INTRODUZIONI
“Il tempo della notte del mondo è il tempo dell’indigenza perché diviene sempre più indigente. È già divenuto così indigente da non essere più in grado di notare la mancanza di Dio come mancanza” (M. Heidegger, Sentieri interrotti)
In questa pagina riepilogo le introduzioni di tutte le epoche filosofiche.
FILOSOFIA ANTICA
LA CONOSCENZA NELLA FILOSOFIA ANTICA
Che i filosofi, antichi e moderni, mirino a sapere lo dice il nome stesso della loro professione: filosofia, infatti, deriva dal greco filoV , “amico”, e sofia , “sapere”, e i filosofi, dunque, sono coloro che “amano il sapere”. Ma non solo i filosofi aspirano a sapere: come dice Aristotele nel celebre incipit della sua “Metafisica” tutti gli uomini per natura aspirano alla conoscenza. I filosofi, però, sono coloro che hanno problematizzato la questione della conoscenza, interrogandosi su svariati aspetti del sapere e fornendo risposte spesso divergenti e contrastanti. Il filosofo, quindi, si contraddistingue fin dall’inizio per il fatto che, oltre a possedere conoscenze, le problematizza; ma, ad onor del vero, anche in campi non propriamente filosofici, come ad esempio la poesia, vengono trattati problemi analoghi (pensiamo ai testi omerici), anche se resta incommensurabilmente diverso il modo di affrontarli. Ogni sapere, in generale, ha suoi oggetti specifici: è invece difficile stabilire quali siano gli oggetti dell’indagine filosofica, poiché vi è una divergenza di prospettive. I filosofi, infatti, già a partire dall’antichità, non si trovavano quasi mai d’accordo perfino su cosa significasse conoscere, cosicchè, per chiarire questi concetti, introdussero distinzioni sempre più sottili, sollevando sempre nuovi problemi e lasciandoli in eredità ai filosofi successivi. Uno dei primi problemi ad affacciarsi sullo scenario filosofico riguardava figure di competenti, come medici o artigiani, dotati di un sapere specifico e in grado di cambiare la situazione presente: ci si cominciò a chiedere che tipo di sapere fosse e che relazione intercorresse tra il loro saper fare e il sapere in generale. Ma queste domande non fecero altro che suscitare nuove questioni, a cui si provava a trovare soluzioni soddisfacenti: pareva infatti chiaro, ad esempio, che il medico, per poter guarire i pazienti, dovesse avere conoscenza pratica dei farmaci da somministrare e che quindi il suo fosse un sapere pratico indissolubilmente legato, però, con la dimensione conoscitiva. Si andava via via delineando una sempre più netta distinzione tra sapere pratico e sapere non pratico, ma, nel contempo, sorgeva un nuovo, fondamentale dilemma: la conoscenza medica può essere suscettibile di una generalizzazione, ovvero, nel caso risulti efficace se applicata a più pazienti, può allora venire applicata alla totalità di coloro che sono affetti dalla medesima malattia. Da qui nasce il problema se la conoscenza debba riguardare un oggetto (il singolo malato) o classi di oggetti (i malati nella loro totalità); problema che, con il progredire della terminologia filosofica, verrà posto in questi termini: la conoscenza riguarda il particolare (il singolo uomo Socrate) o l’universale (gli uomini)? E’ evidente che questa problematica non riguardi solo i filosofi, ma anche i medici. Ci si cominciò poi anche a chiedere quali fossero i metodi della conoscenza: una domanda che rinviava immediatamente ad un’altra questione, ovvero quale fosse la struttura dell’uomo e di quali risorse l’avesse fornito la natura. Fin dall’inizio, naturalmente, si fu propensi a ritenere che le principali vie conoscitive concesse all’uomo fossero i sensi, ovvero la capacità di ricevere sensazioni, di percepire oggetti fuori di noi. Ampi furono, in questa prospettiva, i riferimenti ai compagni di strada dell’uomo, gli animali: il problema