzata dall’intensificarsi del ritmo di lavoro sulle questioni giā individuate nel periodo precedente e dall’abbandono degli esercizi di traduzione (a cui son dedicati quattro dei 33 quaderni). In questo periodo, Gramsci compone altri 10 quaderni lavorando contemporaneamente alla stesura di note miscellanee e dei cosiddetti “quaderni speciali”; con questi ultimi, egli intendeva riordinare e riscrivere (in base ad una distinzione per argomenti) molte delle note giā abbozzate nei quaderni precedenti. Un’ulteriore, pių dura, crisi colpisce perō lo scrittore sardo nel marzo 1933, con stati di allucinazione, di ossessione e di tormenti psicologici. Proprio questa crisi sarā determinante per il passaggio alla terza fase: essa si apre alla fine del 1933 con il trasferimento di Gramsci (per via delle sue gravi condizioni di salute) nella clinica di Formia. Qui egli si avvierā alla stesura di altri dodici quaderni (tutti “speciali”), la maggior parte dei quali perō resteranno incompleti. L’irreversibile esaurimento di forze a cui Gramsci č giunto sfocia in una nuova crisi del giugno 1935, in seguito alla quale viene ricoverato nella clinica “Quisisana” di Roma; il lavoro di composizione dei Quaderni č interrotto e non sarā mai ripreso. L’opera č, pertanto, incompiuta e ciō fa sė che essa non abbia un carattere concluso e definitivo: Gramsci stesso afferma che le sue note sono spesso formate da ” affermazioni non controllate “, ” di prima approssimazione ” e che alcune di esse potrebbero in seguito essere abbandonate. Dopo la morte di Gramsci, i Quaderni furono numerati e custoditi dalla cognata Tania, che li spedė a Mosca, dove furono presi in consegna dai membri del Partito Comunista Italiano. I temi che ricorrono e che si intrecciano all’interno dei Quaderni sono molteplici; tra i pių importanti, meritano di essere ricordati:
FOLCLORE : Gramsci intende, con questo termine, la ” concezione del mondo e della vita ” e tutto il sistema di credenze e superstizioni propri degli strati sociali popolari. Nel folclore Gramsci individua una potenzialitā critica e rivoluzionaria rispetto alle concezioni del mondo “ufficiali” espresse dalle ” parti colte delle societā storicamente determinate “.
QUESTIONE MERIDIONALE : Gramsci vuole analizzare il problema dello squilibrio e della contraddizione dovuti all’incapacitā delle forze dirigenti risorgimentali di affrontare e di risolvere la questione contadina, particolarmente grave nel Sud. Il partito comunista doveva, agli occhi di Gramsci, assumersi l’impegno di favorire il superamento della disgregazione interna alle masse contadine che le rendeva incapaci di sottrarsi alla dura subordinazione nei confronti delle classi dominanti e di allearsi alla classe operaia settentrionale (la falce e il martello dello stemma comunista indicano esattamente questo: l’alleanza tra contadini del Sud e operai del Nord).
CROCE E L’ “ANTICROCE” : nei confronti di Benedetto Croce, Gramsci vuole ripetere l’operazione che Marx ha compiuto nei confronti di Hegel: come Hegel č stato il massimo rappresentante dell’idealismo e del progresso borghese del XIX secolo, cosė Croce lo č dell’idealismo e della borghesia italiana del XX secolo. Si tratta dunque di rovesciarne radicalmente le prospettive e, cosė, Croce č al tempo stesso il principale interlocutore e il principale antagonista del materialista Gramsci.
RISORGIMENTO : il Risorgimento viene letto, sulle orme di Gobetti, come “rivoluzione mancata”; l’egemonia dei moderati (che Gramsci analizza in tutte le sue articolazioni) ha impedito quelle trasformazioni radicali che pure erano necessarie. Spetterā quindi alla rivoluzione proletaria compiere il processo risorgimentale fino in fondo.
FILOSOFIA DELLA PRAXIS : č la parte dei Quaderni dedicata pių specificatamente alla filosofia e, in particolare, al materialismo storico o marxismo, che Gramsci definisce appunto ” filosofia della praxis “.
MACHIAVELLI E IL PRINCIPE : Gramsci interpreta il “Principe” di Machiavelli come un manifesto politico della nascente borghesia italiana; fallimento del nuovo ceto borghese e fallimento del progetto di unitā nazionale sono per Gramsci una cosa sola. In etā contemporanea, i processi politici non sono perō pių guidati da una singola persona (un principe) ma dai partiti: anche i rivoluzionari (secondo l’insegnamento di Lenin) per realizzare il loro progetto hanno bisogno di un partito, che Gramsci definisce il ” nuovo Principe “.
LA QUESTIONE DEGLI INTELLETTUALI : il ruolo riservato da Gramsci agli intellettuali č quello di elaboratori e mediatori delle ideologie ed č fondamentale per la conquista e per l’esercizio dell’egemonia culturale da parte di ogni classe sociale che miri a diventare dominante. A questo tema si legano quindi direttamente quello dell’egemonia e della rivoluzione passiva. Gramsci afferma che ” tutti gli uomini sono intellettuali “, poichč ogni uomo, consapevolmente o no, esplica ” una qualche attivitā intellettuale “, ha una propria concezione del mondo e una consapevole linea di condotta morale, e contribuisce a modificare altre visioni del mondo suscitando nuovi modi di pensare. Il linguaggio stesso č ” una minima manifestazione ” intellettuale, visto che giā in esso č cristallizzata una ” determinata concezione del mondo “, una qualche ” filosofia spontanea “. Non vi č pertanto attivitā umana (neppure la pių pratica) ” da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale “: “ non si puō separare l’homo faber dall’homo sapiens “. Ma se tutti gli uomini sono intellettuali, ” non tutti gli uomini hanno nella societā la funzione di intellettuali “; per l’esercizio di tale funzione, si formano storicamente delle categorie specializzate in connessioni con le classi sociali e specialmente con quelle pių importanti e dominanti. Gramsci distingue fra: 1) intellettuali “tradizionali”, che generalmente si rappresentano come ” autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante ” e dal mondo della produzione, considerandosi piuttosto come seguaci disinteressati dei valori tradizionali; 2) intellettuali “organici”, cioč legati organicamente al gruppo sociale fondamentale; perō anche gli intellettuali “tradizionali”, anche se non ne sono consapevoli, sono in ultima analisi “commessi” della classe dominante, “organici” al gruppo sociale fondamentale e svolgono ” funzioni organizzative e connettive “, di direzione ideologica e culturale. Sta qui il rapporto tra intellettuali ed egemonia: la classe dominante o che aspira a divenire tale cerca di utilizzare gli intellettuali per esercitare un’egemonia su tutta la societā; Gramsci dice che ” la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’ “; lo Stato stesso, poichč espressione diretta del gruppo dominante, si fonda e si regge su due elementi: a) la “dittatura”, ovvero l’apparato di decisione e di coercizione rappresentato dalla “societā politica”; 2) l’ “egemonia” e l’organizzazione del consenso, dipendenti dalla “societā civile” e attuate attraverso un apparato di “strutture ideologiche” e di istituzioni a cui spetta il compito della direzione culturale per conto della classe politica dominante. Operano nella societā civile e nelle strutture ideologiche la scuola, la Chiesa, i partiti, i sindacati, la stampa, e cosė via, nonchč i funzionari dell’ideologia e della cultura, cioč gli intellettuali, fra i quali Gramsci fa rientrare tutti quelli che ricoprono ruoli sociali di educazione, formazione, organizzazione. L’egemonia č dunque il dominio di una classe sulle altre attraverso un’operazione di controllo culturale e ideologico e di esercizio del potere, in senso non tanto coercitivo, quanto di persuasione razionale, di influenza sul pensiero, sulla vita, sulla moralitā, sulle abitudini sociali e culturali dei singoli. La conquista e la salvaguardia del potere da parte della classe dominante sono, per Gramsci, sempre pių determinati dalla stretta connessione di egemonia e coercizione. L’esercizio dell’egemonia (tipico dei regimi liberali e parlamentari) č caratterizzato dalla combinazione e dall’equilibrio fra forza e consenso e la forza deve sembrare sempre giustificata dal consenso della maggioranza; quest’ultimo č espresso dagli organi di opinione pubblica (giornali e associazioni) che, a questo scopo, ” vengono moltiplicati artificiosamente “. Poichč nell’epoca moderna, avverte Gramsci, ” la categoria degli intellettuali […] si č ampliata in modo inaudito ” e questi appaiono ormai necessari al funzionamento dello Stato moderno, la lotta per la conquista e per il mantenimento dell’egemonia non si puō risolvere nello scontro materiale delle classi, ma deve investire il piano culturale. Le trasformazioni rivoluzionarie non sono pių immaginate, secondo le modalitā tradizionali, come scontro diretto, violento, fra gruppi o classi sociali antagonisti. D’altra parte, per evitare conflitti pericolosi per la sua esistenza, la classe dominante favorisce una serie di trasformazioni volte ad adeguare la societā allo sviluppo economico: si tratta di “rivoluzioni passive”, tra cui rientra “l’americanismo”. Per la costruzione di uno Stato alternativo a quello di stampo americanista, Gramsci vede il bisogno di un reale processo rivoluzionario e di una sistematica contrapposizione operaia mossa da un concreto ” spirito di scissione “, rispetto al blocco sociale dominante. La conquista dell’egemonia e del potere da parte del proletariato č dunque indisgiungibile dallo scontro delle classi e dalla lotta proletaria, ma per far ciō la classe operaia ha bisogno di attirare a sč gli intellettuali “tradizionali” e di crearsi i propri intellettuali “organici”. L’intellettuale nuovo deve dunque ” mescolarsi attivamente alla vita pratica ” e diventare dirigente politico (cioč “specialista + politico”) proprio a partire dalla centralitā del lavoro industriale nella societā moderna.
EGEMONIA : Gramsci impiega questo termine nel senso di “direzione culturale”; egli contrappone infatti al concetto di dominio, basato sulla forza, quello di egemonia, fondato sul potere di persuasione. Gli stati moderni tendono a reggersi sempre pių sull’egemonia e sempre meno sul dominio, ma i due momenti sono comunque essenziali alla vita dello Stato.
RIVOLUZIONE PASSIVA : Gramsci deriva questa nozione dall’analisi della storia del Risorgimento. Lo applica poi allo studio di tutti quei fenomeni di profondo mutamento economico, sociale, culturale diretto e gestito dalle classi dominanti con una operazione che tende a favorire l’adeguamento passivo della mentalitā delle masse e del costume collettivo alle esigenze economiche dominanti.
AMERICANISMO E FORDISMO : tale concetto (esaminato a fondo nel Quaderno 22) nasce dalla riflessione di Gramsci sul fenomeno dello sviluppo capitalistico americano e dalla razionalizzazione del lavoro e della vita privata dei lavoratori, favorito, nei primi decenni del Novecento, dall’organizzazione del lavoro di Taylor e Ford. Con questi termini si definisce anche un modo di fare e di pensare tipicamente americano che viene preso a modello dai Paesi capitalistici occidentali: di qui il termine “americanismo”. Le considerazioni di Gramsci si basano su alcuni eventi concreti: la sempre maggiore deprofessionalizzazione del lavoro operaio e il suo adeguamento al funzionamento meccanico e automatico della macchina con la conseguente affermazione della figura dell’ “operaio-massa”, con il tramonto di quella dell’operaio artigiano e della dimensione dell’ “umanesimo del lavoro”, in cui la centralitā operaia era ancora rappresentata dal lavoratore creativo e specializzato, dotato di una forte coscienza delle proprie prestazioni; a tutto ciō si aggiunge, appunto, la radicalizzazione del taylorismo, attuata dalla politica economica e industriale di Ford. Gramsci č favorevole alla tecnologia e alla razionalizzazione del lavoro, ma non puō accettare l’intento capitalistico di ridurre il lavoratore a ” gorilla ammaestrato “, privato di coscienza e di pensiero. L’americanismo č una forma di “rivoluzione passiva”, perchč si mira ad ottenere, attraverso il dominio economico, il controllo politico e culturale degli operai e tale dominio imposto non resta solo in fabbrica, ma esce e passa alla societā civile, alla morale, alla cultura; il controllo da parte dei grossi industriali sulla vita privata del lavoratore costituisce appunto una rivoluzione capovolta, vissuta passivamente.
CRITICA LETTERARIA : Gramsci distingue in primo luogo la critica estetica, volta ad accertare il valore letterario delle opere, dalla critica ideologica e politica che considera solo il contenuto. Questa posizione differenzia notevolmente Gramsci dalla critica marxista promossa in Unione Sovietica dal despotico Stalin (aspre sono le critiche rivolte da Gramsci alla politica culturale di Stalin), che faceva dipendere il giudizio estetico da quello politico. Perō Gramsci cerca anche una mediazione tra le due forme di critica, ravvisandola nel modello di “critica militante” offerto da De Sanctis. Come sosteneva De Sanctis, bisogna battersi per una nuova cultura pių impegnata moralmente e civilmente, dalla quale soltanto potrā nascere una nuova letteratura.
CONCETTO DI NAZIONAL-POPOLARE : č un parametro che Gramsci impiega spesso per considerare la vicinanza delle opere letterarie rispetto alla realtā concreta dei problemi, degli interessi e dei sentimenti del popolo/nazione; non č tanto un concetto di natura estetica, quanto di natura sociologica. Privi di qualsiasi senso di appartenenza ad una classe sociale o ad una realtā nazionale e popolare, gli intellettuali italiani sono a lungo stati dominati da un “cosmopolitismo” umanistico; il che li ha portati spesso ad aderire a correnti o a categorie filosofiche-letterarie che restano astratte e prive di una reale rispondenza nella concreta realtā nazionale. Gramsci afferma la necessitā del nesso fra intellettuali e nazione, fra intellettuali e realtā popolare e dunque la necessitā del carattere nazional-popolare della letteratura. Gramsci riprende e corregge Croce su tre punti: 1) Gramsci tende a rivalutare il contenuto di pensiero di un’opera e perciō, ad esempio, a considerare positivamente anche la struttura della “Commedia” dantesca, che invece Croce condannava come “non poesia”; 2) studia in modo pių concreto il rapporto scrittore-societā, proponendosi di inserire la storia degli scrittori e degli artisti all’interno della storia degli intellettuali e dunque di condizioni storico-sociali precise e determinate; 3) tenta una mediazione tra critica estetica e critica politica, sull’esempio di De Sanctis. L’assunzione di de Sanctis a modello č funzionale alla proposta di una critica militante capace di fondere ” la lotta per una nuova cultura, cioč per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo con la critica estetica o puramente artistica “. Gramsci, grazie a de Sanctis come modello, vuole anche esaminare gli aspetti dell’opera d’arte grossolanamente trascurati da Croce, soprattutto il momento etico-ideologico. La letteratura, dice Gramsci, non nasce dalla letteratura (cioč ” per partenogenesi “) ma dal mondo della cultura, delle idee, della morale, dell’economia e, in definitiva, dalla storia di una nazione e dei suoi intellettuali; attraverso la categoria di nazional-popolare, Gramsci considera la letteratura in rapporto alla storia degli intellettuali e sottolinea, in fin dei conti, il nesso fra l’opera d’arte e la condizione dello scrittore nella societā, la reciprocitā e la dinamicitā dei rapporti fra dimensione spirituale (o sovrastrutturale) e dimensione materiale (o strutturale); il pensiero gramsciano muove perciō in direzione di uno storicismo assoluto. Altri criteri metodologici sono connessi alle categorie di “vecchio-nuovo” e di “distruzione-creazione”: alla loro luce, Gramsci esprime ad esempio un giudizio altamente positivo sull’opera di democratizzazione e di sprovincializzazione della cultura svolta dagli esponenti della rivista “La Voce”; viceversa, “La Ronda” viene da lui criticata per l’involuzione e per il “vecchio” che rappresenta con la riproposta di una concezione tradizionale del letterato e della cultura. Queste categorie spingono Gramsci a vedere nella ” vuota concettositā ” (quello che Labriola chiamava “verbalismo”) e nel “secentismo” della poesia pura (e anche di Ungaretti) il segno del ” vecchio che ritorna “. Ancora pių interessante č l’operazione critica che Gramsci svolge nei confronti di Pirandello, apprezzandolo per l’ ” importanza critica di corrosione del vecchio costume teatrale ” e della mentalitā borghese, cattolica o positivistica. La valutazione positiva dei vociani e di Pirandello mostra come la distruzione del vecchio e la creazione di nuovi atteggiamenti mentali siano fattori fondamentali del giudizio positivo dato da Gramsci. Con Pirandello, nota Gramsci, l’oggettivitā del reale, invalsa con la tradizione aristotelico-cristiana, viene spodestata da una nuova concezione soggettivistica e relativistica; cionostante, a Gramsci pare poco convincente (e in ciō si rivela vicino a Croce) la dimensione artistica dei drammi di pirandello per il loro carattere di “dialoghi filosofici” in cui la nuova concezione della realtā č inquinata da elementi intellettualistici. Ecco perchč la sua opera preferita di Pirandello era “Liolā”, in cui č del tutto assente ogni contenuto intellettualistico.
QUESTIONE DELLA LINGUA : Gramsci dedica grande attenzione al problema dell’evoluzione della lingua italiana nel tempo e in rapporto alla letteratura, alle classi intellettuali e soprattutto all’esercizio del dominio e dell’egemonia culturale.
Il mio stato d’animo é tale che se anche fossi condannato a morte, continuerei a essere tranquillo e anche la sera prima dell’esecuzione magari studierei una lezione di lingua cinese per non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo. Il mio stato d’animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista con la volontà.
IL DISCORSO ALLA CAMERA
Gramsci pronunciò alla Camera un unico discorso prima di essere incarcerato: contro la legge che, col pretesto di colpire la massoneria (che invece <<passerà in massa al partito fascista e ne costituirà una tendenza>>, preconizza Gramsci), mirava a mettere a tacere ben altre “società segrete”, e segreta era già in pratica l’attività dei comunisti. Il discorso è importante per vari aspetti. I comunisti avevano deciso di interrompere la protesta aventiniana promossa dalle opposizioni in seguito all’assassinio (10 giugno ’24) di Matteotti per avvalersi del Parlamento al fine di imprimere slancio alla lotta contro il fascismo. Gramsci si rivelò allora come figura di primo piano a molti che fino ad allora non ne avevano saputo quasi nulla. Il ritorno in aula dei deputati comunisti, le energiche iniziative del loro piccolo gruppo (erano diciannove) contro l’arroganza degli avversari tornati all’attacco, diedero nuova ancorché precaria linfa al movimento antifascista. E si diffuse, proprio allora, l’interesse per quell’uomo singolare che rappresentava ormai notoriamente il centro intellettuale e propulsivo del partito. Così che egli venne a identificarsi con qualcosa di molto più profondo che non il protagonista di una iniziativa politico-parlamentare quando, quel 16 maggio, intervenne a Montecitorio. C’è la riprova in una lettera scritta alla moglie Julka pochi giorni dopo il discorso: <<I fascisti mi hanno fatto un trattamento di favore: quindi, dal punto di vista rivoluzionario, ho incominciato con un insuccesso>>. Perché? <<Poiché ho la voce bassa, si sono riuniti intorno a me per ascoltarmi, e [mi hanno] lasciato dire quel che volevo, interrompendomi continuamente solo per deviare il filo del discorso, ma senza volontà di sabotaggio: non seppi trattenermi dal rispondere e ciò fece il loro gioco, perché mi stancai e non riuscii più a seguire l’impostazione che avevo pensato di dare al mio intervento>>. Niente vero. Intanto Gramsci era riuscito a rivendicare (anche in trasparente polemica con altri settori della sinistra) che i comunisti erano già allora <<tra i pochi che abbiano preso sul serio il fascismo, anche quando sembrava che fosse solo una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano solo i luoghi comuni sulla ‘pricosi di guerra’ (…) Noi pensiamo che questa fase della ‘conquista fascista’ sia una delle più importanti attraversate dallo Stato italiano>>. Il fascismo dunque come erede delle forme retrive cui lo stato liberale non tardò a indirizzare le proprie eredità del Risorgimento.
Gramsci: <<La rivoluzione fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro>>.
Mussolini: <<Di una classe ad un’altra, com’è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni!>>.
Gramsci: <<E’ rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. E il fascismo non si basa su nessuna classe che non sia già al potere>>.
Le interruzioni si moltiplicano quando Gramsci affronta il nodo del Mezzogiorno e delle enormi risorse che attraverso un’imposizione feroce <<lo Stato estorce alle regioni meridionali per dare una base al capitalismo dell’Italia settentrionale>>. Altro che capitalismo sviluppato, sembra dire il leninista Gramsci riferendosi al meridionalismo nordico del “Corriere” di Luigi Albertini come pure a quel che maturava nel Sud: sul “Mondo” di due settimane prima era uscito il Manifesto crociano degli intellettuali antifascisti.
Mussolini: <<Il Partito comunista ha meno iscritti del partito fascista!>>
Gramsci: <<Ma rappresenta la classe operaia!>>
Farinacci: <<La tradisce, non la rappresenta!>>
Gramsci: <<Il vostro è consenso ottenuto col bastone.>>
Presidente: <<Non interrompano! Lei però, onorevole Gramsci, non ha parlato della legge!>>
Rossoni: <<La legge non è contro le organizzazioni!>>
Gramsci : <<Onorevole Rossoni, ella stesso è un comma della legge contro le organizzazioni. I cittadini devono sapere a che cosa lavorate.>>
Presidente: <<Onorevole Gramsci, questo concetto lo ha ripetuto tre o quattro volte!>>
Gramsci: <<Bisogna ripeterle invece: bisogna che lo sentiate sino alla nausea. [interruzioni, rumori che impediscono li registrare le prime parole della frase successiva] …vincerà il fascismo [rumori, commenti]. Il resoconto stenografico finisce qui. A Gramsci è impedito di concludere.
L’8 novembre dell’anno dopo Gramsci, appena rientrato da Montecitorio, viene arrestato nel suo appartamento in violazione dell’immunità parlamentare.
LE CENERI DI GRAMSCI DI PASOLINI
III.
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lě tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso, in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiů tra questi liberi. (O č qualcosa
di diverso, forse, di piů estasiato
e anche di piů umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante – dal dimesso rione
ad attestarne la fine.
[…]
GIOVANNI GENTILE
Questo è il punto fermo, a cui si attacca l’idealismo attuale. La sola realtà solida, che mi sia dato affermare, e con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa; la quale si realizza ed è cosí una realtà, soltanto nell’atto che si pensa. Quindi l’immanenza di tutto il pensabile all’atto del pensare; o, tout court, all’atto; poiché di attuale, per quel che s’è detto, non c’è se non il pensare in atto. (G. Gentile, Introduzione alla filosofia)
VITA E INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA
Gentile è stato, con Croce, l’esponente principale del neoidealismo italiano, ma la sua posizione filosofica è maturata attraverso esperienze in parte diverse da quelle crociane. Nato a Castelvetrano (Trapani) nel 1875, Giovanni Gentile si formò presso l’università di Pisa, dove ebbe come maestri soprattutto Alessandro D’Ancona e Donato Jaja, che lo avvicinò allo studio di Kant, di Rosmini e Gioberti, di Hegel. Il primo lavoro gentiliano, su Rosmini e Gioberti (1898), si colloca nella prospettiva di ripresa del pensiero criticistico-idealistico tedesco già avviata da Croce, e si ispira a una visione fortemente speculativa (teoretico-sistematica) della filosofia. Negli ultimi anni del secolo Gentile approfondisce, da un lato, Spaventa e, dall’altro, Marx, che esamina nel volume La filosofia di Marx (1899). A proposito del marxismo si tratta, per Gentile, di ritrovarne il nucleo speculativo più autentico e di affermarlo come una “filosofia della prassi” che unifica pensiero e azione e che occorre reinterpretare in termini idealistici. Ciò che viene a cadere, del pensiero di Marx, è proprio il materialismo. La realtà come materia viene interpretata come un residuo sensibile-oggettivo che limita l’attività creatrice della prassi umana. Ma è anche attraverso la nozione marxiana di prassi liberamente rivisitata (attraverso la lettura di Vico e degli idealisti tedeschi) che Gentile delinea la sua concezione della soggettività trascendentale intesa come ” attività creatrice ” per cui verum et factum convertuntur , come ” sviluppo necessario ” che collega soggetto e oggetto in un fare che ” è insieme conoscere ” e che si manifesta nella storia. In quegli stessi anni di fine secolo Gentile stringe con Croce un’amicizia che durerà fino a quando la differenza tra lo storicismo crociano e l’attualismo gentiliano si farà troppo vistosa. Nel 1903 Gentile, nella prolusione tenuta all’università di Napoli e dedicata a La rinascita dell’idealismo , delinea la propria posizione filosofica che prende il nome di attualismo e ch’egli svilupperà in una serie di saggi teorici fino al 1922. Contemporaneamente si dedica anche alla ricerca storico-filosofica con gli studi: Le origini della filosofia contemporanea in Italia (1903-1914), Dal Genovesi al Galluppi (1903), Il pensiero italiano del Rinascimento (1920), Studi vichiani (1915), Gino Capponi e la cultura italiana del secolo decimonono (1922). Nello stesso periodo il filosofo affronta anche i problemi della pedagogia ( Sommario di pedagogia come scienza filosofica , 1913-14; La riforma dell’educazione , 1920; Educazione e scuola laica , 1921; Preliminari allo studio del fanciullo , 1924) e poco più tardi quelli estetici in Filosofia dell’arte (].931). E soprattutto tra il 1911 e il 1922, che la riflessione gentiliana si articola intorno a temi prevalentemente teoretico-sistematici. Nel 1911 esce L’atto del pensare come atto puro , nel 1913 La riforma della dialettica hegeliana , nel 1916 Teoria generale dello Spirito come atto puro e, infine, dal ’17 al ’22, il Sommario di logica come teoria del conoscere . Nel dopoguerra Gentile affronta i problemi politici in Guerra e fede (1919) e si avvicina sempre più al fascismo, fino a divenirne uno dei principali esponenti in campo intellettuale. Dopo la marcia su Roma viene nominato ministro della Pubblica Istruzione ed elabora, nel ’23, un’importante e discussa riforma della scuola. Negli anni successivi si occupa quasi esclusivamente di organizzazione della cultura, è direttore dell’Enciclopedia Italiana e presidente della Accademia d’Italia. Dopo la crisi del 25 luglio 1943 si apre ad un ripensamento in chiave sociale della sua filosofia che prende forma nell’opera Genesi e struttura della società (1946). Nel 1944 muore a Firenze, ucciso barbaramente dai partigiani antifascisti.
LA RIFORMA DELLA DIALETTICA HEGELIANA
Determinante, nella formazione filosofica di Gentile, fu l’insegnamento di Donato Jaja (1839-1914), seguace dell’hegelismo e, sulle orme di Spaventa, impegnato a fondare nel soggetto l’identità di pensiero ed essere. Attraverso quell’insegnamento Gentile maturò la sua prima adesione all’idealismo. Nella già ricordata prolusione-manifesto del 1903, intitolata proprio La rinascita dell’idealismo , Gentile rivendicava contro ogni dualismo e naturalismo da un lato la fondamentale unità di natura e spirito nella coscienza, dall’altro il primato ontologico e gnoseologico di quest’ultima. La coscienza, affermava Gentile, è ” sintesi di soggetto e oggetto “: ma una sintesi nella quale è il primo termine-concetto che ‘pone’ il secondo. Correlativamente, anche “atto”, e “fatto” sono strettamente uniti e in qualche modo complementari: ma solo nel senso che, se indubbiamente il fatto c’è ed è necessario, esso si dà solo nell’unità dell’ “atto” – che è sempre atto della coscienza. Nella prolusione del 1903 sono già contenute in nuce alcune delle tesi chiave dell’attualismo gentiliano. Ma la definitiva maturazione speculativa di Gentile passa (come quella di Croce) attraverso un serrato confronto con l’hegelismo. Di Hegel il giovane filosofo siciliano apprezza (a differenza di Croce) non tanto la prospettiva storicistica (cioè il suo voler cogliere lo Spirito nel divenire stesso della realtà storica) quanto l’impianto più direttamente coscienzialistico-idealistico. Per Gentile il massimo merito di Hegel è di aver posto una Coscienza (un Logos, un Pensiero) a fondamento e inizio di tutto il reale, contribuendo con ciò a edificare l’idealismo moderno nella sua fase più evoluta. Hegel ha anche elaborato una raffinata logica dialettica. Ma è proprio a proposito di questa dialettica che Gentile (come anche Croce, seppure per ragioni e in prospettive diverse) sente di dover muovere critiche radicali al maestro tedesco. In effetti il filosofo tedesco ha confuso due dialettiche, che invece per Gentile devono restare nettamente separate. Queste dialettiche non sono (come per Croce) la “dialettica degli opposti” e la “dialettica dei distinti”: sono quelle che Gentile chiama la ” dialettica del pensare “e la ” dialettica del pensato “. Se Hegel ha genialmente colto e individuato la , “dialettica del pensare” (ossia la dialettica della Coscienza o del Pensiero attivo e vivente), egli vi ha poi lasciato forti residui della “dialettica del pensato” (ossia la dialettica del pensiero determinato e delle scienze) – anzi, come si è detto, ha mescolato l’una con l’altra. E questo, per Gentile, è un errore: ” La dialettica del pensato è, si può dire, la dialettica della morte; la dialettica del pensare, invece, la dialettica della vita. Infatti il presupposto fondamentale della prima è la realtà o verità tutta quanta ab aeterno determinata in guisa che non sia più concepibile una determinazione nuova, come determinazione attuale della realtà […]. La dialettica, invece, del pensare non conosce un mondo che già sia, che sarebbe un pensato; non suppone una realtà al di là della conoscenza e di cui toccherebbe a questa d’impossessarsi, perché sa, come ha dimostrato Kant, che tutto ciò che si può pensare della realtà (il pensabile, i concetti dell’esperienza) presuppone l’atto stesso del pensare. E’ in questo atto vede perciò la radice di tutto “. (La riforma della dialettica hegeliana, I) Nella misura in cui Hegel ha confuso queste due dialettiche, la ‘sua’ dialettica va “riformata”. Va riformata soprattutto eliminando dalla “dialettica del pensare” ogni componente oggettivistica, statica, inerte (come ad esempio la struttura categoriale fissata in modo universale e rigido-astratto), e conferendo invece un’assoluta libertà al vivente “dialettismo” del concreto atto del pensiero: quel dialettismo che è la ricca, vera e inesauribile ” inquietezza del pensare “.
I PRINCIPI FILOSOFICI DELL’ATTUALISMO
L’attualismo gentiliano si costruisce intorno ad alcuni precisi nuclei teorici: 1. L’interpretazione di Hegel e la riforma della dialettica hegeliana; 2. La teoria dell’atto puro 3. Il rapporto tra logica del pensare e logica del pensato. Nella costruzione del suo sistema Hegel ha perduto, secondo Gentile, l’unità di soggetto e oggetto raggiunta nella Fenomenologia . L’Idea hegeliana infatti, si articola nei momenti della logica e della filosofia della natura concepiti come anteriori alla filosofia dello spirito, il che ripropone un sostanziale e inammissibile dualismo. Inoltre Hegel separa l’ “intelletto che concepisce le cose, dalla ragione che concepisce lo spirito “. Da questo dualismo viene caratterizzata anche la concezione della dialettica, irrigidita in concetti “astratti” e “immobili” che non rendono ragione della dinamicità del reale. La dialettica va invece riformata attraverso la lezione di Spaventa, che ha saputo cogliere l’unità viva e concreta delle categorie nell’atto del pensiero. Attraverso Spaventa Gentile risale a Fichte e afferma, in parte sulle orme del filosofo tedesco, la priorità dello spirito inteso come pensiero in atto e come unità di coscienza e autocoscienza. ” La dialettica del pensare non conosce un mondo che già sia, che sarebbe un pensato; non suppone una realtà, al di là della conoscenza, e di cui toccherebbe a questa impossessarsi; perché sa, come ha dimostrato Kant, che tutto ciò che si può pensare della realtà (il pensabile, i concetti, l’esperienza) presuppone l’atto stesso del pensare. E in questo atto vede perciò la radice di tutto. ” (La riforma della dialettica hegeliana, I) L’atto del pensiero pensante, o Atto puro, è dunque per Gentile il principio e la forma della realtà in divenire. Esso è ” autoctisi ” (ossia creazione di sé) e sintesi a priori: crea se stesso, ma attraverso un oggetto che è (fichtianamente) condizione necessaria della sua attività e non può essere separato da essa. Ove lo fosse, infatti, l’oggetto decadrebbe a “natura”, a “pensato”, a “passato”, assumendo un aspetto dogmaticamente oggettivo e inerte. La dialettica dell’atto puro è, per Gentile, triadica e si articola nei due momenti della tesi e dell’antitesi, ambedue unilaterali e astratti, e nel terzo momento della sintesi. Il momento astratto della soggettività (tesi) è rappresentato dall’arte, quello dell’oggettività (antitesi) dalla religione, mentre la sintesi è propria della filosofia. Il compito della filosofia è, da un lato, quello di rendere autocosciente questa dialettica dell’atto e, dall’altro, di opporsi ad ogni interpretazione dell’attività dello spirito suscettibile di reintrodurre rigidi dualismi e dogmatismi. In particolare Gentile sottolinea la netta distinzione della filosofia dalla scienza, in quanto quest’ultima è dogmatistica ( ” presuppone il suo oggetto “), naturalistica e priva di storia (” non può avere svolgimento, perché presuppone una verità perfetta “). La filosofia, invece, coincide con la storia della filosofia poiché ogni posizione filosofica realizza, nella sua forma specifica, l’autocoscienza dello spirito in un dato momento storico. ” La nostra dottrina dunque è la teoria dello spirito come atto che pone il suo oggetto in una molteplicità di oggetti, e insieme risolve la loro molteplicità e oggettività nell’unità dello stesso soggetto. Teoria che sottrae lo spirito a ogni limite di spazio e di tempo e da ogni condizione esteriore; rende pure impensabile ogni sua reale moltiplicazione interna, per cui un momento suo possa dirsi condizionato da momenti anteriori; e fa quindi della storia, non il presupposto, ma la realtà e concretezza dell’attualità spirituale, fondando così la sua assoluta libertà. ” (Teoria generale dello spirito come atto puro, XVI) Un altro aspetto centrale dell’attualismo gentiliano è la dottrina del rapporto tra io empirico e io trascendentale. L’ io trascendentale è ” quello che si coglie nella realtà del nostro pensiero quando il pensiero si consideri non come atto compiuto, ma, per così dire, quasi atto in atto “: un Io rispetto al quale la nostra individualità, con le sue caratteristiche psicofisiche, si configura come un oggetto finito e condizionato. In tal modo, l’autonomia e il valore del soggetto umano concreto risultano nell’attualismo largamente ridotti, e per lo stesso soggetto si delinea un preciso compito “educativo”: quello della propria autoelevazione all’universalità e all’autocoscienza dell’Io trascendentale. Infine, dal punto di vista gnoseologico, l’atto puro si fonda sull’opposizione Tra “logica del pensiero pensante” e “logica del pensiero pensato”, o tra “logo concreto” e “logo astratto. La prima è una logica filosofica, dialettica e attivistica; la seconda e una logica astratta, formale ed erronea. A questa seconda forma del pensiero appartengono le logiche formali, antiche e moderne, che rendono invariabili e definitive le forme del pensiero, fissandole come “cose” o “fatti”. Anche l’errore è legato alla “logica dell’astratto”, in quanto scambia il pensiero coi pensati, l’atto con le sue determinazioni, operando un’indebita astrazione dell’oggetto dal pensiero che lo pensa.
ESTETICA E RELIGIONE
Accanto all’aspetto teoretico-sistematico, l’attualismo gentiliano svolge anche alcune analisi concrete di momenti fondamentali dell’esperienza e della cultura. Ciò accade, in particolare, in relazione alla dimensione dell’arte e della religione, della pedagogia e della politica, che vengono indagate nelle loro strutture teoretiche fondamentali. In verità questo aspetto analitico dell’attualismo resta spesso sopraffatto dall’altro, più teoreticistico e astratto, e le indagini gentiliane si risolvono, a volte, in un gioco di puri concetti filosofici. Nell’opera dedicata all’arte Gentile si sofferma essenzialmente su due temi: la soggettività dell’arte e il suo rapporto con l’intera vita dello spirito (religione e filosofia). Sotto il primo aspetto, l’arte si manifesta come il momento soggettivo dell’io in quanto è legata al sentimento e alla sua immediatezza, ed esprime soprattutto l’individualità dell’artista. Sotto il secondo aspetto, essa è però anche un atto sintetico, che comprende tutti i momenti della vita dello spirito. L’arte, cioè, è sì immediatezza del sentimento: ma solo in quanto questo assume consapevolezza di sé e sa esprimere la complessità del mondo spirituale. L’arte acquista quindi anche alcuni caratteri propri del discorso razionale. L’estetica gentiliana si differenzia rispetto all’estetica di Croce su altri punti non meno rilevanti: il rapporto tra forma e contenuto viene considerato come inscindibile e non risolvibile in un privilegiamento della forma; il fondamento dell’arte è il sentimento e non l’intuizione-espressione; lo scopo dell’estetica è non già quello di ricavare una metodologia sulla base della quale formulare i giudizi sull’arte e la non-arte (poesia e non-poesia), bensì l’altro di definire il ruolo che l’esperienza artistica occupa nella dialettica del- lo spirito. Nelle opere dedicate all’ esperienza religiosa – Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909), Discorsi di religione (1920), la conferenza La mia religione (1943) – Gentile sviluppa una concezione della religione come momento dell’assoluta oggettività dello spirito, dell’unità oggettiva del reale; ma è un momento che si rivela ” unilaterale, astratto e falso “, alla luce della filosofia. Quest’ultima, infatti, dissolve i postulati dogmatici della religione e risolve lo stesso Dio nell’attività dell’io trascendentale. La religione viene così, ad un tempo, esaltata come la forma più alta della presa di coscienza del reale (prima dell’autocoscienza filosofica) e superata in quanto concepita come inferiore alla filosofia.
PEDAGOGIA E SCUOLA
Nell’importante saggio Il concetto scientifico di pedagogia (1900), Gentile avvia una rifondazione in senso idealistico della pedagogia, negandone i nessi con la psicologia e con l’etica. Affermato che l’oggetto specifico della pedagogia è l’educazione, egli sottolinea che questo processo, in quanto rivolto a “fare lo spirito”, si risolve nel “farsi dello spirito”, nella dialettica della vita spirituale – cioè nella filosofia. La pedagogia si identifica così con la filosofia, come l’educazione si esprime primariamente sotto forma di autoeducazione. Questi principi generali vengono poi svolti nelle loro implicazioni concrete. Di particolare rilievo sono le tesi sul rapporto tra maestro e scolaro. Esso è caratterizzato da un dualismo che deve risolversi in unità attraverso la comune partecipazione alla vita dello spirito che, tramite la cultura, muove dall’educatore verso l’educando e lo riassorbe nell’universalità dell’atto spirituale. Nella vita della scuola il maestro occupa quindi il posto centrale e in lui si esprime il modello formativo spirituale e culturale che deve guidare l’alunno. Per quanto riguarda i suoi contenuti culturali, la scuola che emerge dalla dottrina pedagogica gentiliana è tanto legata alla tradizione umanistico- letteraria quanto sorda nei confronti del sapere scientifico. Relativamente alla sua organizzazione, essa è caratterizzata da un ordinamento gerarchico e centralistico. Si tratta anche di una scuola aristocratica, pensata per gli “studi di pochi, dei migliori”, e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo classico-umanistico per le classi dirigenti e in uno professionale per il popolo. Nella scuola, infine, viene introdotto l’insegnamento religioso a livello primario perché Gentile considera necessario che gli uomini, i cittadini abbiano una concezione religiosa della vita. Onde conseguire questo risultato ” è necessario insegnare la religione ai bambini. E dato che siamo in Italia, dove la religione cattolica è dominante, i bambini devono essere istruiti in essa “.
LO STATO ETICO E TOTALITARIO
La filosofia gentiliana, per la sua esigenza di collegare unitariamente tutti gli aspetti della vita pratica dell’uomo, oltre che per lo stretto legame mantenuto con il pensiero di Hegel e della destra storica, culmina in una dottrina etico-totalitaria dello stato . Lo stato è per Gentile il momento di unificazione della società. Davanti ad esso individui e gruppi sono il “relativo”, rispetto all'”assoluto”. La collettività nel suo insieme deve sentire e si deve ispirare agli stessi valori. Lo stato è la sorgente di elaborazione concreta di questi fini unitari della collettività: di qui il suo carattere morale. Alla luce di tale dottrina si comprende come il pensiero politico gentiliano possa essersi connesso strettamente col fascismo: con la visione autoritaria ed anti-individualistica dello stato, con la sua mistica della patria e della sua “missione” spirituale. Anche le ultime riflessioni del filosofo contenute in Genesi e struttura della società , pur abbozzando un “nuovo umanesimo del lavoro” che rivaluta in qualche misura il soggetto umano e l’interazione tra gli individui, rivelano che Gentile non esce mai dal quadro di una concezione centralistica e totalitaria della comunità politica.Una pur rapida menzione merita anche l’instancabile attività di Gentile come organizzatore di cultura. Tale attività si esplicò soprattutto in sede editoriale. Il padre dell’attualismo organizzò numerose collane (di contenuto prevalentemente filosofico) presso vari editori italiani. Inoltre fondò e diresse alcune importanti riviste, quali il “Giornale critico della filosofia italiana” (1920-1944), “Educazione fascista” (1927-1933) e “Civiltà fascista”. Attraverso queste attività Gentile tese a sviluppare la presenza dell’attualismo nella cultura filosofica italiana e a renderne espliciti i presupposti storici (da Vico a Gioberti) e le applicazioni nelle varie sfere della cultura (educazione, arte, religione). Ma la principale impresa culturale realizzata dal filosofo fu la promozione (con G. Treccani) e la direzione dell’Enciclopedia italiana, pubblicata dal 1929 al 1937 in 36 volumi. L’opera veniva in qualche modo a rappresentare la summa della cultura moderna, orientata secondo i princìpi dell’idealismo e dello storicismo. Attorno a questo ampio e ambizioso progetto culturale Gentile favorì la confluenza di intellettuali di vario orientamento (ivi compresi alcuni esponenti della cultura cattolica e perfino antifascista ) allo scopo non solo di realizzare un obiettivo di egemonia culturale, ma anche e soprattutto per promuovere il consenso degli intellettuali nei confronti del fascismo.
GLI STUDI SU MARX
Quello che può definirsi l’esordio filosofico di Gentile fu il suo studio sulla filosofia di Marx, una rielaborazione della sua tesi per l’abilitazione all’insegnamento secondario, dal titolo Una Critica del Materialismo Storico, che apparve a Pisa nel 1897. A questo testo seguì La filosofia della prassi che venne pubblicata , insieme al primo studio, nel 1899, nel volume, edito sempre a Pisa, dal titolo La filosofia di Marx. L’ incontro tra Gentile ed il pensatore tedesco si deve in gran parte alle sollecitazioni di Benedetto Croce, che in quegli stessi anni, sotto la spinta del suo maestro, Antonio Labriola, stava cercando di definire la sua posizione rispetto al dibattito sulla dottrina marxista, in un periodo in cui l’Italia era attraversata da forti tensioni sociali. La formazione del Partito Socialista nel 1892 e la diffusione dei testi di Marx e Engels all’interno della nuova componente politica avevano contribuito alla diffusione di studi e articoli sull’argomento. L’approccio di Gentile alla filosofia di Marx e alla “questione sociale”, fu però distaccato e, per alcuni versi, prevenuto (come ebbe modo di costatare lo stesso Croce); ciò dipese sia dalla noncuranza eccessiva nei confronti del clima che si respirava in Italia alla fine del secolo (peraltro dimostrata dagli scarsi accenni che Gentile fece nelle sue lettere) e sia dalla sua impostazione hegeliana, che gli fece vedere nella filosofia di Marx un mal riuscito tentativo di superamento della filosofia di Hegel. Il tono dei due studi appare ambivalente, perché, mentre entrambe le conclusioni risultano essere una stroncatura del marxismo, dal il corpo del testo, al contrario, si evince una certa ammirazione per le intuizioni filosofiche di Marx. Gentile rivendica, nel corso dei due saggi, la matrice hegeliana del pensiero di Marx contro l’interpretazione positivistica, e contro il dilettantismo filosofico di coloro che scrivono sull’argomento senza una reale preparazione filosofica. Il primo studio si occupa di rispondere alla domanda se il materialismo storico possa essere definito o no una filosofia della storia: secondo Gentile il pensiero di Marx può essere scisso in una visone storica, e quindi una filosofia della storia, e in una metafisica artificiosa su cui lo stesso Marx non insistette; mentre la seconda può considerarsi “una superfetazione del suo pensiero”, la prima ne rappresenta la vera essenza. La conclusione di Gentile è che la filosofia della storia di Marx sia mutuata da quella di Hegel, sia per quanto riguarda la forma, dialettica per entrambi, sia per quanto riguarda il contenuto: all’Idea hegeliana, Marx ha sostituito la Materia, ma facendo questo è incorso in una contraddizione, data l’impossibilità logica di una filosofia della storia del relativo, dell’ a posteriori; il materialismo storico quindi, secondo Gentile, altro non è se non “uno dei più sciagurati deviamenti dell’hegelismo”. Nel secondo studio, Gentile si sofferma su quello che giudica il maggior risultato della speculazione marxiana, e cioè il concetto di prassi, che elimina il dualismo tra teoria e pratica, conoscere e fare. Per il concetto di prassi la conoscenza non può mai essere disgiunta dell’esperienza, ogni conoscenza si scopre facendola. Ma questo concetto, come nota lo stesso Marx, è vecchio quanto l’idealismo stesso e Gentile ne traccia la storia partendo da Socrate fino a Hegel, passando per Platone e Vico. Il saggio gentiliano si sviluppa contro il materialismo dualista ( il testo si apre con le Undici Tesi di Marx a Feuerbach ed è un merito di Gentile averle pubblicate per la prima volta in Italia) e contro ogni metafisica dualista, rivendicando, come nel primo saggio, la paternità hegeliana del materialismo storico e, nella conclusione, asserendo la finale contraddizione di quest’ultimo. Malgrado il magro successo di pubblico che ebbero, e malgrado il fatto che solo nel 1932 furono pubblicati il Italia L’Ideologia Tedesca e I manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx ( due saggi importanti per l’interpretazione del pensiero marxiano), i due testi gentiliani offrirono un contributo importante al dibattito sul marxismo (Lenin ne terrà conto e lo giudicherà uno dei testi migliori di autori non marxisti), e offrono tutt’ora un importante spaccato sullo sviluppo del pensiero di Gentile, che in quel periodo, oltre agli scritti su Marx, pubblicava anche nel 1898 la sua tesi di laurea su Rosmini e Gioberti. Il testo La filosofia di Marx cerca di rispondere alla domanda se la concezione materialistica della storia sia o no una filosofia della storia: a questa domanda aveva risposto positivamente Labriola e negativamente Croce. Ad avviso di Gentile, come accennato, Marx desume da Hegel la forma dialettica, grazie alla quale si può determinare a priori il corso dello sviluppo storico nella sua necessità e formulare la previsione della sua direzione e dei suoi tratti generali essenziali. In questo consiste il carattere scientifico e non utopistico del materialismo storico, e così si può affermare, stando a Gentile, che, per quel che riguarda la forma, esso è una filosofia della storia. Ma, per Marx, quel che vi è di essenziale nel processo storico è la materia, cioè il fatto economico, non l’idea, come invece era per Hegel. Su questo punto, il marxismo, per Gentile, manifesta la sua inferiorità e insufficienza rispetto all’hegelismo: per Hegel, infatti, l’idea non è trascendente la materia, ma è l’essenza del reale, che comprende al suo interno la materia come un momento relativo. Ritenendo, invece, la materia, che è il relativo, diversa dall’idea, che è l’assoluto, e scambiando il relativo con l’assoluto, i marxisti hanno attribuito a quel che è relativo la funzione dell’assoluto e, dato che l’assoluto si sviluppa dialetticamente e questo sviluppo è determinabile a priori, come aveva dimostrato Hegel, sono giunti alla conclusione balzana di considerare determinabile a priori anche quel che è meramente empirico, cioè la materia, il fatto economico, e quindi a considerare prevedibile quel che non può esserlo e, così, non appartiene alla filosofia della storia. Il fatto è di pertinenza della storiografia, che si occupa del già accaduto, non della filosofia della storia. Dal punto di vista filosofico, il materialismo storico appare a Gentile una deviazione erronea del pensiero hegeliano (“uno dei più sciagurati deviamenti dell’hegelismo”), proprio perchè concepisce erroneamente “una dialettica, determinabile a priori, del relativo”. Certo Marx ha anche dei meriti, spiega Gentile: ha criticato il materialismo tradizionale poichè esso concepisce l’oggetto come un dato, non come un processo, e il soggetto come una visione o rappresentazione passiva di tale oggetto. Marx invece concepisce “l’oggetto intrinsecamente legato all’attività umana” : è la prassi umana che modifica e produce l’oggetto, il quale a sua volta modifica anche il soggetto, in modo che “l’effetto reagisce sulla causa e il loro rapporto si rovescia, l’effetto facendosi causa della causa, che diviene effetto pur rimanendo causa”. In questo consiste il cosiddetto rovesciamento della prassi: “la prassi che aveva come principio il soggetto e termine l’oggetto, si rovescia, tornando dall’oggetto (principio) al soggetto (termine)”. Per Marx reale è l’individuo sociale, che non può “sciogliersi dai vincoli della società che è effetto della sua prassi”, e lo studio della prassi è possibile a priori, in virtù del ritmo dialettico che la caratterizza: su questa base è appunto possibile determinare a priori lo sviluppo della storia, ossia costruire una filosofia della storia, cioè uno schema a priori. Lo sviluppo della prassi, infatti, non può non produrre divisioni nella realtà, cosicchè la lotta di classe non è un fatto accidentale ed ha, anzi, uno sbocco inevitabile: la filosofia della storia di Marx è dunque caratterizzata dal determinismo o teleologismo. Marx era stato “filosofo prima che rivoluzionario” e una filosofia è confutabile solo filosoficamente, a differenza di quel che pensava Croce, il quale voleva confutare empiricamente. Dal punto di vista filosofico, però, il marxismo presenta “il radical vizio” di un’indebita mescolanza di schema razionale a priori e di determinazione del contenuto della storia a posteriori, a partire dal fatto economico, che è puramente empirico. L’errore di Marx consisteva nell’aver preteso di trasportare la storia, che è propria dello spirito, nella materia, ma proprio il materialismo settecentesco stava a dimostrare l’inconciliabilità dei 2 princìpi, cioè della forma, identificata con la prassi, con la materia, che è inerte: il marxismo si configurava dunque come una concezione eclettica composta da elementi contradditori. L’errore di Marx era stato di considerare il pensiero “forma derivata e accidentale dell’attività sensitiva”. A questo Gentile opponeva una tesi, destinata ad essere il pilastro portante della sua filosofia: “il pensiero è reale, perchè e in quanto pone l’oggetto. O il pensiero è, e pensa; o non pensa, e non è pensiero. Se pensa, fa”. A ben vedere, il Marx teorico della prassi, a cui andava il consenso di Gentile, era già in qualche modo contenuta, e in forma migliore, nella tradizione idealistica di Fichte e di Hegel: il processo del reale tornava ad essere risolto nella coscienza che il soggetto ne ha. Il problema di Gentile, negli anni successivi, sarebbe stato di fare i conti con questa tradizione.