dell’avere una conoscenza finisce per investire anche loro (e questo è vero soprattutto con Aristotele). Ci si chiese quindi: che conoscenza può avere l’uomo? Ma anche: che conoscenza possono avere gli animali? Perché anch’essi, come l’uomo, sono dotati di sensi; in epoche più mature ci si interrogherà addirittura sull’intelligenza degli animali. Ma, dopo che fu ravvisata nei sensi la principale via conoscitiva, ci si cominciò a chiedere se essi fossero strumenti conoscitivi attendibili. Possiamo fidarci della conoscenza che passa per i sensi? Eppure essi, talvolta, ci forniscono percezioni evidentemente sbagliate, come quando ci capita di vedere doppio o quando vediamo spezzato, per un’illusione ottica, il remo immerso in acqua. Chi ci dice che, parimenti, i sensi non ci ingannino sempre? E poi, a ben pensarci, la percezione è individuale: basta la mia percezione per assicurarsi oggettivamente della realtà? E, nel caso bastasse, è sufficiente una singola percezione o devo attendere la reiterazione? Anche sull’onda di queste considerazioni, ci si accorse che l’uomo disponeva di un’altra arma conoscitiva oltre ai sensi: si trattava dell’intelligenza; e nacque subito un nuovo, assillante problema su cui arrovellarsi: che rapporto intercorre tra intelligenza e percezione? E’ sufficiente una delle due da sola? L’intelligenza controlla la sensazione o viceversa? Si tratta di problemi vivi ancora oggi, anche perché, in fin dei conti, la filosofia ha sollevato una miriade di problemi ma non ne ha mai definitivamente risolto nessuno. Nascevano ulteriori considerazioni importanti: dall’abbinamento di intelligenza e sensazione scaturisce una conoscenza vera? E come posso distinguere una conoscenza vera da una che, invece, è falsa? E una autentica da una dubbia? Affiorò la problematica del rapporto tra conoscenza, avente per oggetto la verità, e opinione, suscettibile di essere vera o falsa. Il problema della conoscenza, quindi, finiva per trascinarsi appresso quello della distinzione tra vero e falso. Addirittura, nel corso della storia della filosofia, ci fu un momento in cui fu messa in forse la possibilità di avere conoscenza: è il caso degli Scettici, i quali sospendevano il giudizio (la famosa epoch ), rinunciando a dire cosa fosse vero e cosa falso. Emerse poi un altro problema: di una medesima cosa si poteva conoscere il “che” e il “perché”; ad esempio, un conto è sapere che il fuoco brucia, altra cosa è sapere perché il fuoco brucia. Quale tra le due conoscenze è superiore, quella del che o, viceversa, quella del perché? Aristotele e Platone sostennero che conoscere il perché delle cose significa spiegarle, ossia conoscere le cause che le hanno prodotte, con l’inevitabile conseguenza che, la conoscenza del “che” è assai inferiore. In altri termini, la conoscenza del perché fornisce indicazioni generalizzabili, grazie alle quali è possibile costruire una scienza. Un altro problema che si dovette presto affrontare fu questo: per avere una vera conoscenza bastano conoscenze isolate o si deve piuttosto essere in possesso di un sistema integrato di conoscenze? Questa tematica sarà particolarmente sentita e dibattuta in età ellenistica, quando gli Stoici, gli Epicurei e gli Scettici provarono a tratteggiare la figura del sapiente: per gli Stoici, ad esempio, il sapiente sarà colui che detiene tutte le conoscenze possibili, a tal punto che, per loro stessa ammissione, un vero sapiente non è praticamente mai esistito. Naturalmente, col passare del tempo il sapere tende sempre più a specializzarsi con l’inevitabile conseguenza che diventa sempre più difficile stabilire chi sia il filosofo e capire quale sia il linguaggio mediante il quale il filosofo si esprime. Se è vero che ogni storia ha un suo punto di partenza, bisogna chiarire da dove parta