LA FILOSOFIA DI DANTE ALIGHIERI
I.
V’ha due modi d’intendere il pensiero d’uno scrittore: uno dei quali potrebbesi denominare classico, perché è il modo antico, tradizionale e corrispondente alla concezione dell’arte e della scienza propria dei classici; e l’altro, per antitesi, romantico, in quanto mette in rilievo, non pure nell’intelligenza e nel giudizio delle opere d’arte, ma anche nell’interpretazione delle dottrine l’elemento subbiettivo e individuale che è proprio e significativo della personalità dell’artista o dello scrittore, presente nell’opera sua, qualunque questa sia. A chiarimento di questo doppio metodo si possono ricordare due scrittori egualmente grandissimi, che sono per solito considerati come due voci assolutamente discordi dell’anima umana, anzi come espressione di due concetti opposti della vita: di ciascuno dei quali il significato s’inverte secondo che s’intenda con l’uno o con l’altro metodo: Platone e Leopardi. Platone è, senza dubbio, il massimo pensatore dell’ottimismo, il maestro di quanti, di là dalle apparenze mortali, in mezzo alle quali l’animo umano par condannato a disperdersi tra gli errori e i dolori, hanno concepito il mondo come ideale realtà, eterna infinita perfetta, in cui l’uomo sia quasi naturalmente portato dalla sua medesima natura a spaziare, mediante le sue facoltà superiori, libero da ogni limitazione di cose nate e periture, beato nel godimento di una vita divina. L’idealismo platonico è infatti soddisfazione di questo bisogno dell’uomo di liberarsi dalle angustie del mondo naturale, in cui egli nasce e vive come essere finito, e di partecipare a quella vita superiore dello spirito che s’espande nell’infinito. Filosofia, dunque, ottimistica per eccellenza. E a essa è tornato sempre lo spirito umano, rinnovandola variamente, ogni volta che è risorto nella coscienza profonda di cotesto bisogno e della propria natura immortale aspirante a librarsi al di sopra di tutte le cose mondane.
Ma la filosofia di Platone appaga questa aspirazione dell’uomo soltanto se si considera nel contenuto obbiettivo delle sue affermazioni, prescindendo dall’atteggiamento che Platone (o, piuttosto, lo spirito umano quale si attua nella personalità di Platone) assume di fonte alla dottrina in cui quelle affermazioni si conchiudono: che è come dire, rispetto a quel mondo che la dottrina stessa pone innanzi a Platone. A Platone, che non è l’uomo definito secondo la sua filosofia, ma l’uomo vivente nella sua filosofia: ossia a quel Platone, che solo è reale, nella ricerca ansiosa dell’idea, e poi nella celebrazione commossa di quel divino mondo che splende nell’idea e quindi nella polemica contro le avverse filosofie, e insomma nella professione attuale del proprio pensiero, quale si versa e si eterna ne’ suoi dialoghi. Lì è Platone, e lì veramente il suo pensiero, il suo idealismo. Ma quando si va a cercare lì questo idealismo, esso non apparisce così serenamente ottimistico, come parrebbe nell’astratta teoria delle idee. Lì il mondo, sì, è quello delle idee; ma in quanto veduto, e veduto nel suo valore (come Bene), e quindi desiderato, dall’uomo. Lì ci sono infatti le idee, ma c’è anche Eros, che è figlio di Penia; ed esso concentra in sé tutta la vita dell’universo, e culmina nello spirito umano che in tanto aspira alle idee, ed è filosofia, in quanto non le possiede, le idee. O almeno, non le possiede attualmente, e in sé e intorno a sé, nella coscienze e nella natura come tali, non vede e non sente quell’essere, a cui tende, anzi la mancanza di questo essere. Sicché tutta la vita, non quella a cui si aspira, sì quell’altra che si vive aspirando, è coscienza non pure di difetto di beatitudine, ma della ferrea necessità di tale difetto. E un’ombra di malinconia avvolge questa vita, misticamente concepita in fine come una costante «contemplazione della morte». E l’accento definitivo della dottrina platonica, quello che costituisce poi la grande bellezza dei suoi dialoghi immortali, non è la gioia d’una vita consapevole della propria potenza e del proprio valore, ma una profonda tristezza, quasi nostalgia della patria lontana: il dolore d’una vita che sente di non potersi giustificare.
Senza questa considerazione non s’intende Aristotele, che mira infatti a eliminare dalla concezione platonica il motivo di questa tristezza (la svalutazione della natura, e, in essa, dell’uomo); e quindi non s’intende neppure Platone nel concreto processo dello svolgimento storico, a cui esso realmente appartiene. Né s’intende, ripeto, la bellezza di quella poesia, in cui il suo pensiero si esprime. Giacché ogni filosofo ha la sua poesia, come ogni poeta ha pure la sua filosofia. E nessuno può dubitare della prima parte di questa sentenza leggendo Platone. La cui poesia consiste non nel sorriso ironico con cui Socrate guarda gli avversari (che sono, sotto vario nome, quelli di Platone); né nella ricchezza di umanità molteplice che ci si spiega innanzi nei vivi caratteri delle tante figure scolpite nei dialoghi; né in altri particolari, tutti bellissimi, perché tutti illuminati dalla bellezza di un’ispirazione centrale; ma nel profondo sentimento che anima tutto il mondo dei personaggi platonici, sgorgante dalla sua potente personalità religiosa, virilmente intenta a negare la vita dei sensi, in cui s’indugia l’uomo volgare, per affisarsi in un mondo trascendente, in cui l’animo posi sicuro.
In forza, al contrario, di questa considerazione noi non ci arrestiamo a un astratto concetto del platonismo, ma, entrando nel vivo di questa filosofia, lì dove essa è filosofia essendo pure poesia, l’intendiamo nella sua concreta unità di pensiero che non può individuarsi in una determinata forma obbiettiva senza esprimere un’anima: unità, cioè, di pensiero e pensante, verità e uomo; filosofia del filosofo.
Il caso del Leopardi è l’inverso. Egli è il poeta del pessimismo, perché il contenuto del suo pensiero, nelle sue prose e nelle sue poesie, sempre, è una dottrina opposta alla platonica. Platone idealista, Leopardi sensista e materialista. Per Platone il mondo è finalisticamente orientato verso una realtà che lo trascende; per Leopardi è un sistema chiuso, in cui tutta la vita è movimento, e ogni legge meccanismo. Il filosofo, secondo Platone, aspira con la sua dialettica alle idee, quindi a superare la natura; secondo Leopardi, l’apice della sapienza è la persuasione che conviene adattarsi («assuefarsi»): riconoscere il carattere illusorio di tutte le idealità, che traggono l’animo umano a opporsi alle leggi universali della natura. La conclusione è quella di Bruto minore: la virtù è un nome vano. L’«irrequieto ingegno», allontanando l’uomo dalla vita istintiva e quindi dalla legge universale della natura, pare promettergli, come pensò Platone, la beatitudine degli dèi immortali; ma infatti lo condanna a un immedicabile dolore. Queste convinzioni, attinte alla filosofia materialistica del secolo XVIII, formano un tutto ben saldo e compatto nel pensiero del Leopardi, e sono, si può ben dire, il concetto del mondo, com’egli lo vede e lo afferma: la verità, di cui egli non dubita menomamente; e che enuncia infatti non come una propria individuale opinione, della quale non sappia disfarsi, anzi come la dottrina filosofica, contro la quale si spuntino tutti gli argomenti delle altre, e della quale tutti i filosofi si renderebbero conto certamente, se sapessero sottrarsi ai preconcetti e agl’idoli di cui sono schiavi.
Ebbene, non è osservazione nuova, che l’effetto della poesia leopardiana è l’opposto di quello che una dottrina pessimistica dovrebbe produrre; e che la conclusione di Bruto minore non è veramente la conclusione che il poeta insinua e lascia nell’animo dei suoi lettori. La virtù, schernita sui campi dove giacque prostrata la romana libertà, risorge nell’animo e nella poesia del Leopardi cinta dall’aureola delle cose divine, in cui l’uomo sente il bisogno di credere:
Bella virtù, qualor di te s’avvede, Come per lieto avvenimento esulta Lo spirto mio … Alla bellezza tua ch’ogn’altra eccede, O nota e chiara, o ti ritrovi occulta, Sempre si prostra; e non pur vera e salda, Ma imaginata ancor, di te si scalda. (Paral. V, 47) |
Il suo animo dolcemente e virilmente umano ripugna al fato; di cedere inesperto, non s’arrende alla cruda legge di quella natura, che egli non riesce invero a rappresentarsi e a sentire muta e inconsapevole macchina, ignara dei dolori inflitti alle creature che stritola; anzi umanamente la raffigura priva di pietà «e de’ suoi figli antica E capital carnefice e nemica» (Paral. IV, 12). Esorta e incita gli uomini a unirsi per resisterle, ad amarsi, perciò, e a contrapporre alla spietata legge della necessità il regno dell’amore, in cui l’uomo può liberamente sottrarsi ai colpi del fato e al dolore. E nella dolcezza di questo senso profondo di cristiano amore del prossimo, nell’irriducibile forza della libertà di farsi un proprio mondo al di sopra di quel cieco meccanismo in cui si svolge la vita desolata della natura, in questa incoercibile coscienza dell’umanità vittoriosa anche sulle più crude rappresentazioni materialistiche della realtà, qui è la radice della vita e il motivo del fascino della poesia leopardiana, sublimante in una personalità superiore sostanziata di fede nell’amore e nella virtù dell’uomo un mondo in sé stesso cattivo e pur redento nello spirito che lo contempla (1).
La filosofia leopardiana pessimistica in quella sua astratta obbiettività, in cui si vuol vedere il pensiero d’ogni scrittore dal punto di vista classico, si converte invece in una delle più vigorose forme di ottimismo altamente umano, se si ricerca là dove essa vive la sua vita reale, pronta a comunicarsi a quante anime vi si appressino: nella poesia che sgorga dal sentimento dello scrittore, dal suo atteggiamento spirituale, ossia da quell’individualità, per cui egli grandeggia nella storia sul suo piedistallo.
II.
Non è questo il luogo per discutere quale di questi due metodi debba prevalere nella storia della filosofia. Basti qui avvertire che soltanto distinguendo l’uno dall’altro di questi metodi c’è modo di risolvere ragionevolmente una questione tante volte dibattuta a proposito del Leopardi e a proposito di Dante, come d’ogni altro poeta, dentro alla cui poesia non si può non vedere scorrere, quasi onda avvivatrice e fecondatrice, un pensiero. E poiché non c’è pensiero, ancorché incompiuto e particolare, che non sia un sistema e non postuli logicamente tutta una filosofia coerente, dove siano i motivi della sua verità e i fondamenti della fede con cui vien professato, – di quella fede, che non manca di certo ai poeti nell’intensità di vita spirituale che essi realizzano, – così di questo pensiero è naturale che si sia indotti a cercare e definire la forma sistematica, indagando la filosofia del poeta. Ma la poesia non è filosofia, né la filosofia è poesia: e la poesia filosofica come ogni poesia didascalica nasce morta. E quella di Dante invece è viva!
Per Dante, in particolare, non potendosi negare che una filosofia ci sia nella “Commedia”, s’è detto: «E qui è d’uopo che ben si distingua». Ci sono bensì nel suo Poema canti o brani in cui Dante troppo si ricorda di quei tristi e pur dolci anni della gioventù, quando, mortagli Beatrice, e cercando egli consolazione al suo dolore nella filosofia, cominciò «ad andare ov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole de’ religiosi e alle disputazioni de’ filosofanti; sicché in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciò tanto a sentire della sua dolcezza che ‘l suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero» (Conv., II, 13); e si lascia andare a rimeditare concetti, che interrompono il corso del suo ingenuo fantasticare, donde zampilla la fresca vena della sua poesia. Ma il poeta non è in quei canti o brani, duri sassi, scogli immoti, intorno ai quali si agitano, si frangono e spumeggiano le vive acque della creazione spontanea. Dov’è il filosofo non è il poeta, e dov’è il poeta non è il filosofo. Di guisa che niente sarebbe men degno di una commemorazione sei volte centenaria, come quella che ora si celebra per l’Alighieri, che andar raccattando nel suo Poema e in tutta l’opera sua questa parte morta, a cui si ridurrebbe la sua filosofia. Morta rispetto alla sua poesia, che la respinse infatti dal proprio seno; morta rispetto alla storia dell’umano pensiero, tanto ormai dilungatosi da quello che Dante conobbe nelle scuole de’ religiosi e dalle disputazioni dei filosofanti contemporanei. Laddove è chiaro che il Dante che noi celebriamo, e che sarà sempre celebrato, non è quello che morì insieme co’ suoi contemporanei, sì quello che sopravvisse all’età sua, vive con noi, e vivrà eterno.
Ma il pensiero d’un poeta non è per vero intelligibile alla stregua del metodo che ho detto classico. Si credette già una volta che questo fosse appunto il metodo per giudicare integralmente del poeta, quando all’arte applicavasi l’estetica del contenuto. Ma oggi tutti convengono che l’arte è forma. Non tutti, per altro, riconoscono la verità del concetto formale dell’arte; che non intende già valutare una forma astratta, scissa dal contenuto, bensì quella forma in cui tutto si risolve (o si deve risolvere) il contenuto dell’opera artistica. Sì che il mondo che il poeta vide, non si mette già da parte come materia estranea e indifferente allo sviluppo di quel processo in cui la creazione estetica consiste; ma si considera, quale esso è infatti, illuminato dalla luce in cui fu dal poeta veduto in virtù della sua passione e però di quel certo atteggiamento spirituale, che costituì la sua precisa individualità poetica, espressa appunto in quel mondo avvolto in quella luce. Quale che sia cotesto contenuto, esso riflette e quasi incarna la personalità del poeta, in quanto reca in ogni sua fibra viva il fremito di quell’anima che gli dà vita.
Astrattamente concepita in sé, la materia dell’arte è natura o umanità: abisso tenebroso o firmamento stellato; quercia robusta che affonda nel suolo le radici tenaci e spande i suoi rami poderosi nel cielo, o tenue stelo che un leggiero venticello abbatte e uccide con le sue esili foglie e il suo fiorellino effimero; brivido della carne che restringe e chiude l’umana coscienza in un piccolo e fuggevole aspetto e quasi in un punto solo del mondo, o vasto concepimento in cui si raccoglie tutto quello che l’universale esperienza dei secoli ha accumulato a poco a poco nel pensiero umano, con tutti i relativi interessi e gli alti bisogni che ne sono stati a ora a ora suscitati dall’imo fondo dell’umana volontà: tutto l’essere, cui possa volgersi l’animo, e in cui possa affisarsi e fermarsi. E c’è posto anche per la filosofia, come per ogni altra forma assegnabile alla vita dello spirito umano. Ma, quale che sia in sé, cotesto contenuto è poesia in quanto trasfigurato nella vita concreta che esso vive nello spirito del poeta. Né dal complesso del mondo, che questi accolse in sé, può, “a priori”, staccarsi parte alcuna che in sé considerata apparisca impoetica; poiché ogni materia, a considerarla in sé, è fuori della poesia, essendo fuori dello spirito umano, e fuori della realtà. Né, infine, la filosofia d’un poeta può essere altro che la stessa sua poesia, dov’è pure la sua politica, la sua religione, e in generale tutto il suo mondo.
Il pensiero dunque d’un poeta non si attinge per altra via da quella che ci è additata dal metodo romantico; il quale non solo ci mette in grado di ricostruire il pensiero stesso, ma di scavare attraverso di esso fino alla scoperta del filo d’oro di quella vita immortale che è la poesia, in cui il pensiero fu assunto e assorbito.
III.
Dante, assoggettato a quell’analisi che distingue il contenuto dalla forma, ha una filosofia, della quale tante volte si è discorso, discusso e dissertato: quel sistema di pensiero che rinverga nelle sue linee principali con la dottrina scolastica, quale si costituì nella seconda metà del secolo XIII, per opera principalmente di Tommaso d’Aquino: quantunque Dante, con l’anima aperta a tutti i motivi spirituali e a tutti gli interessi umani e speculativi, con l’intelletto, potente non meno dell’alta fantasia, pronto a raccogliere e conciliare tutte le voci dei pensatori diversi, che parimenti gli facessero vibrare il cuore nell’ansia della ricerca d’una verità assoluta, non sia propriamente un tomista ortodosso, e accetti, – come gli studi recenti intorno ai particolari e agli accenni incidentali del suo pensiero speculativo vengono sempre più dimostrando (2) – dottrine e concetti d’altri indirizzi filosofici, e in alcune parti del suo pensiero, segnatamente nelle opinioni politiche, originalmente si spinga più in là della linea entro la quale s’era chiusa la filosofia scolastica. In una parola, Dante filosofo, interpretato e giudicato col metodo classico, è uno scolastico, il cui posto nella storia della filosofia è assai umile, se in lui non si guardi piuttosto allo scrittore sommo che primo trattò in volgare di filosofia traendola dalle scuole umbratili dei chierici, nel campo aperto della cultura laica e dentro al pensiero della nuova letteratura nazionale, da lui d’un tratto sollevata ad altissimo grado. Ma la scolastica di Dante, come or ora vedremo sommariamente, cercata nel suo Poema, dove Dante è veramente Dante, è, come tutti vedono, lo sfondo solo del quadro: materia di cui la fantasia del Poeta si serve per costruire il suo mondo, gettarvi dentro le sue creature, e dentro a esse il suo animo, che ogni lettore vede presente dal primo all’ultimo verso dei cento canti. La sua filosofia, come ogni altro elemento del mondo intorno a cui la mente di Dante lavora, è tutta una visione, un sogno. Com’è del resto la materia di ogni opera d’arte. Ma, al pari d’ogni sogno, non ha verità né realtà fuori della fantasia, che nel sogno spiega la sua attività e spazia nel mondo che essa si finge; né può intendersi perciò fuori dell’essere subbiettivo che è la personalità di chi sogna obbiettivando sé stesso in quella realtà che appartiene al comune dominio dell’esperienza e del pensiero umano.
Dante, quando compie nell’Empireo la sua visione per cui un mondo è stato creato dalla possa della sua fantasia, un mondo che egli ha contemplato attraversandolo e scrutandolo con occhio inquieto e animo bramoso di luce, eterno pellegrino in cerca di Dio, al conchiudersi del suo singolare pellegrinaggio lo vede, questo mondo, ormai completo e vivo di vita autonoma distaccarsi dalla matrice, che gli ha comunicato la vita: sente rompersi quell’unità per cui egli ha vissuto nella sua visione, e la sua visione è vissuta in lui. Tutto un mondo, sì, mirabilmente saldo, obbiettivo, e pure svolgentesi punto per punto nella stessa vita operosa e incessante del suo spirito creatore, ormai gli è divenuto estraneo. Ed egli allora esprime splendidamente, come nessun altro poeta mai, i due elementi dal cui indissolubile nodo trae vita e alimento ogni opera d’arte:
Qual è colui che somniando vede, E dopo il sogno la passione impressa Rimane, e l’altro alla mente non riede; Cotal son io: ché quasi tutta cessa Mia visione, ed ancor mi distilla Nel cuor lo dolce che nacque da essa: Così la neve al sol si dissigilla; Così al vento delle foglie lievi Si perdea la sentenza di Sibilla. (Par. XXXIII, 58-66) |
Visione, dunque, e passione: l’una materia, l’altra forma. Quella cessa, e non riede più alla mente; questa rimane impressa, come la dolcezza del cuore in cui subbiettivamente si trasmutò quel che si vide in sogno. Da una parte, il mondo del poeta; ma dall’altra, il poeta stesso, il quale finché quel mondo non cessi, non si sente diviso da esso, poiché la loro vita è una vita comune, unica. Finché la visione dura, essa è bensì un mondo, ma un mondo dentro al quale c’è una passione, un cuore, un uomo; c’è una filosofia, ma una filosofia non definibile in astratto, bensì conoscibile soltanto come vita di questo uomo, del suo cuore, della passione del suo cuore.
In certo senso, tutto quel mondo può dirsi non sia altro che una filosofia, esposta bensì in forma allegorica, ma non men manifesta; poiché attraverso questa forma, la mente di Dante, data la sua educazione e la sua cultura mistico-religiosa, vagheggia appunto e accarezza una filosofia. Infatti, si badi bene, a proposito di allegoria, a non confondere ciò che bisogna con ogni cura distinguere se non si vuol lasciare che sfugga tanta parte della poesia dantesca: l’allegoria posticcia e meccanica e l’allegoria costitutiva, organica e vivente, la quale non cade sotto la condanna a cui è fatta segno la prima; e rende infatti possibile a Dante, malgrado tutti i veli allegorici onde sono avvolte le sue creature, di levarsi in alto in un cielo luminoso, egli e le sue creature splendide di verità. L’allegoria, come ogni altra forma o figura onde la fantasia si rappresenti il suo obbietto, è legittima pur che osservi la legge essenziale della forma, di non restare fuori del suo obbietto, quasi veste che aderisca estrinsecamente, che copra e non sveli. Ma il pericolo di ogni allegoria che, raffreddando la fantasia, le impedisca di raggiungere la realtà che si vorrebbe raffigurare, è pure il pericolo che incombe sopra la più semplice e schietta parola, in quanto essa può essere trattata meccanicamente quale mezzo d’espressione che sia da accostare alla cosa, anzi che come la stessa forma viva della cosa nella vita di questa attraverso lo spirito umano. L’allegoria in verità non vuol essere altro che una parola: una parola espressiva, corpulenta, che s’apprenda alla fantasia e vi si scolpisca in alto rilievo. E se non piaccia dire «parola», dicasi «simbolo»: del quale pure in arte si abusa senza che l’abuso possa autorizzare ogni divieto, almeno finché non siasi dimostrato che ci sia o possa pensarsi qualcosa di cui l’uso è legittimo e desiderabile, e non sia possibile pure il più deplorevole abuso.
Intendere il pensiero o intendere la poesia di Dante rifiutandone ogni elemento simbolico o allegorico è impossibile, poiché a Dante tante cose di quelle che più lo appassionarono e gli stettero innanzi, anzi gli riempirono l’anima e la vita, raffigurate così come a lui veniva naturalmente fatto di vederle in conseguenza delle sue abitudini mentali e dei consueti modi di esprimersi e però di raffigurare a sé medesimo gli obbietti del suo pensiero, gli si presentarono in forma allegorica. Non fu arbitrio suo – tanto per addurre un esempio che qui particolarmente c’interessa – l’interpretazione della poesia virgiliana come adombramento di una dottrina morale; e spontanea nello sviluppo della sua personale cultura fu la genesi del concetto di Virgilio, simbolo della ragione naturale non rischiarata da lume di rivelazione divina. Per modo che quando dal lento segreto processo di formazione del nucleo primitivo del Poema sorse nel quadro che prese a spiegarsi innanzi al Poeta, questa figura viva e parlante del suo Virgilio, egli già incarnava la ragione quale Dante la vide dentro sé medesimo accamparsi laboriosamente in un sistema di concetti, noti agli antichi, al tempo degli stessi dèi falsi e bugiardi. E tanto per lui Virgilio s’immedesimò con questa realtà da lui stesso sperimentata, della speculazione naturale o razionale, e cioè della filosofia che i dotti medievali avevano ereditata dai grandi maestri dell’antichità, quanto riesce impossibile a un chirurgo pensare al ferro metallo quando pensa ai suoi ferri. Orbene, tutta la poesia che trema nel Poema intorno a Virgilio, svanirebbe se dal simbolismo di questa figura noi, contro l’intenzione del Poeta, volessimo prescindere.
Il «duol senza martiri» del Limbo, dove
Non avea pianto ma’ che di sospiri, Che l’aura eterna facevan tremare; (Inf. IV, 26-27) |
il «difetto» di quella «gente di molto valore» che non adorò debitamente Dio, e per ciò solo è perduta, e vive «in desìo sensa speme», sottratta quasi nel Limbo a ogni giudizio divino, mercé la grazia acquistata a lei dalla sua umana grandezza («l’onrata nominanza Che di lor suona su nella tua vita»), l’aspetto stesso di quelle grandi ombre:
Sembianza avevan né trista né lieta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Genti v’eran con occhi tardi e gravi, Di grande autorità ne’ lor sembianti: Parlavan rado, con voci soavi; (Inf. IV, 84, 112-114) |
tutto questo misto di reverente simpatia e di indicibile tristezza che spira da ogni parola di Dante per gli spiriti magni, dai quali è venuto a lui Virgilio; e l’intimità di affetto espressa verso di lui «dolce padre» e «più che padre», la quale prorompe dopo che l’opera di Virgilio è compiuta, e Dante non ha più bisogno della sua guida poiché «libero, dritto e sano è suo arbitrio» (Purg. XXVII, 140), e sopraggiunge, guida superiore a più alta meta, Beatrice, e Virgilio sparisce dal fianco di Dante:
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi Di sé; Virgilio, dolcissimo padre; Virgilio, a cui per mia salute die’mi; (Purg. XXX, 49-51) |
la commozione che vibra nelle parole di Virgilio stesso quando accenna al contrasto tra la propria e la sorte di Beatrice:
Tu la vedrai di sopra, in su la vetta Di questo monte, ridere e felice; (Purg. VI, 47-48) |
dove lo stesso contenuto e dignitoso affanno del desìo sensa speme si risolve e rasserena nella trionfante luce di questo riso sulla vetta del monte della purificazione; tutto ciò – per accennare ad alcuni dei tratti della ricchissima rappresentazione virgiliana -, evidentemente, non avrebbe nessun significato, se Virgilio non fosse agli occhi di Dante una persona sì, ma rappresentante, come «savio gentil che tutto seppe», quella ragione (Purg. XV, 76), che, secondo egli stesso dice, non può disfamare Dante, cui soltanto Beatrice potrà togliere ogni altra brama: o in altri termini, quella filosofia, che aveva saputo tutto ciò che l’uomo può sapere senza la fede: la filosofia degli antichi.
In verità, il disperato desiderio di Virgilio non è altro che il pessimismo platonico a cui si è di sopra accennato: quella conclusione, a cui pervenne prima dell’avvento del cristianesimo non pure la dottrina di Platone, che di tutto il pensiero antico si può veramente considerare l’espressione più caratteristica, ma ogni dottrina, la quale movesse dal punto di vista proprio, in generale, a tutta la speculazione greca.
Noi oggi vediamo chiaramente quello che Dante e i filosofi del suo tempo scorgevano pure sicuramente per quanto in confuso: che cioè la stessa posizione propria di tutta la filosofia pagana non consentiva la debita adorazione di Dio, il riconoscimento dell’identità di natura tra Dio adorato e l’uomo che l’adora, ossia della sua spiritualità. Quella filosofia si sforza tutta di concepire intellettualisticamente la realtà, come oggetto assoluto della conoscenza umana; e la realtà, quale si rappresenta all’intelletto che la presuppone come suo oggetto, concepita come molteplicità atomica o come cosmo intelligibile, come estensione o come pensiero, rimane sempre qualche cosa di chiuso in sé, che l’uomo non può riconoscere senza sentirsene fuori; che è come dire, senza svalutare sé stesso, e annientare idealmente nella realtà assoluta la propria personalità, la propria libertà, la coscienza della propria creatività. Se il mondo è tutto quello che dev’essere quando noi prendiamo a conoscerlo, questa vita che comincia a realizzarsi mercé l’attività del nostro spirito, non può non apparire illusoria, poiché rimane esclusa dalla totalità dell’essere concepibile; e non può quindi non svanire nel nulla. Donde quel travaglio disperato d’Amore, in cui Platone simboleggia non pur la vita del pensiero umano aspirante all’immortalità delle idee, ma della natura universale, tutta corrente, immensa fiumana, dal monte a una foce irraggiungibile. Da Parmenide, per cui la realtà è quell’Unità, in cui il pensiero deve immedesimarsi per essere, a Plotino che ripone l’apice supremo della vita spirituale nell’estasi in cui lo spirito deve uscir da sé per assorbirsi nell’Uno, il savio gentile s’affisa per otto secoli, anzi per tutto lo sviluppo della civiltà pagana, in una realtà esterna che è tutto, e non contiene in sé la stessa sapienza del savio; non ha posto per quella realtà, entro la quale l’uomo vive pensando e volendo. Il suo Dio è semplice natura. Quindi il pessimismo profondo radicale che è in Platone, e che non può ritrovarsi in Leopardi.
Per restituire la speranza all’uomo che naturalmente desidera, occorre che la posizione dell’uomo di fronte al mondo muti, e sia diverso perciò il suo atteggiamento verso Dio, principio assoluto dell’essere che costituisce il mondo. La conoscenza intellettuale deve cedere il luogo all’amore: a quell’atto spirituale che non presuppone, ma esso fa essere il termine reale, a cui s’indirizza; lo fa essere, s’intende, nell’ambito stesso della vita spirituale, nella coscienza. Occorre cioè che la realtà a cui ci si rivolge non sia questa natura, a cui noi pure naturalmente apparteniamo; ma quello spirito, in cui a noi non è dato penetrare se non in virtù, di un’attività che non è istinto, né, comunque, legge naturale, ma libertà: l’opposto, la negazione della natura. La divina realtà dev’essere intesa dunque come Spirito: spirito in sé (monotriade), spirito rispetto all’uomo (mediatore). Ecco una nuova sapienza, ecco, come dice Dante di Beatrice, la «loda di Dio vera» (Inf. II, 103): ecco quella «che lume fia tra il vero e l’intelletto» (Purg. VI, 45). Sapienza che, per Dante e per la filosofia cristiana come tutti al suo tempo l’intesero, non è opera di ragione; e non può infatti incontrarsi sulla stessa via per cui procede tutta la filosofia greca. Virgilio quando lì, sulla balza degli accidiosi, espone a Dante la scolastica dottrina del libero arbitrio – che è invero uno dei punti critici, in cui la filosofia cristiana doveva sentire il suo profondo distacco dalla pagana – premette:
Quanto ragion qui vede Dirti poss’io; da indi in là t’aspetta Pure a Beatrice, ch’è opra di fede. (Purg. XVIII, 46-48) |
IV.
Tra questi due termini, riassuntivi di tutta la filosofia per cui spazia il pensiero e il cuore di Dante – Virgilio e Beatrice – si svolge l’allegoria filosofica del Poema. Il divario tra questi due termini per Dante è un abisso: come si sente nell’energica protesta, tutta dantesca, messa in bocca a Virgilio nell’Antipurgatorio; protesta che si smorza infine e trapassa nel solito sospiro profondo dell’umanità consapevole de’ proprio confini:
Matto è chi spera che nostra ragione Possa trascorrer la infinita via Che tiene una sustanzia in tre persone. State contenti, umana gente, al quia; Ché, se potuto aveste veder tutto, Mestier non era partorir Maria; E disìar vedeste senza frutto Tai, che sarebbe lor disìo quetato, Ch’eternalmente è dato lor per lutto: Io dico d’Aristotile e di Plato, E di molt’altri. – E qui chinò la fronte, E più non disse, e rimase turbato. (Purg. III, 34-35) |
Si tratta di una dottrina comune a tutta la speculazione cristiana; e rispetto alla quale si può ben dire che Dante ripeta quello che s’insegnava in tutte le scuole. Ma in lui assume certi accenti ingenui, che mi paiono manifesti indizi d’una disposizione di mente personale. Quando a San Pietro, che nel Cielo stellato, lo esamina sulla sua fede, egli dice:
La larga ploia Dello Spirito Santo, ch’è diffusa In su le vecchie e in su le nuove cuoia, È sillogismo che la m’ha conchiusa Acutamente sì, che, inverso d’ella, Ogni dimostrazion mi pare ottusa;
|
quando, nella stessa prova d’esame, ribadisce che il suo credere non deriva da prove fisiche e metafisiche, ma glielo dà «la verità che quinci piove» nei due Testamenti divinamente ispirati (Par. XXIV, 91-96, 135-138); Dante, senza dubbio, non fa che attenersi al comune insegnamento. Ma, quando nel Cielo di Saturno si fa dire da Pier Damiani, a proposito del disperato problema della predestinazione:
sì s’inoltra nell’abisso Dell’eterno statuto quel che chiedi Che da ogni creata vista è scisso; (Par. XXI, 94-96) |
nonché affermare, senz’altro che
La mente che qui luce, in terra fuma; Onde riguarda come può laggiue Quel che non puote, perché il ciel l’assuma; (v.v. 100-102) |
che cioè non pure in terra, ma neanche in cielo la mente umana può giungere alla risoluzione de’ suoi più assillanti problemi; allora Dante, o io m’inganno, accentua a modo suo lo scetticismo proprio della filosofia cristiana circa i poteri della ragione umana. Di che un altro segno pare di scorgere nel commento che lo stesso Poeta fa seguire alla ragione messa in bocca ai dottori, i quali nel Cielo del Sole gli parlano della resurrezione dei corpi:
Come la carne gloriosa e santa Fia rivestita, la nostra persona Più grata fia per esser tutta quanta; (Par. XIV, 43-45) |
che non è certo la più forte e speculativa ragione che si possa trarre dall’insegnamento di Tommaso d’Aquino. Comunque, innanzi alla gioia dei beati che pregustano la maggior letizia a cui saranno abilitati dal corpo onde torneranno a vestirsi, Dante mette da parte gli arzigogoli della scienza teologica, e si rinchiude nel suo vigoroso senso d’umanità; restìo a barattarlo col concetto della vita dedotta speculativamente a forza di sottilissimi raziocinii:
Che ben mostrâr disìo dei corpi morti; Forse non pur per lor, ma per le mamme, Per li padri e per gli altri che fur cari Anzi che fosser sempiterne fiamme: (v.v. 63-66) |
dove si direbbe che l’uomo si scuota di dosso il peso inerte d’una dottrina accettata sì, ma non sentita.
Ma c’è di più. Guardate nel nobile castello, dove sopra il verde smalto s’adunano gli spiriti magni, e in alto attorno ad Aristotele, maestro, si vede riunita la famiglia dei filosofi, oggetto d’ammirazione e di alto rispetto pel Poeta. Vi sono non solo i rappresentanti di tutte le scuole antiche, che tutte Dante accoglie nel suo concetto della grande sapienza antica; ma c’è Avicenna, arabo; c’è perfino «Averroìs, che il gran commento feo»; e anche lui, nonostante la fosca leggenda che già l’avvolgeva nelle fantasie cristiane, nonostante le forti e giuste polemiche contro di lui e dei suoi seguaci che la scolastica ortodossa, a capo di essa l’Aquinate, combatteva nell’interesse della fede cristiana e degli alti interessi morali umani, a cui dalla nuova fede veniva conforto, anche lui grandeggia nell’animo di Dante, perché anch’egli è tra quei maestri, a cui gli uomini debbono quanto ragion vede. Guardate nel Cielo del Sole, dove si accolgono i Dottori cristiani, e parla Tommaso d’Aquino, il più grande che fra essi Dante conobbe. Tommaso, fra le luci che gli brillano accanto, si compiace non pur di nominare un Riccardo di San Vittore, antesignano d’una filosofia divergente dalla sua, ma di celebrare altresì in modo particolare quello spirito «che in pensieri gravi a morir gli parve venir tardo»; la luce eterna di Sigieri, che era stato addirittura processato per eresia, e la cui fama non pervenne di sicuro a Dante netta d’ogni macchia dottrinale. Ancora, alle «scuole dei religiosi» non poté egli non apprendere come tomisti e scotisti, domenicani e francescani, si contrastassero il campo; ma le lodi di San Francesco egli fa dire al maggiore di quelli, e dal maggiore di questi le lodi di San Domenico. Egli insomma non mette, non impegna tanto l’animo suo nell’insegnamento di una scuola, da partecipare alle passioni particolari ed esclusive di essa. In filosofia, non conosce intolleranza, egli che ferocemente nel Convivio si mostra pronto a brandire il coltello contro i detrattori del volgare. E in verità, non si schiera né con questa né con quella scuola; e non pare che sia attratto verso le questioni (a cui nella sua ricca e completa personalità pur s’interessa) per le quali gl’indirizzi filosofici si oppongono e pugnano tra loro.
Consideriamo più attentamente il processo entro il quale si svolge, nella visione dantesca, l’itinerario della mente a Dio dalla selva delle passioni, «tanto amara che poco più è morte» fino a «L’Amor, che muove il sole e l’altre stelle», e con cui la volontà dell’uomo, al termine dell’itinerario, s’immedesima. Questo processo, a rigore, non ha il suo primo principio nella selva. Dalla quale il Poeta non uscirebbe senza Virgilio. Ma Virgilio stesso non si moverebbe al suo soccorso, se non fosse chiamato da donna beata e bella, mossa da Amore, dalla Grazia (da Lucia, anzi da Maria). Il primo principio dunque è Dio. La grazia di Lui invia al soccorso dell’uomo la beatrice teologia, di cui è mezzo la ragione. La quale perciò non si sveglia da sé; e se naturalmente è potente a quella sapienza, che già fu in terra prima di Cristo, non è senza divino consiglio, che prepari di lunga mano l’avvento dello Spirito. Guidato da Virgilio, Dante vede il temporal foco e l’eterno; questo prima, e poi quello, fino al Paradiso terrestre, dove Virgilio non ha più nulla da insegnargli, e gli dice: «Non aspettar mio dir più, né mio cenno». E aggiunge anche: «Libero, dritto e sano è tuo arbitrio» (Purg. XXVII, 139-140). Ma è l’arbitrio dell’uomo razionale, non ancora rifatto e trasfigurato dalla grazia: non è tuttavia la vera libertà, che ricrea l’uomo nell’amore; quella libertà di cui parla Dante quando a colei che «all’alto volo gli vestì le piume», e gl’imparadisò la mente (Par. XV, 54, e XXVIII, 3), dirà infine, nel separarsi nell’Empireo:
Tu m’hai di servo tratto a libertate, (Pur. XXXI, 85) |
battendo con l’accento sul “tu” iniziale.
Dunque la vera libertà, a cui Dante aspira, e che è infatti il termine d’ogni umana aspirazione, non è opera di Virgilio se non in parte. Vi occorre anche Beatrice. La quale per altro non è semplice scienza speculativa che possa simboleggiare p. e. la Somma teologica di San Tommaso: giacché San Tommaso è un razionalista, che s’argomenta di raggiungere Dio per mezzo della filosofia, movendo dalla natura, oggetto dell’esperienza sensibile; e sdegna così le argomentazioni “a priori”, proprie dei platonizzanti, esposte al rischio di confondere in uno la creatura e il creatore, come la mistica contemplazione che s’affida unicamente all’amore. Dante, che apprezza tutti i motivi di vero espressi dalle varie tendenze e non si chiude in nessun sistema, non crede sufficiente né anche Beatrice:
A terminar lo tuo disiro Mosse Beatrice me del loco mio, (Par. XXXI, 65-66) |
gli dice San Bernardo, che ripone, a sua volta, la sua fede nella Regina del cielo, ond’egli «arde tutto d’amor»: in quella stessa Donna Gentile, che già aveva interceduto per Dante movendo Lucia, e per suo mezzo Beatrice. E sono «gli occhi da Dio diletti e venerati» (Par. XXXIII, 40) a operar il supremo miracolo, proprio per mezzo di quell’amore mistico, che una filosofia ben diversa dalla tomista raccomandava come metodo della cognizione di Dio.
Anche per Dante, in conclusione, l’uomo torna a Dio in quanto muove da lui; e l’amore supremo con cui l’uomo conosce e ama insieme Dio, non è se non lo stesso amore con cui Dio ama e conosce sé stesso. L’universo è un circolo, per cui l’azione divina scende per risalire, si moltiplica, come luce che piove di cosa in cosa, per raccogliersi nella sua unità eterna e infinita.
Questa, come quadro armonico in cui si compongono a unità gl’insegnamenti antichi e nuovi del sapere umano e divino, la visione, che Dante vagheggia come contenuto del sacro Poema «al quale ha posto mano e cielo e terra». Visione che, così sommariamente descritta, è, come ognun vede, una filosofia, ben diversa certamente dalla pagana, poiché dentro vi si muovono elementi nuovi, alla dottrina intellettualistica degli antichi affatto estranei. Nel suo complesso si riduce alla concezione del mondo propria della scolastica, pur tenendo conto dei diversi elementi che Dante vi concilia. I quali per altro non modificano le idee fondamentali di quella filosofia, in cui cercò il suo assetto, per diverse vie, il pensiero cristiano dopo i Padri che fissarono i dommi della nuova fede, e prima dell’Umanesimo, che segnerà l’inizio d’un’èra nuova d’indagine speculativa sulla stessa base dell’intuizione cristiana.
V.
Ma quando s’è definito il carattere della visione, non s’è giunti ancora al concreto della filosofia dantesca. La quale è visione, abbiamo visto, in quanto è insieme passione; e se Dante toglie dalle scuole del suo tempo la materia del suo pensiero, v’imprime sopra profondamente il suggello della sua potente personalità, trasfigurando pertanto la stessa filosofia in poesia.
La personalità di Dante è sì la personalità di un poeta, ma d’un poeta qual egli volle essere: profeta. Dopo la poesia giovanile, in cui egli non ha trovato ancora sé stesso, e che si conchiude con l’alta misteriosa promessa di dire della sua donna «quello che mai non fu detto d’alcuna», attraverso il Convivio e il De vulgari eloquentia matura il suo ideale, ed egli acquista chiara coscienza della missione, a cui consacrerà il Poema e la Monarchia.
Quale l’idea del Convivio? La stessa, nel primo disegno, della Commedia, non messa interamente in atto, perché non ancora matura. Dante, sentito l’artiglio della fortuna, e non soltanto sulla propria persona, guarda il mondo e la vita con altri occhi da quelli con cui negli anni giovanili poté vagheggiare gioiosamente un ideale meramente letterario di «rime d’amor dolci e leggiadre». Il mondo nei contrasti della fortuna e delle passioni politiche gli apparve cosa assai più seria e vasta: la vita, arte ben più difficile e ardua. «Legno senza vela e senza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertà»: peregrino «per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende», sentì crescersi tanto più nell’animo la coscienza virile della propria dignità e della propria responsabilità verso sé stesso, quanto più gli parve nel doloroso vagare che s’invilisse la sua persona agli occhi degli altri, poiché la piaga della fortuna «suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata». Laddove l’esperienza politica degli uomini e degli avvenimenti e l’abito speculativo appreso già negli studi filosofici gli vennero persuadendo, che il suo esilio e i disordini della sua città avessero la loro causa remota nel sistema stesso della vita non solo politica, ma altresì morale e religiosa non pur di Firenze, ma del complesso storico di cui essa faceva parte. E che bisognava correggere non già alimentando le piccole fazioni cittadine, come quelle in cui anch’egli era stato involto, ma mettendo la scure alle radici, come poteva fare soltanto chi avesse autorità da ciò, e non riparasse modestamente all’ombra di una scuola per quanto lodata e ammirata di rimatori, ma si levasse in alto nella stima e nella considerazione degli uomini, che, se concedono qualche momento dei loro ozi ai poeti, consacrano la loro vita, la loro volontà, il loro animo alla pratica, cioè al dominio del mondo. Non poeta dunque, ma uomo d’azione; anzi maestro di azione, pensatore.
Chi legga i primi capitoli del Convivio vede nel cuore, può dirsi, del grande esule le prime linee di questo nuovo ideale, a cui egli fin da quest’opera mira, proponendosi con un’interpretazione allegorica e dotta delle sue già note canzoni di trasfigurare sé stesso non solo dinanzi agli altri, nel cui concetto gli tarda di elevarsi, ma, quel che è più, dinanzi a sé stesso. Lo stesso sforzo ingenuo di dare forma laboriosamente tecnica e scientifica a verità semplici e ovvie, svela il proposito e la speranza dell’Autore, al loro primo nascere. E questo sforzo spiega anche perché l’opera è presto troncata e non più ripresa dall’Autore, che in essa non ha trovato ancora il modo di incarnare veramente il proprio ideale, quale attraverso questo primo tentativo già lo intravede: pensatore in quanto poeta: poeta che insegna come Virgilio, come i grandi scrittori del Vecchio Testamento, che poetarono senza svelare, anzi chiudendo nella parola l’ammaestramento, l’ammonimento, la verità. Non commentarono essi faticosamente, come aveva preso a fare Dante stesso qui nel Convivio, il loro canto; ma cantarono con voce così profonda che misteriosamente sapesse da sé cercare gli animi, scuoterli, illuminarli.
Dal Convivio, o insieme con esso, sorge il “De vulgari eloquentia” (cfr. Conv., I, 5): altra opera di pensiero, suggerita a Dante dal desiderio di esaltare quel volgare, che è lo strumento che nelle sue mani è diventato così potente, e del quale convien perciò che dimostri la nobiltà non inferiore a quella che vien riconosciuta al latino: lingua di dotti, di curia e di affari; come dire, delle persone serie, a cui Dante intende ora indirizzarsi. Egli sente di essere l’araldo di un nuovo mondo; e non esita sulla soglia dello stesso Convivio a dire del suo libro che «sarà luce nuova, sole nuovo, il quale sorgerà ove l’usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre» (Conv., I, 13). A nuovo pensiero lingua nuova: questo volgare, che Dante sente quasi nel profondo del suo stesso essere: «congiugnitore», com’egli dice, «delli miei generanti, che con esso parlavano!…, per che manifesto è lui essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere» e «introducitore di me nella via della scienza». E lo sente nella vita che si trasforma, specchio d’un mondo che non s’arresta, ma si rinnova, e deve perciò rinnovarsi; poiché il latino è «perpetuo e non corruttibile» – lingua morta, come poi si dirà – ma il volgare «a piacimento artificiato si trasmuta. Onde vedemo nelle città d’Italia, se bene volemo agguardare, a cinquanta anni da qua molti vocaboli essere spenti e nati e variati; onde se ‘l piccolo tempo così trasmuta, molto più trasmuta lo maggiore. Sicch’io dico, che se coloro che partiro di questa vita, già sono mille anni, tornassero alle loro cittadi, crederebbero quelle essere occupate da gente strana per la lingua da loro discordante» (Conv., I, 5).
È forse questo il primo sguardo gettato dal pensiero umano sulla vita, ossia sull’essenza storica, del linguaggio. In Dante s’accompagna con l’intuizione diretta e della nazionalità, cioè del carattere universale, della lingua e del suo carattere spirituale; concetto così difficile a mantenersi, che ancora tutto il secolo XIX si travaglia sulla questione dell’uso, come norma della lingua; che è concetto prettamente naturalistico. Già nelle ricordate parole il volgare come lingua viva è contrapposto al latino, in quanto si strasmuta perché «artificiato a piacimento», ossia trattato liberamente da quell’attività autocreativa, che è (oggi diciamo) l’essenza dello spirito. Ma nel De vulgari eloquentia il concetto di Dante si allarga, si articola, si organizza. Quel volgare, che anche qui sente come cosa propria, a cui sia legata, più che la propria grandezza, la stessa sua vita (“quantum vero suos familiares gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius dulcedine gloriæ nostrum exilium postergamus”: De vulg. e., I, 17), non è lingua parlata di fatto: “in qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla”. Volgare illustre, “cum de tot rudibus latinorum vocabulis, de tot perplexis constructionibus, de tot defectivis prolationibus, de tot rusticanis accentibus, tam egregium, tam extricatum, tam perfectum, et tam urbanum videamus electum, ut Cinus Pistoriensis et amicus eius ostendunt in cantionibus suis”. Illustre, per la potenza che esercita in quanto non preso dal volgo, ma foggiato dall’arte; “et quid maioris potestatis est, quam quod humana corda versare potest, ita ut nolentem volentem, et volentem nolentem faciat, velut ipsum et fecit et facit?”. Aulico, di corte, proprio della capitale, dove un popolo ritrova e realizza la propria unità, uscendo dai naturali particolarismi delle provincie, e delle città. Che se in Italia non è capitale, e non c’è unità, di questa ci sono le membra: le quali, se qui non sono unite da un principe che tutte le governi, pure “gratioso lumine rationis, unita sunt”. Corporaliter dispersa, l’Italia è una spiritualmente. Una la sua lingua (quella che Cino e il suo amico maneggiano), perché è lingua non di fatto esistente al pari della terra in cui si parla, bensì come libero prodotto dell’arte («artificiato a piacimento»); onde il poeta può dominare un popolo e crearne la volontà facendo volere chi non vuole, e disvolere chi vuole.
C’è bisogno di dire che queste intuizioni e questi concetti manifestano la personalità dell’Alighieri? Che ci fanno sentire dove batta il suo cuore? Dante si prepara al suo grande lavoro con questo animo pieno di fede nel proprio ideale morale, religioso, politico; di fede nella parte provvidenziale che è assegnata a lui pel trionfo di questo ideale. Sente di dover alzare il suo canto per trasformare la poesia, la parola, il volgare che è suo, la possanza invitta del suo genio sperimentato nel bello stile che gli ha fatto onore, in monito agli uomini che hanno in mano le sorti d’Italia, anzi di tutte le genti. Quindi la sua poesia sarà profezia, come era uso degli scrittori apocalittici aspiranti alla riforma dell’umanità.
Rispetto a questo ideale, che è l’unico, il sommo ideale dantesco, e l’argomento del Poema, massima e, in certo senso, unica espressione della personalità di Dante, il trattato latino Monarchia (qualunque ne sia la cronologia, certo scritto negli anni stessi in cui il Poeta veniva componendo la Commedia) può considerarsi come sorto in margine all’opera maggiore: opuscolo d’occasione, scritto in latino perché non diretto ai soli italiani, particolarmente indirizzato ai pubblicisti che della lingua dotta e curiale si servivano per necessità. Ma in margine alla Commedia il trattatello politico di Dante ne illumina i motivi più profondi, facendo quasi balzare innanzi al lettore del Poema, dritta, fiera nella sua gigantesca statura, l’energica persona dell’Autore. Il quale è sì presente sempre con la sua passione alla sua visione: ma qui nella Monarchia si stacca dalla visione in cui spazia la profezia del poeta, e si leva per gridare alto, in chiaro e aperto latino, la sua fede, l’idea che infiamma la sua anima, come la vera interna dottrina che s’asconde sotto il velame de’ suoi versi strani: la dottrina che è sua, la sua filosofia.
Dottrina politica? Politica, in quanto, in generale, filosofica: dottrina che investe tutta la sfera delle relazioni che legano l’uomo al mondo. Giacché la politica di Dante, è chiaro, non è la spicciola politica, che riflette e crea gl’interessi transeunti di un popolo, e risolve, pertanto, problemi particolari e determinati.
In mezzo ai problemi del tempo suo Dante passa come quel legno senza vela e senza governo, a cui egli si paragonò dolorosamente. Passa sognando, assorto non nella sua visione, ma nell’idea che egli in quella visione vuole rappresentare ed effondere. La sua politica è una concezione della massima realtà politica, visibile sull’orizzonte storico del tempo suo, coordinata a una concezione della Chiesa: è il concetto dell’uomo come membro dello Stato e membro della Chiesa, volontà che si spiega e manifesta nei rapporti mondani e nei rapporti con Dio. Perciò è una filosofia. La quale, lo sente subito chi appena legga la Monarchia, non divide, come mal si ripete, lo Stato dalla Chiesa; anzi dimostra i rapporti intrinseci onde sono distinti e congiunti, in guisa che buona Chiesa non sia possibile dove non sia Stato ben ordinato. E volgendosi alla riforma dello Stato, intende a riformare pure la Chiesa, liberandola da ogni elemento mondano, e ritraendola alle sorgenti della sua vita spirituale. Ma dello Stato, da cui dipende quindi il rinnovamento dello spirito, afferma l’autonomia assoluta (“dependet a Deo immediate”) come indirizzato a un fine riposto in “operatione propriæ virtutis”, senza bisogno di quel divino aiuto che occorre invece al conseguimento della felicità celeste (III, 16). Ci sono “documenta philosophica” e ci sono “documenta spiritualia”. Questi trascendono la ragione, e han d’uopo delle virtù teologali; per quelli basta l’uso di quella ragione umana “quæ per philosophos tota nobis innotuit”. Né con ciò si nega il valore dello Stato: gli elettori dell’impero, o quelli, in generale, che conferiscono la suprema autorità al capo dello Stato, sono, al dire di Dante, “denunciatores divinæ Providentiæ”. Questa filosofia dunque è un’affermazione, oscura bensì, ma energica della divinità dell’uomo nella sua attività provvidenziale: un’esaltazione della virtù propria della natura umana, operante nella consapevolezza della propria legge. Virtù vittoriosa, se conscia di sé; e contro la quale prevarrebbe, infatti, l’umana cupidigia (la morte di cui si parla nella Commedia: «Non vedi tu la morte che ‘l combatte?», Inf. II, 107), “nisi homines tanquam equi, sua bestialitate vagantes, in camo et freno compescerentur in via”. Virtù, che non è ancora quella di Leon Battista Alberti e del Machiavelli, ma vi accenna da lungi, e ci fa apparire Dante, all’estremo limite del Medio Evo, un precursore dei tempi che verranno.
VI.
In questa dottrina dell’umana virtù da svegliare affinché s’indirizzi al suo fine, e la cui radice è nella stessa umana natura, la filosofia della Commedia si rovescia. Virgilio non ha più bisogno di Beatrice; anzi questa ha bisogno di Virgilio. Giacché nel Poema c’è Virgilio, che sta tra «color che son sospesi», e non si moverebbe senz’esser chiamato dalla donna beata e bella; ma c’è pure Dante, il discepolo di Virgilio, che se n’è appropriata l’arte; il quale fa muovere Beatrice dal cielo per scendere fino all’inferno: e con quella ragione umana che si spiega nella filosofia (“per philosophos tota innotuit”) detta leggi alla teologia, mettendo in bocca ai teologi quel che occorre alla rinnovazione della loro Chiesa e alla restaurazione universale del mondo umano. Sì, essi posseggono la verità; e l’insegnano; ma sappiamo che quella verità è un momento di una verità superiore, parte di un sistema, a cui devono servire, e che ha il suo primo principio dentro alla volontà dell’uomo artefice del proprio destino. Senza questa veduta superiore, che della filosofia di Virgilio, della teologia di Beatrice, e di ogni verità professata nelle «scuole de’ religiosi» e discussa nelle «disputazioni de’ filosofanti» fa strumento, e non più che semplice strumento, della dottrina sua, Dante sarebbe il filosofo o il teologo, come tanti altri: non sarebbe quel che egli vuol essere, il poeta-profeta, che, semplice laico, non teme di giudicare la Chiesa e di fulminare dall’alto dei cieli creati dalla sua fantasia la condanna contro capi indegni di quella.
Dante può ripetere, alla meglio o alla peggio, quel che i teologi insegnano di grazia e libero arbitrio. Ma il suo pensiero, animatore del Poema, di questa cosa seria che egli intende di fare poetando non per i poeti, ma per gli uomini, se lo volete sapere, è quello che egli enuncia vibrante, sicuro come la fede che lo sostiene nella sua vita di apostolo, per bocca di Marco Lombardo:
Lume v’è dato a bene ed a malizia E libero voler; che, se fatica Nelle prime battaglie col ciel dura, Poi vince tutto … Però, se il mondo presente disvia, In voi è la cagione, in voi si cheggia. … la mala condotta È la cagion che il mondo ha fatto reo, E non natura che in voi sia corrotta. (Purg. XVI, 75-78, 82-83, 103-105) |
Che è quasi un’eresia, e a ogni modo contraddice a tutta la filosofia che Dante aveva appresa nelle scuole: non solo a quella prettamente intellettualistica, e però naturalistica, degli antichi; ma a quella altresì che, malgrado la nuova intuizione vitale del cristianesimo, ispirata dal concetto dell’amore e orientata perciò, come s’è accennato, verso la concezione spiritualistica del mondo, s’era tuttavia nella sistemazione aristotelica della scolastica congiunta strettamente all’intellettualismo greco, adottandone ed esagerandone la logica e comprimendo quindi la stessa realtà spirituale dentro i rigidi schemi del vecchio naturalismo. Anche per la scolastica, infatti, l’oggetto supremo, l’Assoluto a cui l’uomo aspira, è fuori di lui. L’unità della natura umana e divina non è originaria come germe che possa liberamente, spontaneamente svolgersi: è da instaurare, movendo da un dualismo originario, di cui lo spirito umano è un termine solo; e un termine che, restando fuori dell’Assoluto, è nulla; laddove l’altro è sì anch’esso un termine, ma un termine che è tutto. Sicché Virgilio, simbolo di quella ragione che, al dire di Dante, basta all’acquisto della terrena felicità “quæ per terrestrem Paradisum figuratur” (Mon., III, 16), in effetti, a tenore di quella filosofia sulla cui trama è intessuta la visione dantesca, dalla selva selvaggia al terrestre Paradiso, non condurrebbe Dante senza un divino cenno arrecatogli da Beatrice. E Dante perciò senza questo superiore intervento resterebbe abbandonato alla sua «morte»: l’uomo per sé sarebbe nulla, né varrebbe nulla.
Per Dante invece, per la filosofia che forma la sua personalità poetica, e il centro da cui s’irraggiano tutte le passioni avvitatrici del vasto mondo del Poema, l’intellettualistico concetto dell’essere è solo un elemento di un concetto più profondo, più veramente cristiano, più moderno: del concetto, che lo spirito umano non ha fuori di sé, già attuato, il suo mondo; ma deve produrlo egli stesso, faticando, durando nelle battaglie, con cui è destinato a vincer tutto. Questo concetto, questa fede di Dante è il rovente crogiuolo, in cui egli fonde l’immane materia accolta dalla vita e dalla storia universale nella sua vasta fantasia, per foggiarne la profezia (3), con cui egli non colpisce soltanto l’immaginazione, ma scuote e scoterà sempre i cuori degli uomini, per animarli alla vita.
1921
_______________
(1) Vedi il Proemio da me premesso alle “Operette morali” del L., Bologna, Zanichelli, 1918. (Poi riprodotto nel vol. “Manzoni e Leopardi”, Milano 1928; 2ª ed., Firenze 1960, pp. 103-57).
(2) Cfr. i miei “Problemi della Scolastica”, 2ª ed., Bari, Laterza, 1923.
(3) Per questo concetto della profezia come forma propria del pensiero e dell’arte dantesca mi sia consentito di rinviare alla precedente lettura “La profezia di Dante”.
IL CONCETTO DI CULTURA
Il tema della “cultura” appare centrale in Gentile, che soprattutto di essa fu un “organizzatore” sulla scena italiana; è necessario però esaminarne l’evoluzione in rapporto ai temi portanti del suo pensiero, senza considerarla una semplice conseguenza della sua adesione al fascismo. La prima espressione della convinzione di Gentile secondo cui “la cultura è l’uomo” si trova negli articoli con i quali da giovane collaborò alla rivista “Helios”. In essi s’interessa soprattutto della cultura popolare e delle sue radici regionali, e pur assumendo un concetto aristocratico di cultura come humanitas, ne propone una visione poliedrica che accoglie tutte le manifestazioni popolari e la rende autonoma dalle contingenze del momento. Il nesso tra cultura ed educazione viene messo in luce soprattutto all’indomani della Prima Guerra Mondiale, quando Gentile sottolinea la necessità di amalgamare in una sintesi superiore le diverse culture regionali in modo da creare una coscienza nazionale. L’adesione al fascismo è per Gentile uno sbocco quasi naturale ed è premessa per una maggiore sottolineatura dei nessi tra politica e cultura: quest’ultima deve ora diventare criterio dell’azione, e lo stesso fascismo viene vagheggiato come un promotore di cultura nel quadro dell’adesione ala nozione idealistica di “Stato etico”. Il contenuto della nuova cultura viene così esteso a tutte le componenti della civiltà, proponendo una visione totalitaria che tuttavia era anche in grado di integrare le nuove esigenze della formazione tecnica e scientifica.
” Che cos’è la cultura? Per tentare un primo orientamento possiamo dire che della cultura si possono avere due concetti: l’uno obiettivo, l’altro soggettivo. Il nostro è quest’ultimo […]. Come la verità noi la cultura la cerchiamo dentro l’uomo: diciamo anzi che la cultura è l’uomo. ” (Stato e cultura).
Questa non è che una delle definizioni di cultura che possono ricavarsi dagli scritti di Giovanni Gentile, ma essa riesce forse, più di altre, a sintetizzare in poche parole l’essenza che il filosofo dell’Atto intese attribuire a tale concetto. Affrontare il tema del concetto di cultura in Gentile, volendolo intendere come un concetto a sé stante, autonomo all’interno del suo sistema di pensiero, espone però al rischio su due fronti: il primo è quello di scrivere di un argomento così vasto da rendere inevitabile lo scadere nel già detto e sentito, nonché nel generico e nell’incompleto; il secondo è quello di dovere affrontare, appunto, un argomento così vasto da non poterlo suffragare con altrettante valide argomentazioni di sostegno alle tesi eventualmente esposte; giacché tutta l’opera del filosofo dell’attualismo è un’opera di cultura per eccellenza. Come ha ricordato E. Garin, Gentile fu molte cose ma soprattutto un “organizzatore di cultura” e la sua attività in questo senso fece sì “che le sue parole ed i suoi scritti pesassero non poco nella formazione culturale delle nuove generazioni, raggiunte […] sia direttamente che attraverso l’opera di educatori e studiosi […] che a lui si rifecero”. D’altro canto, anche di fronte alle periodiche “riscoperte” di Gentile, appare necessario compiere un’operazione di ridefinizione e nuova analisi del significato del suo pensiero, all’interno del quale il concetto di cultura venga considerato come un quid autonomo, che non “segue” ma “precede” la sua riflessione politica, filosofica e pedagogica; un qualcosa che muove, attraversa e conclude tutto il sistema gentiliano, dando luogo ad una serie di binomi che accompagnano e contraddistinguono quello stesso pensiero: binomi come cultura/Stato, cultura/scuola, cultura/scienza, cultura/politica, cultura/tradizione, cultura/fascismo, cultura/Risorgimento, cultura/formazione, cultura/etica. Ognuno di questi dualismi ha nel suo primo termine non soltanto un elemento di confronto ma anche qualcosa che lo esplicita fino a farlo diventare un cardine caratterizzante della riflessione gentiliana. L’argomento riguarda però da vicino anche il tema dell’interpretazione complessiva da dare della figura di Gentile e delle sue scelte di vita, in particolare l’adesione al fascismo con tutto quello che ne conseguì, comprese le polemiche ideologiche che da sempre hanno accompagnato lo studio del suo pensiero e delle sue opere; scelte e polemiche che lo accomunano in qualche modo al tedesco Heidegger. L’atteggiamento più facile, ma anche più miope, di fronte al “problema Gentile” è stato finora quello di difendere o di rifiutare a priori tutta la sua opera; bisognerà invece, forse, spiegare in modo più fruttuoso “quale rapporto sussista tra le sue scelte politiche, da un lato, e le intuizioni con cui […] ha illuminato il pensiero del nostro secolo dall’altro. E ancora: perché di fronte al volto demoniaco del potere la […] vigilanza critica […] venne meno”. Cercando di riassumere le varie tappe dell’attività di Gentile, M. Di Lalla ha parlato di una “polarizzazione” del suo messaggio nel contesto della cultura italiana individuando quattro periodi fondamentali: “Il primo periodo è quello del primo quindicennio del Novecento; il Filosofo è considerato come l’intellettuale più autorevole e indicativo di uno stuolo di studiosi maggiori e minori, che hanno al centro del loro dibattito il problema pedagogico […]. Il secondo periodo […] è già più delicato e più contestato. È il periodo che va dal 1915 al 1925 […]. La polemica sull’intervento, il contegno che gli uomini di cultura hanno avuto durante la guerra, le responsabilità che nel dopoguerra, di fronte all’avvento del fascismo, hanno finito per coinvolgere anche gli studiosi più restii, tutti questi elementi hanno avuto un ruolo fondamentale nell’itinerario di Giovanni Gentile […]. Il terzo momento, quello degli anni Trenta, accentua la posizione di centralità di Gentile nella cultura […]. Ma la divisione degli intellettuali soprattutto di matrice idealistica nel diverso modo di concepire l’impegno è oramai cosa fatta […]. Il quarto momento […] è il decennio che va dal 1930 al 1940 […]; la polemica tra Gentile, gentiliani e le varie forme consacrate della politica è un fatto inevitabile. ” Anche sulla base di questo itinerario è possibile ricostruire, almeno a grandi linee, un percorso nella interpretazione che Gentile dà della cultura e del suo significato non solo come strumento di formazione, ma anche come elemento fondamentale e caratterizzante l’essere umano e la sua realtà. 2. Tra cultura popolare, tradizione, folklore È l’autunno del 1895 quando a Castelvetrano, terra natale di Gentile, viene stampato il primo numero di una pubblicazione che dovrà avere una parte non marginale, seppur minima dal punto di vista della durata temporale, nel percorso culturale del giovane studente alla Normale di Pisa: si tratta di “Helios”, rivista d’arte, lettere e varietà, con la quale Gentile comincia a collaborare fin dai primi numeri fornendo articoli e contributi che sono importanti ed utili al fine di tracciare alcune linee guida nella formazione del suo concetto di cultura. Intanto la propensione del filosofo per una cultura che sia caratterizzata da “lunghe e pazienti ricerche, fatte con vero disinteresse e per solo vantaggio della storia”. “Helios” è per Gentile l’occasione per un primo, ufficiale confronto-scontro con la pubblicistica del tempo, ma anche occasione di formazione per lo studioso che è tra i suoi più assidui collaboratori con ampi articoli firmati o con dense notizie bibliografiche, siglate o anonime: cercando di mettere la cultura locale in contatto con quella nazionale, propone le tematiche dibattute nell’ambiente universitario e valorizza quegli studi folklorici che, unici, avevano permesso alla Sicilia di superare i limiti regionali della sua cultura. Sono interventi “minori” — negli stessi anni egli pubblica il lavoro su Rosmini e Gioberti e gli studi su Marx –, ma hanno il pregio di essere affidati, nel periodo tormentato della crisi di fine secolo, alle pagine di una Rivista non accademica in cui la vena critica e pedagogica di Gentile è più libera di esprimersi, rivelando alcuni tratti della sua biografia intellettuale e del suo orientamento politico. “Helios” è, inoltre, uno dei rari luoghi in cui “è possibile rintracciare direttamente, prima della Grande Guerra, le sue convinzioni politiche maturate nell’ambiente pisano”. Nel periodo preso in esame Gentile ha occasione di confrontarsi e scontrarsi, anche se indirettamente, con figure come quelle di Napoleone Colajanni e Felice Cavalotti e di conseguenza con la parte più viva del pensiero positivista e socialista in genere. Ma l’attenzione maggiore va forse puntata sui temi che egli sembra privilegiare nella “sua” rivista: perché accanto alle note ed ai contributi di critica letteraria, ai commenti su personaggi e fatti dell’attualità culturale siciliana e non, Gentile si occupa anche della cultura popolare intesa come tradizione, leggende, dialetti, folklore, e più in generale di quella demopsicologia come scienza degli usi popolari, che proprio in quegli anni andava sviluppandosi, ad opera di studiosi come Giuseppe Pitrè, Salvatore Salomone Marino, Gaetano Amalfi, Stanislao Prato, tutti nomi che si ritrovano sulle pagine di “Helios” e con i quali Gentile si confronta, anche criticamente, ma mostrando comunque interesse ed attenzione per i “riflessi civili delle loro ricerche e delle loro materie”. In “Helios” si ritrova la radice della concezione di cultura in Gentile, di una cultura intesa a tutto campo come trasmissione e formazione integrale dell’uomo a partire innanzitutto dalle proprie origini che sono poi la base della formazione umana.11 Egli apprezza e promuove per questo quelle figure, anche di suoi concittadini, i quali hanno dedicato la loro vita a ricostruire il passato, mostrando attenzione per tutti quegli studi e quelle ricerche che, pur non avendo un fine immediatamente utilitaristico, erano di aiuto alla storia e alla conoscenza delle proprie origini e del proprio Io. Commemorando la figura di R. Bonghi nel 1895, Gentile ne approfitta, ad esempio, per richiamare ancora una volta l’impostazione di una cultura unitaria quale base della forza e della grandezza di una nazione: ” Il tempo dei nostri padri e il nostro è stato ed è tutto un periodo di transizione per l’Italia, che si è andata ricostituendo nella forma e prosegue sempre a farsi nella sostanza: periodo, che per il suo carattere stesso ha destato nelle menti più vigorose il vitale bisogno della scienza e delle lettere, le quali, consapevoli o inconsce, si sono addossate il carico di dare al nuovo Stato libero gli uomini liberi, che ne fossero degni. E i più generosi e i meglio dotati da natura non si sono contentati del movimento politico o del morale o intellettuale; ma solleciti dell’avvenire, a tutto han voluto dar mano, e fra i torbidi della vita, non han saputo smettere giammai il pensiero degli studi “. L’ideale di cultura che emerge dalle pagine di “Helios” è molto più complesso di quanto non appaia ad una prima analisi, ed in questo senso il periodico di Castelvetrano può essere anche la chiave di interpretazione del concetto di cultura in Gentile: se da una parte, infatti, questa è intesa come paideia o humanitas e quindi, secondo l’accezione classica, in senso aristocratico, come lo strumento che contraddistingue l’uomo libero e scevro dall’attività pratica, dall’altro la cultura include in sé una serie di accezioni che la rendono “poliedrica” e non riassumibile in un solo significato: l’aristocraticità della cultura gentiliana, così come è stata presentata anche da più di qualcuno dei suoi studiosi, non è un qualcosa che tende a isolare, ad emarginare, a dividere tra colti ed incolti, ma è qualcosa che serve a proteggere e purificare tale concetto dalle contaminazioni e dalle contingenze del momento o peggio ancora dalla convenienza e dall’opportunità politica ed ideologica. Ecco allora che la cultura gentiliana diventa le “culture”; non solo quelle regionali italiane ma anche le tradizioni, le leggende, i dialetti che oggi come ieri hanno caratterizzato le tanti parti del “villaggio” umano. Da qui muove anche l’interesse di Gentile per i veicoli di trasmissione e discussione culturale, quali appunto sono le Riviste in genere. In “Helios” viene maturando, dunque, quella idea di cultura policentrica che vede come risultato la valorizzazione della filosofia, della letteratura, della storia, della politica come componenti diversificate di una nuova visione del rapporto tra storia e filosofia, tra idealità e realtà, tra universale e particolare; è un passaggio importante attraverso il quale Gentile maturerà la consapevolezza di un rapporto inscindibile tra cultura e Stato, tra formazione umana e identità nazionale. Una consapevolezza che caratterizzerà il periodo precedente e seguente la prima Guerra mondiale per approdare poi all’incontro con il fascismo. Il dibattito interventisti-neutralisti e la Grande Guerra rafforzeranno così quel concetto “militante” di cultura che fin dalla giovinezza Gentile era venuto maturando, accentuando ancora di più il binomio cultura/politica, cultura/formazione che si risolverà a sua volta nella definitiva accettazione della teoria dello Stato etico. ” Lavoriamo, vogliamo lavorare per noi e per gli altri […], facendo il nostro mestiere di operai del sapere, compiendo così anche il nostro dovere di cittadini e di uomini ” (Proemio, in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, a. I, gennaio 1920). Con queste parole, scritte nell’ottobre del ’19, Gentile aveva concluso il Proemio di presentazione di quella che doveva essere una delle creature più preziose della sua attività culturale: il “Giornale Critico della Filosofia Italiana”. Siamo all’indomani della conclusione del primo conflitto mondiale e nella sua riflessione sono già stabilizzati alcuni punti fondamentali. Intanto la necessità di una riforma dell’istruzione che consacri definitivamente la scuola e in essa l’insegnamento della cultura filosofica, come strumento di realizzazione di un piano per l’educazione nazionale che era già stato a suo tempo oggetto di discussione nel Paese;19 in secondo luogo la priorità della esigenza di dovere fare della riflessione filosofica uno strumento concreto per la realizzazione di una coscienza nazionale unitaria, così da reinserire l’Italia nel novero di quelle Nazioni degne di chiamarsi tali, portando a compimento nel frattempo l’opera iniziata dagli uomini del nostro Risorgimento senza disperdere la vittoria appena conseguita a Vittorio Veneto. Si tratta, per Gentile, di amalgamare fino a fonderle insieme le singole culture regionali, le quali da sole non avrebbero nessun valore né filosofico, né storico. Era un concetto che egli aveva continuamente espresso in quegli anni, in particolare nel lavoro, considerato riassuntivo della sua riflessione su questo tema, dedicato alla cultura della sua terra natia: il carattere regionale della cultura siciliana era infatti per lui dovuto al fatto che ” nascendo essa dal ripiegarsi dell’anima siciliana, su di sé medesima, nel rispecchiare il proprio passato, dove era la sua storica individualità di fronte alle altre regioni d’Italia, doveva esser condotta fino allo studio delle tradizioni popolari […] e fermarvisi […]. Giacché tutta la storia potrebbe tenersi in nessun conto e sarebbe infatti una semplice astrazione se non si concretasse e radicasse in un modo di sentire e di pensare e in un certo carattere popolare che era nel caso nostro la vera realtà siciliana da incorporare e fondere nell’Unità nazionale ” (Il tramonto della cultura siciliana). Veniva rafforzandosi così, attraverso la riflessione tra cultura locale e quella nazionale, la componente di “attivismo” pedagogico che caratterizza tutta la filosofia gentiliana e che diventa un tutt’uno con la sua idea di cultura come formazione e quindi come insegnamento. È stato notato, a tal proposito, che “è essenziale cogliere il nesso della filosofia con la scuola gentiliana, perché molte delle modalità di insegnamento della filosofia sono derivate dal concetto di cultura sotteso alla scuola stessa e al ruolo a questa assegnato in rapporto alla società”. La formulazione o per meglio dire l’accettazione definitiva, in onore ad Hegel, del concetto di Stato etico passa evidentemente per tutte le tematiche sin quì descritte e si pone come punto di raccordo per esse; una strada che partiva dunque da lontano se si considera il fatto che da parte sua Gentile, fin dal 1902, assegnando allo Stato il compito dell’emancipazione morale e civile dei cittadini, indicava la via degli studi scientifici che chiamava “disinteressati” in quanto non direttamente finalizzati a qualsivoglia professionalità. Certo, a Gentile stava a cuore soprattutto la formazione di quelle élites capaci di assicurare continuità allo Stato liberale e borghese; per il filosofo siciliano si trattava, pur sempre, di contrastare la richiesta di una società democratica, volta alla massificazione della cultura e a cui “bisognano gli automi dell’industria e le volpi del commercio; le pecorelle dei partiti politici e della chiesa e i famelici lupi delle amministrazioni e delle sacre gerarchie, tutt’al più qualche topo erudito da biblioteca e qualche ragno faticone intento a tessere e ritessere le penelopee tele sociologiche”. Ma è pur vero che a distanza di quasi vent’anni, Gentile, insistendo sulla funzione emancipatrice dello Stato, fondata sullo “sviluppo autonomo della scienza”, ancora una volta evidenzia un modello pedagogico, peraltro operante in tutta la sua produzione scientifica, di tipo “politico e sociale, rivolto alla costruzione della coscienza nazionale e che vede nel risveglio della vita spirituale e nella scuola come agenzia delegata a realizzare tale risveglio gli strumenti fondamentali ed insostituibili della rinascita collettiva”. È il tema dell’educazione nazionale che caratterizza l’interesse gentiliano, tanto più in un’ora come quella presente nella quale l’esigenza di una cultura “nazionale” sembra essere più che mai urgente, sia per ricostruire il Paese che per non farlo mancare ad un appuntamento di trasformazione e di rinnovamento che per il filosofo siciliano è oramai irrinunciabile. Anche per la sua terra vede una luce di speranza se “negli ultimi anni i giovani scrittori siciliani si sono venuti affrancando da quello spirito regionalista per aprirsi alla cultura nazionale […]. Chi fa storia regionale si confonde con l’oggetto stesso che vuole ritrarre; e invece di spiegare i fatti diventa egli stesso una parte di questi”. La Grande Guerra rappresenta all’interno del pensiero di Gentile un ulteriore punto di svolta che lo porta a rielaborare e a chiarire ulteriormente le forme e i contenuti del suo concetto di cultura; e riflettendo proprio sul significato dell’evento bellico scrive che “il problema della guerra era un problema superiore alla guerra stessa, e tale da impegnare tutto l’avvenire della vita italiana […]; il bisogno di non guardare al passato […] ma di rivolgere piuttosto lo sguardo all’avvenire, all’ideale, alla meta […]. Problema politico che è problema morale”. Su questa strada, quella serie di binomi di cui abbiamo parlato all’inizio si fondono tra loro, giungendo alla constatazione che il problema della cultura è anche e soprattutto un problema dello Spirito e quindi dell’educazione; di conseguenza non questione di forma ma di sostanza. L’esperienza della Guerra è stata dunque l’atto concreto che ha trasformato le riflessioni teoriche del periodo precedente in un decalogo di azioni da intraprendere per portare a termine l’opera del Risorgimento, far iniziare un nuovo periodo della storia italiana e creare quella salda coscienza nazionale necessaria premessa per fare della Nazione uno Stato; opera questa che non si realizza se non attraverso una convinta azione educativa, che deve avere al suo centro soprattutto la cultura umanistica, giacché, come aveva ricordato un decennio prima, ” all’uomo è essenziale la coscienza dell’esser suo, quale la cultura umanistica può darla. E poiché gli è essenziale, questa coscienza è condizione, questa cultura è preparazione così alla vita come alla scienza: così al mondo delle relazioni civili e politiche come all’umbratile speculazione delle università. Senza siffatta coscienza non c’è moralità vera, intelligente, non c’è economia sagace, non c’è politica chiaroveggente; come non c’è la scienza […]; la cultura che si richiede non può essere altro che educazione dello spirito ” (La riforma della scuola media). Il coniugarsi dell’elemento pedagogico-educativo, primario nella riflessione gentiliana, con la sua propensione ad un “nazionalismo culturale” come elemento necessario alla costruzione di una nuova Italia finisce per rafforzare, in una ben determinata direzione, anche la sua visione politica, diventando il motore di quello che egli vedrà come uno sbocco quasi naturale, anche della sua esperienza e della sua azione culturale: l’adesione al fascismo. In quest’ottica, la stessa critica al concetto di democrazia, propria del Gentile di questi anni, si ricollega alla critica del concetto di cultura così come la stessa democrazia lo propone, “al suo materialismo plebeo, a quello della scienza naturalistica e positivistica, dell’industrialismo, del socialismo, del cosmopolitismo, del femminismo”. Il tema dell’unità tra politica e cultura non era del resto nuovo nell’impianto speculativo di Gentile. “Quando il 14 maggio 1915 all’annuncio delle dimissioni di Salandra manifesta […] la propria angoscia perché noi “non siamo uno Stato” se non in apparenza […] Gentile esprime con formule più nette […] quella riflessione culturale sullo Stato e sulla Nazione che era iniziata, in coincidenza con la crisi di fine secolo e in rapporto a prese di posizione politica di segno conservatore, sulle orme di Bertrando Spaventa fin dal Rosmini e Gioberti in cui aveva sostenuto la necessità di dare forma nazionale a una cultura che fosse universale nel contenuto”.30 Ma a partire da questo momento il binomio politica/cultura assume un significato prioritario e ben più chiaramente determinante rispetto al passato; le premesse culturali diventano per lui inscindibili dal progetto politico; cominciava così con il ricordare che “la cultura è il centro del mondo che ci interessa, […] e per far politica l’uomo non ha altro mezzo che la cultura, intorno alla quale il mondo gira, si articola, si organizza. La civiltà che è il complesso in cui si viene dispiegando la potenza dell’uomo come trionfo della libertà, ossia dominio dello spirito nella natura, ha la sua base ed il suo principio nella natura: La cultura è svolgimento e formazione dello spirito, o dell’umanità dell’uomo […].” La cultura non poteva restare chiusa nei recessi dell’intelletto puro, ma doveva calarsi nella realtà, anzi era essa stessa realtà consapevole: era insomma criterio dell’azione. Sintomatica, da questo punto di vista, la polemica che egli conduce dalle pagine dei quotidiani sul finire del 1918, contro il concetto della Kultur di stampo tedesco e che si ricollega direttamente all’affermazione, ma si direbbe alla definitiva scoperta della sua scelta nazionalista, legata strettamente ad una visione etica dello Stato. Non è dunque possibile scindere l’uomo e quindi lo Stato dalla “sua” cultura che ne è l’espressione genuina e sincera e lo caratterizza: la cultura che fa l’uomo colto è la stessa infatti che “fa l’uomo […] giacché, è troppo chiaro, l’uomo è davvero uomo […] in quanto ha coscienza di essere, e però di esistere e di agire”. Negli anni Venti e Trenta, con la sua adesione al fascismo, Gentile sembra dunque esplicitare e mettere in pratica quello che era un ideale di cultura meditato e maturato nel periodo precedente. In particolare nel 1925, la nascita dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura e l’avvio del lavoro per la realizzazione del progetto dell’Enciclopedia Italiana rappresentano ai suoi occhi l’occasione propizia per concretizzare proprio quell’ideale di cultura. Questo è sicuramente un momento di rivelazione di alcuni “equivoci giovanili” (la rottura del rapporto con Croce proprio di quel periodo è un evento traumatico e indicativo) ma anche l’occasione per crearne dei nuovi (e la vicenda dei rapporti travagliati, per non dire confusi ed equivoci, di Gentile con il fascismo ne sono una testimonianza). Si dovrebbe forse partire, in questo senso, da un nodo della questione che egli stesso sente come irrisolto e che viene esplicitato in occasione di un discorso tenuto a Bologna nel marzo del ’25 in cui dichiara che “non bisogna che ci preoccupiamo tanto della cultura del fascismo quanto piuttosto del fascismo della cultura […]. Noi fascisti […] non vogliamo lo Stato agnostico e perciò vogliamo lo Stato educatore ed insegnante”. E conclude affermando che bisogna portare “non la cultura nel fascismo bensì il fascismo nella cultura”. Puntuale appare a questo proposito l’affermazione di Turi, secondo il quale “lo stesso appello al “fascismo della cultura”, a un fascismo che si confonda con la nazione e non si identifichi con i tesserati, è frutto di una visione culturale e politica solo apparentemente duttile, talvolta scambiata per tale solo perché non si identifica con quella di altri esponenti del fascismo. È quindi naturale che la politica di “conciliazione” condotta da Gentile in questo campo tra il 1925 ed il 1926 registri, assieme ad un notevole successo, alcune resistenze fra gli intellettuali che avevano subito e continuavano a subire, il suo fascino, e nel circolo dei suoi stessi allievi, e produca quindi i primi distacchi”. La questione viene affrontata direttamente da Gentile nel discorso di inaugurazione dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura il 19 dicembre 1925, con riferimento alla vicenda dei Manifesti:
” I giornali liberali e democratici come era stato preveduto, fecero coro, plaudendo clamorosamente all’antimanifesto pettegolo e stizzoso, e proclamando con quella loro proverbiale sincerità l’antitesi tra fascismo e cultura […]. Tante volte si è detto che la dottrina del fascismo è nella sua azione. Non è un’ideologia, non è un sistema chiuso, non è neanche veramente un programma […]. La parola del fascista è fatto […]. La cultura non è contenuto, ma forma: non è una certa quantità di istruzione concentrata o diffusa, ma potenza spirituale; non è materia ma stile; […] esiste una cultura strumentale che è mero sapere, organizzazione di cognizioni bene accertate, critica, erudizione, dottrina […]. Noi del fascismo […] abbiamo raggiunto quella piena libertà di spirito, con cui possiamo spogliarci di certe passioni della prima ora, e riconoscere pertanto il valore nazionale di certe forme di cultura ” (Politica e cultura).
Gli anni Trenta sono sicuramente un altro spartiacque da tenere presente nella concezione culturale di Gentile; il Concordato, i nuovi rapporti Stato-Chiesa, ma anche i temi derivanti dalla nuova discussione sul nazionalismo e sulla razza che sfoceranno nelle leggi del 1938, rappresentano delle forti “deviazioni” della sua impostazione e mettono a dura prova la sua stessa capacità di “mediatore culturale”. Il risultato è una perdita di posizioni sia verso il sistema politico di riferimento, sia verso quel mondo intellettuale che, avverso o insofferente nei confronti del fascismo, cercava ancora in Gentile un punto di riferimento. Significativo di un certo malessere del Filosofo ma anche di un suo smarrimento quanto scrive nel ’36:
” La cultura è il centro, vorrei dire l’essenziale di questa vita in cui lo spirito immortale viene realizzando il suo mondo: questo mondo civile che che è scienza ed arte, ed è società etica e Stato […]. La civiltà che è il complesso delle forme in cui si viene dispiegando la potenza dell’uomo come trionfo della libertà ossia dominio dello spirito sulla natura, ha la sua base ed il suo principio nella cultura […]. I popoli selvaggi o incivili che non hanno storia perché non progrediscono […] sono i popoli in cui l’umanità rimane come rattrappita e chiusa nel guscio primitivo di una coscienza […] non formata nella cultura […]. Progresso è sinonimo di pensiero e di cultura […]. La cultura è formazione e svolgimento dello spirito, ossia della umanità dell’uomo […]. L’ideale della cultura oggi, per noi, è quello della cultura formatrice dell’uomo […], poiché la vita dell’Italia è pur la vita dell’Europa e cioè del mondo, e la nostra cultura non è grettamente razzistica né angustamente, cioè geograficamente mediterranea, ma intelligentemente universale ed umana. ” (L’ideale della cultura e l’Italia presente)
Che nel programma culturale gentiliano vi fossero già una componente nazionalistica e conservatrice è cosa, ci sembra, fuori dubbio; quello che dovrebbe rappresentare un elemento di problematizzazione della sua storia di intellettuale è invece capire fino a che punto queste componenti siano state consapevolmente rafforzate dalla sua adesione al fascismo e dalla condivisione piena e convinta degli ideali di quest’ultimo e quanto invece siano da considerarsi peculiari del suo pensiero e quindi da interpretarsi e analizzarsi in modo indipendente da quella scelta politica. Quello che è certo, e questo può essere considerato un ulteriore elemento di discussione, è che nel Gentile “fascista” fu viva l’esigenza di trovare un punto di incontro tra il suo concetto di cultura ed il movimento politico a cui si era legato: la creazione dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura rappresentava in questo senso un valido strumento di azione, affinché lo stesso PNF si facesse assertore convinto “della sua fede nella cultura […] che stimolasse le energie intellettuali a non rinchiudersi in astratte speculazioni remote da ogni azione sulla vita nazionale, economica, morale e politica, anzi tutte le rivolgesse a illuminare e formare la coscienza della nuova Italia che i fascisti vagheggiano, fiera del suo passato glorioso ed insieme possente per rinnovato fervore di lavoro e di pensiero nella disciplina dello Stato consapevole degli alti destini nazionali”. Anche sul piano politico, l’impostazione teoretica di Gentile riguardo al problema della cultura sembrava dunque trovare nel fascismo un elemento con cui interagire, corregendolo e depurandolo, per realizzare e affermare quel suo programma politico-filosofico inteso come un sistema di idee che rappresentassero la nuova linfa vitale della Nazione. In questo senso “cultura è universalità, o se si vuole, umanità […]. Dire educazione fascista è […] dire educazione nazionale; con questa avvertenza, che […] la nazione non è un dato naturale ma un processo storico”. Secondo Gentile l’educazione non può non essere politica, soprattutto quella fascista; giacché l’educazione politica ” deriva ed attinge le sue energie da una mentalità già spoglia di ogni concezione individualistica e astrattamente universalistica della vita […]. Questo è ideale di cultura […]. Ma è l’ideale di una cultura che ha la sua radice nella rinnovata coscienza politica e si protende verso la nuova politica italiana. Arte, storia, letteratura, scienza, scuola e istituzioni giuridiche, vita morale e religiosa, preparazione militare, movimento sociale, finanziario, economico, sono elementi diversi ma tutti essenziali al contenuto della nuova cultura “. In queste parole sembra sintetizzato ante litteram quel concetto di cultura, totalizzante e totalitario, che il fascismo si occuperà di attuare, proprio mentre, però, il suo intellettuale più rappresentativo cominciava a perdere posizioni all’interno di quello stesso sistema. Nel 1930, ancora di fronte al pubblico dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura di Roma, egli esprimeva una posizione che sembra essere un ulteriore tentativo di pacificare le diverse e precedenti componenti politico-filosofiche del pensiero gentiliano sull’argomento con la nuova realtà politica: in quell’occasione parla di una cultura “animata da un pensiero politico, in quanto c’è un pensiero politico attuale che deve essere meditato, chiarito, svolto,fecondato nelle menti, difeso dalle critiche degli avversari, cimentato con le opposte e divergenti dottrine; un pensiero che consiste innanzitutto in un certo orientamento e atteggiamento dello spirito, in una certa fede, in una certa passione, che è e deve essere l’anima di tutta la concezione della vita del nostro tempo e quindi di tutta la nostra cultura”. I temi della tradizione, della Nazione e della sua educazione, della storia patria, vengono in questa occasione fatti confluire tutti in una dimensione politica, nell’ottica del nuovo Stato etico, il quale “così concepito può essere un principio unificatore di tutta la cultura”. Quasi a chiudere un percorso aperto con gli studi giovanili, nel 1943 arriva l’opera ultima di Gentile, Genesi e struttura della società, opera che, come per altre tematiche del suo pensiero, rappresenta un punto di riflessione e di rielaborazione rispetto alle tesi svolte precedentemente; ma è al tempo stesso la realizzazione di quella sintesi, cui Gentile aveva alacremente lavorato, “tra l’impostazione attualistica e l’esperienza del fascismo; Gentile amplia il suo concetto di cultura che nel discorso del 1922 agli operai di Roma aveva identificato con quella umanistica, per includervi ora tutte le forme del lavoro manuale e tecnico imposte dallo sviluppo dell’industria”. Tuttavia, nonostante la nuova apertura, egli ribadisce che
” la cultura è sapere; ma non è sapere determinato, dommatico, informativo; è critica di ogni sapere che come sapere positivo s’accampi nell’uomo senza dimostrarglisi utile, necessario, costruttivo della sua vita e della sua personalità […]. C’è un sapere strumentale che l’uomo può acquistare e far suo; e può trascurare […]. In concreto non c’è istruzione per grama e gretta e materiale che sia, che non influisca sull’avviamento dello spirito, e non riesca, in qualche guisa, impegnativa del suo avvenire. Si può […] essere dotti e incolti. Sapere molto e non farne sangue, e non capire più dell’ignorante. La cultura è sapere che forma l’uomo schiarendo e allargando la coscienza che ogni uomo deve avere di sé, ed esercitando perciò la riflessione sul contenuto del suo pensiero […]. Tale la cultura a cui lo Stato mira in quanto esso stesso coscienza che l’uomo ha di sé e della sua via per cui tale coscienza si sviluppa. La quale cultura tutto abbraccia e nulla respinge, se il sapere si informa a questa coscienza di sé, che è l’unità e il centro di tutta la sfera del sapere “. (Genesi e struttura della società)
Ritorna e si rafforza, nonostante tutto, anche in questo ultimo scritto, quel concetto di cultura come strumento rigeneratore dell’uomo e dello Stato, che Gentile aveva maturato in gioventù e accettato organicamente dopo l’incontro con il fascismo, e che ribadirà, quasi come un testamento morale, in quella che sarà la sua ultima apparizione in pubblico nel 1943, in occasione del discorso pronunciato in Campidoglio, in cui i temi della tradizione italiana, dal Rinascimento al Risorgimento, i riferimenti ai padri della Patria, da Dante a Mazzini e Garibaldi, nonché l’accenno alla “sua Sicilia” e a Giuseppe Pitrè, sembrerebbero stare lì a rappresentare l’estremo tentativo di riaffermare la propria autonomia di uomo e di intellettuale, “giacché altro è la persona, altro l’idea che alla persona conferisce valore ed autorità”.
Teoria generale dello Spirito come atto puro
A cura di Edoardo Dallari
Nel 1916 Giovanni Gentile scrive la “Teoria generale dello Spirito come atto puro”, gettando le fondamenta del proprio pensiero, in cui confluiscono il pensiero hegeliano e il pensiero marxista riformati.