la storia della filosofia: e si può notare come la questione della conoscenza umana cominci a sorgere in connessione al riconoscimento dell’esistenza di una conoscenza divina; proprio il rapporto uomo/divinità costituisce il punto di partenza e il problema può sinteticamente risolversi nella questione se l’uomo disponga o no di una conoscenza in qualche modo accostabile a quella della divinità. Ovviamente la domanda rimanda all’interrogativo: quale rapporto intercorre tra le due conoscenze, quella umana e quella divina? Per trovare qualche risposta dobbiamo rivolgerci soprattutto ai testi poetici: nei poemi omerici, ad esempio, in cui sono spesso menzionati i tecnici, gli indovini e i medici, i poeti presentano i loro canti come il risultato di un ammaestramento divino; la divinità, dunque, era posta all’origine della loro espressione, il che significa che i poeti esprimono un sapere che è a tutti gli effetti divino. Era infatti convinzione comune che la conoscenza fosse assolutamente impossibile senza l’intervento divino ed è in questa prospettiva che Esiodo e Omero presentano i loro poemi; in un passo dell’VIII libro dell’Odissea, Odisseo tesse le lodi del cantore Demodoco: ” certo Apollo o la musa figlia di Zeus ti istruirono “; il cantore, solo perché il sapere gli proviene da una fonte superiore, può cantare ciò che capitò agli Achei a Troia pur senza aver visto coi suoi occhi. Anche l’incipit della Teogonia esiodea è, sotto questo profilo, particolarmente significativo: ” sono le muse che un giorno un bel canto insegnarono a Esiodo “. Ma – e qui sta la cosa interessante – le muse in Esiodo raccontano anche cose false, cosicchè sta all’uomo capire gli ammaestramenti divini, evitando di riceverli passivamente; in altri termini, il messaggio è che non ogni forma di poesia, perché ispirata dalle muse, è autenticamente vera. Si affaccia così, seppur timidamente, l’idea che la conoscenza umana abbia una sua indipendenza. Si invita il poeta a vigilare sulla qualità del messaggio trasmesso; fatto sta che per Esiodo egli possiede una conoscenza eccezionale, del futuro, del presente e del passato, e tende dunque a sfumare nella figura dell’indovino detentore di un sapere totalizzante. Soffermando la nostra attenzione sul I libro dell’Iliade, a proposito dell’indovino Calcante viene detto: ” conosceva il presente, il futuro e il passato […] l’arte sua di indovino che gli donò Febo Apollo “. Quella dell’indovino è una figura antica e appartiene, oltre che alla Grecia, anche al vicino Oriente: perfino ai medici è spesso attribuita la capacità di prevedere il futuro; non a caso, la “prognosi” di cui parla Ippocrate nel V secolo a.C. era, in origine, una previsione della salute per il paziente. Alcune tavolette babilonesi contenevano poi elenchi di segni desunti dal mondo animale in base ai quali si potevano formulare previsioni collegando il segno che si presentava con un evento destinato a verificarsi: ad esempio, troviamo scritto che ” se una lucertola si arrampica sul letto del malato, egli guarirà “. In questa prospettiva, il futuro può essere predetto a patto che si presentino segni particolari, secondo una formula del tipo: “se x, allora y”. Lo stesso contenuto dei sogni si credeva che fosse indicativo, poiché si riteneva che essi svelassero cose che si sarebbero verificate in futuro (ancora nel V secolo i medici ippocratei ne tenevano conto). Ma anche gli artigiani e i medici, dunque, oltre ai poeti, erano detentori di una forma di sapere e, stando a quel che dice Omero, compivano le loro opere con l’appoggio delle divinità: sempre Omero racconta di un’erba dai poteri straordinari che poteva essere sradicata solo da una divinità e resa nota ai medici dalla divinità stessa; anche il sapere dei medici, come quello dei poeti, era dunque