Il primo capitolo, intitolato la “Soggettività del reale”, si apre con un’analisi dell’idealismo di Berkeley, che già nel 1910 era stato fortemente criticato da Bertrand Russell, in “I problemi della filosofia”. Berkeley ha evidenziato come l’essere consista nel suo essere percepito (“esse est percipi”): i dati dei nostri sensi non possono esistere indipendentemente da noi e sono l’unicum di cui le nostre percezioni possono garantirci l’esistenza. Conoscere è percepire, e in quanto le uniche cose di cui possiamo avere conoscenza sono i dati sensibili che esistono solo nella misura in cui ne siamo coscienti, essere conosciuto significa essere nella mente, e venendo conosciuto il qualcosa è. “All’infuori delle menti e delle loro idee, dunque, nel mondo non esiste nulla e non è possibile conoscere nulla, poiché tutto ciò che si conosce è necessariamente un’idea”. In quanto le cose sono conosciute mentalmente esse sono anche di natura mentale. L’argomento principale adottato da Berkeley è che “non possiamo sapere se esiste qualcosa che non conosciamo”, “we cannot know that anything exists which we do not know”, e su questo si scatena la critica di Russell: bisogna distinguere i significati di due parole che sembrano sinonime, ma che in realtà non lo sono, che Berkeley mescola nell’utilizzo del verbo “to know”. Sapere è la conoscenza del vero, si riferisce alla conoscenza di verità dei giudizi, alla conoscenza per descrizione; conoscere “significa avere delle cose un’esperienza diretta”, con cui conosciamo i dati sensoriali. La conoscenza delle cose è la conoscenza per esperienza diretta (acquaintance). Secondo Russell è necessario distinguere tra “la cosa appresa e l’atto dell’apprendere”, momenti distinti e separati: la cosa non è mentale, è un oggetto concepito come mera presenza che il soggetto nell’atto apprensivo deve rispecchiare, adeguandosi ad essa. La conoscenza è una relazione fra la mente e ciò che è altro da essa.
Per Giovanni Gentile l’idealità del reale non è assolutamente da mettere in discussione. Il concetto di una sostanza materiale, corporea ed estesa è un concetto di per sé contraddittorio, siccome possiamo parlare solo di cose che percepiamo e che quindi sono oggetto di pensiero, idee. Berkeley ha il merito di avere mostrato “che la realtà non è pensabile se non in relazione con l’attività pensante per cui è pensabile; e in relazione con la quale non è solamente oggetto possibile, ma oggetto reale e attuale di conoscenza”. La critica gentiliana si muove nella direzione di una contraddizione interna al pensiero di Berkeley, che giunge a negare la stessa idealità del reale quando arriva a sostenere che la realtà non è oggetto del pensiero umano, bensì è “l’insieme delle rappresentazioni che corrispondono a una Mente oggettiva, assoluta, presupposto della stessa mente umana”. Poiché pare evidente che il pensiero umano non pensi tutto il pensabile, limitato da spazio e tempo, che possa esistere qualcosa che non è mai stata pensata e che ciò che ora non è oggetto del pensiero potrà esserlo in un altro momento, è lecito, dalla prospettiva di Berkeley, porre una distinzione tra il pensiero che pensa il mondo e un Pensiero assoluto, trascendente quello umano, che è Dio. “Dio pertanto è la condizione che rende possibile pensare il pensiero dell’uomo come esso stesso realtà, e la realtà come essa stessa pensiero”. Ma pensare il pensiero umano come condizionato dal pensiero divino significa affermare il Pensiero assoluto come presupposto del pensiero stesso, una realtà che non si sviluppa nel pensare: anche Dio deve essere oggetto del pensiero: affermarlo come presupposto significa escludere ciò che rende la realtà tale, cioè il pensiero, perché la realtà di Dio non è pensata ma presupposta. Il pensiero umano si trova in questo modo esautorato dalle sue competenze e trova davanti a sé un muro che egli non ha creato, che è reale indipendentemente dall’essere pensato. Secondo Gentile Berkeley ricade quindi in quel naturalismo che Russell sosteneva in opposizione all’idealismo, perché porrebbe una realtà esterna al pensiero, presupposta ad esso. In Berkeley il pensiero si annulla, “perché in tanto il pensiero pensa, in quanto quello che pensa è già pensato; in quanto il pensiero umano non è altro che un raggio del pensiero divino, e quindi niente di nuovo, niente di più del pensiero divino. (…) non solo non è realtà oggettiva, ma neppure realtà soggettiva. Se esso fosse qualche cosa di nuovo, il pensiero divino non sarebbe esso tutto il pensiero”. Il pensiero umano pensa ciò che è già stato pensato da Dio essendone una derivazione, da soggetto diventa oggetto: il suo idealismo è quindi un idealismo empirico.
Secondo Gentile bisogna abbandonare il punto di vista dell’io empirico e innalzarsi a quello della soggettività trascendentale, in cui il pensiero non si considera come atto compiuto, ma come atto in atto. “Atto che non si può assolutamente trascendere, poiché esso è la nostra stessa soggettività, cioè noi stessi; atto che non si può mai e in nessun modo oggettivare. Il nuovo punto di vista infatti a cui conviene collocarsi è questo dell’attualità dell’Io, per cui non è possibile mai che si concepisca l’Io come oggetto di se medesimo”. Gentile distingue tra pensiero astratto e pensiero concreto, che identifica con il pensare in atto: nulla esiste se non nell’atto che lo pensa, in cui viene pensato. “Lo spirito, si badi, non è mai propriamente quella pura attività teoretica che si immagina in opposizione all’attività pratica: non è mai θεορια, contemplazione della realtà, che non sia intanto azione, e però creazione di realtà.” Bisogna qui fare un passo indietro per vedere quali sono le basi su cui il pensiero di gentile si sviluppa: Hegel e Marx.
Nell’idealismo tedesco, in particolare quello hegeliano, l’oggetto è nella misura in cui è pensato dal soggetto. L’ente è nella misura in cui è un το λεγομενον, è posto in quanto mediato dall’attività del soggetto. La coscienza soggettiva media la realtà e la pone come tale. La realtà è sempre il nostro sapere della realtà: la coscienza nella certezza sensibile percepisce il mondo, l’oggetto, come qualcosa di indipendente dal soggetto pensante. Soggetto e oggetto sono percepiti come autonomi e irrelati e il soggetto si limita a render ragione dell’oggetto rispecchiandolo. Questo costrutto è destinato tuttavia a non durare perchè erroneo: soggetto e oggetto esistono sempre mediati: l’oggetto è nella misura in cui il soggetto sa di esso, è mediato dal soggetto. Possiamo infatti fare esperienza di un percepire sensibile che non sia anche qualcosa di più di un mero percepire? Nel momento in cui io so di sentire sono già oltre la dimensione passiva della sensibilità: io sono cosciente di essere cosciente, sono cosciente del fatto che è vero che sento. La coscienza del vero della percezione mi porta oltre la dimensione della percezione stessa, mi porta cioè nella dimensione dell’autocoscienza, in cui il soggetto è consapevole di essere costitutivo della percezione. L’oggetto è percepito da un soggetto che è cosciente di percepire l’oggetto stesso: al di fuori della coscienza non esiste nulla, il mondo è nella misura in cui è pensato, abbiamo sempre a che fare con dei pensati, mai con degli oggetti che ci stanno davanti come ostacoli.
Il sapere non è mai sapere puro, è sempre volontà di potenza come volontà di sapere, ovvero il sapere è il potere, un poter-fare. L’ente è proprio ciò che è saputo-fatto dalla coscienza. L’ente per la coscienza è ciò che sappiamo e facciamo, è un πραγμα, realizzato attraverso tutto il viaggio della coscienza, in cui tutti i momenti sono ricompresi nel risultato:i risultati vengono sempre ricollocati su piano superiori, mai dimenticati, ma sempre ricordati. Progressivamente la coscienza diviene sempre più universale, fino al sapere assoluto, absolutus, in cui la coscienza è absolta, sciolta dai legami con la propria individualità. Il sapere assoluto è un sapere della totalità dell’ente, che ricomprende in sé, nell’interezza del movimento processuale, le determinatezze oppositive riconciliate dallo Spirito, che le innalza, comprendendole in sé, non le nega, e anzi è consapevole di tutti i momenti che hanno portato al risultato. L’ente è ora saputo come πραγμα, come fatto creato dalla coscienza, non come puro dato irrelato alla coscienza medesima. La coscienza è giunta nel pensiero ad una forza, capacità, potenza, tale da potersi fare altro: l’ente, l’oggetto, è un prodotto della soggettività cosciente. Il soggetto si fa altro, pone l’oggetto e in esso si ritrova. Percepisce l’oggetto come proprio prodotto. Il soggetto diviene cosciente di sé nel proprio esser altro. Fichtianamente l’io deve porre un non io cui si contrappone per diventare cosciente di sé.
Il soggetto si riconosce nell’oggetto e dopo essersi fatto altro ritorna in sé arricchito. Noi quando percepiamo l’oggetto lo percepiamo sempre attraverso il nostro io e come contrapposto al nostro io: tutto ciò che è è altro dall’io, ma mediato dalla coscienza che si fa altro per riconoscersi come sé.
Per comprendere la riforma gentiliana della dialettica hegeliana è indispensabile vedere come gentile interpreti la filosofia di Marx. Gentile infatti ritrova in Marx una filosofia della prassi: è la prassi umana a produrre e modificare l’oggetto, il quale a sua volta viene a modificare anche il soggetto. Il mondo in Marx è sempre frutto della prassi, la realtà si vien formando tramite il fare, l’oggetto è sempre l’esito di un porre da parte del soggetto. La prassi è il modo in cui viene posto il rapporto soggetto-oggetto nel divenire. Anche la natura è opera dell’attività prassistica del soggetto, anche se l’errore di Marx secondo Gentile consiste proprio nel riconoscere il mondo come prodotto di un’azione e di ammettere una materia data sottratta a quell’azione.
Attraverso dunque una rielaborazione del pensiero di Marx e una riforma prassistica della dialettica di Hegel, Gentile dà vita alla propria posizione filosofica che egli chiama attualismo.
La prima differenziazione fondamentale è quella tra dialettica del pensiero pensato e dialettica del pensiero pensante. Secondo gentile da Platone a Hegel la tradizione filosofica ha compiuto un errore cruciale: ha inteso il pensiero come un oggetto e ha studiato le relazioni tra concetti come se fossero oggetti dati anziché intendere il pensiero il pensiero come atto. Le dialettiche del pensiero pensato pensano il mondo, che è pensiero, come statico, mentre la dialettica del pensare è la dialettica della vita, che pensa che il mondo esista sempre e solo nell’atto del pensare in atto che lo pone, è una dinamica sempre rigenerantesi.
La prima forma di dialettica è quella platonica, grazie a cui il filosofo può comprendere la totalità del reale, cogliendo le differenze tra gli enti ad armonizzandole tra loro al fine di giungere alla verità. “Dialettica infatti per Platone è la ricerca del filosofo, non già in quanto egli aspira alle idee, ma in quanto le idee, alla cui cognizione aspira, formano tra loro un sistema; sono cioè connesse tra loro da mutui rapporti in guisa che la cognizione del particolare sia cognizione dell’universale, la parte implichi il tutto, e la filosofia insomma sia una sinossi”. Ma questa capacità della filosofia dipende dai rapporti che le idee intrattengono tra di loro, non dalla capacità del pensiero umano. Il pensiero è già stato pensato ab aeterno nel sistema di rapporti con cui le idee sono legate tra di loro, il pensiero non si vien facendo pensando, ma è già tutto pensato. Il filosofo coglie sì l’universale archetipico nel particolare, comprende sì che l’ente è sintesi di essere e di non essere, che partecipa dell’identico e delle differenze, ma fa questo adeguandosi alle idee fisse ed immutabili che devono essere colte dal pensiero umano che intenda spiegare la realtà. “La dialettica platonica è solo un’apparente dialettica: perché essa è bensì sviluppo dell’unità attraverso la molteplicità, se si considera per rispetto alla mente dell’uomo che non possiede il sistema e aspira a possederlo, e ne viene indefinitamente realizzando l’unità dialettica mercè l’indagine sempre più larga dei rapporti onde sono tra loro connesse le idee. Ma poiché il valore di questa indagine presuppone la dialettica eterna immanente al mondo ideale, la verità dialettica, alla cui stregua è possibile concepire quella della mente, non è come si è detto, la dialettica della mente, bensì quella delle idee. La quali non realizzano l’unità ma sono unità; né realizzano la molteplicità, perché sono molteplicità: e né per un verso, né per l’altro hanno in sé alcun principio di mutazione e di movimento. Perciò la vera dialettica è quella che non è più tale”. La natura stessa in Platone è un presupposto del pensiero: la φυσις nessun dio la crea, è plasmazione della χωρα ad opera del demiurgo che imprime su di essa i rapporti tra le idee. Il pensiero, ritrovando nella natura gli archetipi ideali eterni, irrigidisce ipso facto la natura stessa: essa “s’irrigidisce ed impietra pel fatto stesso di essere oggetto del pensiero”.
Non solo Platone, ma anche Aristotele, pur considerando la natura come sinolo di materia e forma riuscì a sfuggire alla dialettica del pensato. Il divenire è l’evidenza suprema ed è passaggio dalla potenza all’atto; tuttavia in base al concetto dell’ex nihilo nihil l’atto è prioritario, ed essendo contraddittorio il regressus ad infinitum è necessario che esista l’Ente Sommo, l’atto puro, motore immobile che è causa efficiente del movimento in quanto causa finale. Dice Gentile “il mondo pensò mole animata da movimento eterno a recare in atto l’eterno pensiero. Ma anche per lui il pensiero pensa la natura come suo antecedente: quindi come realtà già realizzata che come tale si può pertanto definire, e idealizzare in un sistema di concetti fissi e immutabili”.
Lo stesso Hegel non ha pensato fino in fondo il divenire ed è rimasta legato ad una visione troppo oggettivista del reale, che pensa l’identità di essere e pensiero come se fosse statica. Non ha colto che questa identità è un atto, non un risultato compiuto. Il massimo merito di Hegel secondo Gentile è stato quello di aver posto un Λογος a fondamento di tutto il reale, ma separando “l’intelletto che concepisce le cose dalla ragione che concepisce lo spirito”, l’uno che distingua analiticamente, l’altra che coglie l’unità, il ritmo dialettico rimane incastrato in “concetti astratti e quindi immobili, che sono affatto privi di ogni dialettismo, e di cui perciò non è dato intendere come possano, per se stessi, passare l’uno nell’altro e unificarsi nel reale continuo moto logico”. L’identità di pensiero ed essere è pensata come se si avesse a che fare con concetti astratti e quindi immobili, mentre il pensiero per Gentile non è qualcosa di oggettivato, di statico e cristallizzato, ma il pensiero è sempre pensare in atto, un movimento che si sta realizzando, è l’atto in atto del pensare. E’ sempre all’opera un pensiero pensante in atto di pensare. Il pensiero non si può mai oggettivare, non è mai compiuto, e non si può mai trascendere perché è la nostra stessa soggettività, “poiché nel definire come oggetto determinato di un nostro pensiero la nostra stessa attività pensante, dobbiamo sempre ricordare che la definizione è resa possibile dal rimanere la nostra attività pensante, non come oggetto, ma come soggetto della nostra stessa definizione, in qualunque modo noi si concepisca questo concetto della nostra attività pensante. la vera attività pensante non è quella che definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce”. “Per noi invece il vero pensiero non è il pensiero pensato, che Platone e tutta l’antica filosofia considerano per sé stante, presupposto del pensiero nostro che aspira ad adeguarvisi. Per noi il pensiero pensato suppone il pensiero pensante; e la vita e verità di quello sta nell’atto di questo. Il quale nella sua attuosità, che è divenire o svolgimento, pone bensì come suo proprio oggetto l’identico, ma appunto mercè il processo del suo svolgimento, che non è identità, cioè unità astratta, ma unità e molteplicità insieme, identità e differenza.” Il pensiero non è inerte e il pensato non esiste indipendentemente dall’atto in atto del pensare, perché la realtà è posta dal pensiero che pensa sempre in atto.
In questo senso è necessario riformare la dialettica hegeliana, che prende avvio dall’essere vuoto e indeterminato invece che dall’atto del pensiero. Dire essere è dire nulla: il puro essere è indeterminato e pensandolo, determinandolo come indeterminato, lo si pensa come nulla. Bisogna parlare del dasein non del sein, del divenire dell’essere come unità di essere e di non essere, cioè diviene l’essere che non è. “Ma, dice gentile, è stato osservato, se l’indeterminatezza assoluta dell’essere lo ragguaglia davvero al nulla, noi non abbiamo così quell’unità di essere e di non essere, in cui consiste il divenire: non c’è quella contraddizione tra essere e non essere di cui parla Hegel e che genererebbe il concetto del divenire. (…) in tal caso l’essere come puro essere sarebbe estraneo al non essere come puro non essere, e non ci sarebbe quell’incontro e quell’urto dei due, da cui Hegel vede sprizzare la scintilla della vita. In conclusione siamo da una parte e dall’altra innanzi a due cose morte le quali non concorrono in un movimento”.
La realtà è sì un positum della coscienza, ma un positum del pensare sempre in atto, posta in essere dal pensiero pensante. Il pensato è posto dal pensiero stesso, non c’è un pensato se non c’è un pensare in atto perché è nell’atto del pensare che si pone la contrapposizione di soggetto e oggetto e la si supera. La molteplicità dei pensati è già sempre posta e risolta nell’unità del pensare in atto. Il principio e la forma della realtà in divenire è l’atto del pensiero pensante, che istituisce l’identità di soggetto e oggetto. Si configura dunque una dialettica dell’immediatezza e della staticità di contro ad una dialettica della processualità e del dinamismo.
“L’essere, che Hegel dovrebbe mostrare identico al non essere nel divenire, che solo è reale, non è l’essere che egli definisce come l’assoluto indeterminato; ma l’essere del pensiero che è soggetto del definire, e in generale pensa: ed è come vide Cartesio in quanto pensa, ossia non essendo (perché, se fosse, il pensiero non sarebbe quello che è, un atto), e perciò ponendosi, divenendo”. Dobbiamo dunque ora capire cose significa quel “non essendo”.
Dice gentile “chi dice soggetto dice insieme oggetto. Nella stessa autocoscienza il soggetto oppone sé come oggetto a sé come soggetto: e se nel soggetto è l’attività della coscienza, l’oggetto suo, nella stessa autocoscienza, gli si oppone come negazione della coscienza, ossia come realtà inconsapevole”. L’unità della coscienza istituisce e supera la contrapposizione del soggetto all’oggetto per riconoscersi in esso. Il logo astratto considera necessariamente pensiero ed ente separati, autonomi, irrelati, contrapposti, ma è lo stesso soggetto a porre questa contrapposizione. Per divenire cosciente di sé come io e per esercitare la propria libera attività creatrice l’io è necessitato a oggettivarsi a se stesso, cioè a porre la dualità per risolverla superandola nel pensare in atto: la coscienza deve cioè continuamente negarsi, farsi altro, e superare quella negazione, negare la propria negazione x affermarsi, divenire cosciente di sé come di colui che pone l’ente, divenire cosciente di essere il produttore del mondo. La coscienza dell’oggetto è la coscienza della propria produzione dell’oggetto: l’io è cosciente di essere lui colui che pone la cosa e nel porre la cosa altro da sé è cosciente di sé, riconoscendosi in essa. Ma nell’attualismo gentiliano l’oggetto è posto continuamente dal pensare pensante in atto: il soggetto per scoprirsi autoctico deve farsi oggetto a se stesso, l’io è cosciente di sé per contrasto con qualcosa che è non io. Solo negandosi e superando la negazione diviene cosciente di sé. “e sempre l’oggetto si contrappone al soggetto in guisa che, quantunque concepito come dipendente dalla stessa attività di questo, non gli sia dato partecipare alla vita ond’è animato il soggetto. Giacchè questo è attività, ricerca, movimento verso l’oggetto; e l’oggetto, sia che si consideri come oggetto di ricerca, sia che si consideri come oggetto di scoperta e di conoscenza attuale, è inerte, sta”.
Ma il pensato con cui il soggetto, cioè il pensiero pensante, ha a che fare, che è chiamato da gentile fatto o natura, come risultato dell’attività spazializzatrice e temporalizzatrice del pensiero pensante, è continuamente superato nell’atto del pensare. Questo errore che è la natura, in quanto riconosciuto e pensato come errore è già di fatto superato. Lo spirito deve superare ogni volta le sue oggettivazioni. Dice Gentile:“intendere, anzi conoscere la realtà spirituale, è assimilarla a noi che la conosciamo. È una legge si può dire della conoscenza della realtà spirituale, che l’oggetto si risolva nel soggetto. Niente per noi ha valore di spirito, se non finisce con l’essere risoluto in noi che lo conosciamo”. L’oggetto è soggettività in quanto spirito, e lo spirito è nella misura in cui si concretizza, nel suo farsi risiede la concretezza. La distinzione tra spirito e fatto spirituale è fallace, perché è tutto spirito inteso come pura attività di creazione del mondo, attività sempre in atto, non si ferma mai. Per spiegare meglio questo concetto Gentile fa riferimento alla lingua e dice: “la verità è che la lingua, quando la si voglia conoscere in concreto, si presenta come lo svolgimento della lingua, ed è la lingua che suona sulla bocca degli uomini che la usano. La quale lingua non si stacca più dal soggetto, non è un fatto spirituale che si possa distinguere dallo spirito in cui avviene. Quest’atto spirituale che si chiama linguaggio, è appunto lo spirito nella sua concretezza(…) distinguiamo pure la divina commedia da dante che la scrisse e da noi che la leggiamo; ma avvertiamo poi che questa divina commedia, che così distinguiamo da noi, è da noi ed in noi, dentro la nostra mente, pensata come distinta da noi. È cioè essa stessa in noi, malgrado la distinzione: in noi in quanto la pensiamo. Sicchè non è nulla di estraneo a noi che la pensiamo”.
Dire fatto è come dire spirito, cioè “individualità concreta, storica: soggetto che non è pensato come tale ma attuato come tale. Lo spirito come soggetto è la realtà spirituale, la cui oggettività è posta dal soggetto che la pensa attualmente, si risolve nell’attività del soggetto, che ponendola continuamente la ri-supera: “la sua oggettività si risolve nell’attività reale del soggetto che la conosce”. L’io, lo spirito, è per sua essenza pura attività che agisce sulle proprie oggettivazioni, e per questo è puro, inoggettivabile, è in quanto si vien facendo. Lo spirito è auto-creazione di se e totalmente immanente a se stesso. Anche l’altro propriamente non esiste come altro, perché mediato dalla coscienza.
“Il mondo spirituale è concepibile soltanto come la realtà stessa della mia attività spirituale”. Questa proposizione, dice Gentile, non ha alcun senso se si guarda all’io empirico, perché quest’ultimo è contrapposto a tutte la cosa materiali e a tutti gli individui cui è assegnato valore spirituale. Il soggetto del pensare in atto non può essere l’io empirico, perché è un fatto, è natura, ed è quindi posto dal pensiero pensante come altro da sé come oggetto, non soggetto dello spirito. Il soggetto del pensiero pensante non può essere una sostanza ma è il processo creativo in cui consiste l’io trascendentale, che è tutto sempre da fare. Il soggetto del pensiero in atto coincide con l’atto stesso del pensare e il pensato non può esistere se non c’è un atto del pensiero pensante che lo pone come pensato. “Affinchè si possa intendere la natura di questo stesso oggetto che risolve sempre ogni oggettività degli esseri spirituali, e non è possibile che si arresti dinnanzi a un essere spirituale diverso da sé, e non ha perciò dinanzi a sé se non se medesimo, bisogna prima di tutto considerare che questo soggetto unico e unificatore non è un essere o uno stato, ma un processo costruttivo”. La soggettività trascendentale è un’attività creatrice per cui verum et factum convertuntur, come disse Vico nel “De antiquissima italorum sapientia”, cioè il concetto della verità coincide con quello del fatto. La verità è un fare, è una sviluppo necessario che collega soggetto e oggetto in una fare che è anche conoscere: fare ed essere sono la stessa realtà, ma teoria e prassi sono sostanzialmente identici: il conoscere non è pura contemplazione passiva, ma pensiero in atto, prassi. L’idealismo non nega la realtà, ma la deduce dalla prassi: il soggetto liberamente pone l’oggetto. Ogni atto spirituale è sempre anche pratico e questa praticità si manifesta nella storia, “cioè una realtà che si realizzi con un processo che non sia vana dispersione di attività, ma creazione continua della realtà stessa, o incremento del suo essere”. La conoscenza è azione, prassi, attività in atto del soggetto che pensa, del pensiero pensante. Ritornando all’esempio della lingua gentile afferma: “la lingua vera non è εργον(opus), ma ενεργεια: non è il risultato del processo linguistico, ma appunto questo processo, che è sviluppo in atto. Dunque, la lingua, qualunque essa sia, non si conosce, nel suo essere definitivo (che non ha mai), ma a grado a grado nel suo concreto svolgimento. E come la lingua, tutto che sia realtà spirituale; e che voi conoscerete sì, come s’è detto, risolvendolo nella vostra attività spirituale, ma a grado a grado instaurando quella medesimezza o unità, in cui la cognizione consiste(…) vero è che il fatto, con cui si converte il vero, essendo la stessa realtà spirituale che realizza (o che intende realizzando) se stessa, non è propriamente un fatto, ma un farsi. Sicchè piuttosto dovrebbe dirsi: verum et fieri convertuntur”, oppure come si dice in seguito verum est factum quatenus (qualora) fit. Il processo costitutivo tramite cui il soggetto risolve in sé l’oggetto è dinamico, mai concluso. “Il soggetto che risolve in sé l’oggetto, almeno quando questo oggetto è realtà spirituale, non è essere, né stato dell’essere: non è niente di immediato, come dicemmo, ma processo costruttivo. Processo costruttivo dell’oggetto in quanto processo costruttivo dello stesso soggetto(…) il soggetto è sempre soggetto di un oggetto, in quanto si costituisce soggetto del suo atto rispettivo”. Lo spirito non è mai essere, è sempre un farsi attuale, è essenzialmente uno svolgimento che si attua, è attualmente se stesso. Non esiste spirito fuori dal suo manifestarsi in svolgimento. Tutto è sempre da fare, nulla è mai staticamente concluso, fatto, la natura viene ad oltranza ri-superata, mediata dalla coscienza. Lo spirito è eterno divenire. “noi non conosciamo nessuno spirito che sia di là dalla sue manifestazioni, e consideriamo queste manifestazioni come la sua stessa interiore ed essenziale realizzazione”. Lo spirito si realizza dunque come coscienza di sé progressivamente, senza mai arrivare al traguardo, mai raggiunto ma raggiungibile.
Ogni determinazione dell’ente è solo in relazione alla totalità delle determinazioni che si concretizzano progressivamente, in cui consiste lo spirito nella sua attualità. “Ma, come la molteplicità è da subordinare e unificare nell’unità, così la determinatezza deve intendersi nella concretezza del sistema di tutte le determinazioni, che è la vita attuale dello spirito. Anche la menzionata verità, dell’equivalenza degli angoli interni d’un triangolo a due retti, soltanto per astrazione è un che di chiuso e per sé stante: in realtà si articola nel processo della geometria attraverso tutte le menti, in cui questa geometria nel mondo si attua”.
L’Io trascendentale è unitario, la sua è un’unità “immoltiplicabile e infinita”. Il pensiero non ha limiti: ogni oggetto conosciuto è un pensato ed è quindi interno alla coscienza, che di conseguenza non avendo oggetti che le si contrappongono in quanto ad essa interni, non ha limiti, non ha nulla contro cui arrestarsi: è cioè infinita, ed essendo essa tutto il pensiero, non può essere una parte della realtà che è la totalità pensata, ed è quindi unica. “La coscienza infatti non si pone se non come una sfera il cui raggio è infinito: e qualunque sforzo si faccia per pensare o immaginare altre cose o coscienze al di là della nostra coscienza, quelle cose e coscienze rimangono dentro di essa, per ciò appunto che sono poste da noi, sia pure come esterne a noi. Questo fuori è sempre dentro. Designa cioè un rapporto tra due termini, che esterni l’uno all’altro sono tuttavia interni entrambi alla coscienza. Niente c’è per noi, senza che noi ci se n’accorga, e cioè che si ammetta, comunque definito (esterno o interno), dentro alla sfera del nostro soggetto”. L’oggetto si risolve sempre nella coscienza. Già Spinoza riconosceva che la res è objectum mentis, contenuto della coscienza. “Movendoci col pensiero lungo tutto il pensabile, noi non troviamo mai né il margine del pensiero stesso, né l’altro che sia di là dal nostro pensiero, e innanzi a cui il nostro pensiero si arresti. Di guisa che lo spirito non solo è uno psicologicamente, in se stesso, ma è uno anche gnoseologicamente e metafisicamente considerato, non potendo riferirsi ad un oggetto che gli sia esterno, né potendo perciò concepirsi reale tra i reali, come una parte cola della realtà”.
Abbiamo detto che il soggetto oppone a sé come soggetto sé come oggetto, si nega, si fa altro: prescindere dalla sintesi che il soggetto imprime all’oggetto significa opporre al soggetto la molteplicità del reale: conoscere e creare sono sempre un determinare, cioè un distinguere. Il non io che l’ io si autoppone, per essere conosciuto e posto in essere deve essere determinato e sarà quindi molteplice: la molteplicità si risolve nell’unità che è originaria, a priori e senza di cui la molteplicità stessa non sarebbe, e l’unità a sua volta per riconoscersi come unità deve moltiplicarsi. L’io oppone a se un non io, si nega e quindi dà vita ad una molteplicità che è già da sempre unita nell’io. La molteplicità dell’oggetto si risolve perché è già da sempre risolta nel soggetto, che pone in essere l’oggetto opponendo a sé un non io e riconoscendo se stesso come fonte dell’opposizione, riconoscendosi così nell’opposto che dalla propria negazione deriva. Nel conoscere l’oggetto il soggetto si riconosce come il suo autore, supera l’alterità dell’oggetto che esso stesso ha posto per divenire cosciente di sé. “Ne consegue che all’unità realizzata dall’attività del soggetto si oppone nell’oggetto la molteplicità propria del reale, appena si prescinda dalla forma sintetica che gl’imprime il soggetto. La cose infatti nella loro oggettività, termine presupposto dall’attività teoretica dello spirito, sono molte: essenzialmente molte in guisa che una cosa sola non sia pensabile se non come risultante dalla composizione di molti elementi. Una cosa unica e infinita non sarebbe conoscibile; perché conoscere è distinguere una cosa da un’altra: omnis determinatio est negatio. E tutta la nostra esperienza si libra tra l’unità del suo centro, che è lo spirito, e la infinita molteplicità dei punti costituenti la sfera dei suoi oggetti(…) ma la molteplicità delle cose non sta accanto all’unità dell’Io; essa appartiene alle cose in quanto queste sono oggetto dell’Io, ossia in quanto tutte vengono raccolte nell’unità della coscienza. Le cose sono molte in quanto sono insieme, raccolte nell’unità della sintesi(che è a priori). Spezzata la sintesi, ognuna è soltanto se stessa, senza riferimento di sorta alle altre. (…) quindi in tanto c’è molteplicità, in quanto c’è sintesi di molteplicità e di unità. La molteplicità, per essere quella molteplicità che è propria dell’oggetto della coscienza, implica la risoluzione della molteplicità stessa; implica cioè l’unificazione di questa nel centro a cui tutti i raggi infiniti della sfera convergono.” La molteplicità viene riassorbita originariamente, aprioristicamente nell’unità, che è unità della realtà in quanto spirituale. Lo spirito, l’io trascendentale è svolgimento unitario. Il logo astratto concepisce unità e molteplicità irrelate e pone lo spirito o all’inizio o come risultato del processo, ma “la realtà si vien moltiplicando in diverse forme restando sempre una”, perché molteplicità e unità sono la stessa cosa, cioè lo svolgimento concreto della vita. Il logo concreto infatti è quello che “non lascia concepire l’unità se non attraverso la molteplicità, e viceversa: quello, che nella molteplicità mostra la realtà e la vita dell’unità. La quale, appunto perciò non è ma diviene, si forma: non è come abbiamo detto, una sostanza, un’entità fissa e definita, ma un processo costruttivo, uno svolgimento. La realtà è “infinita unificazione del molteplice, com’è infinita moltiplicazione dell’uno(…) lo svolgimento è moltiplicazione che è unificazione, ed è unificazione che è moltiplicazione”.
Il pensiero pensante è eternamente atto in atto, lo spirito è essenzialmente il suo farsi, il suo svolgimento che non giunge mai ad un risultato, ma è esattamente il processo che esso compie: è un’unimolteplicità, un’unità molteplice. Unità e molteplicità sono relati e si risolvono riguardandosi reciprocamente nell’atto del processo del farsi dello spirito. La sintesi non è mai risultato, ma continua rideterminazione. “ Esso né fu in principio né sarà alla fine, perché non è mai: diviene. Il suo essere consiste appunto nel suo divenire, che non può avere né un antecedente né un conseguente, senza cessar di divenire. Ora questa realtà che non è né fine né principio di un processo, ma, appunto, processo, non si può concepire come unità che non sia molteplicità: perché come tale non sarebbe svolgimento, cioè non sarebbe spirito. La molteplicità è necessaria alla stessa concretezza, alla stessa realtà dialettica dell’unità. E la sua infinità, che è l’attributo essenziale dell’unità, non è negata, anzi è confermata o per meglio dire si realizza attraverso la molteplicità: la quale ne è infatti il dispiegamento lungo il cammino in cui l’unità si attua”.
PIERO GOBETTI
VITA E OPERE
Piero Gobetti nacque a Torino il 19 giugno del 1901. Dopo le scuole elementari frequenta il liceo-ginnasio “Gioberti” e lì conosce Ada Prospero, figlia di un commerciante come lui, che diventerà sua moglie. Studente universitario di acuta intelligenza, pubblica a diciassette anni la sua prima rivista, “Energie Nove”, nel novembre del 1918, ricca di riferimenti a Prezzolini, Gentile, Croce e con la quale diffuse le idee liberali di Einaudi. Si appassiona ai bolscevichi, studia il russo e scrive in cirillico alla fidanzata. Definisce subito il fascismo “movimento plebeo e liberticida”, l’antifascismo “nobilità dello spirito”, l’Italia un Paese senza un vero Risorgimento, una Riforma protestante, una Rivoluzione liberale. Interpreta la rivoluzione di Lenin e Trotzky come rivoluzione liberale, perché è azione, movimento e tutto quello che si muove va verso il liberalismo. Apprezza i bolscevichi in quanto élite, detesta lo statalismo e il protezionismo della vecchia Italia giolittiana. Esponente della sinistra liberale progressista, collegata con l’intellettuale meridionalista Gaetano Salvemini. Estimatore di Antonio Gramsci e del giornale socialista e poi comunista Ordine Nuovo, Gobetti si avvicina al proletariato torinese, divenendo attivo antifascista. Nel maggio del 1919 viene bollato da Togliatti sulle pagine di “Ordine Nuovo” come “parassita della cultura”. Ma nell’autunno del 1920 il sostegno di Gobetti all’occupazione delle fabbriche e i suoi frequenti incontri con gli operai e comunisti torinesi migliorano molto i rapporti, tanto che Gramsci gli affida la rubrica di teatro della rivista. La classe operaia, in particolare quella torinese dei consigli di fabbrica, che frequenta insieme ai socialisti di Ordine nuovo, diventa per lui la leva che innoverà il mondo: non verso il socialismo, ma verso “elementi di concorrenza”. Togliatti non lo ama, Gramsci lo apprezza, i liberali Salvemini e Croce sono incuriositi dall’intelligenza del ragazzo. A vent’anni, il 12 febbraio del 1922, fa uscire il primo numero della rivista “La Rivoluzione Liberale” che via via diventa centro di impegno antifascista di segno liberale, collegato ad altri nuclei liberali di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo. Vi collaborano intellettuali di diversa estrazione, tra cui Amendola, Salvatorelli, Fortunato, Gramsci, Antonicelli e Sturzo. Più volte arrestato nel ’23-24 dalla polizia fascista, la sua rivista è ripetutamente sequestrata. Lo stesso Mussolini si interessa di lui e telegrafa al prefetto di Torino: “Prego informarsi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore”. Nel ’24 fonda la rivista letteraria “Il Baretti”, alla quale collaborano Benedetto Croce, Eugenio Montale, Natalino Sapegno, Umberto Saba ed Emilio Cecchi. Il 5 settembre del ’24, mentre sta uscendo di casa, è aggredito sulle scale da quattro squadristi che lo colpiscono al torace e al volto, rompendogli gli occhiali e procurandogli gravi ferite invalidanti. Costretto a espatriare in Francia, mai più riavutosi dalle ferite, muore esule a Parigi nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1926. Non aveva nemmeno venticinque anni, che avrebbe compiuto il 19 giugno di quell’anno. È sepolto nel cimitero di Père Lachaise. Saggista e autore di numerosi scritti culturali e politici pubblicati in Italia e all’estero, simbolo del liberalismo progressista sensibile al riscatto delle classi lavoratrici, la sua opera fu raccolta e pubblicata postuma: Opere critiche (1926); Paradosso dello spirito russo (1926); Risorgimento senza eroi (1926).
IL PENSIERO
A diciott’anni Gobetti fonda “Energie nuove”, rivista quindicinale sulla scia dell’ “Unità” di Gaetano Salvemini e, dopo una breve infatuazione per i liberisti come Einaudi, matura la sua concezione della politica come forma di educazione e della cultura come coscienza storica. Dopo un anno, nel 1920 la rivista finisce le pubblicazioni; nel ’22 Gobetti fonda il settimanale “La Rivoluzione liberale”, con molti collaboratori della cessata “Unità salveminiana” affiancata da una rivista letteraria, “il Baretti” e da una piccola casa editrice. A 23 anni, nel 1924, raccoglie, elaborandoli, molti articoli apparsi sulla rivista e, con lo stesso titolo, “Rivoluzione Liberale”, pubblica il “Saggio sulla lotta politica in Italia”. Era il mese d’aprile: nel giugno viene ucciso Matteotti e il 3 gennaio 1925 Mussolini trasforma il suo governo in regime. Per tutto l’anno si susseguono i sequestri della rivista, finchè il 1° novembre Gobetti deve pubblicare la diffida del prefetto di Torino contro il periodico, accusato di mirare “alla menomazione delle istituzioni monarchiche, della Chiesa, dei poteri dello Stato, danneggiando il prestigio nazionale”. Una settimana dopo, esce l’ultimo numero della rivista, che segue il destino de “Il Caffè” pubblicato a Milano da Riccardo Bauer, con Parri, Gallarati Scotti, Arpesani, Borsa e Sacchi (chiuso in maggio), del fiorentino “Non Mollare” di Salvemini, Ernesto Rossi e dei fratelli Rosselli (finito in ottobre), e di tante altre voci libere invise al nuovo regime dittatoriale. Riletto oggi, il libro di Gobetti sorprende per le molte notazioni originali sul Risorgimento e sulla lotta politica del tempo. Per esempio, la considerazione di Cavour come autore di una grande rivoluzione liberale rimasta incompiuta, e dello stesso Risorgimento come incompiuto e non come “rivoluzione mancata” (come l’aveva invece letto Gramsci); la rivalutazione del Piemonte settecentesco e ottocentesco come di un paese contraddistinto dall’assenteismo dell’aristocrazia, dallo spezzettamento della grande proprietà agraria e dalla diffusione degli affittuari, dalla laicità dello Stato e dalla presenza di una singolare cultura moderna ” in questo vecchio Stato nemico della cultura “. A differenza di tanti intellettuali di trenta o quarant’anni dopo, Gobetti riconosce il valore della fabbrica che ” educa al senso della dipendenza e della coordinazione sociale, ma non spegne le forze di ribellione, anzi le cementa in una volontà organica di libertà ” e riconosce altresì il valore positivo della città moderna, ” organismo sorto per lo sforzo autonomo di migliaia d’individui “. In Gobetti appare per la prima volta il concetto di fascismo come ” autobiografia della nazione “: ” né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù da padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi “. E fin dalla prima pagina del libro fa una dichiarazione fulminante e valida più che mai oggi: ” il contrasto vero dei tempi nuovi come delle vecchie tradizioni non è tra dittatura e libertà, ma tra libertà e unanimità “. Ci sono, in Gobetti, anche curiosità che fanno pensare:
” la sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l’amore per il successo e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione dell’enfasi…..L’ordinaria amministrazione con la sua monotonia è un altro fiero nemico del presidente; se egli non avesse un piacevole divertimento nelle trovate sportive che gli riconciliano la popolarità, il compito quotidiano sarebbe snervante e senza risorse “.
Di chi parla? Di Mussolini certamente, allora. E oggi? Ma ci sono soprattutto analisi acute e ancora valide della storia e del carattere italiani e molti concetti innovatori. Nel capitolo su “Liberali e democratici”, premesso che la più grave deficienza del liberalismo italiano si potrebbe cercare ” nella lunga mancanza di un partito politico francamente conservatore “, Gobetti scrive: ” insomma la parola d’ordine dei liberali in Italia a partire dal secolo scorso fu: “tutti liberali”. La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberalismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà, e con l’azione storica dei ceti che vi sono interessati “. Posto che i veri liberali sono una minoranza, ” bisogna convincersi che non erano e non potevano essere, come non sono, liberali i nazionalisti e i siderurgici, interessati al parassitismo dei padroni, né i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né gli agricoltori latifondisti che vogliono il dazio sui grani per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro cooperative“. Gobetti vede il carattere arretrato e illiberale della borghesia italiana, che chiede favori e una politica protezionista, una non-borghesia se confrontata con i ceti dirigenti conservatori di altri paesi. Riconosce che in Italia ci sono due borghesie, ma quella weberiana (come la chiama Flores D’Arcais) resta in minoranza, mentre domina il ” ceto dirigente contento di sé “. Gobetti riconosce la necessità storica e i valori della civiltà capitalistica, ma vede i suoi limiti nelle nazioni più povere, la Russia e l’Italia. Nel nostro Paese, si contrappongono l’individualismo regolato dalle leggi e una tradizione ” istintivamente individualista ” che ha prodotto un popolo ” in perenne atteggiamento anarchico “. Per Gobetti, ” il liberalismo ha elaborato un concetto della politica come disinteresse dell’uomo di governo di fronte al popolo interessato… Solo attraverso la lotta di classe il liberalismo può dimostrare le sue ricchezze…Essa è lo strumento infallibile per la formazione di nuove élites, la vera leva, sempre operante, del rinnovamento popolare “. Certo, l’errore di Gobetti è stato di vedere in Gramsci e nei consigli di fabbrica, promossi da “Ordine nuovo”, aspetti e valori liberali; da qui, la sua illogica simpatia per Lenin, benchè riconosca il carattere ” accentratore, autoritario, monopolistico della rivoluzione russa “. Ciò non toglie che egli si era reso conto, sulle orme di Salvemini, degli errori della sinistra, in particolare del riformismo e del ” parassitismo cooperativistico “. Ancora più importante, e decisivo per la valutazione di Gobetti, è il riconoscimento del fatto che il primato dell’uguaglianza rispetto alla libertà è la causa delle degenerazioni del movimento operaio. A questo proposito, commenta Flores D’Arcais: “ pure, la convinzione gobettiana che se l’ossessione dell’eguaglianza sociale governa e comanda la politica operaia, umiliando le libertà a strumento tattico nella lotta per il potere, sono a repentaglio gli stessi interessi dei lavoratori – interessi nel senso più pieno e materiale del termine “. E infatti Gobetti aveva sostenuto con grande chiarezza: ” il problema del movimento operaio è un problema di libertà e non di uguaglianza sociale “. Qui merita citare ancora Flores D’Arcais: contro la “disponibilità ”moderata” di massa al tradimento del liberalismo”… “Contro questo rischio di populismo, perciò sempre più irrinunciabile si dimostra l’intuizione di Gobetti, che ai lavoratori dipendenti e alle forze politiche che li rappresentavano vada innanzi tutto affidata la difesa, la cura e il radicamento del liberalismo. Sono gli unici, infatti, ad avere un interesse intrattabile ad una convivenza civile fondata sul governo delle regole e non sulle regole di chi governa”. In “Destra e sinistra”, Norberto Bobbio ha scritto che il valore “eguaglianza” è quello che contraddistingue la sinistra. Ma un conto è constatare che nella storia del movimento operaio l’eguaglianza sia sempre stato il valore dominante; altro è riconoscere con Gobetti che la sottovalutazione della libertà è stato un errore. Rileggendo Gobetti, non è utopistico pensare che la bandiera della minoranza intellettuale antifascista, rappresentata dal partito d’azione, possa diventare adesso la connotazione di una sinistra popolare, non socialdemocratica né limitatamente migliorista. Giustizia e libertà: eguaglianza come mito, come direttrice per una società migliore, e libertà nella pratica di ogni giorno, nelle istituzioni, nelle regole del vivere civile e politico, libertà significa anche eguaglianza di fronte alle leggi, negazione di ogni favore e privilegio, negazione del familismo in tutti i suoi aspetti, fino alla connivenza camorristica e mafiosa, e quindi è educazione a un costume di convivenza civile e tollerante. Senza l’appoggio e la convinzione di un grande movimento politico popolare, l’educazione alla libertà non può divenire patrimonio comune. E, come aveva intuito Gobetti, i lavoratori a reddito fisso e gli imprenditori non speculatori e non protezionisti hanno interesse comuni: l’equità fiscale, innanzi tutto, che è un problema di eguaglianza e anche un aspetto del libero mercato, se si volesse tentare di farlo esistere almeno in parte; e la lotta alla corruzione e alle clientele politico-affaristiche, che è un problema di giustizia. Nessuno di questi grandi obiettivi potrà essere raggiunto se la libertà sarà ancora vista come “formale” o “borghese”, oppure come una condizione già raggiunta. La libertà va realizzata nelle coscienze, nell’educazione, nelle regole della vita civile e politica, essa è la condizione per ogni sforzo di eguaglianza. La rivoluzione liberale, mai realmente attuata in Italia, dev’essere una rivoluzione di giustizia, che necessita sia di una profonda educazione etica, sia di un’azione politica di grandi orizzonti.
LA RIVOLUZIONE LIBERALE
Gobetti era un rivoluzionario liberale. Inevitabile, nel rievocarne la figura, partire dall’ossimoro, tanto più insolito e singolare, se calato nella storia politica italiana che ha fatto del liberalismo- oltre le benemerenze risorgimentali – una tradizione conservatrice o al più moderata. Intanto quell’ossimoro non è definizione arbitraria o affibbiata dall’esterno a Gobetti. E’ un’autodefinizione. Che fa corpo col programma stesso che il giovane uomo di pensiero attribuì via via a se stesso, negli anni che vanno dalla prime prove editoriali – “Energie Nuove”, la collaborazione a l’Unità di Salvemini – fino alla più matura opera destinata a divenire rivista e infine saggio nel 1924: “Rivoluzione liberale”. Ma cos’era questa Rivoluzione? Di quali obiettivi, soggetti storici e speranze si nutriva? Per capirlo occorre, per un momento, fuoriuscire dal cielo dottrinario delle idee. E sforzarsi di intravedere prima ancora, un carattere, una biografia, un clima ben preciso. Parliamo di un certo mondo vitale. Quello della Torino pre-bellica e post-bellica, nel primi decenni del novecento. Indubitabilmente quella Torino è crogiolo avanzato di industria e cultura, piazzaforte del piccolo “Stato-Fiat” (la definizione sarà di Gobetti stesso) che piegava tutta l’industria circostante a sé, imprimendo ritmo e dinamismo nuovo all’ex capitale subalpina. E’ un sommovimento profondo, che suscita da un lato le energie di un vasto proletariato industriale ben presto organizzato attorno ai suoi apostoli e filantropi borghesi, alle sue cooperative e al suo sindacato. E che dall’altro muove forze intellettuali diffuse. Sulla scia della nascente civiltà industriale. Di un mercato allargato e del ventaglio di funzioni e professioni evocato dalla modernizzazione giolittiana. Torino, è epicentro di tutto questo, e interpreta il suo ruolo mescolando fierezza di capitale declassata a sentimenti di rivincita industrialista sul resto del paese. Ecco, Gobetti, studente prodigio del Gioberti, giornalista in erba, ragazzo che si rivolgerà da pari a pari a Salvemini, Einaudi, Croce, Prezzolini, Gentile, cresce in quel clima. Figlio di contadini piemontesi inurbati e gestori di una drogheria, incarna perfettamente le Energie nuove del momento. Il tumultuoso passaggio da una società censitaria – ancorché cavourianamente inventiva – a un mondo di aspri conflitti tra ceti e generazioni. E’ Gobetti, nella sua prodigiosa e acerba vitalità venata di puritanesimo, l’esplosione stessa a Torino e in Italia, di una questione cruciale. La questione intellettuale. Non già intesa come contrasto tra i colti e gli umili, tra romantica élite minoritaria e filistei privilegiati, come la Germania di primo ottocento ce l’ha tramandata. Bensì come questione politica nazionale. Sociale certo, quanto a dimensione e moltiplicazione delle funzioni intellettuali moderne. Ma, ancor, più politica. Cioè come problema della selezione e dell’ascesa delle classi dirigenti. Delle élites, per evocare un termine centrale nella riflessione di Gobetti. Qui, è impossibile non registrare una consonanza rivelatrice: Gramsci. Anche lui, a modo suo “contadino”. Figlio di un piccolo impiegato comunale, e “isolano” inurbato nella medesima Torino di Gobetti. Anche lui, critico del fatalismo positivista, e vittima del fascismo. E del pari ossessionato dagli intellettuali. Coesivo e mastice simbolico – nella riflessione dei Quaderni del Carcere – senza cui nessun ricambio sociale, nessuna riproduzione economica, né baricentro egemonico di forze o di senso generale, era possibile nel moderno. Certo il demiurgismo intellettuale, di cui Gobetti fu interprete emblematico, ebbe nell’Italia di allora un significato oscillante e ambiguo. Sino a culminare col fascismo – sulle scie dell'”attivismo”- in una capillare integrazione dei colti nel regime, e di segno conservatore. Almeno fino ai tempi della fronda antifascista. Del resto, lo stesso Gobetti convisse, smarcandosene da ultimo, con protagonisti culturali della rivoluzione conservatrice. Dall'”Apota” Prezzolini a Gentile, idolatrato all’inizio, poi respinto come esponente di una scolastica autoritaria. Eppure, sul crinale di quest’insorgenza intellettuale di massa a cavallo della grande guerra, Gobetti rappresentò acutamente una grande possibilità, innervata da analisi di straordinaria attualità. La spinta ad un ricambio profondo di classi dirigenti. Oltre la chiusura oppressiva del vecchio ceto liberale che nell’unificare il paese dall’alto aveva escluso i ceti subalterni dallo stato e dal recinto della società civile. Cristallizzando assetti da civiltà pre-capitalista, privilegi corporativi e territoriali, ineguaglianze di classe. E’ qui che il bisturi di Gobetti scava. Delineando, sulla scia di Salvemini, il quadro di quello che Gramsci definirà il “patto scellerato” tra nuova borghesia industrialista del nord, protetta dallo stato e vecchie classi parassitarie del sud, acquiescenti ad un progetto di unificazione nazionale che condannava il mezzogiorno a mercato passivo di manufatti e a serbatoio di manodopera. Mentre la proiezione geometrica di questo assetto diventava la convergenza al centro di partiti notabilari e incapaci di incarnare grandi correnti nazionali di interessi. C’è, in questa denuncia di Gobetti, l’analogo di consimili vedute weberiane. Le stesse con cui Max Weber nella Germania guglielmina metteva sotto accusa il parlamentarismo degli junker, nonché l’assenza di un vero partito liberale di massa capace di allargare la cittadinanza oltre il privilegio censitario e assicurare base parlamentare salda all’esecutivo. E tuttavia, in Gobetti, oltre l’attenzione ai limiti del liberalismo italiano, c’è la ricerca di un altro protagonista: il movimento operaio. Da riscattare dai vincoli di una mentalità fatalista e messianica, e da inserire a pieno titolo nel processo di rinnovamento dell’Italia liberale. Su questo punto l’utopia gobettiana si fa più affascinante e ambigua da decifrare. Infatti da un lato il giovane rivoluzionario liberale sembra puntare ad un rinnovamento dei partiti, concependoli come partiti di massa, finalmente liberati dai “partiti personali” costruiti sul maggioritario (Gobetti era proporzionalista). E in tal senso gioca un ruolo il richiamo energetico al ruolo del “mito” soreliano, che fonde in blocchi classi fondamentali e alleanze su opposte sponde. Dall’altro però gli impulsi di rivoluzione muovono in lui dalle autonome cerchie della società civile. Dal mondo della cultura e dalle sue ramificazioni capillari specialistiche. Dal mondo dell’industria e dal mondo della fabbrica. Come quando, nel 1920, egli guarda ammirato al soviet della Fiat e all'”Ordine Nuovo” di Gramsci, corrispettivo italiano di quel moto di “rivoluzione liberale” che Gobetti scorgeva nella rivoluzione bolscevica. Difficile capire se per Gobetti, dalla personalità sperimentale e in divenire l’epilogo di quell’Italia sospesa tra progresso e reazione e in piena bufera post-bellica, dovesse essere la rivoluzione sociale. Con gli operai promossi a rango di borghesi intraprenditori nelle fabbriche occupate. Oppure se per lui si trattasse solo di uno scossone salutare, destinato a mutare le élites al potere degli opposti schieramenti rinnovati dal fuoco dello scontro. E secondo uno schema “conflittualista” debitore più all’elitismo sociale di Mosca che non a quello “naturalistico” di Pareto. Ma a troncare il dilemma intervenne il fascismo. Quando, sulle ceneri della divisione tra le forze democratiche – liberali, cattoliche e socialiste ferite dalla scissione di Livorno – si incaricò di fornire la sua risposta. Eccola: un moderno regime reazionario di massa. Che lascia filtrare al vertice ceti medi emergenti, nel quadro di un compromesso storico con industria, monarchia e Chiesa. E che spacca e comprime in basso i ceti subalterni. Prima di morire, schiantato da un attacco cardiaco successivo all’aggressione squadristica a Torino, Gobetti individuò i tratti salienti di quella “modernizzazione reazionaria”. Descrivendola come “autobiografia di una nazione”: una micidiale miscela di populismo, antiparlamentarismo e tradizionalismo retrivo. Rassodata da un nuovo ceto medio risentito ed estraneo alle istituzioni, percepite come nemiche. Fu l’ultima fiammata di intelligenza di quel giovane acerbo, le cui intuizioni ante-litteram ridimensionano alquanto l’originalità di tante polemiche “revisionistiche” molto più tarde.
EDMUND HUSSERL
BIOGRAFIA
1859 Edmund Husserl nasce a Prossnitz, Moravia, l’8 aprile del 1859.
1878 Dopo aver studiato due anni prima astronomia all’Università di Leipzig, si trasferisce a Berlino per studiare matematica. Egli segue i corsi di algebra di Weirstrass.
1883 Conclude gli studi di matematica con una tesi sul calcolo delle variazioni.
1884 Il 24 aprile muore il padre. Si trasferisce lo stesso anno a Vienna, dove segue le lezioni di Brentano.
1887 Sposa il 6 agosto Malvine Steinschneider.
1891 Pubblica la Filosofia dell’aritmetica .E nel settembre dello stesso anno si trasferisce a Göttingen dove viene nominato professore nell’Università dell’omonima cittadina.
1906 Dopo aver pubblicato nel 1901 le Ricerche logiche , diviene professore a tutti gli effetti, ricopre la cattedra di filosofia.
1913 Husserl mantiene uno stretto rapporto con Jaspers. Sono di quest’anno le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica.
1916 Il 5 gennaio si trasferisce a Friburgo per ricoprire la cattedra di filosofia. Lì avrà come allievo Heidegger.
1918 Inizia un’assidua corrispondenza con i fisici di Gottinga.
1926 Heidegger presenta al maestro, Husserl, una copia di Essere e tempo .
1927 Lavora all’Enciclopedia Britannica.
1928 Venne obbligato dal regime nazista a lasciare l’insegnamento in quanto ebreo. Egli si ritira così a vita privata. Pubblicherà nel 1929 la Logica formale e trascendentale .
1938 Muore il 27 aprile del 1938.
VITA, OPERE E CONTESTO STORICO
Edmund Husserl nacque nel 1859 a Prossnitz, in Moravia, da famiglia ebrea, studiò matematica e fisica, prima presso l’università di Lipsia e poi, dal 1878, in quella di Berlino, dove seguì i corsi dei matematici Kronecker e Weierstrass, laureandosi con quest’ultimo nel 1833. Nel 1884 ritornò a Vienna, dove si avvicinò a Brentano e, nel 1887, sostenne l’esame per la libera docenza ad Halle. In questo stesso anno, dopo essersi convertito alla confessione evangelica, sposò Malvine Charlotte Steinscheider, anch’ella ebrea convertita. Nel 1891 pubblicò la sua prima opera Filosofia dell’aritmetica , poi nel 1900 e 1901 i due volumi di Ricerche logiche . Nominato nel 1901 professore straordinario all’università di Gottinga, vi rimase fino al 1916, quando divenne professore a Friburgo. In questo periodo fondò la rivista che poi divenne l’organo del movimento fenomenologico, lo ‘Jahrbuch für Philosophie und phanomenologische Forschung’ (Annuario di filosofia e di ricerca fenomenologica), in cui compariranno anche scritti importanti dei suoi primi discepoli, quali Scheler e Heidegger, e pubblicò alcuni dei suoi scritti più significativi, quali Filosofia come scienza rigorosa (1911) e il primo tomo delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913). Nel dopoguerra, la filosofia di Husserl cominciò ad essere conosciuta anche fuori dalla Germania: nel 1922 tenne una conferenza a Londra sulla fenomenologia e, nel 1929, altre conferenze alla Sorbona di Parigi, poi ripetute a Strasburgo, il cui testo fu trascritto in francese, sotto la guida di A. Koyré, da G. Pfeiffer ed E. Lévinas, comparendo nel 1931 con il titolo Meditazioni cartesiane . Intanto, nel 1928, sulla cattedra di Friburgo gli era successo l’allievo Heidegger, mentre egli si dedicava alla composizione di altre opere, come Logica formale e trascendentale (1929) e una Postilla alle Idee , da apporre come premessa alla traduzione inglese di quest’opera, uscita nel 1931: in essa, egli prendeva posizione tra l’altro contro la filosofia dell’allievo Heidegger. Con l’avvento del nazismo nel 1933 arrivarono tempi duri per Husserl: fu radiato dall’università di Friburgo in quanto ebreo, proprio nel periodo in cui Heidegger ne era rettore; stessa sorte toccò al figlio, professore di Diritto, che nel 1936 emigrò negli USA. In alcune conferenze, tenute a Vienna e a Praga nel 1935, Husserl rilanciò il programma fenomenologico come via di salvezza dai pericoli di disumanizzazione e irrazionalismo che incombevano sulla cultura europea: esse costituiscono l’abbozzo della sua ultima opera, incompiuta, che sarà pubblicata postuma col titolo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1954) . Nel 1938 Husserl morì a Friburgo; i suoi numerosi manoscritti, grazie a H. L. van Breda, poterono essere salvati dalla distruzione ed essere trasferiti all’università di Lovanio, dove costituiscono il fondo degli ‘Archivi Husserl’. A partire dal 1950 ha preso avvio, sotto il titolo di ‘Husserliana’, la pubblicazione di questi inediti: tra essi vanno ricordati i volumi secondo e terzo delle Idee (1952) , Filosofia prima (1956) e Sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo (1966) . Altri scritti sono stati pubblicati dal suo allievo L. Landgrebe ( Esperienza e giudizio del 1939) e da G. Brand ( Mondo, io e tempo del 1955).
ARITMETICA E LOGICA
La prima opera di Husserl, Filosofia dell’aritmetica (1891), é dedicato a Brentano, dal quale Husserl riprende il concetto di intenzionalità come carattere costitutivo degli atti psichici che ‘tendono’ sempre necessariamente verso il loro oggetto. Su questa base, Husserl considera la genesi del concetto di numero : esso a suo avviso deriva da un atto unitario della mente, che dirige intenzionalmente la sua attenzione su molteplicità di oggetti riuniti in ‘aggregato’ specifico (ad esempio un insieme di mele). A partire da questo, esso procede a ricavare per astrazione il concetto generale di aggregato, concepito come collegamento collettivo delle unità costitutive di una molteplicità; procedendo a contare tali unità, si arriva al concetto di numero. Husserl riconosce l’ esistenza autonoma dei numeri come forme generali, cioè come strutture rappresentative costanti del soggetto, le quali condizionano l’attività conoscitiva, ma nella misura in cui descrive tali strutture nella loro genesi e organizzazione mentale, resta ancora vincolato allo psicologismo . In seguito ad una recensione critica di Frege, apparsa nel 1894, che Husserl rimprovera di confondere ancora il piano logico con quello psicologico, e alla lettura di Bolzano, Husserl si allontano a poco a poco dallo psicologismo. Riconosce che la logica per compiere ragionamenti o deduzioni corrette, ma ha a che fare anche con il significato dei concetti e, quindi, con il loro contenuto oggettivo. Si pone dunque la necessità di affrontare il problema delle relazioni tra logica e psicologia e Husserl lo fa con lo scritto Ricerche logiche . Le leggi che descrivono i processi psicologici sono generalizzazioni che partono dall’esperienza e pertanto non hanno validità necessaria, ma sono modificabili o correggibili in base all’accertamento di fatti empirici. I princìpi logici e matematici, invece, sono necessariamente veri e la verità stessa é atemporale, cosicchè il rapporto fra premesse e conclusione nei ragionamenti non é riducibile all’accertamento empirico di relazioni di coesistenza o di successione di atti psichici. Una logica pura non é quindi fondabile su basi empirico-psicologiche, ma non può nemanco avere un carattere meramente formale; essa invece deve essere la teoria di ogni possibile tipo di ragionamento, in grado di determinare le condizioni ideali di possibilità della scienza in generale. Su questa base, Husserl analizza il concetto di significato ; egli é del parere che l’unità minima di significato sia non il termine linguistico singolarmente preso, ma la proposizione , la quale in generale enuncia che qualcosa o é o non é. La logica studia la proposizione a prescindere dal fatto che essa sia vera o falsa oppure che sia formulata verbalmente o pensata da qualcuno; sotto questo profilo, dunque, essa é pienamente indipendente dalla psicologia e non si configura come scienza del pensiero. Per proposizione però Husserl intende non i singoli enunciati, ma l’unità o l’ essenza di tutti gli enunciati con lo stesso significato. Questa essenza ha esistenza autonoma rispetto ai singoli enunciati, allo stesso modo degli universali (ad esempio la bianchezza), i quali non sono entità singole, ma l’insieme o l’essenza di una molteplicità di cose singole (in questo caso le singole cose bianche). Di queste essenze, secondo Husserl, abbiamo un’esperienza autoevidente, caratterizzata da una certezza superiore a ogni certezza data dalle scienze empiriche: egli chiama questa esperienza intuizione categoriale, per distinguerla dalla semplice intuizione empirica, che carpisce solamente oggetti individuali. La logica pura consiste nella descrizione di queste essenze, che sono alla base di ogni tipo di indagine e scienza: si tratta di un’analisi fenomenologica, che mostra come le leggi logiche appaiono ed operano nel vissuto (in tedesco Erlebnis ) concreto della conoscenza. Partendo dalla considerazione dell’oggetto intenzionale dei vari atti psichici, essa descrive come tali leggi, indipendenti dall’esperienza, si realizzano soggettivamente in riferimento agli oggetti, che sono intenzionali negli atti conoscitivi.
LA FENOMENOLOGIA
Per Husserl l’ideale della vera filosofia consiste nel realizzare l’idea della conoscenza assoluta, basandosi su un fondamento certo, e la fenomenologia é il metodo che permette di raggiungere questo obiettivo. Questo programma Husserl lo delinea e lo svolge negli scritti successivi alle Ricerche logiche , nella Filosofia come scienza rigorosa e, specialmente, nelle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica . Per costituirsi come scienza rigorosa, la filosofia non deve assumere nulla come ovvio e indiscutibile, ma deve raggiungere criticamente un fondamento dotato di evidenza assoluta. A questo scopo, essa non può partire dall’ atteggiamento naturale , che assume il mondo come un insieme di fatti ovvi: le stesse scienze empiriche si fondano su questo presupposto e identificano la conoscenza con l’accertamento dei fatti ritenuti oggettivi e indiscutibili. La scienza, secondo Husserl, analizza il mondo in maniera ingenua, accettandolo acriticamente come esistente e limitandosi ad accumulare sapere su sapere. Ma l’esperienza delle cose é variabile e cangevole e, dunque, non può garantire l’ oggettività e la validità della conoscenza, cosicchè le scienze della natura non possono propriamente risolvere i problemi di una teoria della conoscenza. Dunque Husserl può affermare, nella Filosofia come scienza rigorosa , che ‘ ogni scienza della natura é ingenua nei suoi punti di partenza: la natura che essa vuole prendere in esame, per essa esiste semplicemente ‘ . Bisogna invece liberarsi da ogni presupposto, sia dalle credenze comuni, sia da quelle proprie di tali scienze, così come dai contenuti dottrinali di tutte le filosofie precedenti. A questo provvede quella che Husserl definisce, con un termine mutuato dallo scetticismo antico, epochè , che letteralmente vuol dire ‘sospensione del giudizio’ . L’ epochè consiste nel mettere tra parentesi l’atteggiamento naturale e tutto quel ch’esso comporta: ad esempio, l’assunzione dell’esistenza del mondo o la distinzione di soggetto e oggetto quali dati ovvi. Essa però non ha un compito meramente distruttivo nei confronti delle credenze o dei pregiudizi diffusi e, in questo senso, non coincide con il dubbio scettico. La sua finalità é invece costruttiva ed é correlata all’assunzione di un atteggiamento fenomenologico che raggiunge la consapevolezza che la conoscenza di questi dati, che appaiono ovvi all’ atteggiamento naturale, é possibile solamente in riferimento alla soggettività. ‘ Io non nego questo mondo, quasi fossi un sofista, non revoco in dubbio il suo esserci, quasi fossi uno scettico, ma esercito in senso proprio l’epochè fenomenologica, cioè: io non assumo il mondo che mi é costantemente già dato in quanto essente, come faccio, direttamente, nella vita pratico-naturale ma anche nelle scienze positive, come un mondo preliminarmente assente e, in definitiva, come un mondo che non é un terreno universale d’essere per una conoscenza che procede attraverso l’esperienza e il pensiero. Io non attuo più alcuna esperienza del reale in un senso ingenuo e diretto ‘ ( Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica libro I, sez. II, cap. I, § 32) . Sospendendo l’affermazione della realtà del mondo, il mondo stesso diviene un insieme di fenomeni che si danno alla coscienza e ai quali la coscienza si rapporta come ad oggetti che essa intenziona nei propri atti. Si tratta di apprendere a guardare le cose nel loro costituirsi come fenomeni in relazione agli atti di rappresentazione, di percezione, di ricordo e così via, cioè in relazione alle esperienze vissute (Erlebnisse), in cui esse si danno. Si capisce allora il significato del programma di Husserl di tornare alle ‘cose stesse’ : messa tra parentesi l’esistenza del mondo come un dato ovvio, verso il quale si prova interesse, l’atteggiamento fenomenologico diviene l’atteggiamento meramente teoretico di uno spettatore disinteressato. Lo sguardo di questo spettatore però é diretto non già verso le cose empiriche nella loro accidentalità, bensì verso le essenze . L’atteggiamento fenomenologico assume come criterio di validità l’ evidenza , con la quale i contenuti intenzionali dalla coscienza si danno nella loro essenza in specifici atti intenzionali. Questo vuol dire che l’analisi fenomenologica mette tra parentesi l’oggetto naturale nella sua singolarità e opera quella che Husserl definisce riduzione eidetica (dal greco eide , ‘forme’ , ‘idee’ o ‘essenze’), che porta appunto alle essenze quali si danno nell’intuizione della coscienza. Recuperando il progetto di Cartesio, Husserl si propone dare una fondazione assoluta alla conoscenza: e ritiene di poterlo fare con la fenomenologia (che è scienza dei puri fenomeni), grazie alla quale egli dice di essere approdato in un “mondo nuovo”. Anche Cartesio era approdato in tale mondo, scoprendo la soggettività su cui poggia l’Età moderna, ponendo la realtà tra parentesi e sottoponendo a indagine il modo in cui avviene la conoscenza: solo che, alla stregua di Colombo, non s’era accorto di essere giunto in un mondo nuovo e aveva finito per intendere il “cogito” come un mero “io psicologico”. La prima mossa della fenomenologia dev’essere, secondo Husserl, la messa tra parentesi delle esistenze, ossia dell’esistenza reale di ciò che continuamente ci si dà alla coscienza. Messe le esistenze “sotto indice di questionabilità”, si studiano i puri fenomeni di coscienza, a prescindere dalla loro reale esistenza: la coscienza è sempre una “coscienza di”, è cioè caratterizzata da intenzionalità: si tratta appunto di studiare tutto ciò a cui tende la nostra coscienza: le essenze o, come Husserl ama esprimersi, le “singolarità eidetiche”. Portiamo un esempio concreto del metodo fenomenologico: vedo di fronte a me un tavolo; in opposizione al procedere della scienza, metto tra parentesi l’esistenza reale del tavolo (che, come giustamente notava Cartesio, non è certa), e lavoro sull’essenza del tavolo (infatti, sul fatto che io stia percependo un tavolo non c’è dubbio). Anche Cartesio era, a suo modo, giunto fin qui: solo che, troppo affrettatamente, aveva preteso di dimostrare la reale esistenza del mondo esterno, per di più passando dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio. La fenomenologia è, come Husserl ama esprimersi, un “puro guardare” che va contro la tendenza naturale (e in questo senso essa è un atteggiamento “innaturale”) a concepire le cose come esistenti: posso (e devo) dubitare che il tavolo esista, ma non posso dubitare del fatto che lo sto vedendo. Proprio la percezione così intesa (che Cartesio aveva chiamato “clara et distinta perceptio”) è quello che Husserl chiama il “principio dei principi” della fenomenologia. Il programma di Husserl di fondazione della conoscenza non può però arretrarsi alla riduzione eidetica: le essenze infatti sono i correlati intenzionali degli atti della coscienza, i quali possono, a loro volta, essere fatti oggetti di riflessione. La riflessione é una proprietà fondamentale del vissuto: grazie ad essa ogni Erlebnis (vissuto) é coglibile e analizzabile. In altre parole si può dirigere uno sguardo riflessivo sugli atti stessi della coscienza e del pensiero: in questo modo, essi diventano oggetti di quella che Husserl definisce percezione immanente , la quale é fornita di evidenza assoluta. Si può infatti sospendere il giudizio sull’esistenza del mondo, ma é evidente che esso appare alla coscienza: non posso sospendere il giudizio sul fatto che io sto pensando. Questo vuol dire che, mentre il mondo naturale e le cose che gli appartengono possono essere o non essere, la percezione immanente garantisce necessariamente l’esistenza del suo oggetto, cioè del vissuto intenzionale della coscienza. La coscienza é dunque il risultato ultimo e indubitabile della riduzione, non ulteriormente riducibile ad altro: Husserl la chiama residuo fenomenologico . Non si tratta però della coscienza empirica dei singoli individui: anche questa, infatti, é sottoponibile ad una riduzione, che la liberi dai suoi caratteri meramente empirici. Il residuo fenomenologico é invece la coscienza pura o trascendentale , che non necessita di altre condizioni antecedenti per esistere: tutto é neutralizzabile e riducibile a riduzione, il mondo e Dio, le scienze e la teologia, ad eccezione dell’io puro, che però non é una sostanza ma é la funzione originaria e universale della coscienza che costituisce il mondo. Rispetto ad essa, il mondo naturale é trascendente, ma esiste e ha senso solo tramite gli atti della coscienza: quest’ultima infatti é intenzionalità, cioè é sempre coscienza di qualcosa. La nozione di intenzionalità della coscienza consente dunque a Husserl di tenersi alla larga dalle forme di naturalismo e positivismo, per le quali la scienza basata su dati oggettivi, indipendenti dalla coscienza, rappresenta il modello della conoscenza, sia dalle forme di spiritualismo, che, ravvisando nella pura introspezione la via di accesso privilegiata agli atti della coscienza, smarriscono appunto il carattere intenzionale della coscienza, garante dell’oggettività della conoscenza stessa. Husserl definisce la fenomenologia come eidetica , cioè ‘scienza di essenze’: a differenza dei fatti empirici, esistenti nello spazio e nel tempo, che possono essere diversi da come sono, le essenze sono necessarie ed universali. Ed é per questo motivo che spesso gli interpreti hanno di vero e proprio ‘platonismo di Husserl’ . Ogni scienza empirica racchiude anche conoscenze eidetiche, ma solo la fenomenologia, al pari della logica e della matematica pura, é esente da dati di fatto e riguarda anche essenze. Esse rappresentano le strutture a priori, costanti e generali, dell’esperienza, le quali hanno per correlato il mondo come insieme degli oggetti di un’esperienza possibile. Il mondo e la realtà hanno senso solo se riferiti alla coscienza, la quale ha appunto la proprietà di conferire senso ad essi. Ogni vissuto intenzionale é costituito da un aspetto soggettivo, chiamato noesi (che letteralmente vuol dire ‘l’operazione del pensare’), cioè dall’atto intenzionale che conferisce senso (il percepire, il ricordare, il desiderare, ecc.) e da un aspetto oggettivo, chiamato noema (che letteralmente vuol dire ‘ciò che é pensato’), cioè il percepito, il ricordato, il desiderato, ecc. Nel noema é dato il mondo intenzionato dalla coscienza nelle sue differenziazioni regionali, cioè nei diversi modi di essere in cui le cose si danno alla coscienza. In base a queste differenziazioni si costituiscono le cosiddette ontologie regionali , dove per regione si intende ‘ la complessiva e superiore unità di generi pertinenti a un concreto ‘ . A ciascuna ontologia regionale appartengono dunque specifiche essenze regionali: in virtù di esse si può ricavare la costituzione fondamentale di ogni conoscenza possibile e il fondamento ontologico di tutte le scienze empiriche. La fenomenologia però é diversa dall’ontologia classica, la quale assume le unità, di cui essa si occupa, nella loro identità, come se si trattasse di qualcosa di fisso e definito; la fenomenologia invece assume le varie unità, cioè le essenze, nel flusso che le correla al vissuto della coscienza ed é finalizzata a stabilire non una dottrina delle varie realtà, ma della costituzione delle realtà oggettive a partire dalla coscienza dell’io puro. Husserl dedica alla trattazione di queste tematiche la terza parte delle Idee , pubblicata postuma. Nella seconda parte, anch’essa pubblicata dopo la morte del pensatore ebreo, Husserl fornisce un’analisi fenomenologica dei modi in cui si costituiscono i tre strati della realtà mondana. Il primo é quello delle cose materiali , cioè il campo delle realtà trascendenti spaziotemporali, oggetto della percezione e delle scienze naturali e rette dalla pura causalità. Il secondo strato é quello del corpo proprio , cioè della totalità liberamente mobile degli organi di senso, e delle nature animali, soggette a condizionamenti e oggetto della somatologia, alla quale scorrettamente é collegata la psicologia, dal momento che non ha senso per Husserl parlare di parallelismo psico-fisico. Il mondo che sta di fronte al soggetto dipende per Husserl dal corpo proprio e dalle peculiarità della psiche. E proprio il terzo strato é costituito dalla psiche , uno strato caratterizzato dalla storicità, in quanto flusso di Erlebnisse collegati tra loro e copn il corpo proprio: a partire dalla psiche, si costituisce il vero, che non trasuda negli Erlebnisse. L’io però per Husserl richiede il tu, il noi, l’altro, il mondo: su questa base poggia il mondo spirituale, in cui la persona, nell’associazione con le altre persone, è centro di un mondo circostante che si configura come orizzonte aperto ai dati oggettivi naturali e sociali che possono offrirsi. La vita spirituale ha la sua legge fondamentale nella motivazione, cosicchè in tale mondo l’io si configura come io libero: questo conferisce al mondo spirituale un primato ontologico su quello meramente naturale.
L’IO E IL MONDO DELLA VITA
Husserl sapeva bene che la sua esigenza di un nuovo, radicale inizio e di una nuova, radicale fondazione della conoscenza presentava analogie con il programma perseguito tre secoli addietro da Cartesio. Proprio su questo punto Husserl ritorna nelle Meditazioni cartesiane : Cartesio ha inaugurato una filosofia di specie nuova, il passaggio dall’oggettività ovvia e spontanea al soggettivismo trascendentale, e su questa linea si colloca pure la fenomenologia. Anche oggi infatti é andato perduto, a parere di Husserl, il senso dell’unità della scienza a causa della carenza di chiarezza sui princìpi di essa e i filosofi non collaborano più in vista di questo fine, cosicchè bisogna rievocare in vita il radicalismo di Cartesio. La scienza é in cerca di verità valide per tutti, ma non può pretendere ad alcuna validità definitiva se manca l’ evidenza assolutamente certa, scevra di ogni dubbio, del suo fondamento. Questa non é ricercabile nel mondo quale appare all’esperienza comune e alle stesse scienze naturali, perchè, come aveva dimostrato Cartesio, quel mondo potrebbe essere solo un sogno o una serie di immagini virtuali inviate al nostro cervello da un genio maligno. Mettendo il mondo tra parentesi, però, io raggiungo non un puro nulla, ma me stesso come io puro o coscienza pura, in cui e per cui l’intero mondo oggettivo é per me. Infatti io possiedo, in quanto io, un mondo continuativo che é ‘per me’ ed io stesso sono dato a me stesso in un’esperienza evidente. Il tempo , come coesistenza e successione dei momenti di vita, é la forma universale che sta alla base di ogni genesi dell’io. Affiora qui l’evidenza apodittica dell’io sono, erroneamente trasformato da Cartesio in una sostanza pensante: si tratta invece dell’ io o ego trascendentale , che é indisgiungibile dalle sue esperienze vissute, é il polo identico dei momenti di vita della coscienza e l’universo delle possibili forme che essi possono assumere. Questa é l’evidenza originaria: e Husserl dice che ‘ non ha senso voler cogliere l’universo dell’essere vero come qualcosa che stia al di fuori dell’universo della cosa possibile ‘ . Il mondo e le cose assumono un significato e un senso solo attraverso l’io, cosicchè si può affermare che la soggettività trascendentale é ‘ l’universo della possibilità di senso ‘ . La fenomenologia, avendo il suo fondamento nell’evidenza dell’io trascendentale, é definita da Husserl come idealismo trascendentale , differente dall’idealismo psicologico alla Berkeley , ma anche da quello kantiano, il quale persevera nel mantenere un mondo di cose in sè come concetto limite. A differenza dell’idealismo tradizionale, quello trascendentale non nega l’esistenza del mondo, ma ha come unico fine il chiarimento del senso di questo mondo . Su questa base, Husserl può asserire che la filosofia può solo rivelare il senso del mondo, non mutarlo. Il rischio del primato accordato all’io può consistere in una forma di solipsismo, che rinchiuda il soggetto in se stesso e lo renda irraggiungibile agli altri e incapace di accedere lui ad essi. Sempre nelle Meditazioni cartesiane Husserl si prende la briga di mostrare che l’ intersoggettività é costitutiva della soggettività trascendentale; per il pensatore ebreo, infatti, io originariamente ho esperienza del mondo come intersoggettivo, cioè come ‘ un mondo che é per tutti ed i cui oggetti sono disponibili a tutti ‘. Entro questa sfera comune io tento di delimitare la sfera specifica di quel che é ‘mio proprio’, ma questo presuppone il concetto di ‘altro’. In questo modo, si dirada l’apparenza di solipsismo, pur continuando a valere il principoio secondo cui tutto quel che é per me, compresi gli altri soggetti, possono attingere il loro senso esclusivamente dalla mia sfera di coscienza. Le filosofie della vita, e anche filosofi che facevano proprio il metodo fenomenologico (Scheler ed Heidegger), biasimavano Husserl per un eccesso di intellettualismo, per un’insistenza unilaterale sul problema della conoscenza e, quindi, per l’incapacità di pervenire alla soggettività pratica e attiva e di affrontare i problemi dell’esistenza. Contro queste critiche Husserl rivendic, nella Postilla alle Idee (1930), il carattere universale della fenomenologia, avente un metodo in grado di far fronte a tutti i problemi della filosofia e, per questa strada, anche a ‘ tutte le domande che l’uomo concreto può porre ‘ . Forse proprio in risposta a queste accuse di distrattezza e alla nozione di essere-nel-mondo di Heidegger, Husserl pone al centro della propria riflessione, negli ultimi anni di vita, il concetto di mondo-della-vita , che svolge una mansione di primo piano nell’opera intitolata La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (pubblicata postuma). Le scienze contemporanee, nonostante i loro evidenti successi, sono tormentate da paradossi e da problemi di fondazioni e attraversano una crisi profonda, espressione della crisi radicale della vita dell’umanità europea. In discussione é non tanto il valore delle conoscenze specifiche conseguite dalle singole scienze, quanto il significato che la scienza nel suo complesso ha e può avere per l’umanità. Alla base della crisi c’é la riduzione dell’idea della scienza a scienza di fatti, la quale prescinde da qualunque riferimento al soggetto che effettua l’indagine scientifica. Questo vale anche per le cosiddette scienze dello spirito, in cui l’avalutatività, in quanto salvaguardia da giudizi arbitrari meramente soggettivi, diviene l’ideale da perseguire. Escludendo in linea di principio i problemi del senso dell’esistenza e del mondo in generale, la scienza finisce con l’estraniarsi dagli uomini; ne consegue per Husserl che ‘ le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto ‘ . L’origine della crisi di oggigiorno delle scienze va scorta per Husserl nella crisi dell’idea di filosofia, come scienza onnicomprensiva della totalità dell’essere, di cui le singole scienze costituiscono ramificazioni specifiche. L’umanità europea si era costituita come autonoma grazie a questa concezione della filosofia, affiorata nel Rinascimento, la quale tendeva a dare alla vita regole basate sulla ragione, al fine di rendere liberi. A partire da Settecento, la possibilità di una metafisica era divenuta problematica ed era franata la fede in una filosofia universale in grado di guidare l’uomo e, quindi, la fede in una ragione che fosse capace di dare un senso alla totalità della natura e della storia. Per capire la crisi che investe il presente, per Husserl, si deve riconsiderare la storia dell’umanità, rendendosi conto che le battaglie spirituali dell’umanità europea sono lotte tra filosofie: ‘ le uniche battaglie davvero significative del nostro tempo sono battaglie tra un’umanità che é già franata in se stessa e un’umanità che é ancora radicata su un terreno, e che lotta proprio per questo inserimento o per uno nuovo. Le vere battaglie spirituali dell’umanità europea sono lotte tra filosofie, cioè tra le filosofie scettiche- o meglio tra le non filosofie, che hanno mantenuto il nome ma che hanno smarrito la coscienza dei loro compiti- e le vere filosofie, quelle ancora vive ‘ ( La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale parte I, § § 6-7). Grazie a questa riconsiderazione storica ci si può rendere conto che ‘il senso dell’umanità’ autentica consiste in una umanità ‘ fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così ‘ . Questa nuova nozione di umanità fa la sua comparsa, stando a Husserl, in Grecia con la nascita della filosofia come attività teoretica puramente disinteressata e condotta dalla ragione, volta ad un sapere universale dotato di fondamento assoluto. Si é originato in questo modo un §telos , un fine, consistente nella realizzazione di un’umanità pienamente razionale: questo fine, al tempo stesso, é un compito infinito, che ha i suoi funzionari e garanti nei filosofi, responsabili per il vero essere dell’umanità. Per uscire dalla crisi imperante nel presente bisogna dunque recuperare il senso originario di questo ‘fine’, proseguendo l’eredità trasmessa dai primi filosofi greci, la quale é scivolata nei meandri dell’oblìo, originando la crisi delle scienze stesse: questo é possibile solo tramite la filosofia fenomenologica, in grado di volgere uno sguardo pienamente disinteressato verso le cose stesse e, quindi, di ravvisare nella soggettività trascendentale il fondamento di ogni sapere possibile; il liberare l’umanità dalla crisi é compito dei filosofi: ‘ L’umanità in generale é per essenza un essere uomini entro organismi umani generativamente e socialmente connessi, e se l’uomo é un essere razionale, lo é solo se tutta la sua umanità é un’umanità razionale […] Noi siamo riusciti a comprendere, anche se solo nelle linee più generali, come il filosofare umano e i suoi risultati non abbia affatto il significato puramente privato o comunque limitato di uno scopo culturale. Noi siamo dunque- e come potremmo dimenticarlo?-, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità […] E’ chiaro (e che cosa altrimenti ci potrebbe aiutare?) che occorrono esaurienti considerazioni storiche e critiche per giungere, prima di qualsiasi decisione, a un’autocomprensione radicale, che occorre indagare su ciò che originariamente si perseguiva con la filosofia, ciò che tutte le filosofie e tutti i filosofi, storicamente intercomunicanti, hanno perseguito; e tutto questo attraverso una considerazione critica di ciò che nella propria finalità e nel proprio metodo rivela quell’aderenza ultima e autentica alla propria origine che, penetrata, lega a sè apoditticamente la volontà ‘ . Per Husserl, la crisi delle scienze incomincia già con Galileo e con la sua idea della matematizzazione della natura, che ha portato a considerare la natura stessa come un mondo di corpi realmente circoscritto in sè e, quindi, a far proprio l’atteggiamento naturale, che assume il mondo come un dato ovvio, distinto e non dipendente dal soggetto che lo conosce e grazie al quale riceve un significato. In questo modo, si prepara il dualismo cartesiano tra natura e mondo psichico, che é la premessa per la specializzazione delle varie scienze e per la costruzione di una psicologia oggettivistica. Sotto questa prospettiva, la stessa soggettività, l’anima o la mente, diviene un’entità analoga alle cose naturali, indagabile con i metodi presi a prestito dalle scienze della natura. Questo ha portato a dimenticare il fondamento che conferisce senso alle stesse operazioni delle scienze naturali, cioè quello che Husserl definisce il mondo-della-vita (in tedesco Labenswelt ) , cioè la vita che ha esperienza del mondo prima di qualsiasi formazione di categorie e giudizi. In questo senso, essa é prescientifica e precategoriale, ma é al tempo stesso il fondamento e la fonte delle conoscenze stesse delle scienze. Questo non vuol dire che essa fornisca i dati della sensibilità come dati ovvi a partire dai quali esse si costruiscono. Il mondo della vita é piuttosto definito da Husserl come ‘ un regno di evidenze originarie ‘ , esperite nella loro immediatezza e comuni a tutti gli uomini in quanto soggetti conoscenti. Ad esso si perviene tramite la riduzione fenomenologica, che permette di vederne il centro nella soggettività che, sia nei modi prescientifici, sia in quelli scientifici, tende a raggiungere il senso ultimo del mondo. Il primo in sè non è, dunque, l’essere del mondo nella sua ovvietà, come presumono le scienze naturali, ma la soggettività, che nelle sue forme prescientifiche pone ingenuamente l’essere del mondo e poi, nelle varie scienze, l’obiettivizza. La fenomenologia invece, in quanto riflessione da parte del soggetto conoscente su se stesso e sulla propria vita conoscitiva, può ritornare a questa fonte ultima di tutte le informazioni conoscitive e, su questa base, costruire una filosofia universale fondata in maniera pura e definitiva. Tramite la fenomenologia, la filosofia può dunque recuperare il ‘telos’, il fine, già insito nella sua origine greca, della ricerca e realizzazione di un’umanità interamente e liberamente fondata sulla ragione. Indicando nella fenomenologia la prosecuzione più adeguata dell’ideale di una libera indagine razionale, scevra di presupposti e tendente ad una validità universale, Husserl intendeva opporsi all’irrazionalismo, che ormai egli vedeva minacciare la visione spirituale e materiale dell’Europa e soprattutto della Germania e al quale le scienze, a suo parere, non erano più in grado di opporre alcun attacco. Sotto questa prospettiva, la filosofia riacquisiva il compito etico di salvaguardare il significato autentico dell’idea di umanità.
MAX SCHELER
“I valori e i loro ordinamenti brillano non già nella «percezione interna» o nella introspezione (che ci dà solo elementi psichici), ma nello scambio vivo col mondo (sia esso psichico, fisico o altro ancora), nell’amore, nell’odio, ossia nella pienezza di quegli atti intenzionali. Ed è in ciò che è dato in questa forma che consiste il contenuto apriorico” (Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, I, II, A).