concepito come divino. Tuttavia (e qui sta la differenza rispetto ai poeti) il sapere dei medici e degli artigiani si accompagna al saper fare, al saper costruire oggetti o produrre la salute. Si continuava a riconoscere che senza l’intervento divino il sapere non aveva carattere assoluto, riconoscendo in tal senso i limiti della propria conoscenza e constatando che il sapere umano non avrebbe mai potuto competere con quello divino per vastità e profondità. E dunque dal confronto con l’alto (Dio) e col basso (gli animali), si intravedeva la possibilità di definire la conoscenza umana: e tale via comincia ad essere battuta da un pensatore attivo dal VI al V secolo nella Magna Grecia, Alcmeone di Crotone, che viene solitamente messo in relazione con il pitagorismo. Medico di professione, era soprattutto mosso dall’esigenza di capire esattamente quale potesse essere la portata della conoscenza umana. Egli distingueva in modo marcato la conoscenza umana da quella divina, mettendo in luce fin dove quella umana potesse estendersi. Il sapere divino veniva da Alcmeone qualificato come safhneia , ovvero assoluta certezza; quello umano, dal canto suo, veniva visto come notevolmente meno chiaro. Quelle cose che per gli uomini risultano invisibili, sono, ad avviso di Alcmeone, perfettamente visibili per gli dèi: il conoscere umano procede attraverso indizi (tekmhria) o, nel linguaggio medico, sintomi. Si deve dunque costruire il sapere a partire dai segni, così come il medico parte dai sintomi per diagnosticare la malattia. Per superare il buio, quindi, non ho bisogno di divinità che mi aiutino, ma piuttosto di tekmhria sui quali fare inferenze, passando così dalle cose certe a cose che certe non sono. Questi indizi intorno ai quali edificare la conoscenza sono essenzialmente coglibili nell’ambito delle sensazioni, cosicchè si parte da ciò che si presenta ai sensi per arrivare a ciò che ad essi non si presenta; bisogna però spiegare come funziona questo passaggio e quale è lo strumento che consente di attuare l’inferenza. Ed è qui che entrano in gioco gli animali: infatti anch’essi hanno percezioni, ma è solo l’uomo a poterle comprendere, ossia “raccogliere e connettere” ciò che proviene dai singoli organi di senso. Ma ciò non toglie che attraverso quest’operazione di raccoglimento e connessione dei dati sensoriali l’uomo finisca per costruire una conoscenza inferiore rispetto a quella divina: ” delle cose visibili e delle invisibili solo gli dèi hanno conoscenza certa ( safhneia ); gli uomini possono soltanto congetturare […]. L’uomo differisce dagli altri animali perché esso solo comprende ” (ovvero sa connettere i dati sensoriali). Questa tesi, secondo la quale la conoscenza divina è più ampia e precisa, è avanzata anche da Senofane di Colofone, che, secondo l’autorevole testimonianza di Platone, sarebbe stato il capostipite dell’eleatismo. Il punto di partenza della sua riflessione è costituito dalla critica alle concezioni antropomorfe della divinità, sintetizzabile nei suoi famosi versi: ” ma se i buoi, i cavalli e i leoni avessero le mani, o potessero disegnare con le mani, e fare opere come quelle degli uomini, raffigurerebbero gli dei, il cavallo simili ai cavalli, il bue ai buoi, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di loro “. E’ facile comprendere perché Platone scorgesse in lui l’archegeta dell’eleatismo: introducendo una sola divinità, Senofane finiva per proporre quell’unità tanto cara a Parmenide e ai suoi discepoli. Se è sbagliato propugnare l’antropomorfismo degli dèi, altrettanto sbagliato è, nell’ottica di Senofane, ritenere che la conoscenza divina sia paragonabile a quella umana: il sapere proprio della divinità è infatti incommensurabilmente superiore rispetto a quello umano, e gli uomini, nella migliore delle