Il metodo fenomenologico inaugurato da Edmund Husserl incise molto sulla filosofia tedesca della prima fase del Novecento: in particolare, si avvertiva l’esigenza di estendere l’applicazione del metodo fenomenologico anche ad altri ambiti dell’esperienza umana oltre a quello della conoscenza, in particolare alla vita emotiva e all’etica. E proprio di questo ambito si interessò Scheler. Max Scheler nacque a Monaco nel 1874, da padre protestante e da madre ebrea; per ben due volte si convertì al cattolicesimo e altrettante volte se ne discostò. Nel 1911 fu a Gottinga, dove insegnava Husserl, e nel 1912 dimorò a Berlino, dove legò amicizia con lo storico del capitalismo Werner Sombart. In quello stesso anno pubblicò un saggio Sul risentimento e l’anno successivo la prima parte della sua opera Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori . Al termine della guerra, nel 1919, divenne professore di filosofia all’università di Colonia. Negli ultimi anni della sua vita, terminata nel 1928, Scheler compose numerosi scritti: Essenza e forme della simpatia (1923), Problemi di una sociologia del sapere (1924), Le forme del sapere e la società (1926), La posizione dell’uomo nel cosmo (1927). Scheler è convinto, con Husserl, del carattere intenzionale della coscienza umana (la coscienza umana è sempre coscienza di qualche cosa: non c’è coscienza senza oggetto): con Husserl concorda anche nel sostenere che gli atti intenzionali della coscienza sono sottoponibili ad un’analisi fenomenologia che riguardi le loro essenze, e nell’ammettere l’irriducibilità reciproca degli atti intenzionali (da ciò scaturisce l’autonomia dell’etica rispetto alla logica). Scheler era convinto che il neokantismo della Scuola di Marburgo, trascurando l’esperienza vissuta, non fosse in grado di cogliere la peculiarità della vita spirituale e culturale dell’uomo. Per Scheler anche la sfera dei sentimenti, non solo quella conoscitiva, è caratterizzata dall’ intenzionalità . Quello del sentimento costituisce un ambitoautonomo dal conoscere, in quanto è dotato di contenuti originari propri, dati a priori e non derivati dalle conoscenze di dati di fatto. Gli atti del sentimento sono infatti correlati intenzionalmente ai valori, che sono qualità inerenti alle cose e sono oggetto di un’intenzionalità conoscitiva, distinta dalle forme di conoscenza proprie della percezione o dell’intelletto: si tratta dell’ intuizione emozionale, dotata di un’evidenza, che non è minore dell’evidenza che gli atti del percepire o del ricordare e così via hanno dei loro oggetti. I valori costituiscono dunque un mondo oggettivo caratterizzato da proprie leggi a priori che è compito dell’etica mettere in luce e descrivere. Con queste considerazioni Scheler poneva fine al primato del problema della conoscenza sostenuto da alcuni neokantiani e, in qualche modo, ancora condiviso da Husserl. Al problema della fondazione dell’etica, Scheler dedicò una delle sue opere più importanti, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori . L’obiettivo polemico di essa è costituito dal formalismo etico, proprio della teoria kantiana. Kant aveva eliminato il sentimento e le emozioni dalla vita morale ed aveva scorto il fondamento della morale in una legge universale della ragione, puramente formale e priva di contenuti, la quale comanda incondizionatamente, a prescindere da ogni esigenza di felicità. Secondo Scheler, invece, la vita morale include costitutivamente sentimenti ed emozioni: soltanto essi, infatti, ci consentono di accedere ai valori. L’etica dunque non è puramente formale ma è dotata di un proprio contenuto a priori dato dall’intuizione dei valori: in questo senso essa può essere definita come etica materiale. I valori sono oggettivi e universali e non possono essere derivati dall’esperienza che è sempre variabile e mutevole ma sono intuiti direttamente. Detto altrimenti: in rottura col kantismo, per Scheler sono possibili intuizioni a priori che siano universali e al tempo stesso materiali; sicchè i contenuti materiali dell’etica, cioè i valori, vengono ad essere il frutto di un’intuizione a priori. Se per Kant il discorso morale era universale proprio in quanto formale, in Scheler diventa universale in quanto materiale. I valori sono dunque essenze che vengono colte a priori da un sentire che nulla ha a che vedere col sapere discorsivo. Scheler distingue tra valori e beni: mentre i primi sono qualità assiologiche, i secondi sono le singole cose concrete mediante le quali vengono veicolati i valori (ad esempio: l’amicizia è un valore; l’amico è un bene). E mentre i valori sono assolutamente universali, i beni sono contingenti: se infatti l’amicizia è e resta tale, l’amico può tradire. A Kant Scheler imputa l’aver confuso indebitamente beni e valori. Il sentire intenzionale rivela inoltre l’esistenza di leggi a priori che determinano una gerarchia oggettiva tra i valori, appresa attraverso l’atto del preferire, sul quale si fondano le scelte e correlata a gradi diversi del sentimento. Scheler scrive espressamente che “il regno dei valori, tutt’intero, è sottomesso a un ordine che gli è costitutivo”. I v,alori sono più alti quanto più si allontanano dal sensibile: il che implica che, non di rado, essi comportino sacrificio e rinuncia ai valori utilitari e sensoriali (nell’avversione all’eudemonismo Scheler può concordare con Kant, e anzi si rivela ancora più radicale rispetto a lui rigettando il valore della felicità, poiché troppo imparentata col sensibile). Esaminiamo in concreto la gerarchia dei valori: 1) i sentimenti sensibili o della sensazione, a cui sono correlati i valori sensibili compresi nella gamma tra gradevole e sgradevole; 2) i sentimenti corporei, legati allo stato del corpo, correlati ai valori del nobile e del volgare, dell’utile e del dannoso, su cui si fonda anche la vita associata, e i sentimenti vitali, legati alle funzioni del corpo, ai quali sono correlati i valori vitali come la generosità, il coraggio e così via; 3) i sentimenti legati all’anima o all’io, a cui sono correlati i valori spirituali e conoscitivi del vero e del falso, del bello e del brutto, del giusto e dell’ingiusto; 4) i sentimenti propri della persona ai quali sono correlati i valori religiosi del sacro. Questi sono i valori più alti e appaiono soltanto “in oggetti dati intenzionalmente come oggetti assoluti”: si tratta quindi di valori assoluti intuibili soltanto attraverso un atto di amore. Gli atti di amore hanno infatti la prerogativa, stando a Scheler, di essere intenzionalmente diretti sempre verso persone, e la persona si colloca ad un livello superiore rispetto all’io ed è legata alla sfera del sacro; in questa sfera il valore è fondamentalmente personale. La gerarchia dei valori è disposta secondo strati che vanno dal livello corporeo a quello spiritualmente più puro della persona. Su questa base Scheler può criticare Husserl per aver posto al vertice l’io trascendentale che è una funzione universale puramente conoscitiva e impersonale: ciò significa, per Scheler, non riconoscere il primato della persona, ridotta a pura esemplificazione empirica di questa funzione conoscitiva universale. La vita morale consiste, invece, nella piena realizzazione della persona umana e, quindi, include costitutivamente sentimenti ed emozioni, in particolare la simpatia e l’amore. La persona è, per usare le parole di Scheler, “l’unità immediata del vivere per l’esperienza vissuta”: è, detto altrimenti, una “unità immediata covissuta”, ossia un’immediatezza unitaria avvertita tramite le molteplici esperienze che il soggetto vive rapportandosi agli altri. Anche nella definizione del concetto di persona, Scheler si oppone a Kant, per il quale la persona era riducibile all’Io ed era contraddistinta da una totale aseità trascendentale. Per Scheler, al contrario, il concetto di persona dev’essere distinto da quello di anima, la quale implica il dualismo anima/corpo: la persona è una “unità bio-psichica”, dice Scheler, ma poi finisce inavvertitamente per far prevalere il momento spirituale su quello fisico. Essendo essenzialmente attività, la persona è soprattutto spiritualità: e tra le varie persone sussistono differenze irriducibili le une alle altre. Ogni persona ha il suo destino, il suo carattere, i suoi compiti. Scheler precisa però che “lo spirito è impotente”, da solo non può creare alcunché: deve penetrare la dimensione fisica e dominarla secondo la gerarchia dei valori. Perché ciò possa avvenire, occorre appoggiarsi alla collaborazione delle altre persone, alla luce del fatto che sussiste un’ineludibile comunanza spirituale tra gli uomini. Sicché l’azione morale è tanto più facile quanto più si avverte tale comunanza e c’è immedesimazione (Einfühlung): tale immedesimazione simpatetica implica un “sentire dentro” e, al contempo, un “sentire insieme”. La persona, come abbiamo visto, è l’uomo nella sua totalità ed individualità, nell’unità di tutti i suoi atti ed ha per correlato costitutivo il mondo e la partecipazione emotiva alla vita delle altre persone: in questo consiste propriamente la simpatia. La simpatia è un fenomeno originario, una funzione innata, grazie alla quale si va oltre se stessi e si riconosce l’altro a partire da una partecipazione affettiva. La partecipazione affettiva può assumere vari aspetti, che vanno dal contagio o fusione emotiva all’identificazione o all’immedesimazione: sull’immedesimazione intenzionale e cosciente si fonda la simpatia. La simpatia, tuttavia, non deve essere confusa con l’amore, che rappresenta un momento più avanzato: la simpatia, infatti, è meramente reattiva e cieca di fronte al valore dell’altro e quindi si differenzia dall’amore, che è attivo e poggia sul riconoscimento della persona altrui nella sua diversità e irripetibilità. Senza amore la persona è soltanto un animale sociale, un’entità oggettiva e sostituibile, mentre nell’amore ciascuno è veramente sé stesso e l’io diventa propriamente persona. Essere persona comporta l’essere aperti alla totalità delle cose e delle persone reali e possibili: in questo senso l’amore è sempre amore della persona in quanto incarna un valore anche quando essa lo nega. Ogni persona ha come correlato un mondo proprio che non coincide con l’idea di un mondo unico e identico: questo rinvia all’idea di una persona infinita e perfetta, della quale è a sua volta il correlato. Nel riconoscersi come entità finita e nell’aprirsi alle altre persone l’uomo ritrova il proprio fondamento in questa persona infinita e assoluta, ossia in Dio, concepito come il luogo dei valori. In tal modo l’etica di Scheler trova il proprio compimento in una forma di teismo, fondato sul riconoscimento di Dio come persona, oggetto di amore da parte degli uomini. In L’eterno nell’uomo (1921), composto da Scheler quando era vicino al cattolicesimo, l’esperienza religiosa è vista come il luogo in cui si rivela il divino, cioè la persona di Dio nella sua sacralità. Solo nel cristianesimo, secondo Scheler, ha fatto la sua comparsa l’amore della persona spirituale di tutti i propri simili in Dio, ma il mondo moderno ha dimenticato e nascosto la simpatia e l’amore. Scheler riprende da Nietzsche il concetto di risentimento , ma, a differenza del folgorante profeta del superuomo, lo considera il contrassegno non della morale cristiana, bensì delle morali moderne: è il risentimento infatti che porta a ritenere la natura soltanto come un ambito da dominare e gli altri uomini soltanto come strumenti o addirittura ostacoli in vista del raggiungimento del benessere economico. L’invidia, matrice del risentimento, genera lo spirito di concorrenza, che è alla base dell’economia moderna e del mondo borghese. Come rimedio alla lotta e alla competizione, la morale borghese ha elaborato, in sostituzione dell’amore cristiano, l’umanitarismo, che però isola l’umanità da Dio, riguarda soltanto i contemporanei e continua a fondarsi, in ultima analisi, sul risentimento stesso. A questa situazione storica e sociale corrisponde una precisa teoria della conoscenza che privilegia la materia rispetto alla vita e allo spirito e adotta come modelli di spiegazione della natura e dello stesso mondo spirituale il meccanicismo e l’evoluzionismo. Il presupposto di queste considerazioni di Scheler è che le teorie della conoscenza sono espressioni delle trasformazioni sociali, culturali, politiche ed economiche di un’epoca; su questa base egli elaborò una sociologia della conoscenza alla quale dedica molte indagini nei suoi ultimi anni. Per un verso, essa richiama la teoria marxista secondo la quale le produzioni ideologiche e intellettuali dipendono, anche per via mediata, dalla struttura economica, ma per un altro se ne allontana in quanto, sulla scia di Weber, riconosce il peso determinante del fattore religioso nella formazione dello spirito del capitalismo e più in generale la funzione che le trasformazioni dei sentimenti e delle preferenze emozionali per i valori svolgono nei mutamenti sociali. Gli eventi storici nascono infatti dall’incontro e dallo scontro tra fattori ideali, cioè tra le forze della creatività artistica, filosofica e religiosa, e fattori reali, cioè gli interessi economici e politici: i primi sono propri della sfera spirituale della persona umana, mentre i secondi rientrano nelle potenze biologiche e vitali. Contrariamente a Karl Marx, Scheler ritiene che il proletariato non sia la forza destinata ad abbattere il capitalismo , dal momento che esso condivide gli stessi valori materialistici, propri della mentalità borghese. Durante il conflitto mondiale, pur indicando nella guerra lo strumento capace di rivitalizzare la nazione e quindi di contribuire al suo miglioramento morale, Scheler aveva invitato a sostituire l’idea della comunità cristiana, fondata sull’amore, alla società borghese capitalistica. Nel saggio Socialismo profetico o socialismo marxista? (1919), egli auspicava una forma di socialismo cristiano , capace di superare sia l’individualismo, sia il collettivismo. In questa prospettiva il lavoro veniva interpretato non solo come castigo inflitto da Dio all’uomo a causa del peccato originale, ma anche come un mezzo con il quale l’uomo stesso collabora alla creatività divina. Nell’ultima fase della sua attività, dopo essersi di nuovo allontanato dal cattolicesimo, Scheler elaborerà, soprattutto in La posizione dell’uomo nel cosmo, una specie di antropologia dualistica, fondata sulla polarità fra spirito e impulso irrazionale e concepirà una forma di panteismo dinamico, in cui il cosmo è interpretato come la divinità stessa che aspira progressivamente a diventare la divinità. Con la sua concezione dei valori, Scheler ha inoltre dato l’abbrivio all’antropologia filosofica: egli infatti chiarisce come la tavola dei valori abbia una precisa data di nascita e resti costantemente legata allo sviluppo storico. Dapprima i valori più alti erano quelli vitali e utilitari, poi, poco alla volta, la gerarchia è andata sempre più raffinandosi, in uno sviluppo che però Scheler non considera come lineare e irenico.
NICOLAI HARTMANN
La vita di Nicolai Hartmann fu interamente consacrata all’insegnamento; nato a Riga nel 1882, fu professore nelle università di Marburgo, Colonia, Berlino e Göttingen; morì a Gottinga nel 1950. Di impostazione fenomenologica, fu autore di numerosissime opere, tra le quali vanno ricordate, senz’ombra di dubbio, Princìpi di una metafisica della conoscenza (1921), Etica (1926), Filosofia sistematica (1931), Il problema dell’essere spirituale (1933), La fondazione dell’ontologia (1935), Possibilità e realtà (1938) e La struttura del mondo reale (1940). La formazione di Hartmann avvenne nell’ambito della Scuola di Marburgo di Cohen e Natorp, ma successivamente si accostò alla fenomenologia di Husserl, da lui intesa come un correttivo all’idealismo logico dei suoi primi maestri. Egli, però, ritenne che la fenomenologia fosse solamente il primo stadio della ricerca filosofica, la fenomenologia, infatti, descrive fedelmente i fenomeni intenzionali della coscienza, ma si arresta ad essi, senza andare avanti, credendo di aver in questo modo raggiunto l’essenza delle cose. Allo sguardo disinteressato tipico della fenomenologia sfuggono così i problemi presenti nei fenomeni, cioè di qualcosa che in essi rimane incompreso: questi problemi diventano oggetto del secondo stadio della ricerca filosofica, che Hartmann definisce aporetica ( dal greco aporia , ‘difficoltà apparentemente senza via d’uscita’). Il terzo e ultimo stadio è dato dalla teoria , che consiste non nella soluzione delle aporie, ma nel tentativo di risolverle. Tutte queste teorie Hartmann le illustra nei Fondamenti di una metafisica della conoscenza (1921): egli sostiene che la filosofia non può prescindere da ‘ una descrizione fedele dei fenomeni ‘, deve svelare le contraddizioni interne del reale (funzione aporetica) e risolvere queste aporie (funzione della teoria). Ad avviso di Hartmann, è finito il tempo dei sistemi filosofici con pretese di definitività: la storia, infatti, sorpassa e rende superati i sistemi, che via via sono costruiti; quel che permane, invece, è il pensiero sistematico, cioè il pensiero che muove dai problemi, i quali in eterno si ripresentano nella storia, per cercarne la soluzione e, per questa strada, mira al sistema come meta ultima, non come anticipazione di soluzioni. La teoria consiste proprio in una trattazione delle aporie, basata su una concezione in grado di oltrepassare la visione ingenua e banale delle cose: il suo campo d’azione è dato dai perenni problemi metafisici . La loro perennità è data dal fatto che essi non sono mai risolubili una volta per tutte, ma si presentano però come inevitabili. Hartmann considera come grave errore il ritenere che nella scienza si debbano ammettere solamente i problemi risolubili, perchè in generale non si può mai sapere in anticipo che cosa sia risolvibile e che cosa no. I problemi metafisici nascono non solo dalla teologia o dalla cosmologia; infatti, pure le scienze positive sollevano problemi metafisici, come quelli riguardanti la validità degli assiomi matematici o dei fondamenti fisici. Nella stessa teoria della conoscenza, osserva Hartmann, che in linea di principio si ritiene che debba servire ad anticipare la metafisica, si celano in realtà caterve di questioni metafisiche. La conoscenza , infatti, ad avviso di Hartmann, non è un puro fenomeno della coscienza; la sua caratteristica è l’intenzionalità, consistente nel trascendere verso l’oggetto. Ma l’oggetto della conoscenza non è integralmente risolubile nel suo essere oggetto, cioè l’oggetto non si riduce alla sua rappresentazione, quale è data ad un soggetto conoscente. La conoscenza si configura dunque come ‘relazione trascendente’ tra soggetto e oggetto, per cui l’oggetto esiste indipendentemente dal soggetto e non è mai del tutto conoscibile. Il modo di essere dell’oggetto Hartmann lo definisce iperoggettivo : questo vuol dire che quel che esso è in sè, non è modificato dal suo entrare in rapporto col soggetto conoscente. Il cambiamento concerne solamente il soggetto, il quale, entrando in rapporto con l’oggetto, diventa rappresentazione del medesimo. L’errore dei neokantiani e di Husserl in persona, stando ad Hartmann, sta nell’aver risolto l’oggetto nella rappresentazione, nel suo darsi alla coscienza. La posizione hartmanniana porta invece ad una rivendicazione del carattere realistico della conoscenza: la conoscenza trascende verso l’oggetto, che però essa non riesce mai a governare totalmente, dal momento che rimane sempre in esso un residuo inaccessibile ed invalicabile. Sotto questo profilo, Hartmann definisce la propria posizione un’ ontologia critica , radicalmente distinta dalle vecchie ontologie, che non ammettevano questi limiti intrinseci alla conoscenza umana e l’esistenza di problemi irrisolvibili. Questi si presentano anche nella dottrina della conoscenza: di questo tipo è, ad esempio, la questione di come sia possibile confrontare la rappresentazione con l’oggetto, se l’oggetto è dato solo nella rappresentazione e quel che esso è in sè contiene sempre un residuo inaccessibile alla conoscenza. Questo, per Hartmann, rimane un enigma, che però è inevitabile, cioè si ripresenta incessantemente alla riflessione filosofica, che deve convivere con esso come con tutti i problemi metafisici. I mondo si presenta in modo evidente come una stratificazione di piani, ognuno dei quali è diverso dagli altri in base ai contenuti: natura inorganica, natura organica, piano psichico e piano spirituale. Ogni strato superiore contiene in sè forme e proprietà appartenenti a quello inferiore, ma al tempo stesso presenta forme e leggi nuove, cosicchè tra l’uno e l’altro non avviene un passaggio graduale. In questo panorama, ogni stato superiore rappresenta una soprastruttura rispetto all’inferiore, da cui è sì condizionato, ma non determinato. Così, ad esempio, il piano psichico è una soprastruttura rispetto a quello organico, in quanto in esso è abbandonata la categoria di spazio dominante a livello organico. E’ quindi sbagliato applicare categorie e modelli esplicativi, pertinenti ad un piano, ad altri piani: in questo senso, non si può parlare di meccanicismo in relazione ai fenomeni psichici o di finalismo in relazione al mondo inorganico. Lo strato più alto è dato dall’ essere spirituale , cui Hartmann attribuisce caratteristiche che fanno venire in mente lo spirito oggettivo illustrato da Hegel. Esso, infatti, non può essere confuso con la coscienza dei singoli individui, in quanto è impersonale ed universale, anche se non esiste al di fuori degli esseri finiti: esso coincide con la vita spirituale, nelle sue svariate manifestazioni storiche, artistiche, religiose, filosofiche e via discorrendo. in definitiva, l’ontologia deve giustificare l’oggettività degli enti esterni alla coscienza, cogliendo il loro fondamento nell’essere, descrivendolo nelle sue diverse sfere. Sempre a proposito dell’ontologia, Hartmann stabilisce, in Possibilità e realtà , che la realtà è possibile e necessaria nella misura in cui è ‘effettuale’: il modo fondamentale dell’essere è l’ effettualità , cioè una assoluta e necessaria capacità di determinare il reale. La stessa posizione è rinvenibile anche in ambito morale: dato che la realtà è necessaria per il fatto stesso di darsi in un modo determinato, la libertà di scelta risulta impossibile. Al di sopra della storia esistono i valori in sè , quel che nella storia nasce e decade è solo la coscienza di tali valori. Richiamandosi esplicitamente a Scheler, Hartmann definisce il bene etico come ‘ un insieme di valori che si rivelano tutti all’uomo con la pretesa di venire realizzati ‘ e, dunque, non sono oggetto di conoscenza disinteressata, ma implicano una relazione emozionale con essi. Dal momento che la coscienza non ha la conoscenza dei valori nel suo insieme, la realizzazione di essi può avvenire solo storicamente, grazie alla mediazione degli uomini. Ne consegue che ogni morale positiva, in vigore in una data società, sarà sempre e comunque necessariamente unilaterale, dato che non è possibile conoscere una volta per tutte cosa sia il bene. Il mondo dei valori è dunque un insieme di entità ontologiche ideali e indipendenti dal soggetto, che ne diventa consapevole tramite un sentimento immediato. Nella sua Etica Hartmann sostiene la necessità di fondare l’etica sullo spiritualismo oggettivo (il diritto, la moralità, l’eticità) operante nella storia, di derivazione hegeliana.
KARL JASPERS
“L’esistenza é ciò che non diventa mai oggetto, l’origine partendo dalla quale penso e agisco, quel che si rapporta a se stessa e, in ciò, alla sua trascendenza. “
Karl Jaspers nacque a Oldenburg, in Germania. Iniziò gli studi in giurisprudenza, poi li abbandonò in favore di medicina, studiò quindi a Berlino, Gottinga e Heidelberg laureandosi nel 1908. Fino al 1915 lavorò presso la clinica psichiatrica di Heidelberg grazie alla specializzazione in psicologia e psichiatria. Nel 1916 gli venne assegnata la cattedra di professore straordinario di psicologia presso l’Università di Heidelberg, nel 1921 quella di filosofia. Nel 1932, con l’avvento del nazismo, gli venne tolta la cattedra e gli venne proibito di pubblicare i suoi scritti. Nel 1945, finita la guerra, gli fu restituita la cattedra e nel 1948 si trasferì a Basilea dove svolse attività di insegnamento fino al 1961. Opere principali: Psicopatologia generale (1913); Psicologia delle visioni del mondo (1919); Filosofia (1932); Ragione ed esistenza (1935); Nietzsche (1936); La filosofia dell’esistenza (1938); La fede filosofica (1947); Sulla verità (1948); La fede filosofica davanti alla rivelazione (1970); Cifre della trascendenza (1970). La filosofia di Karl Jaspers si inserisce nel filone della riflessione esistenzialista sull’essere e ha senz’altro punti in comune con l’ontologia di Heidegger. Jaspers giunge alla filosofia dalla psicologia, e questo influenza necessariamente il modo in cui viene considerato L’essere, non un ente immutabile che risponde a rigide leggi logiche oggettive e deterministiche, ma un’ulteriorità, un qualcosa che sempre si arricchisce di significati, che si mostra, ma nel mostrarsi comunque si allontana dalla possibilità di una definizione definitiva. Jaspers nota subito come l’essere, nella forma del “Tutto che avvolge” (ovvero della totalità della manifestazione degli enti) è nominato e compreso storicamente da diverse culture: in Occidente il “Tutto che avvolge” è L’essere di Parmenide, L’apeiron di Anassimandro, il logos di Eraclito, in oriente questo concetto trova invece forma, ad esempio, nel Nirvana del buddhismo o nel Tao del taoismo. Nel corso dello sviluppo della filosofia occidentale, l’essere è diventato però simile agli enti, non è più ciò che comprende la totalità degli enti, ma è l’ente eterno e immutabile posto in posizione di privilegio rispetto agli enti terreni corruttibili (le idee di Platone, Dio stesso). La scienza moderna non si occupa dell’essere in quanto “Tutto avvolgente”, essa si rivolge solamente al meccanismo che determina il “gioco” degli enti entro il mondo, ma il “Tutto che avvolge” rimane come distante, non abbracciato nella sua totalità. Solo la filosofia può abbracciare l’essere avvolgente, ovvero abbracciare non solo il meccanismo che determina il funzionamento oggettivo della realtà (è il compito che spetta alla scienza moderna), ma anche ogni aspetto ulteriore che sfugge all’oggettività, una comprensione trasversale, spirituale ed esistenziale della totalità. L’essere, mentre “ci si rivela, mentre ci viene incontro in ogni oggetto e in ogni orizzonte”, pure “sempre indietreggia e si allontana”. L’essere sfugge a qualsiasi definizione oggettiva e definitiva, rappresenta il fondo oscuro da cui ogni ente sembra emergere inspiegabilmente e venirci incontro nella forma degli oggetti, dei concetti e di tutto ciò che il mondo esprime, sia oggettivamente che soggettivamente. Se l’essere sfugge a qualsiasi definizione oggettiva, rappresentando il fondo oscuro che sempre si affaccia alla comprensione ma sempre sfugge, l’essere stesso è Trascendenza. Ovvero, l’essere rappresenta ciò che l’uomo non può mai abbracciare totalmente, ma solo avvicinare, come alla ricerca di qualcosa che giustifichi e chiarisca lo spettacolo del mondo, ma che non potrà mai darsi alla conoscenza dell’uomo nella sua totalità. Proprio per questo, per questa “inarrivabilità”, l’essere è Trascendenza, ovvero totale “Altro” dal mondo. La Trascendenza è quindi sottoposta all’illogico, proprio perché non può essere compresa come presenza oggettiva e deterministica. Il mondo è quindi principalmente divenire, lo scaturire illogico e senza alcun senso apparente di ogni cosa dal fondo oscuro dell’essere che trascende ogni possibilità di comprensione definitiva. In questo senso, il mondo intero (il mondo dei fenomeni) è un naufragio, ovvero non un navigare certo nell’immutabile che da sempre è per la filosofia consolazione, ma un continuo essere in balia delle onde della Trascendenza, imprevedibili e non determinabili. ll naufragio è la figura filosofica che Jaspers usa per definire il senso ultimo dell’esistenza umana: l’esistenza è il divenire, ovvero il naufragio (il tentativo fallito) di concepire qualcosa di immutabile, mentre tutto è mutevole e diveniente. Il tentativo di concepire l’immutabile è certamente quel sentimento di riparo, quel rimedio, che ogni uomo cerca di instaurare per sentirsi salvo dal naufragio ultimo e supremo della morte. Al naufragio non si può sfuggire: anche se l’uomo si libera di quegli stessi apparati intellettuali che gli permettono di concepire il naufragio, ovvero si libera, nell’affermazione della sua libertà, della conoscenza scientifica e filosofico-metafisica, anche in questa condizione (e soprattutto in questa), il naufragio si ripresenta al suo culmine, poiché la negazione di ogni apparato scientifico e filosofico porta necessariamente a concepire la vita come divenire supremo, come mancanza certa di senso e immutabilità. Il naufragio è quindi “naufragio nel tempo”, “annientamento di tutte le cose e di tutte le certezze, di ogni stabilità e immutabilità”. Proprio per questo la condizione della vita dell’uomo è scacco, ovvero impossibilità di andare oltre il suo annientamento. L’uomo non può diventare assolutamente padrone di sé e della realtà, proprio perché vi è quella Trascendenza che sfugge a qualsiasi oggettivazione e ad ogni logica dalla quale scaturiscono tutti gli enti, e lo stesso uomo è un ente, non è l’essere (ovvero la Trascendenza), l’uomo è un “esserci”. L’esserci è la situazione propria dell’uomo e di ogni cosa di essere “situati” entro una determinata realtà, “situazioni come quella di dover essere sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere inevitabilmente la propria colpa, di dover morire”. Queste situazioni sono “situazioni limite”, ovvero un muro contro cui l’uomo ed ogni cosa sbattono inevitabilmente senza possibilità di attuare un superamento, il muro della realtà, infatti, è invalicabile. Infine, per concludere, la verità dell’essere, secondo Jaspers, risiede nella stessa condizione del naufragio infinito, ovvero è proprio il naufragare certo di ogni verità e di ogni immutabilità a garantire quella libertà del divenire che è la condizione stessa di ogni cosa, ovvero la verità che rende possibile il mutamento e l’annientamento di ogni cosa, come si mostra evidente nella realtà dell’uomo e del mondo. Il naufragio non conduce al “sì” alla vita di cui parla Nietzsche: naufragare è una condizione inalterabile che non si può evitare in alcun modo. Anche nel “sì” alla vita o nel “sì” all’annientamento (che siano pronunciati da Nietzsche o da quelle forme di nichilismo che intendono affermare la nullificazione di tutto come principio rilevante) vi è una sorta di “perversione”, ovvero la volontà di voltare le spalle alla Trascendenza come possibilità aperta che “grava” sull’uomo necessariamente. Nel nichilismo, nella sua forma più radicale e non solo morale, l’uomo afferma il nulla, ma il nulla non è cosa di questo mondo, perché comunque l’uomo, naufragando, vive, e il rapporto con il naufragio non si può evitare, perché l’esistenza stessa dell’uomo è un rapportarsi necessario con il naufragio. In sostanza, anche il dire “sì” alla vita si o il vedere in essa “solamente” l’annientamento di tutto, costituisce, secondo Jaspers, pur sempre un tentativo di permanere entro la vita e negare la condizione radicale dell’esistenza, che è mutamento e divenire. Si può notare quindi come la vita dell’uomo sia “volontà di eternare”, ovvero allontanare il più possibile il naufragio, il “deperirsi” e il mutare radicale di ogni cosa. La durata e l’oggettività sono una condizione imprescindibile dall’esistenza degli uomini: in sostanza, da un lato la vita è mutare radicale, dall’altro, l’uomo non può esimersi nel dare un minimo di durata a ciò che pensa e ciò che vive, e in quest’ottica che anche il “sì” o il “no” alla vita rientrano nel percorso della durata e non del puro divenire, impossibile per l’uomo. Alla luce di quanto scritto, quale comportamento esistenziale risulta più autentico in rapporto alla necessità del divenire? L’essere si rivela solo nel naufragio dell’esserci, ovvero dell’ente, quindi anche nell’uomo. L’uomo può solo giungere al silenzio di fronte alla domanda sulle ragioni dell’essere, l’angoscia che produce in noi il sentimento del percepire l’essere solamente nel naufragio (“nel finire”) della nostra vita, trova soluzione solo nel silenzio che considera l’essere per ciò che è, senza alcuna possibilità di dire nulla e senza possibilità di trovare un’autentica soluzione a questo scacco. Tuttavia, dopo il silenzio, può anche subentrare la pace della rassegnazione, ma non un rassegnazione passiva. La rassegnazione è quella condizione di pace della coscienza che finalmente abbraccia l’essere per ciò che è, ovvero quella condizione in cui percepiamo che non vi è alcuna soluzione e mai potremmo comprendere l’oscurità dell’essere trascendente da cui tutto deriva come dal fondo di un abisso. Anche la rassegnazione e la pace sono condizioni transitorie per la coscienza inquieta dell’uomo, ma quando vi è questo stato egli è sicuramente nel rapporto più autentico con l’essere. La rassegnazione quieta e pacifica concepisce finalmente l’essere per ciò che è e non si pone alcuna domanda sul senso, vivendo l’esserci e nulla più. Alla luce di tutto questo, per Jaspers la filosofia autentica non è quella che intende matematizzare ed oggettivizzare un qualsiasi aspetto della realtà, sia fisicamente che metafisicamente, ma è la filosofia che si pone nei confronti della realtà come apertura alla possibilità dell’essere trascendente, ovvero apertura al divenire radicale e ad ogni accadimento del mondo, i quali non hanno alcun significato determinato, eterno, immutabile e prevedibile. La scienza, come funzione propria, prepara in definitiva solo la struttura oggettiva entro la quale ogni fenomeno verrà “ingabbiato” in senso deterministico. La metafisica, dal canto suo, continuerà ad indagare l’eterno come riflesso della volontà propria dell’uomo di eternare la sua vita e allontanare quanto più possibile il suo naufragio, la religione continuerà nel solco della metafisica a concepire Dio come essere immutabile nel quale si cerca la salvezza. Ma, in definitiva e come più volte ribadito, per Jaspers l’essere è pura trascendenza, ovvero il puro essere “altro” dagli enti e dalle cose, per cui mai l’uomo potrà afferrare nulla di definitivo, ogni oggettivazione dell’essere è, per contro, tentativo fallimentare e inautentico di proporre una qualche forma di anticipazione o di previsione sugli accadimenti del mondo, il quale è, radicalmente e assolutamente, puro divenire, pura imprevedibilità.
” Insensibile, né benevolo, né spietato, sottomesso a leggi rigorose o affidato al caso, il mondo non sa di sé. Non lo si può capire perché si presenta impersonalmente, se lo si riesce a chiarire in qualche particolare, resta comunque incomprensibile nella sua totalità. Ciò non toglie che io conosca il mondo anche in un altro modo. Un modo che me lo rende affine e che mi consente di sentirmi, in esso, a casa mia, al sicuro. Le sue leggi sono quelle della ragione, per cui, sistemandomi in esso, mi sento tranquillo, costruisco i miei strumenti e li conosco. Mi è familiare nelle piccole cose e in quelle che mi sono presenti, mentre mi affascina nella sua grandezza; la sua vicinanza mi disarma, la sua lontananza mi attira. Non segue i sentieri che attendo, ma anche quando mi sorprende con insospettate realizzazioni o inconcepibili fallimenti, alla fine conservo, anche nel naufragio, un’indefettibile fiducia in esso. ” (Jaspers, “Filosofia”, libro II, cap.1)
GEORGE EDWARD MOORE
“Se mi si chiede: che cosa é bene?, la mia risposta é che bene é bene e null’altro. O se mi si domanda: come si deve definire il bene? la mia risposta é che esso non si può definire, e questo é tutto quel che ho da dire sull’argomento” ( Principia ethica cap. I, §§ 6-7).
La filosofia di George Edward Moore (1873-1958) rappresenta un attacco frontale, ben più potente di quello sferrato dal pragmatismo, contro il neo-idealismo. Moore fu uno dei massimi rappresentati del realismo, a cui aveva dato l’avvio Bertrand Russell, con cui Moore fu in rapporto. Le strade percorse da Russell e da Moore ad un certo punto si divisero dato che il primo si orientò verso l’atomismo logico e il secondo realizzò un recupero della filosofia del senso comune. Essi però, coetanei e compagni di scuola a Cambridge, seguirono inizialmente lo stesso percorso, caratterizzato soprattutto dalla comune polemica contro l’idealismo di Bradley. Nel 1903 uscirono quasi contemporaneamente i loro contributi in difesa del realismo, i Princìpi di matematica di Russell e la più specifica Confutazione dell’idealismo di Moore, comparsa su ‘Mind’, la rivista che, diretta per molto tempo da Moore in persona, diventerà l’organo filosofico del realismo inglese. In La confutazione dell’idealismo Moore, avvalendosi di un metodo che prefigura quell’analisi del linguaggio a cui egli darà un importante contributo, analizza a scopo critico quello che ai suoi occhi é l’assunto fondamentale di ogni posizione idealistica: il principio di Berkeley per cui “essere é essere percepiti” ( esse est percipi ). Moore osserva che questa proposizione é estremamente ambigua, dal momento che pretende di asserire l’identità di due termini, ‘essere’ e ‘essere percepiti’, che non sono per niente identici. La loro diversità risulta evidente se si pensa alla differenza che intercorre tra il ‘giallo’ (essere) e la mia ‘sensazione del giallo’ (essere percepito): dove é chiaro che nella seconda é contenuto qualcosa che nella prima era assente, ossia l’elemento della coscienza. La confutazione del principio di Berkeley risulta ancora più evidente se si confrontano tra loro sensazioni diverse, ad esempio la ‘sensazione del blu’ e la ‘sensazione del rosso’: entrambe le sensazioni, in quanto tali, contengono un elemento comune, quello della coscienza; mentre il ‘blu’ e il ‘rosso’ non hanno nulla in comune. Dunque gli oggetti della sensazione (il ‘giallo’, il ‘blu’, il ‘rosso’) sono altra cosa rispetto alle sensazioni del giallo, del blu e del rosso che noi proviamo nella nostra coscienza. Nella Confutazione dell’idealismo Moore considera oggetto della coscienza tanto le qualità (il giallo, il blu, il rosso) quanto gli oggetti fisici (la mia mano, quel tavolo, questa casa); in un successivo saggio su La natura e la realtà degli oggetti di percezione (1905) Moore effettua una netta distinzione tra i dati sensoriali (sense-data), che ci vengono forniti dalla percezione attuale, e gli oggetti fisici tridimensionali, che non ci sono forniti da questo tipo di percezione. Ci si trova di fronte a due tipi di problemi; il primo é: che cosa dimostra l’esistenza degli oggetti fisici, cioè l’esistenza di un mondo a noi esterno? A questo quesito Moore risponde recuperando e rivalutando la dottrina del senso comune del settecentesco Thomas Reid e della Scuola scozzese in due opere di fondamentale importanza (Difesa del senso comune, del 1925, e La prova di un mondo esterno del 1939). Non abbiamo bisogno di dimostrare l’esistenza degli oggetti esterni, spiega Moore, perchè ‘sappiamo già’ che esistono: ossia, alla base della certezza dell’esistenza di un mondo esterno vi é un atto intuitivo, una conoscenza immediata e spontanea, poggiante sul senso comune. Il secondo problema che viene ora ad affiorare é invece quello di chiarire la relazione che intercorre tra i dati sensoriali e gli oggetti esterni, cioè tra quel che percepiamo immediatamente e quel che conosciamo immediatamente; come posso dire che il giallo fa parte del cavallo che mi sta di fronte? Su che fondamento si basa l’assunzione secondo la quale il bianco, il morbido, il liscio (che percepisco attualmente) sono parte della superficie della mia mano (che conosco immediatamente grazie al senso comune)? Questa relazione, secondo Moore, resta problematica dal momento che esistono difficoltà a sostenere sia che le qualità percepite siano parte della superficie della mano, sia che ne costituiscano una semplice ‘apparenza’, sia che la superficie della mano sia una sorta di termine ‘compendioso’ che raccoglie le diverse qualità della mano. Queste ultime riflessioni mettono in luce come Moore proceda con grande prudenza e cautela nella sua indagine filosofica, facendo attenzione a non introdurre affermazioni che non siano dimostrabili più che ad estendere l’ambito di quel che si può affermare. Lo strumento più adeguato per portare avanti questa indagine, con tutte le cautele che essa comporta, é l’ analisi del linguaggio ordinario , dato che proprio in esso trova l’espressione migliore quel senso comune che sta a fondamento della nostra conoscenza. Il duplice riferimento al senso comune e all’analisi del linguaggio ritorna anche nella dottrina morale di Moore, esposta nei celeberrimi Principia ethica (1903) e nell’ Etica (1912); l’obiettivo centrale dell’etica di Moore é la definizione del bene e, in maniera subordinata, la determinazione di una ‘buona’ condotta umana. Il ‘bene’ é un concetto semplice, e per questo non può essere spiegato, dato che ogni spiegazione implica una risoluzione dell’oggetto in altri termini. Il bene é paragonabile al ‘giallo’: così come non si può spiegare che cosa sia il giallo a chi non lo ha visto e, d’altra parte, chi lo ha visto non ha bisogno di spiegazione, nello stesso modo “ognuno é costantemente consapevole della nozione del bene”. La posizione di Moore può dunque essere definita come intuizionismo etico: “se mi si chiede: che cosa é bene?, la mia risposta é che bene é bene e null’altro. O se mi si domanda: come si deve definire il bene? la mia risposta é che esso non si può definire, e questo é tutto quel che ho da dire sull’argomento” ( Principia ethica cap. I, §§ 6-7). Moore si oppone pertanto alle dottrine che intendono definire il bene tramite una conoscenza di tipo fisico (cioè scientifico), oppure metafisico (cioè filosofico). In ambo i casi, si scambia il bene con un oggetto esterno, descrivibile appunto tramite gli strumenti della scienza o della filosofia; a questo errore Moore attribuisce il nome di fallacia naturalistica: con questa critica egli voleva confutare sia l’utilitarismo, che riducendo il bene al piacere ne faceva un oggetto fisico, misurabile e indagabile scientificamente, sia l’idealismo, che considerava il bene come una realtà metafisica trascendente il mondo: Platone in primis aveva parlato di un vero e proprio ‘bene in sè’. Il bene é una nozione relativa alla sfera dell’uomo e della storia. Sebbene escluda la riconduzione del bene all’oggettività fisica o metafisica, Moore é del parere che l’etica sia una disciplina oggettiva, che consente di determinare univocamente quale condotta umana può essere definita ‘buona’ e quale ‘cattiva’. Dal momento che tutti sanno che cosa é il bene, il dovere etico consiste nella sua realizzazione e, più precisamente, nella promozione del comportamento “che causerà nell’universo più bene di ogni altra possibile alternativa”. Azioni buone saranno dunque l’amore per le persone e per le cose belle: ambo queste condotte sono infatti disinteressate e quindi non solo non introducono alcuna forma di conflittualità, ma promuovono l’estendersi della compatibilità e dell’armonia tra le diverse esigenze presenti. Essendo un elemento semplice e non scomponibile (al pari del giallo), il bene non può essere soggetto a definizioni: per capire che cosa esso sia, si dovrà ricorrere alla stessa intuizione che ci fa cogliere che cosa sia il giallo. Le tante proposizioni sintetiche che usualmente formuliamo circa il bene (dicendo che esso “è il piacere” oppure che “è il giusto”) non lo colgono nella sua essenza, né hanno valore universale (che il bene sia il piacere varrà per alcuni individui, ma non per tutti): qualcosa di analogo accade allorché definiamo un “mobile giallo” o un “cavallo giallo”, senza cogliere con ciò che cosa sia il giallo. Come abbiamo visto, l’indebita operazione con cui si congiunge il bene con una proprietà estrinseca che lo definisca (ad esempio, “il bene è il piacere”), è etichettata da Moore come “fallacia naturalistica”: essa consiste appunto nel “confondere il bene con una proprietà naturale o metafisica”, senza accorgersi che la bontà di una cosa non è separabile dalla cosa stessa e, per ciò, non è mai definibile. L’errore sta proprio nell’illudersi che il bene abbia proprietà e che esse si configurino come parti distinguibili dal bene stesso: l’ulteriore illusione è che si possano stabilire relazioni tra il bene e le sue parti. Tale “fallacia” può essere naturalistica in senso stretto, se si definisce il bene come un oggetto di natura (ad esempio, “il bene è il piacere”); ma può anche essere metafisica, se si definisce il bene come un oggetto sovrasensibile (ad esempio “il bene è la giustizia” o “il bene è ciò che Dio comanda”): nel primo caso, ne deriva un’etica riducibile a scienza empirica: caso emblematico è quello dell’utilitarismo, che identifica il bene col piacere. Nel secondo caso, ne deriva un’etica metafisica: esponenti ne sono tanto la religione (per la quale il bene è ciò che Dio comanda), quanto Spinoza e Hegel (per i quali il bene è in riferimento alla perfezione dell’universo) o Kant (per cui il bene è ciò che la ragione comanda). Le assurdità in cui scivola la fallacia (nella sua doppia veste, metafisica e naturale) sono secondo Moore denunciabili con un criterio logico: quello della “questione aperta”. Esso consiste nel mostrare come la scelta di una soluzione non possa del tutto escludere le altre: così, perché mai il piacere dovrebbe consistere nell’ordine dell’universo anziché nel verbo di Dio? E perché nel verbo di Dio anziché nelle prescrizioni della ragione? Optando per una soluzione, non si spiega perché non potrebbe essere vera quella opposta. A tale contraddizione si sfugge adottando la soluzione intuizionistica di Moore per cui il bene è intuito al pari del giallo: in tal maniera, si sa che cosa esso sia e non sussistono soluzioni alternative. Ben presto Moore si accorse che la sua soluzione, in forza dell’intuizionismo che la animava, poteva portare a derive soggettivistiche: egli scongiurò questo rischio ponendo l’accento sul fatto che il bene ha carattere assoluto, esprime un valore intrinseco e universale. Per questa via, ogni possibile soggettivismo è azzerato in partenza. Si parava però dinanzi un nuovo problema: posto che il bene sia universale, assoluto e autonomo, quale è la sua natura? Non può certo avere natura empirica, perché se così fosse si ricadrebbe nella fallacia naturalistica; ma non può neppure avere natura metafisica, ché sennò si riproporrebbe la fallacia metafisica. La soluzione di Moore sta allora nel riconoscere che il bene ha uno statuto ontologico pari a quello delle idee platoniche e dei numeri, che sono assoluti e oggettivi senza però essere né empirici né metafisici: in questo senso, il bene è ma non esiste, proprio come il numero quattro. Negli scritti successivi, Moore ammorbidirà la sua posizione, arrivando a sostenere che il bene dipende dalla natura intrinseca delle cose: in questo modo, dal platonismo egli si accosterà all’aristotelismo. Al cuore della riflessione etica di Moore, come abbiamo visto, sta la distinzione tra il bene (assoluto e colto in via intuitiva) e i tanti concetti morali (il giusto, il dovere, ecc), i quali non hanno una definizione autocentrata: infatti, non si potrà mai dire che cosa sia il giusto; tutt’al più si potrà dire che esso è finalizzato a realizzare il bene. Tutti i concetti morali vengono allora a configurarsi come altrettanti strumenti per raggiungere il bene. In questo modo, diventa possibile un’etica in cui si dica argomentativamente che cosa sia giusto o doveroso fare in vista del bene (il quale continua però ad essere indefinibile). Sicché l’etica di Moore fa salvi alcuni aspetti normativi in riferimento al dovere, al giusto, ecc, senza mai recedere dall’idea che tali aspetti normativi costituiscano solo un aspetto secondario dell’etica: quest’ultima ha, come obiettivo primario, il bene. In Etica (1916), Moore cambia decisamente rotta, poiché sente l’esigenza sempre più forte di costruire un’etica normativa: sicché arriva a far convergere il bene e il dovere. Nella conferenza del 1921 su La natura della filosofia morale, egli arriva addirittura ad attribuire la priorità al dovere, sostenendo che il bene deriva dal dovere o che, per lo meno, i due concetti sono paritetici. Del resto, irrisolvibili problemi riguardanti la sua iniziale teoria del bene erano già affiorati nei Principia ethica del 1903, allorché Moore si era domandato che cosa fosse il bene: essendo esso assoluto, autonomo, oggettivo, come se ne può cogliere il contenuto? A tale domanda, Moore risponde con la tecnica dell’isolamento assoluto: per vedere se una cosa è buona, basterà provare ad isolarla da tutto ciò che la circonda: se continuerà ad essere buona, allora sene potrà inferire che essa è il bene. A superare questa prova sono, secondo Moore, l’amicizia, il rapporto sociale tra uomini colti e il rapporto estetico che ne scaturisce. In questa prospettiva, Moore tratteggia l’ideale di un’estetica aristocratica per la quale il bene è godimento artistico non individuale, ma realizzato nei rapporti amicali e consistente nel “piacere dei rapporti umani” e nella “fruizione delle cose belle”.
RICHARD MERVYN HARE
BREVE INTRODUZIONE AL PENSIERO
Richard Mervyn Hare (1919-2001), autore di ” Il linguaggio della morale ” (1952), ” Libertà e ragione ” (1963) e ” Il pensiero morale ” (1981), si è soprattutto posto il problema del significato e della razionalità del discorso morale. Secondo Hare, è necessario porsi il problema del significato delle nozioni morali, se non ci si vuole affidare solamente all’intuizione, che è meramente soggettiva; solo elaborando una teoria del significato dell’etica è possibile evitare il relativismo e sfuggire all’ammissione di una equivalenza tra tutti i discorsi etici. Ciò può avvenire non affrontando direttamente questioni normative, cioè che cosa è bene o che cosa è male, ma investigando sulle forme specifiche del discorso morale: il compito di quest’indagine appartiene ad una disciplina, chiamata meta-etica . Il linguaggio della morale, secondo Hare, è costituito da “proposizioni prescrittive” o “imperativi”, ovvero proposizioni che comandano ciò che si deve o non si deve fare. Infatti, valutare un’azione come buona o cattiva equivale a prescrivere che essa sia o non sia eseguita. Gli imperativi si distinguono dalle “proposizioni descrittive”, le quali descrivono uno stato di cose e sono suscettibili di essere vere o false. Essi, tuttavia, accanto ad un elemento propriamente prescrittivo, detto “neustico” (dal greco neuein , “inclinare”), contengono un elemento che appartiene anche al linguaggio descrittivo, ed è detto “frastico” (dal greco frazein , “dichiarare”). Per esempio, l’imperativo “chiudi la porta!”, il quale non è né vero né falso, ha in comune con la proposizione descrittiva “stai chiudendo la porta” l’elemento frastico, “chiudere la porta”. Hare condivide la cosiddetta “legge di Hume”, secondo cui il dovere non può essere dedotto dall’essere, ovvero, da premesse descrittive non è possibile dedurre logicamente conclusioni imperative, che prescrivano ciò che si deve o non si deve fare. All”biezione che la meta-etica, limitandosi a descrivere le proprietà del linguaggio morale, lascia in realtà le cose come stanno, Hare risponde mostrando che le proposizioni morali implicano un principio di “universalizzabilità”: chi enuncia una proposizione prescrittiva, infatti, se non vuole contraddirsi, la farà prevalere per tutti coloro che si trovano nella situazione prevista dall’imperativo. In questo senso, la scelta dell’azione non è abbandonata solamente all’intuizione o alle emozioni meramente individuali, ma può essere fondata su argomentazioni che si richiamano esplicitamente a questo principio. In base a questa premessa, Hare può ripescare all’interno della meta-etica anche l’ “etica normativa”, che investiga su che cosa si debba o non si debba fare, in particolare l’etica dell’utilitarismo, in netta ripresa negli anni del dopoguerra in Inghilterra, e dalla quale Hare riprende la nozione di “preferenza”. L’impegno proprio del discorso morale di esprimere prescrizioni universalizzabili impone che si tenga conto delle preferenze di tutte le altre persone coinvolte nei casi in esame, senza stabilire differenze pregiudiziali fra tali preferenze, in modo da massimizzare le preferenze di tutti. Se è favorevole a una ripresa dell’utilitarismo, Hare è invece radicalmente contrario al “neocontrattualismo”, che ai suoi occhi ha il difetto di ripiombare nell’intuizionismo, ossia di fondarsi su concetti non adeguatamente definiti; è significativo, a suo avviso, che due autori che si richiamano entrambi al contrattualismo, come Rawls e Nozick, pervengano a conclusioni diametralmente opposte tra loro.
VITA, OPERE E PENSIERO
Richard Mervyn Hare è nato il 21 marzo 1919 a Blackwell. Studiò alla Rugby School ed al Balliol College di Oxford. Durante la seconda guerra mondiale fu arruolato nel 1940 nella Royal Artillery, fu tenente dell’Indian Mounted Artillery nel 1941 e prigioniero di guerra a Singapore e lungo la Burma-Thailand Railway dal 1942 al 1945. Sposò, nel 1947, Catherine Verney, dalla quale ebbe quattro figli. Ha svolto presso l’Università di Oxford i seguenti incarichi: Fellow e Tutor in filosofia al Balliol College; Lecturer in filosofia; Wilde Lecturer in Natural and Comparative Religion; White Professor in filosofia morale e Fellow del Corpus Christi College. E’ stato poi Graduate Research Professor di filosofia all’Università della Florida. E’ stato membro de: National Road Safety Advisory Council; Church of England Working Parties on Ethical Questions; Church of England Board for Social Responsibility; Presidente della Aristotelian Society. All’età di 82 anni si è spento ad Oxford. Il pensiero di Hare viene solitamente suddiviso in due fasi: una prima costituita dalla teoria metaetica del prescrittivismo universale e una seconda caratterizzata, invece, dal predominare dell’ interesse etico-normativo e improntata all’elaborazione prima e alla difesa poi di un particolare tipo di utilitarismo dell’atto. Si è molto discusso in merito a tale suddivisione: sono due momenti distinti ed eventualmente in contraddizione o vanno visti come due fasi collegate e senza soluzione di continuità? La posta in gioco è alta: ne va della coerenza del pensiero di Hare, ma vengono anche messi o, meglio, rimessi in discussioni temi fondamentali come la possibilità di qualsivoglia rapporto tra la metaetica, l’etica normativa e l’etica applicata o come la legittimità della cosiddetta ‘terza via in etica’ (di cui Hare si fa sostenitore) in contrapposizione all’emotivismo e al naturalismo. Cerchiamo di analizzare nel modo più obiettivo possibile alcune metodologie e alcuni concetti propri del pensiero di Hare tentando di capire che ruolo rivestano all’interno del suo pensiero.
IL PRESCRITTIVISMO UNIVERSALE : IL METODO CRITICO-RAZIONALE : la costante più importante di tutta la produzione hareana rimane il metodo analitico di rilevare, discutere e, possibilmente, risolvere i problemi. ” Sorprendentemente, molti filosofi, appena si dedicano a una questione pratica, dimenticano tutto del loro sapere specifico e ritengono che i problemi della piazza del mercato possano essere risolti soltanto dai metodi della piazza del mercato, vale a dire da una combinazione di pregiudizio (chiamato intuizionismo) e retorica. Il contributo di ogni filosofo a tali discussioni consiste nella capacità che egli deve possedere di chiarire i concetti impiegati (principalmente i concetti morali stessi) e, mostrando le loro proprietà logiche, di portare alla luce gli errori e porre, al loro posto, argomentazioni valide ” (Moral thinking: its level, method and point). Al di là dei termini coloriti e simpatici che caratterizzano molte delle pagine di Hare, va sottolineato un punto fondamentale: egli adotta il metodo proprio della filosofia analitica del linguaggio applicandolo al linguaggio morale, e tentando di scoprire il ‘significato’, le proprietà logiche fondamentali che regolano i termini propri di tale linguaggio (‘buono’, ‘dovere’, giusto’…).
LA PRESCRITTIVITÀ : Hare afferma: ” la prescrittività dei giudizi morali può essere descritta formalmente come la proprietà di comportare almeno un imperativo […]. Formuliamo un enunciato prescrittivo se e solo se, per qualche atto A, qualche situazione S e qualche persona P, se P assente (oralmente) a ciò che diciamo e non fa A in S, è logicamente necessario che l’assenso di P sia insincero ” (Moral thinking: its level, method and point). Una proprietà formale, dunque. Il primo dei due poli del prescrittivismo universale risulta così essere un elemento squisitamente legato alla filosofia analitica del linguaggio, e specificamente del linguaggio morale che viene, così, assimilato ad una sorta di linguaggio prescrittivo. Ciò testimonia innanzitutto l’importanza attribuita a tutti quegli aspetti logici e di significato dei termini morali che costituiscono il contesto filosofico all’interno del quale Hare si muove soprattutto nei primi anni della sua carriera.; in secondo luogo è indice del tentativo di percorrere la ‘terza via in etica’, distaccandosi parimenti dall’ “emotivismo” (per il quale le nozioni etiche sarebbero delle realtà oscure e soggettive, tranquillamente rimpiazzabili da un particolare tono di voce o da alcuni punti esclamativi) e dal “naturalismo” (che vedrebbe, invece, nelle nozioni etiche delle realtà con proprietà assolutamente riconducibili alle proprietà delle realtà naturali).
L’UNIVERSALIZZABILITÀ : tra le varie spiegazioni dell’universalizzabilità, Hare propone la seguente come la più completa: ” è contraddittorio dare giudizi morali diversi su situazioni di cui ammettiamo l’identità per quanto riguarda le loro proprietà descrittive universali. Per giudizi ‘diversi’ intendo ‘tali che, se fossero riferiti alla medesima situazione, sarebbero reciprocamente incompatibili’ ” (Moral thinking: its level, method and point). Ancora una volta il confronto con il contesto filosofico nel quale Hare si muove risulta assolutamente necessario e funzionale alla comprensione del suo stesso pensiero. Egli riconosce che nei giudizi etici nei quali compaiono termini morali (ad esempio ‘buono’) è presente una componente descrittivistica che permette di collegare, in modo variabile, tali termini a criteri diversi; questa mutevolezza è determinata dalla diversità delle classi di oggetti giudicate. Quando diciamo che una mela è ‘buona’ abbiamo in mente qualità del tutto diverse rispetto a quando diciamo che questa è una ‘buona’ esecuzione della quinta sinfonia di Beethoven; cambiano i criteri del nostro giudizio, rimane invariata l’intenzione di lodare ed eventualmente raccomandare ciò che abbiamo giudicato ‘buono’. Facendo così proprie alcune istanze del “descrittivismo”, Hare torna ad attaccare i suoi due nemici principali: al contrario di quanto afferma l’emotivismo i nostri giudizi morali non sono immotivati, non esprimono soltanto un nostro stato d’animo ma sono il risultato di un processo razionale volto al reperimento, nell’oggetto giudicato, di alcuni criteri che giustificano il giudizio stesso; il fatto che il significato descrittivo di un termine possa legittimamente variare permette di svincolare un termine morale (il ‘buono’ dell’esempio) da un insieme fisso e immutabile di proprietà cui il naturalismo lo vorrebbe invariabilmente collegato. Dopo aver esaminato questi primi tre elementi, è necessario fare alcune considerazioni. Sia la prescrittività sia l’universalizzabilità (che confluiscono nella dottrina da Hare stessa chiamata “prescrittivismo universale”), sia il metodo critico-razionale (caratteristico dell’ambito analitico all’interno del quale Hare prende le mosse) sono elementi formali, metaetica, analitici. È però possibile e doveroso evidenziare il legame che unisce questi elementi ad altri aspetti decisamente meno metaetici e più normativi. In altri termini è Hare stesso a mettere in risalto i punti di unione tra le due fasi del proprio pensiero. Iniziamo da alcune considerazioni metodologiche. Se è vero che il metodo analitico è una costante, è però anche vero che la facoltà di chiarire i concetti morali mediante l’analisi delle loro proprietà logiche non è, da sola, sufficiente allorché lo scopo delle proprie riflessioni sia l’elaborazione di una dottrina normativa e non solo un tipo di pensiero rigorosamente metaetico. ” La razionalità è una qualità del pensiero diretto a rispondere alle questioni, e la determinazione di quali procedure siano razionali dipenderà da quali sono le questioni. Se tentiamo di rispondere a questioni fattuali, è ovvio che la razionalità ci obbliga ad accertare i fatti, proprio perché le questioni sono fattuali. Dobbiamo quindi chiederci perché occorra fare lo stesso quando rispondiamo a questioni morali, le quali non sono interamente fattuali, ma hanno una componente prescrittiva ” (Moral thinking: its level, method and point). Il passaggio da questioni metodologiche a questioni sostanziali viene da sé. La ‘sostanza’ che Hare prende in considerazione è costituita dalla “preferenze”. Queste sono strettamente collegate, identificate quasi, con le prescrizioni. ” Il requisito di universalizzare le nostre prescrizioni, il quale a sua volta è un requisito logico, posto che ragioniamo moralmente, ci chiede di trattare le prescrizioni degli altri (vale a dire, i loro desideri e predilezioni, e in generale le loro preferenze) come se fossero le nostre ” (Moral thinking: its level, method and point). Vale la pena di fare un breve accenno alla componente descrittivistica delle prescrizioni di cui si diceva più su. Quando si esprime un giudizio morale si esprime un giudizio prescrittivo arricchito da un elemento descrittivo che permette, come s’è visto, di collegare i termini morali (buono) a criteri diversi a seconda delle classi d’oggetti che vengono giudicate (la mela piuttosto che la quinta sinfonia di Beethoven). Preferenze ed elementi descrittivi richiedono e ad un tempo giustificano la commistione di forma e sostanza, di metaetica ed etica normativa propria del pensiero di Hare. A fare da sfondo a metodi e sostanze il centralissimo concetto dell’universalizzabilità, che permea di sé il pensiero di Hare conferendogli coerenza ed eleganza. Anticipando alcune nozioni che verranno illustrate in seguito, pare possibile tracciare una sorta di planimetria del pensiero di Hare. Vi sono due piani nettamente distinti (seppur non radicalmente separati) costituiti dall’approccio metaetico e normativo alla filosofia morale. All’interno di ciascuno di essi, poi, sembra riscontrabile un’ulteriore duplice divisione: una forma (le nozioni di prescrittività ed universalizzabilità) e un elemento assimilabile ad un contenuto (le preferenze) per la parte metaetica; una forma (l’universalizzabilità dei princìpi) e un elemento decisamente contenutistico (i fatti attinenti al mondo) per la parte normativa.
L’UTILITARISMO DELL’ATTO
Prima di esaminare nel dettaglio la dottrina utilitaristica di Hare, è necessario soffermarsi brevemente sul contesto filosofico entro il quale egli opera, passando in rassegna alcuni tratti tipici dell’utilitarismo con i quali si trova a dover fare i conti nel momento dell’elaborazione della propria teoria normativa.
LA RIDUZIONE : ” la riduzione è l’artificio di considerare tutti gli interessi, ideali, aspirazioni e decisioni sullo stesso piano, e tutti rappresentabili come preferenze, forse di diverso grado di intensità, ma per il resto da trattare nello stesso modo “. Costante indispensabile di tutte le teorie utilitaristiche, la riduzione non è che il primo di tre importanti artifici dei quali l’utilitarismo si avvale per appianare, raffinare e localizzare il campo dal quale attingere i propri elementi sostanziali. Essa assume un’importanza fondamentale soprattutto nel contesto di quelle forme di utilitarismo che propongono come principio di utilità la massimizzazione dei benefici e la riduzione dei danni o a prevenire danno, dolore, male o infelicità alla parte il cui interesse è preso in considerazione: e se la parte è la comunità in generale, allora si tratterà della felicità della comunità “. Nel contesto del pensiero di Hare, la riduzione assume una connotazione del tutto particolare: dall’artificio di considerare e trattare allo stesso modo tutti i desideri e gli interessi, essa diventa il principio di ” attribuire il medesimo valore agli eguali interessi di tutti “. Lasciando da parte benefici e danni, Hare si rifà piuttosto ad una concezione simile alla regola aurea veterotestamentaria (“non fare a nessuno ciò che non piace a te”) e più ancora alla sua formulazione in positivo presente nei Vangeli (“quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti”). In base a queste premesse, Hare è in grado di formulare il proprio principio di utilità nei seguenti termini: ” ciò che il principio di utilità mi richiede è di fare per ogni individuo interessato alle mie azioni ciò che vorrei fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui io fossi precisamente nella sua situazione; e se le mie azioni interessano più di un individuo (come accade quasi sempre) il principio mi richiede di fare ciò che vorrei, in tutto e per tutto, fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui mi trovassi in tutte le loro situazioni (naturalmente, non nello stesso tempo, ma, come dire, in ordine casuale) “. Risulta evidente il legame tra principio di utilità e prescrittivismo universale: il richiamo alla possibilità di occupare casualmente tutte le posizioni delle parti eventualmente interessate dagli effetti della mia azione richiama da vicino la proprietà formale della prescrittività (che prevede la sottoscrizione dell’imperativo singolare rivolto a se stessi ‘fa x’ allorché si sia enunciato il giudizio morale ‘si deve fare x’) e della universalizzabilità (secondo la quale dalla prescrizione ‘si deve fare x’ discende l’ulteriore prescrizione ‘chiunque, in situazioni simile per gli aspetti rilevanti, deva fera x’).
L’IDEALIZZAZIONE : interrogandosi sulla natura dei propri oggetti, lontano dalla tentazione di restringere arbitrariamente il campo di ciò che può dirsi una preferenza (interessi, ideali, aspirazioni…) e parimenti lontano dall’ostinarsi a considerare tali elementi come tutti assolutamente uguali, l’utilitarismo opta per una sorta di diversificazione qualitativa e riconosce di dover prendere in considerazione solo determinate preferenze. L’idealizzazione è dunque l’artificio che consente di tener conto solo di quelle preferenze che rispondono a determinati requisiti, manipolando la nozione stessa di utilità alla quale si rivolge la scelta di un individuo. Hare si trova a dover affrontare un problema analogo a quello che interessa le teorie utilitaristiche. La componente sostanziale della propria dottrina normativa gli richiede di determinare con esattezza quali siano le preferenze ideali, ovvero quali classi di fatti sia necessario tener presente allorché si esprime un giudizio morale, e quali siano le modalità per determinare tale classe. La compresenza di elementi prescrittivi e descrittivi nei giudizi morali ha un significato ben preciso: al pari delle asserzioni fattuali, prima di esprimere le quali è necessario accertare i fatti perché esse sono una ‘pretesa di verità’, anche i giudizi morali necessitano di un simile accertamento sui fatti prima che possano essere pronunciati su di essi; è evidente che l’analogia tra le asserzioni di fatto e i giudizi morali non si fonda tanto sulla possibilità che questi ultimi possano valere, grazie all’accertamento fattuale, come pretese di verità, quanto, piuttosto, sul richiamo stesso all’attenzione per i fatti: ” anche se i giudizi morali non possono essere chiamati pretese di verità senza ulteriori qualificazioni […], essi sono soggetti ad un analogo requisito di accertare i fatti, prima di pronunciarsi moralmente su di essi. La funzione dei principi morali è quella di fornire una guida pratica universale per tutte le situazioni di un certo tipi […]. Tutto ciò si dissolverebbe nel nulla se i nostri giudizi morali fossero privi di ogni relazione con i fatti attinenti alle situazioni che stiamo commentando “. Si impone dunque ad Hare la necessità di determinare un criterio per selezionare i fatti a cui prestare attenzione. Attraverso una metodologia propriamente ‘induttiva’ egli giunge alla formulazione dei giudizi di rilevanza: partendo dall’ipotesi che una certa caratteristica situazionale potrebbe essere rilevante si mettono alla prova i principi che menzionano questa caratteristica; se tali principi risulteranno accettabili altrettanto accettabile sarà la caratteristica situazionale e sarà possibile formulare un giudizio di rilevanza. La più ovvia candidata a ricoprire il ruolo di caratteristica situazionale rilevante è, secondo Hare, la classe dei probabili effetti sortiti da possibili azioni sulle persone (noi stessi e gli altri) che si trovano in certe situazioni. Infine egli ritiene che una conoscenza degli altrui stati d’animo derivanti da determinate azioni sia raggiungibile a partire dalla conoscenza delle mie esperienze presenti e delle relative preferenze. Di ciò si dirà più specificamente in seguito. L’ASTRAZIONE : con questo terzo artificio il discorso si sposta dall’analisi del mondo e dei bisogni in esso contenuti alla ricerca di un luogo più o meno fisico nel quale poter rinvenire informazioni in merito agli elementi sostanziali dell’utilitarismo. I pensatori che si muovono all’interno di questa dottrina sono soliti caratterizzare il luogo di reperimento di queste informazioni come trascendente rispetto al mondo sociale. L’impossibilità di trattare tutte le preferenze allo stesso modo, la necessità di escludere addirittura dal calcolo determinate classi di preferenze (quelle cosiddette “antisociali”) hanno spinto la maggior parte degli utilitaristi a prediligere come luogo di reperimento dell’elemento sostanziale un individuo ideale, provvisto di alcune caratteristiche particolari (ad esempio, un livello altissimo di informazione, una conoscenza arcangelica per usare la terminologia di Hare) che fanno sì che le sue preferenze siano al di sopra di ogni sospetto e di ogni obiezione. Hare si è servito dei due artifici precedenti per trattare il tema del rapporto tra l’utilitarismo e la società; si avvale ora dell’astrazione per esaminare il tema dell’individuo. La richiesta della riduzione di fare ciò che vorrei fosse fatto a me è intimamente collegato alla richiesta dell’idealizzazione di formulare giudizi di rilevanza sulla base della classe di fatti di cui s’è detto. Tale procedura implica una concezione dell’io secondo la quale sia possibile immedesimarsi il più completamente possibile con le preferenze (ed eventualmente con il dolore) delle persone interessate alle nostre azioni. Emerge subito una profonda divergenza tra Hare e l’utilitarismo: questo, come s’è detto, tende ad astrarre dalla concretezza e a trascendere l’individuo reale per reperire le proprie informazioni; Hare, all’opposto, è profondamente attento alla concretezza e ai fatti e ciò non deve stupire se si tiene presente l’ormai noto elemento descrittivo che fa capolino ogniqualvolta si parli di giudizi morali prescrittivi. Se astrazione deve esserci, deve essere dunque limitata al campo delle preferenze, ovvero alla classe di fatti irrinunciabile per qualsiasi argomentazione morale. La concezione dell’io elaborata da Hare rappresenta un contributo fondamentale per comprendere i tre artifici nell’economia del suo pensiero. Egli ritiene che io sia un termine ” non interamente descrittivo, ma in parte prescrittivo ” e spiega: “ identificandomi realmente o ipoteticamente con un’altra persona, io mi identifico con le sue prescrizioni. In termini più chiari pensare alla persona che sta per andare dal dentista come a me stesso significa avere ora la preferenza che egli non soffra come io penso che stia per soffrire. Nella misura in cui io penso si tratti di me stesso, precorro ora la medesima avversione che, secondo me, egli avrà “. La caratteristica prescrittiva del temine io permette di prendere a cuore il soddisfacimento delle preferenze dalla persona con la quale mi immedesimo; permette poi anche di evitare tanto l’altruismo (ovvero l’attribuire alle preferenze altrui un peso maggiore di quello attribuito alle nostre) quanto l’egoismo (ovvero l’attribuire alle nostre preferenze un peso maggiore di quello attribuito alle preferenze altrui). Alla luce di queste considerazioni pare dunque possibile affermare che il dilemma “etica formale o etica sostanziale?” per il prescrittivismo universale va sicuramente risolto a favore del primo dei due poli, a patto che ciò non porti a trascurare l’importanza che il secondo di essi, con i suoi limiti ma soprattutto con la sua peculiarità, riveste all’interno dell’economia del pensiero di Hare.
ERICH FROMM
A cura di Antonino Magnanimo
” Il guaio della vita di oggi è che molti di noi muoiono prima di essere nati pienamente .”
Erich Fromm nacque a Francoforte sul Meno nel 1900. Figlio di un ricco commerciante israelita di vini, fu educato in un’ atmosfera rigidamente religiosa. Dopo aver completato la sua educazione secondaria, nel 1922, a 22 anni, si laurea a Heidelberg in filosofia con una tesi ” Sulla funzione sociologica della legge ebraica nella Diaspora “. Mentre prepara la sua dissertazione, Fromm è ancora un ebreo ortodosso che si interroga sui timori che suscitava “negli uomini semplici” la figura dell’ebreo. Tenta quindi di offrire delle spiegazioni., individuando nella legge la forza che garantisce al corpo sociale ebraico di permanere nel suo scontro con corpi storici estranei. Utilizzando gli strumenti concettuali di Max Weber, Martin Buber e Hermann Cohen, propone una ricostruzione sociologica delle origini della diaspora, del rabbinismo, dei rapporti con il cristianesimo e con l’islam con un excursus storico sul crinale di quella legge che evita l’autodistruzione e permette il compromesso con i non ebrei, preservando l’identità nel corso del tempo. Fromm concentra la sua analisi su alcuni momenti della storia religiosa che ritiene esemplari. Negli anni Settanta, sull’onda del successo dei suoi libri, la tesi viene pubblicata. In seguito studiò psicanalisi a Monaco svolgendo anche attività di psicanalista presso l’Istituto psicanalitico di Berlino e di Francoforte. Non si laureò in medicina. Cominciò a praticare la psicoanalisi nel 1925 e divenne presto famoso. Dal 1929 al 1932 fu assistente nell’Università di Francoforte, e nel 1930 la sua prima tesi sulla funzione delle religioni, fu pubblicata in “Imago”, una rivista edita da Freud. Invitato all’Istiituto di psicoanalisi di Chicago, visitò gli Stati Uniti nel 1933. Nel 1934, per opposizione al nazismo, lasciò la Germania per stabilirsi permanentemente negli Stati Uniti. Tenne lezioni all’ Università di Columbia dal 1934 al 1939 e in altre università americane. Nel 1951 divenne professore del dipartimento di psicanalisi dell’ Università nazionale del Messico. Nel 1955 fu nominato Direttore del dipartimento di psicologia della stessa Università del Messico col compito di dirigere l’addestramento di psicoanalisi e di psichiatria. Nel 1962 diventa titolare di una cattedra di psichiatria a New York. Erich Fromm è considerato uno dei maggiori rappresentanti della psicologia post-freudiana . La sua posizione propositiva è stata definita “Socialismo umanistico”, utopia di un mondo umano che sappia realizzare le istanze sociali e superare l’alienazione dell’uomo, le spinte a fuggire dalla libertà, che sappia vivere l’amore per la vita. Le opere più importanti di Fromm sono : ” Fuga dalla libertà ” (1941); ” Psicoanalisi e religione ” (1950); ” Il linguaggio dimenticato ” (1951); ” Psicoanalisi della società contemporanea ” (1955); ” L’arte di amare ” (1956); ” Buddismo, zen e psicoanalisi ” (1960); ” Marx e Freud ” (1962); ” Il cuore dell’uomo ” (1964 ); ” La rivoluzione della speranza ” (1968); ” Anatomia della distruttività umana ” (1973); ” Avere o essere ” (1976); ” Grandezza e limiti della psicoanalisi di Freud “(1979). Fromm insieme a Adorno, Horkheimer e Marcuse diventa uno dei maggiori esponenti della Scuola di Francoforte , che nei primi anni del secondo dopoguerra si afferma nella cultura tedesca. La nuova corrente di pensiero, fortemente influenzata dal marxismo, si ispira a diverse matrici culturali: la dialettica e la fenomenologia hegeliana, il nichilismo di Nietzsche e di Heidegger, la psicoanalisi di Freud. La Scuola con il marxismo ha un rapporto tormentato e complesso per motivi sia teorici che pratici poiché respinge il concetto cardine del marxismo del progresso sociale che conduce al consumismo e alla tecnocrazia. La Scuola si oppone ai regimi totalitari di ispirazione marxista degli anni Cinquanta e Sessanta. Il nucleo originario si costituisce a partire dal 1922 presso l’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, destinato a diventare particolarmente importante quando, nel 1931, ne prende la direzione Max Horkheimer. Dopo l’avvento del nazismo i componenti della Scuola sono costretti a trasferirsi all’estero, soprattutto negli Stati Uniti d’America e solo alcuni di loro torneranno in Germania alla fine della guerra. Il compito che la Scuola si prefigge è quello di svolgere ricerche collettive e interdisciplinari, tenendo presenti i metodi della sociologia, della ricerca storica, dell’economia politica e del marxismo. Oggetto di studio sono le società industriali e i modi di vivere che in esse tendono a realizzarsi. L’indagine è volta ad analizzare l’autoritarismo, il conformismo, l’alienazione che si presentano in forma più o meno latente nelle società industrializzate ed è condotta prendendo in considerazione anche le manifestazioni culturali e in particolare le avanguardie artistiche del Novecento. La contestazione giovanile del 1968 sembra ispirarsi alla Scuola di Francoforte che in questo periodo suscita pertanto un rinnovato interesse nel mondo della cultura. Di orientamento socialista e materialista, la Scuola ha elaborato le sue teorie e svolto le sue indagini alla luce delle categorie di totalità e dialettica: la ricerca sociale non si dissolve in indagini specializzate e settoriali; la società va indagata come un tutto nelle relazioni che legano gli ambiti economici con quelli culturali e psicologici. E’ qui che si instaura il nesso tra Hegelismo, Marxismo e Freudismo che tipicizzerà la Scuola di Francoforte. La teoria critica si prefigge di far emergere le contraddizioni fondamentali della società capitalistica e punta ad uno sviluppo che conduca ad una società senza sfruttamento. Con la presa del potere da parte di Hitler il gruppo francofortese emigra prima a Ginevra, poi a Parigi e infine a New York. Dopo la seconda guerra mondiale Marcuse, Fromm, Lowenthal e Wittfogel restano negli Stati Uniti, mentre Adorno, Horkheimer e Pollock tornano a Francoforte, dove nel 1950 rinasce L’Istituto per la ricerca sociale. Nella scuola di Francoforte si propone e sviluppa la teoria critica della società che avversa il tipo di lavoro della sociologia empirica americana. Per i francofortesi la sociologia non si riduce né si dissolve in indagini settoriali e specialistiche, in ricerche di mercato (tipiche, queste, della sociologia americana). La ricerca sociale è, invece, per loro, la teoria della società come un tutto, una teoria posta sotto il segno delle categorie della totalità e della dialettica e tesa all’esame delle relazioni intercorrenti tra gli ambiti economici, psicologici e culturali della società contemporanea. Siffatta teoria è critica in quanto da essa emergono le contraddizioni della moderna società industrializzata e in particolar modo della società capitalistica. Per maggior precisione il teorico critico ” è quel teorico la cui unica preoccupazione consiste in uno sviluppo che conduca ad una società senza sfruttamento “. Il primo lavoro di rilievo della Scuola di Francoforte è il volume collettivo “Studi sull’autorità e la famiglia” (1936): la famiglia, come anche la scuola o le istituzioni religiose, viene vista quale tramite dell’autorità e dell’insediarsi di questa nella struttura psichica degli individui. Un lavoro analogo verrà successivamente progettato in America: i suoi esiti sono pubblicati nel volume “La personalità autoritaria”. L’analisi più significativa compiuta da Fromm è quella relativa al tema della fuga dalla libertà che caratterizza la civiltà moderna. La storia dell’umanità è storia della libertà e ha inizio quando l’uomo, diventato consapevole della propria esistenza, spezza il legame che lo lega alla natura entro la quale era immerso, così come la storia individuale ha inizio con la separazione dalla madre. L’esistenza umana comincia quando l’adattamento alla natura perde il suo carattere coercitivo; quando il modo di agire non è più fissato da meccanismi ereditari. In altre parole, sin dall’inizio l’esistenza umana e la libertà sono inseparabili. Lo sviluppo della storia ha determinato una serie di conquiste quali il dominio sulla natura, la crescita della ragione, lo sviluppo della solidarietà verso altri uomini, ma ha causato anche isolamento, insicurezza, solitudine. Dalla fine del Medioevo in poi è cresciuta la libertà degli uomini rispetto alla natura e ai legami della tradizione e delle consuetudini del passato. Questa accresciuta libertà ha determinato, però, una perdita di significato dell’esistenza: l’uomo si sente solo, anonimo, impotente. Vive in modo spersonalizzante il lavoro e, ridotto al ruolo di consumatore, avverte la propria limitatezza anche di fronte alle scelte politiche. Tale insicurezza e precarietà determinano alcuni comportamenti di fuga dalla libertà che investono la società in tutti i suoi aspetti, anche quelli politici. Pertanto lo sviluppo dei regimi totalitari del fascismo e del nazismo non ha spiegazione solo a carattere economico e sociale ma anche psicologico poiché ha a che fare con questa tendenza dell’uomo moderno a fuggire dalla libertà che diventa dolorosa e a rinunciare alla responsabilità e all’autonomia delle scelte, rendendolo disponibile a sottomettersi a un regime politico autoritario. Altro punto fondamentale dell’analisi di Fromm in “Fuga dalla libertà” è quello relativo al tema dell’ autorità , dove viene operata una distinzione molto chiara tra autorità e autoritarismo, indicati con i termini di “autorità razionale” e “autorità inibitoria”. L’autorità non è una qualità ma si riferisce a un rapporto interpersonale, in cui una persona considera un’altra superiore a se stessa. Nel caso dell’autorità razionale, assistiamo a un processo in cui un rapporto si basa su una differenza gerarchica (come avviene per esempio tra insegnante e alunno): la parte inferiore riconosce all’altra una superiorità effettiva che non opera però nei suoi confronti in termini di sfruttamento. E’ un rapporto in cui la parte superiore offre all’altra una serie di strumenti che le consentono di avvicinarsi al suo livello e in questo senso si tratta di un rapporto di scambio reciproco su una base affettiva positiva. Si parla invece di autorità inibitoria quando il rapporto di sudditanza viene mantenuto e consolidato da chi ha potere. Fromm prende in considerazione anche le diverse forme di autorità come quelle che si realizzano nel rapporto tra padrone-operaio, padre-figlio, moglie-marito, ecc. L’importanza di Fromm risiede proprio nel tentativo di analizzare i grandi temi della vita sociale in un’ottica psico-sociologica che dà conto dell’importanza dei fattori culturali e sociali nello sviluppo della personalità. Anche il conformismo dilagante nella società moderna, l’assunzione acritica e automatica dei modelli di comportamento proposti dalla società comportano l’annullamento della personalità dell’individuo. In sostanza, si tratta di un meccanismo psicologico di difesa messo in atto per fuggire dalla paura e dalla solitudine, in ultima analisi per fuggire dalla libertà. L’uomo cessa di essere un atomo isolato attraverso la libertà positiva con la realizzazione spontanea e completa della sua personalità e dei rapporti d’amore che lo legano agli altri uomini e al lavoro come creatività. Solo la libertà positiva garantisce la possibilità di un’ autentica democrazia . L’analisi della società contemporanea porta all’individuazione del suo carattere fondamentale e cioè dell’ alienazione come effetto del capitalismo sulla personalità umana. L’alienazione caratterizza i rapporti dell’uomo con il lavoro, con gli altri uomini, con le cose, con se stesso. In “Psicoanalisi della società contemporanea” viene esaminata con estrema lucidità la situazione dell’uomo moderno in una società la cui principale preoccupazione è la produzione economica più che l’aumento della produttività creativa dell’uomo: una società dove l’uomo ha perduto il predominio. L’uomo moderno è estraniato dal mondo che egli stesso ha creato, alienato dagli altri uomini, dalle cose che usa e consuma, dal suo governo, da se stesso. Egli è ora ” una personalità fittizia “. Se si lascerà che le tendenze attuali si sviluppino senza controllo, ne risulterà una società malata, costituita da uomini alienati. Fromm presenta in questo modo una completa e sistematica concezione della psicoanalisi umanistica e propone un’ipotesi di società “mentalmente sana” in cui l’uomo sia il centro dell’interesse delle attività economiche e produttive, evidenziando così l’alternativa tra il sistema capitalistico e la dittatura totalitaria. In “Psicanalisi e religione”, Fromm discute il bisogno dell’uomo di una struttura di orientamento con cui egli può superare la sua alienazione e stabilire relazioni con gli altri. Questo bisogno può essere soddisfatto da un’ ideologia, da una religione, o persino da una nevrosi mentale. Fromm confronta questo tipo di psicoanalisi che chiama cura dell’anima con le religioni che accentuano il potere e la forza dell’individuo: ” la cura dell’ anima è quella di mettere un uomo in contatto col suo subcosciente aiutandolo così ad essere libero di stabilire relazioni d’ amore “. Il metodo normale per superare l’isolamento è stabilire spontaneamente relazioni col mondo attraverso l’amore e lavorare senza sacrificare l’indipendenza e l’integrità del processo. Nel suo lavoro di analista Fromm scopre una grande varietà di altri meccanismi d’evasione che sono alternativi all’amore: masochismo, sadismo, distruttività, conformismo. Essi producono una riduzione dell’alienazione e dell’ansia ma solo al caro prezzo della rinuncia della propria individualità. L’uomo alienato diventa estraneo a se stesso, non si riconosce come centro del suo mondo e come protagonista delle sue scelte, ma i suoi atti diventano i suoi padroni e a questi si sottomette. Nella società dominata dal denaro e dal consumo, l’uomo concepisce se stesso come una cosa in vendita. Nella società capitalista il consumo diventa fine a se stesso, fa nascere nuovi bisogni e costringe all’acquisto di nuove cose, si perde di vista l’uso delle cose e l’uomo è schiavo del possesso. Si può uscire dall’alienazione solo costituendo un tipo di società organizzata secondo il ” socialismo comunitario ” con la partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione del mondo del lavoro. Il socialismo comunitario prospettato da Fromm è vicino alle posizioni dei socialisti utopistici ed è influenzato dal sindacalismo e dal socialismo corporativista. In “Avere o Essere” Fromm propone all’uomo contemporaneo la scelta netta tra due categorie, due progetti di uomo: o quello dell’avere, dominante nella società capitalistica dei consumi, o quello dell’essere, della realizzazione dei bisogni più profondi dell’uomo. L’analisi di Fromm individua due modi di determinarsi dell’esistenza dell’uomo nella società:
- avere, modello tipico della società industrializzata, costruita sulla proprietà privata e sul profitto che porta all’identificazione dell’esistenza umana con la categoria dell’avere, del possesso. Io sono le cose che possiedo, se non possiedo nulla la mia esistenza viene negata. In tale condizione l’uomo possiede le cose ma è vera anche la situazione inversa e cioè le cose possiedono l’uomo. L’identità personale, l’equilibrio mentale si fonda sull’ avere le cose.
- essere è l’altro modo di concepire l’esistenza dell’uomo ed ha come presupposto la libertà e l’autonomia che finalizza gli sforzi alla crescita e all’arricchimento della propria interiorità. L’uomo che si riconosce nel modello esistenziale dell’essere non è più alienato, è protagonista della propria vita e stabilisce rapporti di pace e di solidarietà con gli altri.
Fromm ritiene necessario attuare una nuova società, fondata sull’essere, liberata dalla categoria dell’avere , che garantisca, a livello politico e nell’ambito del lavoro, la partecipazione democratica di tutti gli uomini. Il rapporto tra l’uomo e la società differisce da quello di Freud per il quale l’uomo è fondamentalmente antisociale e deve essere addomesticato dalla società. Sia la psicoanalisi che il marxismo hanno parzialmente fallito nel loro intento, spiega Fromm in “Marx e Freud”. Né l’una né l’altro sono in grado di produrre sostanziali cambiamenti della condizione umana: la psicoanalisi e il marxismo sembrano aver perso la loro carica liberatrice e non sono in grado di fornire la comprensione dei processi in atto. C’è bisogno di una revisione sia per l’una che per l’altro. Della psicoanalisi freudiana, oltre a criticare l’impianto meccanicistico, retaggio di una cultura positivista, Fromm denuncia il carattere borghese proprio dell’epoca e dell’ambiente in cui Freud viveva. Freud non ha espresso nella sua psicoanalisi la vera natura umana, ma solo quella di una società capitalistica, egoista e maschilista riducendo i rapporti tra uomo e mondo solo in termini di soddisfacimento libidico. Nella società alienata del capitalismo non sono, però, i bisogni e le potenzialità umane ad essere realizzati, ma i bisogni socialmente indotti dal mercato. Il marxismo d’altra parte non ha colto il peso che le forze psicologiche, attraverso i meccanismi di riproduzione sociale, hanno sulla personalità degli individui. In “Fuga dalla libertà” Fromm analizza i meccanismi che hanno operato nella storia dell’uomo, in particolar modo analizzando la storia moderna dell’Occidente, che ha spesso visto gli uomini fuggire dalla libertà, cedere la libertà mantenendo l’appartenenza alla società, luogo di sicurezza contro la solitudine. Anche il totalitarismo nazista può essere spiegato con questi meccanismi. Famosa è l’analisi psicoanalitica che egli fa di Hitler, descritto come sadico con il popolo tedesco, che domina e sottomette e masochista nei confronti del destino. Non sembra, però, che Fromm attribuisca a un processo rivoluzionario la possibilità di superamento dell’alienazione. La psicoanalisi può compiere la necessaria critica dell’alienazione dell’uomo contemporaneo e della sua infelicità. Mentre la società capitalista preferisce personalità ferme a stadi pregenitali, demandando alla famiglia il compito della repressione sessuale, Fromm guarda ad una sessualità genitale, che egli vede come simbolo di libertà, creatività, socievolezza. E’ stata notata in Fromm una lettura di Marx nella quale i valori della vita, del lavoro liberato, dell’utopia e del Socialismo vengono contrapposti ai valori della morte, dello sfruttamento, dell’alienazione e del capitalismo. In particolare, fra i valori che nella lettura di Fromm vengono esaltati, fondamentale è quello dell’amore. In “L’arte di amare”, che è la sua opera più nota e più popolare, discute cinque tipi di amore : amore fraterno, amore tra genitori e figli, amore erotico, amore per se stessi, amore per Dio. Tutte queste forme di amore hanno elementi comuni e devono essere basati sul senso di responsabilità, rispetto e conoscenza. Per ogni individuo l’amore è il modo normale di superare il senso di isolamento e, come desiderio di unione con gli altri, assume una forma specificamente biologica tra l’uomo e la donna. Fromm afferma che è errato interpretare l’ amore come una reciproca soddisfazione sessuale poiché una completa felicità sessuale si raggiunge soltanto quando c’è l’amore. La concentrazione sulla tecnica sessuale come se questa rappresentasse la via alla felicità è, egli afferma, una delle molti ragioni per cui l’amore è diventato così raro nella moderna società capitalistica. Fromm crede che l’amore sia l’unica e soddisfacente risposta al problema dell’esistenza umana. L’amore non può essere insegnato, bensì deve essere acquisito tramite uno sforzo continuo, disciplina, concentrazione e pazienza, tutte cose che sono difficili per la pressione continua della vita moderna. Il più importante contributo di Fromm sta nell’ accentuazione della dignità e del valore dell’individuo . A differenza degli psicologi del comportamento, egli non riduce l’uomo ad un comune denominatore di istinti e considera il sesso molto meno importante dell’amore. Le sue idee sulla teoria della pratica dell’amore sono della massima importanza poiché dimostrano che uomini e donne possono superare le pressioni della vita quotidiana e le difficoltà che essi incontrano quando vogliono formare mature relazioni d’amore. Dal punto di vista strettamente psicanalitico, Fromm è noto per aver approntato una teoria della personalità . Formatosi innanzitutto come sociologo, Fromm ha saputo coniugare il pensiero di Freud con molti altri grandi filoni culturali, da Marx alla tradizione ebraica. All’interno di questa vasta sintesi dottrinale, si trova anche una teoria della personalità ed una caratterologia, nata come tipologia causale, studiata empiricamente con indagini sul campo e con uso di test proiettivi. La tipologia di Fromm è centrata sul concetto di produttività. Il carattere “produttivo” è quello pienamente sviluppato, non alienato, maturo e ricco di amore per la vita; questo è il punto di riferimento, cui tendono gli altri tre tipi principali, che sono il “ricettivo”, l’ “appropriativo” e il “mercantile”. I tre tipi non costituiscono categorie fisse, ma piuttosto, come in tutti i sistemi caratterologici moderni, delle tendenze presenti in una certa proporzione in ogni carattere. E’ significativo quindi non solo il caso in cui una tendenza appare più sviluppata delle altre, ma anche il caso contrario, in cui una tendenza appare appena accennata. Inoltre, la produttività non esclude che il carattere possa essere classificato come appartenente ad uno degli altri tipi; il pieno sviluppo delle potenzialità umane può essere raggiunto attraverso vie differenti. In “Analisi della distruttività umana”, Fromm ha descritto anche un altro tipo interamente negativo, il “necrofilo”, amante della morte e nemico della vita; questo rappresenta un caso limite, patologicamente lontano dai valori del carattere produttivo. E’ raro, fortunatamente, che il necrofilo possa incontrarsi allo stato puro, ma può presentarsi allo stato di tendenza nelle persone troppo affascinate dalla tecnica e dall’ordine.
CLAUDE LÉVI-STRAUSS
L’antropologo Claude Lévi-Strauss è stato colui che, con la sua utilizzazione del modello della linguistica strutturale nelle indagini sulle strutture della parentela e sui miti e con le sue teorie generali sul concetto di struttura, ha più contribuito alla formulazione e alla diffusione di quello che è stato chiamato strutturalismo . Nato nel 1908 a Bruxelles da genitori francesi, è vissuto a Parigi, dove si è laureato in filosofia nel 1931; nel 1935 si trasferisce in Brasile, dove rimane sino al 1939, compiendo spedizioni in Amazzonia e nel Mato Grosso. Nel 1939 torna in Francia, ma si rifugia poi negli Stati Uniti, dove insegna a New York, entra in contatto con l’ antropologia americana e stringe amicizia con Jakobson. Rientrato in Francia nel 1948, nel 1950 insegna all’ Ecole Pratique des Hautes Etudes e dal 1954 Antropologia sociale al Collège de France; nel 1973 è stato eletto all’ Accademia di Francia. Le sue opere principali sono: Le strutture elementari della parentela (1949), Tristi tropici (1955), Antropologia strutturale (1958), Il totemismo oggi(1962), Il pensiero selvaggio (1962, dedicato a Merleau-Ponty), Mitologiche ( Il crudo e il cotto , 1964, Dal miele alle ceneri , 1966-67; L’ origine delle buone maniere a tavola , 1968; L’ uomo nudo , 1971), Antropologia strutturale due (1973) e Lo sguardo da lontano (1983). Secondo Lévi-Strauss, la linguistica di Saussure rappresenta ” la grande rivoluzione copernicana nell’ ambito degli studi dell’ uomo “, ma sullo sfondo dei suoi studi di antropologia è la tradizione della scuola di Durkheim. Questi aveva mostrato che i fenomeni socio-culturali non sono spiegabili come espressioni di istinti o di scelte individuali volontarie e consapevoli, ma in termini di rappresentazioni collettive. I concetti basilari della religione, come Dio, anima, spirito o totem, hanno la loro origine nell’ esperienza con cui gli uomini avvertono la forza e la maestà del gruppo sociale e sono il prodotto di una sorta di mente collettiva. Sulla linea dello studio delle rappresentazioni collettive, l’ allievo e nipote di Durkheim, Marcel Mauss (1872-1950), aveva individuato, nel Saggio sul dono (1924), alla base dello scambio arcaico il triplice obbligo, radicato nella mente umana, di dare, ricevere e restituire, ossia un principio di reciprocità, da cui dipendono le relazioni di solidarietà tra individui e gruppi, mediante lo scambio di doni pregiati. A questi problemi si collega l’ opera fondamentale di Lèvi-Strauss, Le strutture elementari della parentela . L’ obiettivo di essa è di individuare la logica sottostante a tutti i sistemi di parentela al di là della loro varietà, ossia la struttura invariante rispetto a cui essi sono tutti trasformazioni. Alla base di tutti i sistemi matrimoniali è, secondo Lèvi-Strauss, la proibizione dell’ incesto, la quale impedisce l’ endogamia: l’ uso di una donna, vietato all’ interno del gruppo parentale, diventa disponibile ad altri. Grazie alla proibizione dell’ incesto è reso allora possibile lo scambio di un bene pregiato, le donne, tra gruppi sociali e quindi lo stabilimento di forme di reciprocità e di solidarietà che garantiscono la sopravvivenza del gruppo. Sono queste le relazioni invarianti necessarie in ogni società, alla luce delle quali diventa possibile studiare le varie forme che assumono le relazioni di parentela, individuando due categorie essenziali di sistemi matrimoniali, quello a scambio limitato, tra cugini, di tipo prescrittivo, e quello a scambio generalizzato, di tipo preferenziale. L’ antropologia, alla pari della geologia, della psicanalisi, del marxismo e soprattutto della linguistica, diventa in tale modo scienza capace di cogliere le strutture profonde, universali, a-temporali e necessarie, al di là della superficie degli eventi, che è sempre ingannevole, e al di là dell’ apparente arbitrarietà degli elementi che costituiscono ogni società. A queste strutture si accede non attraverso la descrizione puramente empirica delle varie situazioni di fatto, ma mediante la costruzione di modelli. Essi sono sistemi di relazioni logiche tra elementi, sulle quali è possibile compiere esperimenti, ossia trasformazioni, in modo da individuare ciò che sfugge all’ osservazione immediata. I modelli non hanno mai perfetta rispondenza alla realtà, ma non sono neppure semplici costrutti puramente soggettivi o dotati soltanto di valore metodologico: essi hanno valore oggettivo, perchè mettono in luce le strutture che formano l’ ossatura logica della realtà. A queste strutture si accede non attraverso la descrizione meramente empirica delle varie situazioni di fatto, ma mediante la costruzione di modelli. Essi sono sistemi di relazioni logiche tra elementi, sulle quali è possibile compiere esperimenti, ossia trasformazioni, in modo da individuare ciò che sfugge all’ osservazione immediata. I modelli non hanno mai perfetta rispondenza nella realtà, ma non sono neppure semplici costrutti puramente soggettivi o dotati soltanto di valore metodologico: essi hanno valore oggettivo, perchè mettono in luce le strutture che formano l’ ossatura logica della realtà. La struttura, infatti, non è una pura e semplice forma, ma “è il contenuto stesso colto in una organizzazione logica concepita come proprietà del reale”. Una disposizione di parti costituisce una struttura, quando è un sistema retto da una coesione interna, che si manifesta nel momento in cui sene studiano le trasformazioni, non storiche, ma secondo regole logiche: grazie a questo studio è infatti possibile rintracciare proprietà simili in sistemi apparentemente diversi. Per definire una struttura occorre collocarsi, come fa la linguistica, sul piano delle regole grammaticali e sintattiche, non su quello del vocabolario, ossia degli elementi singoli. In questo senso, la struttura di cui parla Lévi-Strauss, si distingue nettamente dalla struttura sociale, di cui parlano gli antropologi britannici, in primo luogo Alfred Radcliffe-Brown (1881-1955), per i quali essa è l’ insieme di relazioni sociali, empiricamente osservabili, tra gli individui, che ne consentono il funzionamento e la stabilità. Secondo Lévi-Strauss, invece, il fenomeno empirico è soltanto una combinazione logicamente possibile di elementi: per poterlo spiegare occorre ricostruire preliminarmente il sistema globale di cui esso è soltanto una variante. Dalla scuola durkheimiana, Lévi-Strauss riprende l’ idea della natura psichica dei fatti sociali: questi sono sistemi di idee oggettive, ossia di categorie che nel loro insieme costituiscono lo spirito umano nella sua universalità, ma questi sistemi non sono elaborazioni consce, bensì inconsce. Il fondamento ultimo è dato dallo spirito umano inconscio, che si rivela attraverso i modelli strutturali della realtà. Obiettivo dell’ antropologia diventa allora la contemplazione dell’ architettura logica dello spirito umano, al di là delle sue molteplici manifestazioni empiriche. Ormai diventato una celebrità, Lévi-Strauss trascorre la seconda metà degli anni sessanta alla realizzazione di un grande progetto, i quattro volumi di studi dal titolo Mythologiques. In esso, Levi-Strauss analizza tutte le variazioni dei gruppi del Nord America e del Circolo Artico esaminando, con una metodologia tipicamente strutturalista, le relazioni di parentela tra i vari elementi. Nel 1971, Lévi-Strauss completa l’ultimo volume di Mythologique e nel 1973 viene eletto dall’Académie Française, uno dei più grandi onori per un intellettuale francese. “Il triangolo culinario” di Lévi-Strauss. Diagramma di analisi strutturale nella preparazione dei cibi. Adattato da Le Cru et le cuitEgli è anche membro dell'”American Academy of Arts and Letters”. Nel 1973 ha ricevuto l’Erasmus Prize, nel 2003 il Meister Eckhart Prize per Filosofia e ha ricevuto la laurea ad honorem dalle Università di Oxford, di Harvard e dall’Università della Columbia. Egli è anche stato onorato della Grand-croix de la Légion d’honneur, e gli è stato attribuito il merito di “Commandeur de l’ordre national du Mérite” e di “Commandeur des Arts et des Lettres”. Pur essendosi ormai ritirato egli continua a pubblicare occasionalmente meditazioni sull’arte, sulla musica e sulla poesia, e se intervistato racconta le reminiscenze della sua vita. L’ attività inconscia collettiva tende per Lévi-Strauss a privilegiare una logica binaria, ossia una logica che costruisce categorie mediante contrasti o opposizini binarie. Per quanto riguarda la lingua, la fonologia ha messo in luce che alla base del sistema dei suoni significativi, c’è un piccolo numero di sistemi di contrasto. Questo stesso tipo di logica presiede anche alla costruzione dei miti. I miti secondo Lévi-Strauss, non sono espressioni di sentimenti o spiegazioni pseudoscientifiche di fenomeni naturali o riflessi di istituzioni sociali, ma non sono neppure privi di regole logiche. Come è possibile spiegare il fatto che i contenuti dei miti sono contingenti e appaiono arbitrari, eppure presentano forti somiglianze nelle diverse regioni del mondo? La risposta secondo Lévi-Strauss, sta nel fatto che il mito è l’ espressione dell’ attività inconscia dello spirito umano e si struttura come un linguaggio. Come la funzione significativa di una lingua non è direttamente collegata ai suoni, ma al modo in cui i suoni sono combinati tra loro, così anche i miti sono formati di unità costitutive minime, le cui combinazioni avvengono secondo precise regole e danno luogo a unità significanti. In questo senso, i miti non sono creazioni puramente individuali e il compito di uno studio scientifico dei miti consiste nel mostrare non come gli uomini pensano e costruiscono i miti, ma “come i miti si pensano negli uomini, e a loro insaputa”. Gli elementi della riflessione mitica si collocano a metà tra le immagini connesse alla percezione e i concetti, cosicchè il pensiero mitico resta legato a immagini, ma, lavorando con analogie e paragoni, può dare origine a generalizzazioni e costruire nuove serie combinatorie degli elementi di base, che restano costanti. Di tali strutture, il pensiero mitico si serve per produrre un oggetto che abbia l’ aspetto di un insieme di eventi, ossia un racconto. In particolare, il sistema mitico e le rappresentazioni che esso suscita stabiliscono correlazioni tra condizioni naturali e condizioni sociali ed elaborano un codice che permette di passare da un sistema all’ altro di opposizioni binarie pertinenti a questi piani. Il materiale è fornito dalle classificazioni, per esempio di animali e vegetali, che hanno tanta parte nel pensiero primitivo: esse non sono solo legate all’ esigenza pratica di permettere un miglior soddisfacimento dei bisogni, ma nascono dall’ esigenza intellettuale di introdurre un principio di ordine nell’ universo. In questo senso, Lévi-Strauss rivendica, ne Il pensiero selvaggio, l’ esistenza di un autentico pensiero anche nei primitivi, il quale è alla base di ogni pensiero e non è una mentalità pre-logica, come aveva sostenuto Lucien Lévi-Bruhl (1857-1939), esclusivamente caratterizzata da una partecipazione affettiva e mistica con le cose, nettamente distinta dal pensiero logico. L’ unica differenza, secondo Lévi-Strauss, è data dal fatto che il pensiero “selvaggio”, quale si esprime anche nei miti, è più legato all’ intuizione sensibile e, quindi, più attento a salvaguardare la ricchezza e la varietà delle cose e a memorizzarla. L’ ultimo capitolo de Il pensiero selvaggio è una polemica contro la Critica della ragion dialettica di Sartre. Definendo l’ uomo in base alla dialettica e alla storia, Sartre ha di fatto privilegiato, secondo Lévi-Strauss, la civiltà occidentale, isolandola dagli altri tipi di società e dai popoli “senza storia”. In Razza e storia, Lévi-Strauss aveva riconosciuto che ogni società vive nella storia e muta, ma che diversi sono i modi in cui le varie società reagiscono a ciò. Le società primitive hanno subito trasformazioni, ma in seguito resistono a tali modificazioni : in questo senso, esse sono società fredde, ossia con un basso grado di temperatura storica, e la loro storia è fondamentalmente stazionaria. Esse si distinguono dunque dalle società calde, come quella occidentale, perennemente in divenire e caratterizzate da una stria cumulativa, le quali hanno come costo della loro instabilità i conflitti. In prospettiva, Lévi-Strauss auspica una integrazione tra questi due tipi di società e le corrispondenti forme di cultura e di pensiero. Egli rifiuta, dunque, ogni forma di etnocentrismo, in quanto ogni cultura realizza soltanto alcune delle potenzialità umane. Questo significa abbandonare ogni forma di umanesimo e di stoicismo, ossia respingere l’ equivalenza, dominante nel mondo occidentale, tra le nozioni di storia e di umanità: la storia è soltanto una delle scelte possibili che gli uomini possono compiere.