ipotesi, possono acquisire qualche certezza dopo aver percorso un faticoso itinerario conoscitivo; il tema della conoscenza come tortuosa via da percorrere sarà ripreso e approfondito da Parmenide stesso. Senofane dubitava fortemente che la divinità aiutasse gli uomini a conoscere, mettendo in questo modo l’accento sulla responsabilità umana della conoscenza: senza godere di aiuti divini, l’uomo è responsabile e artefice della propria conoscenza. Naturalmente, con la maggiore indipendenza dell’umano dal divino aumenta la fragilità della situazione umana, poiché gli uomini devono agire solo in virtù delle proprie forze, in quanto la divinità non ha fatto loro alcun dono (né le tecniche né il sapere). La prospettiva è piuttosto simile a quella di Alcmeone, ma diversa è la soluzione: se per il filosofo di Crotone agli uomini non restava che congetturare, secondo Senofane, invece, l’unica arma conoscitiva di cui essi dispongano è quella che egli definisce, introducendo un termine destinato al successo, dokoV , l’opinione. La conoscenza umana è, dunque, essenzialmente opinione, nemmeno congettura; il termine “opinione” suggerisce, tra l’altro, l’idea di una instabilità del sapere umano, suscettibile di essere vero o falso. Ma Senofane lascia una via per sperare: agli uomini è infatti concesso di avanzare verso il meglio, verso cioè opinioni migliori: in un frammento, egli asserisce che ” uno, Dio, tra gli dèi e tra gli uomini il più grande, né per aspetto simile ai mortali, né per intelligenza “; la superiore intelligenza della divinità, ovvero le superiori attività percettive e intellettive che la contraddistinguono, dice Senofane, sono tali perché coinvolgono la divinità nella sua totalità: gli uomini con un senso vedono, con un altro gustano, con un altro ancora odono, e così via, mentre la divinità non presenta, nella sua interezza, distinzioni sensoriali. Ciò non toglie, però, che, pur nella loro notevole inferiorità, gli uomini possano acquisire conoscenze via via migliori: ” non è che in principio gli dèi abbiano rivelato tutte le cose ai mortali; ma col tempo, ricercando, essi trovano il meglio “. La conseguenza necessaria di questa riflessione è che, procedendo per opinioni, il sapere umano non potrà mai raggiungere certezze, ma solo, come abbiamo già detto, opinioni più accreditate di altre: ” il certo nessuno mai lo ha colto, né alcuno ci sarà che lo colga né relativamente agli dèi, né relativamente alle cose di cui parlo “; sotto questo profilo, anche quando crediamo di dare una definizione esatta di qualcosa, in realtà ci muoviamo comunque nell’ambito dell’opinione: ciascuno di noi può esprimere a parole nel migliore dei modi ciò che qualcosa è, ma non per questo può conoscere con certezza, nel suo linguaggio, la cosa stessa. Anche Parmenide di Elea, maggior esponente dell’eleatismo, si propone di percorrere la via del sapere per raggiungere una forma di conoscenza quanto più precisa. Per meglio caratterizzare il proprio scopo, egli ricorreva alla metafora della via da percorrere e da seguire, inserendo questa concezione nei versi del suo poema Peri fusewV (“Sulla natura”): proprio in quest’opera, attribuiva ad una dea il compito di illuminarlo e di guidarlo nel difficile itinerario che portava alla conoscenza; era anzi proprio l’ausilio della dea che gli permetteva di raggiungere la meta e, quindi, quella verità che sarebbe stata irraggiungibile percorrendo la via degli uomini comuni, ossia l’opinione. Come i suoi predecessori poeti, anche Parmenide ha un messaggio da trasmettere, poiché anche lui è interprete di un’illuminazione divina: il suo poema, dunque, alla pari di quello dei poeti ispirati dalle muse, contiene una verità divina, di cui il filosofo è portavoce; la grande novità, però, risiede nel fatto che Parmenide sia