HANS JONAS
“La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando “apprensione” nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere. Ma la paura è già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto piú oscura risulta la risposta, tanto piú nitidamente delineata è la responsabilità. Quanto piú lontano nel futuro, quanto piú distante dalle proprie gioie e dai propri dolori, quanto meno familiare è nel suo manifestarsi ciò che va temuto, tanto piú la chiarezza dell’immaginazione e la sensibilità emotiva debbono essere mobilitate a quello scopo” (Il principio responsabilità).
BREVE INTRODUZIONE AL PENSIERO
Nato in Germania nel 1903, dove compì gli studi, ebreo, fu costretto dal nazismo ad emigrare, prima in Inghilterra e poi, in Palestina e in USA, Hans Jonas, morto nel 1993, è autore di importanti opere filosofiche. Allievo di Heidegger, profondamente turbato dalla non opposizione del maestro al nazismo, iniziò a riflettere criticamente sulla filosofia esistenzialistica e su tutta la filosofia occidentale, per individuare i motivi culturali che avevano indotto persone di grande valore scientifico a non assumere atteggiamenti responsabili, in momenti storicamente cruciali. Per Jonas il pensiero occidentale è stato caratterizzato dalla separazione tra uomo e natura, separazione che può spiegare lo scarso interesse per il mondo che ci circonda. Jonas ritiene urgente la formulazione di una nuova teoria etica, in tempi come i nostri in cui le morali religiose sono in crisi e lo sviluppo delle scienze pone problemi di scelte totalmente nuove. Perché l’etica valga universalmente deve, per Jonas fondarsi metafisicamente; si deve individuare nella struttura stessa dell’essere un bene, un valore che consenta di colmare il divario tra essere e dover essere. L’uomo deve adoperarsi per negare il non-essere, agendo in favore della vita e delle generazioni future. Jonas non ritiene la scienza negativa in quanto tale, ma nelle sue applicazioni con effetti non prevedibili, si devono temere catastrofi dovute a mancanza di controllo umano. Proprio la paura per la distruzione del genere umano deve indurre gli uomini ad agire responsabilmente. Jonas coglie bene la questione di fondo dei nostri sistemi politici , in quanto le nostre democrazie teorizzano la politica in termini di diritti, che hanno una prospettiva universalistica, però poi la praticano in termini di utilità, e quindi in modo particolaristico, perché le utilità o sono sempre le utilità di un gruppo nazionale contrapposto agli altri oppure, all’interno di un gruppo, determinate categorie che dicono di voler difendere i propri interessi. Jonas si spinge addirittura a sostenere la prospettiva di una tirannia ben intenzionata, di un governo di custodi che costituisca un problematico ma praticabile esito del tentativo di coniugare insieme una prospettiva universalistica con il relativismo politico. La sua non vuol essere affatto un’apologia dei governi tirannici quanto cercare una soluzione compatibile con i governi liberali e democratici odierni: un governo capace di dare risposte, competenze tecniche sorvegliate e controllate da un progetto universalistico ai problemi che rischiano di travolgere non soltanto le istituzioni esistenti ma addirittura le condizioni di sopravvivenza del genere umano. L’ uomo di Jonas è costruito sulla tradizione teologica ebraica: per un verso è un’immagine del Dio sofferente e che si prende cura, per l’altro è l’immagine di un Dio che ha rinunciato all’onnipotenza e che accetta per questo l’ambiguità. L’ambiguità è il dato fondamentale dell’uomo così concepito. Ambiguità vuol dire poter scegliere tra il bene ed il male, di essere buono o cattivo, voler eliminare questa ambiguità specifica significa per Jonas, eliminare la libertà dell’uomo. Questa antropologia dell’autolimitazione dell’uomo è polemica nei confronti delle moderne antropologie che sottolineano la centralità dell’uomo, o meglio il dominio dell’uomo sulla natura. Jonas pone al centro della sua posizione filosofica la questione della sopravvivenza , in base alle minacce specifiche che si affacciano all’orizzonte contemporaneo. Triplice è la natura del rischio: in primo luogo la catastrofe nucleare, in secondo luogo il collasso ecologico, in terzo luogo il rischio di una manipolazione genetica che può condurre ad una perdita dell’unità e dell’integrità del genere umano, attraverso la creazione di sottoclassi biologiche tra loro differenziate. Così il problema fondamentale diventa l’obbligo nei confronti delle generazioni future che non possono avanzare diritti, anche se Jonas ci ricorda che è vero che le generazioni future non possono sostenere i loro diritti ma è altresì vero che non possono corrispondere i loro doveri, e quindi la relazione di reciprocità è incompiuta. Spetta comunque a noi decidere per le generazioni future.
LA FILOSOFIA
Nasce a Monchengladbach nel 1903 e studia filosofia in diversi atenei tedeschi (Friburgo, Berlino, Heidelberg, Marburgo), sotto la guida di Martin Heidegger e Rudolf Bultmann i suoi interessi si orientano su questioni religiose, in particolare il cristianesimo antico e la filosofia ellenistica, che analizza utilizzando schemi di ermeneutica heideggeriana. Nel 1928 discute la sua tesi di dottorato Augustin und das paulinische Freiheitproblem . Nel suo pensiero possiamo distinguere tre tappe:
a) studi giovanili a carattere filosofico- religioso;
b) studi di filosofia della natura (secondo dopoguerra);
c) studi di etica (tarda maturità).
a) L’opera che caratterizza principalmente il primo periodo è Gnosis und spatantiker Geist , uno studio tuttora fondamentale sullo gnosticismo, alla quale Jonas lavorò per quasi trent’anni. La genesi di tale lavoro è legata ad una relazione tenuta al seminario teologico di Bultmann, ma il primo volume esce solo nel 1934 e il secondo vedrà la luce venti anni dopo. In un saggio del 1952 Gnosticism and modern Nihilism Jonas ha spiegato come l’interesse per il pensiero gnostico derivi dalla problematica nichilistica dell’esistenzialismo, la condizione specifica dell’uomo gnostico è quella propria di chi ha consapevolezza dell’ “essere-gettato”, cioè di vivere in un mondo in cui ci si sente estraniati. Di mezzo tra i due volumi che compongono il suo lavoro sullo gnosticismo ci sono gli anni difficili della persecuzione nazista (sua madre morì ad Auschwitz), dell’emigrazione in Inghilterra e in Palestina, dell’arruolamento come volontario dell’esercito inglese nelle file del Jewish Brigade Group, della II Guerra mondiale (fu anche sul fronte italiano). Nel 1949 Jonas si stabilisce in Canada, sei anni più tardi si trasferisce negli Stati Uniti. Il fondamento del nichilismo antico e contemporaneo è il dualismo uomo/mondo, natura/spirito, e la seconda fase delle ricerche di Jonas concerne proprio gli studi sulla natura che rimandano sempre al riferimento heideggeriano. L’autore di Essere e tempo aveva indagato la natura dell’essere lasciando inesplorato l’essere della natura, su questo campo si muove ora la riflessione di Jonas i cui approfondimenti più significativi sono contenuti nella raccolta del 1966 The Phenomenon of Life. Towards a philosophical Biology . Lo studioso tedesco di contro il dualismo idealismo/meccanicismo propone di restaurare l’unità psicofisica dell’organismo biologico. Il percorso filosofico di Jonas ha il suo punto di arrivo conclusivo nella fondazione di una macroetica per la civiltà tecnologica e nell’analisi dei problemi di bioetica che ne sono il corollario. Con Das Prinzip Verantwortung ( Il principio responsabilità ) del 1979 Jonas sviluppa la tematica della vita sul piano dell’azione pratica avendo di mira un’etica globale per il mondo attuale. È un’opera ancora al centro del dibattito filosofico contemporaneo per l’attualità di alcune tesi concernenti la portata delle trasformazioni tecnologiche, la responsabilità verso le generazioni future, la critica dell’utopismo marxista ma anche per l’arretratezza e l’inattualità di alcune posizioni e in particolare l’impianto concettuale “quasi – aristotelico” fatto rilevare da Apel, il ritorno alla metafisica (nella concezione etica jonasiana c’è una significativa ispirazione teologica), la ripresa di problemi quali il rapporto spirito-corpo, finalità-causalità, essere-dover essere. Nel 1985 Jonas ha fatto seguire a Das Prinzip Verantowortung il volume di etica applicata, concernente soprattutto tematiche di bioetica, Technick, Medizin un Ethik. Zur Praxis des Prinzips verantwortung ( Etica, medicina e tecnica. Sulla prassi del principio responsabilità ). Hans Jonas muore a New York nel 1993. La conoscenza in Italia di Hans Jonas tra i non specialisti è relativamente recente, basti dire che Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica è stato tradotto solo nel 1990 da Einaudi, la stessa casa editrice che nel 1997 ha tadotto Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità. Alla diffusione del suo pensiero ha contribuito in certa misura anche la traduzione nel 1989 presso l’editore Il Melangolo del testo della nota conferenza jonasiana Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica (1984). La nota tesi del filosofo tedesco è che Dio non ha impedito la tragedia di Auschwitz ” non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo. Creando il mondo e donando all’uomo la libertà Dio ha rinunciato ad uno dei suoi attributi: l’onnipotenza “.
IL PRINCIPIO RESPONSABILITA’
Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica pubblicato da Jonas nel 1979 si inserisce nel contesto della Rehabilitierung der praktischen philosophie. Come è noto, dopo una profonda fase di “crisi” dell’etica sotto i colpi, per citare solo alcuni orientamenti, di quelli che Paul Ricoer ha definito i “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud), dell’emotivismo neopositivistico, del divisionismo weberiano, del pensiero postmoderno etc., negli anni ’70 si è assistito ad una rinascita dell’etica normativa la cui tesi di fondo afferma la possibilità di fondare razionalmente criteri, norme e principi in grado di orientare l’agire umano. La particolarità della posizione jonasiana è che egli recupera una concezione “forte” della razionalità pervenendo, di contro il divisionismo (separazione di Sein e Sollen) e la concezione avalutativa della natura, ad una fondazione metafisica dell’etica che molto ha fatto discutere. L’influenza della cosiddetta “responsabilità jonasiana”, concetto che preciseremo in seguito, sull’etica contemporanea è stata straordinaria si pensi soltanto alla Diskursethik nelle versioni di Jurgen Habermas e di Karl Otto Apel, che pure non accettano il senso che Jonas dà alla razionalità, e all’importanza del concetto di responsabilità nel dibattico bioetico.
Jonas presenta la sua opera come un Tractaus tecnologico-ethicus che sviluppa le proprie tesi secondo un impianto concettuale rigoroso e sistematico, ciò che colpisce il lettore per quanto concerno lo stile dell’opera è comunque in primo luogo l’ “arcaicità” del linguaggio utilizzato che rende faticoso seguire il ragionamento. Lo stesso Jonas nella Prefazione ci ricorda che egli si era cimentato con la lingua tedesca dopo quasi cinquan’anni di frequentazione dell’inglese e ciò non poteva non avere una ricaduta sulla struttura complessiva della sua esposizione.
Il principio responsabilità è suddiviso in sei capitoli:
- La mutata natura dell’agire umano.
- Questioni relative al fondamento e al metodo.
- Sugli scopi e la loro posizione nell’essere.
- Il bene, il dover essere e l’essere: la teoria della responsabilità.
- La responsabilità oggi: il futuro minacciato e l’idea di progresso.
- La critica dell’utopia e l’etica della responsabilità.
Il primo capitolo approfondisce le caratteristiche dell’etica antica per evidenziare la sua inadeguatezza rispetto alle nuove dimensioni dell’agire umano poste in essere dallo sviluppo della tecnica. Di qui la necessità di fondare un’etica della civiltà tecnologica.
Ambiti dell’etica tradizionale:
Premesse dell’etica tradizionale:
Jonas vuole mostrare che tali premesse non sono più valide. I “nuovi poteri” della tecnica hanno trasformato “la natura dell’agire umano” e ciò esige anche un “mutamento dell’etica”.
Nell’antichità l’uomo con la sua azione non riusciva a scalfire l’ordine cosmico immutabile (Jonas procede qui ad una personale interpretazione del coro dell’Antigone di Sofocle), la città delimitava il campo della libertà e della responsabilità poiché la natura non era oggetto di responsabilità. Il problema etico ineriva il solo mondo sociale.
Alcune caratteristiche dell’etica tradizionale
- il bene e il male si manifestavano nella prassi stessa o nella sua portata immediata e non era oggetto di pianificazione a distanza (etica del “qui e ora” o della sincronia):
“Nessuno era ritenuto responsabile per le conseguenze involontarie di un suo atto ben intenzionato, ben ponderato e ben eseguito” – Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, Einaudi, p.9)
Nuove dimensioni della responsabilità legate allo sviluppo della civiltà tecnologica:
1. Vulnerabilità della natura
Attualmente la responsabilità umana si è estesa alla natura, la restrizione della prossimità e della contemporaneità è cessata, le serie causali attivate dalla tecnica si presentano come irreversibili e cumulative, le condizione iniziali dell’agire umano non sono mai le stesse, l’esperienza non giova a nulla (ciò significa nella sostanza che una azione iniziata in un qualsiasi punto della terra, pensiamo alle immissioni di gas nell’atmosfera o ad una fuga radioattiva, ha conseguenze per l’ecosistema e quindi anche per l’umanità durevoli nel tempo e coinvolgono tutta l’estensione spaziale del pianeta).
Di conseguenza
2. Nuovo ruolo del sapere
Il sapere “diventa un dovere impellente” oggi sono in gioco “la condizione globale della vita umana” e “il futuro lontano”, anzi la sopravvivenza, della specie che rendono necessario un autocontrollo del potere e una dottrina etica compiuta.
3. Diritti della natura
I fondamenti dell’etica vanno ripensati in considerazione del fatto che anche la natura ha dei diritti, non è sufficiente cioè ripensare soltanto alla dottrina dell’agire (aspetto etico) poiché è indispensabile anche ripensare la dottrina dell’essere (aspetto ontologico).
4. Etica della collettività
Al centro dell’agire c’è oggi non l’individuo ma la collettività per cui la moralità è penetrata nella sfera produttiva sotto forma di politica pubblica, il che deve determinare l’esigenza di nuovi imperativi
5. Assioma generale della nuova etica:
In avvenire deve esistere un mondo adatto ad essere abitato (Ivi, p. 15)
6. Nuovo imperativo etico:
Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra.
Non è facile dare una fondazione teoretica al perché non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo rischiare il non essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali, anzi abbiamo un dovere rispetto a ciò che non esiste, perché in quanto non esistente, non ne avanza la pretesa. Tale fondazione rappresenterà il cuore della trattazione jonasiana, per ora egli assume come un assioma ciò che dovrà dimostrare in seguito.
Il nuovo imperativo etico a differenza di quello kantiano, “evoca ” una coerenza, di tipo metafisico e non logico, non dell’atto in sé, ma dei suoi “effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire”, e l’ “universalizzazione” non è più ipotetica (” se qualcuno facesse così…”), “al contrario, le azioni sottoposte al nuovo imperativo, ossia le azioni della collettività, si universalizzano di fatto nella misura in cui hanno successo” (Ivi, p.17).
7. L’uomo stesso è diventato oggetto della tecnica :
Nella nuova situazione che si è determinata con lo sviluppo tecnologico l’uomo interviene sulla propria vita ad esempio con la manipolazione genetica, con il controllo del comportamento, prolungando la vita.
II. Questioni relative al fondamento e al metodo.
Principio fondante la nuova etica:
Non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo una posta in gioco nelle scommesse dell’agire (Ivi, p. 47).
Questa non è da considerarsi come la scommessa pascaliana, poiché non ammette la possibilità di puntare sul nulla, obbliga invece di optare per l’essere.
L’agire umano ha sempre un elemento del gioco d’azzardo o della scommessa ma non si può scommettere su ciò che non ci appartiene né per i grandi rischi della tecnica vale “la garanzia della causa condizionale” per cui in alcuni casi, quando ne va del futuro, è possibile mettere in gioco la totalità degli interessi altrui.
Nell’etica della responsabilità viene meno la reciprocità, non ha valore l’argomento secondo cui il non-essente non può avanzare le pretese per cui non ha diritti e se non ci sono diritti non ci sono doveri.
La nuova etica della responsabilità o etica del futuro implica un dovere verso l’esserci dell’umanità futura e un dovere verso il suo essere-così che deve essere fondato.
Il primo dovere sembra non necessitare di fondazione perché la sopravvivenza è data per scontata, in realtà il secondo dovere si basa sul diritto dell’esistenza che significa riconoscimento che all’altro deve essere garantita la possibilità di assolvere al proprio dovere di autentica umanità.
La responsabilità jonasiana è unilaterale.
1° imperativo categorico: che ci sia una umanità
Tale imperativo è insito non nell’etica ma nella metafisica in quanto dottrina dell’essere il che “contraddice i dogmi più consolidati del nostro tempo: che non esista una verità metafisica e che dall’essere non sia deducibile nessun dovere essere” (Ivi, p. 55-57).
Il dover essere ha dunque un fondamento metafisico. Qui Jonas infrange il dettato della cosiddetta “legge di Hume”.
Questione :
L’uomo deve essere? Che cosa significa che qualcosa deve essere? Deve esserci qualcosa o il nulla ?
Una condizione umana può essere giudicata migliore di un’altra e costituire così un dover essere per la scelta, ma rispetto ad entrambe si può optare per il non essere dell’uomo che mette a riparo da ogni obiezione.
Jonas ritiene “che si può scegliere il non essere in luogo di tutte le alternative dell’essere se non è riconosciuta un’assoluta priorità dell’essere rispetto al nulla. Quindi la risposta alla questione generale assume un importanza reale per l’etica” (p. 58).
Perché esiste qualcosa e non il nulla ? Perché qualcosa deve avere la priorità sul nulla, qualunque sia la causa, per cui viene all’esistenza?
La domanda sul dover essere diventa così una domanda di valore.
Essere = valore
Non essere = né valore né disvalore
La questione etico-metafisica del “dover essere dell’essere ” (Seinsollen) si sposta su quella logica relativa alla teoria del valore:
“Soltanto dalla sua oggettività (del valore) potrebbe essere dedotto un oggettivo ‘dover essere dell’essere’ e quindi un’obbligazione alla sua salvaguardia, una responsabilità verso l’essere” (Ivi, p. 62).
III. Sugli scopi e la loro posizione nell’essere.
Rapporto valori/ scopi
Lo scopo è ciò per cui una cosa esiste e per la cui realizzazione o conservazione si svolge un processo o si intraprende un’azione.
Il giudizio di valore concerne l’adeguatezza degli esseri rispetto agli scopi.
Si può parlare di finalità per gli oggetti naturali “involontari”?
Secondo Jonas la natura, proprio perché ha degli scopi ha dei valori (non è avalutativa), il problema è dimostrare che tali valori sono oggettivi (in-sé), legandoli al concetto di bene e rendendoli quindi vincolanti per noi (doveri). Qualora difatti tali scopi fossero soltanto soggettivi potremmo non riconoscerli sulla base della nostra libertà (Ivi, p. 97-98).
IV. Il bene, il dover essere e l’essere: la teoria della responsabilità
Fondare il “bene” o il “valore” nell’essere significa colmare il presunto ” divario tra essere e dover essere” (Ivi, p. 101), respingere la “legge di Hume”.
Se il bene o ciò che vale è tale a partire da se stesso allora lo possiamo definire come quella cosa la cui possibilità richiede l’esigenza della sua scelta (dover essere) posto che ci sia una volontà in grado di percepire e di tradurre in atto , quell’esigenza.
L’imperativo non può scaturire soltanto da una volontà che comanda (ad esempio Dio – persona), ma anche “dalla pretesa immanente di un bene-in-sé alla propria realtà”.
Per Jonas la natura prefiggendosi negli scopi o dei fini pone anche dei valori e ciò è ammissibile sulla base di un “assioma ontologico”:
“Nella capacità di avere degli scopi in generale possiamo scorgere un bene-in-sé, la cui infinita superiorità rispetto ad ogni assenza di scopo dell’essere è intuitivamente certa” (ivi, pag. 102).
Tale superiorità si avvale di una propria intuizione evidente: in ogni scopo l’essere dichiara in senso assoluto di essere migliore del non essere. Il riconoscimento come assioma è oggetto di una scelta metafisica che non può legittimarsi oltre.
Il si alla vita è un no al non-essere, mediante tale negazione “l’essere diventa l’istanza positiva, cioè la scelta permanente di se stesso. La vita in quanto tale, nel pericolo del non-essere che è immanente alla sua essenza, è l’espressione di quella scelta. Quindi in modo soltanto apparentemente paradossale, è la morte, ossia il poter morire, in quanto possibilità data in ogni momento e la cui dilazione si verifica anch’essa ogni momento nell’atto dell’autoconservazione – ciò che pone il suggello all’autoaffermazione dell’essere: per il suo tramite quest’ultima passa attraverso i singoli sforzi di esseri individuali” (Ivi, p. 104).
Nell’uomo il si alla vita che opera ciecamente acquisisce una forza vincolante nella sua libertà cosciente. L’uomo deve far sua questa affermazione ed imporre alle proprie facoltà la negazione del non-essere poiché è in grado di distruggere il lavoro teleologico della natura.
Il passaggio dal volere al dovere rappresenta il punto critico di ogni teoria etica. Perché limitare l’arbitrio dell’ uomo il cui esercizio illimitato costituisce il suo fine naturale come può diventare dovere ciò che è da sempre volontà dell’essere?
Jonas rileva come ogni scopo che mi pongo è legittimamente come “valore” soltanto perché vale la pena perseguirlo (o rinunciarvi qualora non sia perseguibile), egli postula perciò che ci sono scopi forniti o meno di valore indipendentemente dalla realizzazione o meno dei nostri desideri.
E’ in tale ambito che si può parlare di dovere, di scelta e di bene in sé, cioè indipendente dalla volontà. Il “segreto” o il “paradosso” della morale è che l’io deve essere dimenticato a favore della causa ( il bene in sé) affinché diventi un sé superiore (che è bene in-sé).
Ciò che motiva l’agire morale non è la legge etica (formalismo), ma l’appello intramondano del bene-in-sé possibile che si contrappone alla mia volontà e pretende ascolto, in conformità alla legge etica” (contenuto).
E’ evidente che io devo essere “permeabile” a tale appello ed è qui che entra in gioco il “lato emotivo” e precisamente il “senso di responsabilità” necessario per poter mettere in moto la volontà che vincola “questo soggetto” determinando un’azione conseguente.
Teoria etica della responsabilità
La responsabilità può essere intesa in due modi
Fino a che punto la responsabilità politica si inoltra nel futuro considerato che, a differenza di quella dei genitori, non conosce un termine fissato dalla natura dell’oggetto ?
Ogni arte di governo è responsabile per la possibilità della politica futura. Oggi il sapere analitico-causale applicato metodicamente al dato permette orizzonti più ampi rispetto al passato, d’altro canto però la nostra è una realtà estremamente dinamica e perciò sfuggevole all’uomo.
Essendo la responsabilità un “correlato del potere” la nuova etica ribalta il detto Kantiano “puoi, dunque devi” nel “devi, dunque fai, dunque puoi” (Ivi, p. 159-160).
Gli ultimi due capitoli de Il principio responsabilità (V. La responsabilità oggi: il futuro minacciato e l’idea di progresso e VI. La critica dell’utopia e l’etica della responsabilità) affrontano il problema della traduzione pratica della nuova etica in una politica di salvaguardia della natura e dell’uomo. Ciò da modo a Jonas di impegnarsi in una acuta analisi della società capitalistica (figlia dell’ “ideale baconiano” e madre della tecnica) e in un confronto con quella marxista, nel contesto di tali analisi egli si sofferma in modo particolare sulla versione blochiana dell’utopia marxista (principio speranza). Molte dei percorsi aperti dal filosofo tedesco in questi capitoli conclusivi risentono del clima storico-politico della fine degli anni ’70 e oggi, nella fase post ’89, sono superate, ciò non toglie che molte osservazioni mantengono la propria validità.
In sintesi le conclusioni jonasiane rilevano:
- la necessità di un controllo del potere distruttivo della tecnica demandato ad una élite che sappia dominare la tecnica e riequilibrare lo sviluppo dei popoli ricorrendo anche a forme di coazione con lo scopo di affermare il bene collettivo;
- un vantaggio teorico del marxismo sul capitalismo nel portare a realizzazione tale controllo (concetto di elite, spirito di sacrificio, uguaglianza etc.) che non ha però un riscontro nel socialismo reale che non è esente dall’economia dei bisogni e dal culto della tecnica;
- un altro limite del marxismo, e in modo particolare del pensiero blochiano, è rappresentato dalla prospettiva utopica (ontologia del non essere ancora), per Jonas non ha più senso prospettare il meglio quando è in gioco la necessità di preservare il presente (il pianeta per altro non reggerebbe un aumento della pressione produttiva):
“Qui è insito l’errore fondamentale dell’intera ontologia del non-essere-ancora e del primato della speranza che vi è legato. A suscitare in noi un senso di dovere è la semplice verità, né esaltante né sconfortante, che l’ “uomo autentico” è già sempre esistito con tutti i suoi estremi, nella grandezza e nella meschinità, nella felicità e nel tormento, nell’innocenza e nella colpa; in breve, in tutta l’ambiguità che gli è connaturata. Volerla eliminare significa voler eliminare l’uomo e la sua incommensurabile libertà” (ivi, p. 278).
MERLEAU-PONTY
Merleau-Ponty (Rochefort-sur-Mer 1908- Parigi 1961) è, insieme a Sartre, il principale esponente dell’ esistenzialismo francese: il motivo di fondo del suo pensiero (anche se la riflessione politica ne è una componente importante) è l’ esistenza quale essenza dell’uomo . Come l’amico Sartre, egli nutrì inizialmente interessi per la psicologia e guardò con interesse alla fenomenologia. Nato a Rochefort-sur-Mer, studio all’Ecole Normale Supérieure e successivamente, grazie ai suoi lavori, La struttura de comportamento (1942) e La fenomenologia della percezione (1945), divenne professore dell’università di Lione. Diversamente da Sartre, con il quale collaborò alla direzione della rivista “Les temps modernes” dal 1945 al 1953, l’attività di Merleau-Ponty si svolse principalmente all’interno del mondo accademico: nel 1950 fu nominato professore alla Sorbona di Parigi e nel 1952 al Collège de France. Dapprima si avvicinò al marxismo , pubblicando Umanismo e terrore (1947) e la raccolta di saggi Senso e non senso (1948). Nel 1953 ruppe i suoi rapporti con Sartre, allontanandosi al tempo stesso dal marxismo, come emerge da Le avventure della dialettica (1955). Altre opere sono la raccolta di saggi Segni (1960), un’indagine sull’arte intitolata L’occhio e lo spirito (1960) e il volume postumo Il visibile e l’invisibile (1964). Anche per Merleau-Ponty il punto di partenza è l’ abbandono del dualismo cartesiano tra anima e corpo , tra coscienza e mondo. Studiando a Lovanio gli scritti inediti di Husserl, egli scopre la rilevanza dei concetti di intenzionalità e di mondo-della-vita, i quali consentono di sfuggire alla falsa alternativa tra idealismo e realismo, che insistono unilateralmente sulla priorità del soggetto o dell’oggetto, dell’io o del mondo. A suo avviso, la riduzione fenomenologia non mette capo a una coscienza pura, come aveva preteso lo stesso Husserl, bensì ad un mondo della vita, antecedente ad ogni riflessione, nel quale soggetto e oggetto si presentano indistinti. Qui il rapporto originario con il mondo si costruisce attraverso il corpo , la cui dimensione fondamentale è data dall’esperienza vissuta della percezione . Il mondo è ciò che percepiamo e la fenomenologia si configura essenzialmente come descrizione delle modalità di percezione. Il corpo, infatti, è anteriore e irriducibile alla contrapposizione, costruita a posteriori dalla riflessione e dalle scienze fisiologiche, tra soggetto e oggetto, tra coscienza e mondo. Esso è l’unità indistinta e naturale di questi poli: una mano che tocca è al tempo stesso toccata e viceversa, ossia il soggetto del sentire è al tempo stesso oggetto sentito e viceversa. Merleau-Ponty non può, quindi, condividere la contrapposizione sartriana di in se e per-sé, che ha come conseguenza la concezione dell’intersoggettività come conflitto tra coscienze. L’ ambiguità originaria dell’esperienza, quale si mostra nella percezione attraverso il corpo, impedisce di accogliere una concezione per la quale il vero soggetto è unico e non lascia posto all’altro e a una pluralità di coscienze. In questo senso Merleau-Ponty può affermare ” io sono un campo intersoggettivo “. La percezione, infatti, in quanto inscindibilmente connessa alla corporeità e non riducibile a coscienza pura, attesta che ” il corpo altrui e il mio sono un tutto unico “, cosicché il conflitto tra le coscienze non è la dimensione originaria del rapporto intersoggettivo, ma è la rottura di questa unità e comunicazione originaria, che ha le sue radici nel mondo della vita antecedente a ogni riflessione. L’esistenza viene concepita come incessante ripresa della situazione di fatto (caratteriale, familiare, sociale, ecc.) che la condiziona senza però predeterminarne lo svolgimento; l’esistenza è infatti libera, si svolge sotto il segno della possibilità perché può sempre modificare il suo punto di partenza, riassumendolo entro un progetto inaugurato da un atto di appropriazione della propria vita che le dà il suggello di autenticità; ne consegue che la realizzazione della libertà esige l’impegno e la prassi, giacchè il senso dell’esistenza, ovvero il significato della condizione umana, si rivela solo nel suo essere nel mondo. Ma il suo costitutivo radicarsi nel mondo fa sì che il senso dell’esistenza sia opaco e che la misura umana della libertà non sia un incondizionato potere della coscienza sulle cose, bensì si esplichi entro un limitato campo di possibilità. La libertà non può impedire che il mondo imprima anche all’esistenza il carattere proprio di tutto quanto sta nel suo orizzonte, che è la precarietà e la contingenza: proprio per questo il senso non può mai esorcizzare il non-senso. L’ambiguità dell’esistenza nasce dal fatto che la sua libertà si rivela in effetti l’altro lato del suo essere conficcata nella vita sensibile della percezione. Lungo questa via la fenomenologia esistenzialista e dialettica di Merleau-Ponty incontra la psicoanalisi nella convinzione che l’inconscio non è solo una struttura antropologica, ma anche una fonte di verità. Questa impostazione consente a Merleau-Ponty di respingere le concezioni sartiane del nulla e della libertà. E’ vero che il nulla appare nel mondo grazie alla soggettività e alla possibilità di trascendere il mondo e di annullare i propri progetti in ogni attimo, ma questa possibilità è sempre al tempo stesso quella di cominciare qualcos’altro, cosicché ” noi non rimaniamo mai in sospeso nel nulla “, bensì ” siamo sempre nella pienezza, nell’essere “. Allo stesso modo, egli rifiuta la nozione di il libertà assoluta, sganciata da ogni condizionamento, la quale porta alla conclusione della equivalenza delle scelte. La libertà assoluta è incompatibile con la nozione di situazione, ossia con l’essere-al-mondo, attraverso la corporcità e la percezione, che è proprio dell’uomo: ” io non sono mai una cosa e non sono mai una coscienza nuda “, cosicché la libertà è sempre incontro di esteriore e interiore, è sempre condizionata e inserita in un orizzonte di possibilità. L’alternativa tra libertà assoluta e determinismo è, dunque, meramente fittizia. Libertà per Merleau-Ponty significa nascere e precisamente nascere dal mondo in quanto campo già strutturato di possibilità, ma al tempo stesso nascere al mondo, in quanto il mondo non è mai una totalità chiusa e definitiva ma è un orizzonte aperto al quale possono essere conferiti significati. In questo modo acquistano senso ed efficacia le scelte, l’impegno e la responsabilità umana all’interno della storia, come insieme contingente dei progetti umani. Il problema della storia porta Merleau-Ponty ad una riflessione sul il marxismo , in Umanismo e terrore (1947) egli ravvisa nei processi staliniani un’espressione dell’ambiguità costitutiva dei progetti umani e del divario che ancora caratterizza il piano dei mezzi da quello dei fini. All’interno di una storia contingente, nella quale si scontrano prospettive soggettive, e in una situazione ancora rivoluzionaria, la violenza ed il terrore sono inevitabili e, tuttavia, orientati a realizzare il comunismo, inteso come piena trasparenza dei rapporti umani e ripristino del rapporto adeguato tra mezzi e fini. In questa situazione, secondo Merleau-Ponty, non si può essere né comunisti, né anticomunisti, ma bisogna assumere una posizione di attesa nei chiarimenti che la storia potrà apportare. Ma all’inizio degli anni cinquanta, nel clima della guerra fredda, egli abbandona il mito, che considera proprio del marxismo, di un significato totale della storia, affidato al potere del proletariato. Al cuore di questa concezione vi è la nozione di il dialettica , che egli critica in Le avventure della dialettica (1955). Invano il marxismo del Novecento, a partire da Lukács, ha tentato di superare Weber, per il quale è impossibile una conoscenza globale del significato ultimo della storia. Contro l’ultrabolscevismo, manifestato in quegli anni da Sartre, Merleau-Ponty sostiene che l’instaurazione in Urss di un partito unico, depositario e interprete del processo oggettivo della storia, è la confutazione dell’idea di dialettica e di rivoluzione. Secondo Merleau-Ponty, infatti, non c’è dialettica senza opposizione e senza libertà, ma queste non durano a lungo in una rivoluzione, che inevitabilmente degenera nella dittatura: ” le rivoluzioni sono vere come movimenti e false come istituzioni “. Egli descrive allora il proprio itinerario come un passaggio dell’attendismo marxista all’a-comunismo: più che pretendere di rifare la storia da zero, si tratta di cambiarla all’interno di una società e di un quadro di istituzioni che salvaguardino la libertà. In quest’ottica, nell’opera pubblicata postuma Il visibile e l’invisibile , Merleau-Ponty elabora il concetto di il iper-dialettica , ossia di una dialettica non caratterizzata (a differenza di quella di Marx e di Hegel) dalla sintesi finale definitiva e da una concezione lineare e unidirezionale dello sviluppo della realtà e della storia, ma aperta alla molteplicità di rapporti e alla polivalenza di significati che contrassegnano l’esperienza umana nel mondo. Negli anni Cinquanta Merleau-Ponty approfondisce la sua interpretazione fenomenologica del linguaggio aprendosi allo strutturalismo : il senso che promana dai segni linguistici non è solo frutto dell’intenzione consapevole del soggetto, e non è neppure solo il prolungamento della gestualità corporea, ma ha un’origine intrinseca al linguaggio stesso, poiché si trova pure nell’intervallo tra un segno e l’altro, incastonato negli interstizi tra le parole. Il concetto di struttura insegna così a Merleau-Ponty un nuovo modo di vedere l’essere, come un ‘sistema a più entrate ‘ , in cui il centro è ovunque e in nessun luogo. Il linguaggio è pensato, con una certa sintonia con l’ultimo Heidegger, come parola dell’essere.
MIGUEL DE UNAMUNO
A cura di Giorgia Baldin
VITA, OPERE E PENSIERO
Di famiglia borghese e cattolica, Miguel de Unamuno nasce a Bilbao il 29 settembre 1864, e qui frequenta la scuola primaria e secondaria. Tre anni più tardi muore la sorella Maria Jesusa e due anni più tardi la sorella Maria Mercedes, all’età di appena un anno, a cui seguirà il padre, nel 1870, quando Unamuno aveva sei anni. La sua casa era un focolare femminile che, in un modo o nell’altro influenzò molto il suo comportamento. A dieci anni assiste all’assedio della sua città durante la seconda guerra carlista. A soli venti anni (nella Spagna di allora gli studi universitari duravano solo tre anni) è dottore in lingua basca e si dedica per alcuni anni all’insegnamento privato nella sua città natale. Nel 1891, anno del suo matrimonio con Concha Lizàrraga, donna di cui era innamorato sin da bambino, viene assunto come professore di greco all’Università di Salamanca, dopo aver vinto un concorso a cui si preparò per tutto l’inverno. In questa città visse fino alla morte, a parte la parentesi forzata o volontaria del suo esilio. Nel 1897 soffre una profonda crisi religiosa: momento cruciale della sua vita, fungerà da spartiacque nel suo pensiero e nella sua produzione letteraria. Descritta da Unamuno stesso come una ” scarica fulminante ” in una notte, il giorno seguente si recò nel convento dei frati domenicani di Salamanca, dove rimase tre giorni dedito alla lettura di Blaise Pascal. Seguirono quindi molte letture religiose, soprattutto di natura protestante, che alimenteranno sempre più il suo pensiero antidogmatico e anticlericale. Questa profonda crisi, introdusse nel suo pensiero quella che sarà la sua caratteristica principale: l’ agonìa . Unamuno scriverà nel 1907: ” la mia religione è cercare la verità nella vita e la vita nella verità […]; la mia religione è un lottare incessante con il mistero “. Nel 1901 viene eletto rettore dell’Università di Salamanca, carica da cui verrà destituito nel 1914 dal ministro dell’Istruzione Pubblica (per ragioni politiche) pur conservando la cattedra fino al 1924, anno del suo arresto a causa dei suoi attacchi al re Alfonso XIII e al dittatore Primo de Rivera, che aveva assunto il potere a seguito di un colpo di stato nell’anno precedente. Portato al confino nelle Canarie (isola di Fuerteventura), evade alla volta di Parigi e poi di Hendaye, sulla costa basca, città in cui divise il suo volontario esilio. Con la caduta della dittatura, nel 1930 torna a Salamanca e gli viene restituita la cattedra. Lo stesso anno, scrive Antonio Machado su Unamuno politico:
” è la figura più alta dell’attuale politica spagnola […] è un uomo orgoglioso di esserlo, che parla agli altri uomini in un linguaggio essenzialmente umano. Si dirà che questa non è politica. Io credo che è la più originale. […] Non basta invocare la cittadinanza. E’ un concetto pagano e già superato per la storia. Un cittadino può essere un uomo libero che vive sopra una massa di schiavi. L’ultima grande rivoluzione politica non invocò i diritti del cittadino; proclamò i diritti dell’uomo. Perché lo si dimentica tanto frequentemente? Unamuno non lo scordò mai. Ma Unamuno pensa che l’uomo può malamente invocare i suoi diritti senza una previa coscienza della sua umanità. L’ingente opera politica di Unamuno consiste nell’illuminare questa coscienza, con la sua parola e con il suo esempio, nelle viscere del suo popolo “.
Il 1931 è l’anno della proclamazione della Repubblica, ed Unamuno è nominato deputato. Nel 1936 scoppia la guerra civile spagnola e il filosofo non nasconde la sua scelta franchista. Muore il 31 dicembre dello stesso anno, sentendo passare sotto la sua finestra le truppe naziste. Così lo commemora Ortega y Gasset: ” Unamuno è già da sempre in compagnia della morte, la sua perenne amica-nemica. L’intera sua vita, tutta la sua filosofia, sono state, come quelle di Spinoza, una ‘meditatio mortis’. Oggi una ispirazione del genere trionfa dappertutto, ma bisogna dire che fu Unamuno ad esserne il precursore“. Tra le sue opere meritano di essere menzionate: ” En torno al casticismo ” (1902), ” La vita di don Chisciotte e Sancio ” (1905), ” La mia religione ed altri saggi ” (1910), ” Il sentimento tragico della vita ” (1913), ” Nebbia ” (1914), ” Agonia del cristianesimo ” (1925), ” San Manuel Bueno ” (1933). La filosofia unamuniana parte dall’uomo (” l’uomo in carne ed ossa, che nasce, soffre e muore “) e in questo rivela saldi legami con l’esistenzialismo.. E’ l’uomo concreto ed esistente, l’uomo vivente, soprattutto, ” il soggetto e il supremo oggetto di tutta la filosofia “, perché il vivere è ciò che più importa: per questo si filosofa per vivere. Non si tratta, dunque, di ragione pura, di dogmatismo sistematico, per il motivo che Unamuno pone ragione e vita in due piani opposti su cui è necessario decidere. O si razionalizza la realtà, e in questo caso la si devitalizza, vista la sua linfatica prospettività; oppure la si vive irrazionalmente. Perché la realtà è vita, esiste, è dinamica e difficilmente imbrigliabile entro la morsa oggettivizzante di una ragione che astrae. In questo senso Unamuno ribalta la sentenza hegeliana: si legge nel ” Sentimento tragico della vita ” che ” tutto ciò che è vitale è irrazionale, mentre tutto ciò che è razionale è antivitale “. Si tratta non di meno di una chiara presa di posizione contro le definizioni teoretiche e le concettualizzazioni, che vogliono fissare ciò che ” è assolutamente instabile, assolutamente individuale “. Quindi la scienza, figlia della ragione, cosa può dire sui nostri dubbi, sui nostri più profondi bisogni e turbamenti? Cosa può dire sul senso autentico della vita individuale e sull’angoscia? La scienza è un cimitero di idee. Come bene afferma R.M. Albérès, infatti, il pensiero, la ragione e l’intelletto sono troppo ristretti per com-prendere totalmente tutto ciò che vogliono abbracciare; non per questo Unamuno rinunciò ad essi: li rese ‘tragici’ e ‘agonistici’, vale a dire, secondo l’ etimologia greca, ‘in lotta’ . Non si pensa, insomma, solo con la testa, ma con il corpo tutto: per questo il pensatore spagnolo oppone il conoscere per conoscere al sentimentalismo agonico e tragico della vita. E in questo senso Unamuno è romantico. Ma è anche nel filone esistenzialista , alla stregua di Kierkegaard, di cui lesse le pagine e di cui si dichiarò “fratello”, perché ” in perpetua disperazione interiore “. La ragione, fabbricatrice di certezze schematiche, deve perciò essere vista nella sua limitatezza, nella sua finitezza; solamente se l’uomo, individualmente, si consapevolizza e accetta i limiti del proprio intelletto, se riesce a rendersi conto che molte realtà oltrepassano le capacità intellettive umane, allora l’uomo si troverà in lotta contro le arroganti pretese dell’intelletto e lottando metterà un peso alla ragione, perché non si stacchi da terra oltre al necessario e oltre il necessario. Unamuno sembra tornare agli esiti filosofici di Cusano e alla “dotta ignoranza” come consapevolezza della sproporzione, dell’alterità insita tra la mente umana e la verità assoluta, tra il finito dell’uomo e l’infinito a cui si anela. Non è possibile raggiungere la coincidenza. E se fosse possibile sarebbe solo un traguardo povero, alla San Bonaventura, perché al di là dell’assoluto astratto, perdiamo il prospettivismo del concreto, in cui peraltro viviamo. Unamuno, dunque, è diffidente nei confronti dei sistemi filosofici, in linea con il pensiero filosofico spagnolo, per esempio di Ortega y Gasset o di Maria Zambrano, per citare solo il XX secolo. In effetti, i nostri desideri, i nostri affetti, i nostri timori, non provengono dalla ragione, ma sono a posteriori, così come ogni altra dottrina filosofica. Persino dietro la scienza si nasconde la fede nella ragione, e ” la fede nella ragione è destinata ad apparire, sul piano razionale, tanto insostenibile quanto qualsiasi altra fede “. L’esistenza dell’uomo, la realtà tutta, è contraddittoria: le lotte, soprattutto, sono le viscere ( ” entran?as “) della vita stessa: ” la vita è lotta “, lotta come agonìa greca. La nostra esistenza vitale è edificata su una lotta (” lucha “) tra il cervello e il cuore, tra la ragione e la fede. Unamuno vuole costruire con la fede ciò che ha distrutto con la ragione, di qui il suo tragicismo , che si radica in un abbraccio tra deismo sentimentale e scetticismo razionale. Ma un abbraccio, osserva il francescano Miguel Oromì, che non è ” di pace e di concordia, ma di lotta disperata, da cui procede il dubbio, non metodico, ma passionale, vitale, fondato sulla disperazione sentimentale e lo scetticismo razionale; è l’eterno conflitto tra la ragione e il sentimento, la scienza e la vita “. Un ruolo importante nel sentimento tragico della vita è giocato dall’abisso, nel cui fondo si è lacerati dall’angoscia e non si trovano sicurezze, certezze: ” tutto è nell’aria…la certezza assoluta e il dubbio assoluto non sono ugualmente vietate. Galleggiamo in un luogo incerto tra due estremi, come tra l’essere e il nulla “. Ma Unamuno non vuole arrivare ad un estremo, non vuole acquietarsi ma preferisce avvicinarsi senza giungere alla meta: è un continuo affannoso tendere che non trova esaurimento, perché la pace e l’appagamento, per lui, sono la morte. Torna dunque la lotta come cifra di vita, come sintesi dinamica entro cui muoversi e trovar respiro, in una vitale ricerca. Molto spazio è dedicato dal filosofo spagnolo alla figura di don Chisciotte. Secondo Unamuno, don Chisciotte è una figura mitica positiva per la Spagna. La cavalcata contro i mulini a vento non è un gesto di follia, anzi:
” aveva ragione il Cavaliere: la paura, e solo la paura, faceva vedere a Sancio, e fa vedere a noi semplici mortali, mulini a vento nei prepotenti giganti che seminano il male sulla terra. Quei mulini macinavano pane, e di questo pane mangiavano gli uomini induriti nella cecità. Oggi non ci appaiono più come mulini,