protagonista in prima persona e che la vicenda narrata altro non sia se non il viaggio (in greco odoV ) che l’ha portato a scoprire la verità; la divinità si limita a mostrare al filosofo la via da seguire ed egli dovrà percorrerla contando esclusivamente sulle proprie forze. Parmenide stesso, in modo analogo, si limiterà ad indicare agli uomini la via da seguire e spetterà a loro scegliere se percorrerla o no. Il punto di partenza dell’indagine parmenidea è il rilevamento di un’evidente contraddizione: si vedono le cose di natura essere e non essere di continuo, ossia in un perenne divenire (ora ci sono, ora non ci sono), ma è soprattutto nel linguaggio, ancor più che nel mondo fisico, che possiamo rilevare la contraddizione; sono gli uomini, infatti, a parlare in modo contraddittorio delle cose e finchè questo approccio sbagliato non sarà superato si resterà nel mondo dell’opinione. La via dell’opinione è, per sua stessa natura, suscettibile di essere vera oppure falsa (la cosa ora è, ora non è) mentre l’unica via di ricerca che conduce alla verità è quella che dice che ciò che è è e non può non essere o, al contrario, che ciò che non è non è e non può essere. La contraddizione appena delineata scaturisce dall’ambito sensoriale, poiché siamo portati a vedere che, nell’ambito fisico, le cose ora ci sono, ora non ci sono, ovvero sono in costante divenire: la conoscenza sensibile è, dunque, la via dell’opinione. La vera via del sapere è quella che dice o che una cosa è o che non è, senza mediazione alcuna: al di là del dire “è” o “non è” non si può dire una terza cosa, secondo quel principio che in età medioevale sarà formulato come “tertium non datur”. Sotto questo profilo, il divenire altro non è se non un’indebita mescolanza di essere e di non essere: una cosa ora è, ora non è. Va però precisato che, nei testi che ci sono pervenuti, Parmenide non specifica quale sia il soggetto di “è” e di “non è”, ma, nonostante questa lacuna, il punto cardinale sta nel capire il carattere necessario di questa disgiunzione. Il filosofo di Elea distingue tra essere, pensiero, linguaggio: si può solo dire e pensare ciò che è, mentre non si può pensare o dire ciò che non è; pur non precisando il soggetto, Parmenide parla anche di “ciò che è” e di “ciò che non è”, e sostiene che l’unica via percorribile è quella di dire ciò che è, poiché non è possibile imboccare la seconda strada, cioè dire o non dire ciò che non è. Ma la maggior parte degli uomini segue una terza via, quella che dice contemporaneamente “è e non è”, parlando di nascita e morte e, dunque, supponendo un’assurdità: che l’essere nasca dal non essere. Uno dei problemi più sentiti (e presente in qualche misura anche in Parmenide) era rappresentato da come si potesse trarre inferenza dalle cose visibili a quelle invisibili; all’uomo, infatti, non risulta chiaro come sia fatto il mondo e perché sia fatto così, ma non è impossibile raggiungere questa forma di sapere: si tratta di andare al di là della molteplicità visibile per arrivare a cogliere uno o più princìpi capaci di spiegare in modo vero la struttura del mondo. Ed è a questo tentativo che si possono ricondurre le esperienze dei primi filosofi della storia(Talete, Anassimandro, Anassimene), i quali andavano alla ricerca di un misterioso arch (“principio”) in grado di rendere conto della struttura del mondo nella sua infinita molteplicità. Nel I libro della Metafisica, Aristotele presenta questi pensatori come primi filosofi della storia, distinguendoli dagli scrittori di miti, dai teologi e dai poeti perché essi per primi hanno investigato sul perché delle cose argomentando in maniera deduttiva. Mentre Talete e Anassimene muovono alla ricerca di un principio assolutamente fisico (e lo ravvisano, rispettivamente, nell’acqua e nell’aria), Anassimandro, invece, scorge quest’entità costitutiva primaria da cui tutte le cose si sono differenziate in un qualcosa di invisibile, non direttamente percepibile, che lui chiama apeirov (“infinito”). L’idea, che sarà poi di Parmenide, secondo la quale non tutti gli uomini possono accedere al sapere era forte in Eraclito da Efeso: la consapevolezza della propria eccezionalità è attestata da alcuni aneddoti che confermano l’altezzosità di Eraclito, ma anche la sua oscurità espressiva. Aristotele stigmatizzava il suo stile, considerandolo oracolare e, quindi, indegno di un filosofo: il testo di Eraclito, in effetti, è molto ambiguo, volutamente ambiguo, poiché, a suo avviso, la verità non doveva essere facile da comprendere, ma, al contrario, richiedeva grandi sforzi. Esempio tipico di questo linguaggio di difficile comprensione è il frammento 1, che destò parecchi dubbi perfino in Aristotele: ” di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato […] “. Bastava infatti una virgola a stravolgere il senso dell’intera frase: Eraclito voleva dire “di questo lógos che è, sempre gli uomini non hanno intelligenza ” oppure di questo lógos che è sempre, gli uomini non hanno intelligenza ” ? Altrettanto ambiguo è il frammento 2, in cui troviamo scritto: ” bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo lógos comune (xunoV), la maggior parte degli uomini vive come se avesse un propria e particolare saggezza “; l’ambiguità sta nel termine “comune”, che in greco troviamo espresso con il termine xunoV ; infatti, se xunoV significa “comune”, xun now significa “con l’intelligenza”: dunque Eralicito forse vuole dire che gli uomini non hanno intelligenza di ciò che è comune, cioè il logoV . Quest’ultimo termine, del resto, attorno al quale ruota tutta la filosofia di Eraclito, riveste una miriade di significati tutti compresenti: logoV , infatti, è della stessa famiglia del verbo legw, che significa “parlare” ma anche “raccogliere”, “contare”, “dare conto di”; e in epoche meno antiche passò anche a designare, in ambito matematico, il “rapporto”, la “proporzione”. Nella filosofia di Eraclito, il logoV è espressione a livello linguistico di ciò che le cose sono (ed è appunto quel che troviamo negli insegnamenti di Eraclito stesso), ma è anche la ragione capace di rendere conto delle cose stesse e dell’ordine dell’universo. E la ragion d’essere che si esprime in questo logoV è la dialettica tra gli opposti: nelle singole cose, nota Eraclito, sono presenti i contrari, in costante guerra tra loro; ed egli ci mostra questo conflitto tra opposti in diversi modi: nel frammento 48 dice che ” l’arco ha dunque per nome vita e per opera morte “, in quanto il termine greco che designa l’arco ( bioV ) è lo stesso che designa la vita; in modo assai simile, nel frammento 60 asserisce che ” una e la stessa è la via all’in sù e la via all’in giù “. Anche Eraclito polemizza contro le opinioni degli uomini, accusandoli di fermarsi alle cose visibili senza riuscire a gettare uno sguardo all’invisibile e deridendoli per il fatto che essi prestano fede alla “multiscienza” (polumaqia), al sapere tanto molteplice quanto presunto delle cose. A questi uomini sfugge che ” la natura ama nascondersi ” e che l’armonia invisibile è migliore di quella visibile; ciononostante, Eraclito non nutre una radicale sfiducia nei sensi, ma, semplicemente, è convinto che essi, da soli, non siano sufficienti. Ed è per questo che ritiene opportuno prestare attenzione anche alla situazione in cui versano coloro che usano i sensi come unico mezzo di conoscenza: ” per anime barbare i sensi sono cattivi testimoni “, dove i barbari sono, secondo Eraclito, coloro che non parlano il greco; essi si fidano dei loro sensi e, in questo modo, non riescono a comunicare con il logoV. E’ dunque necessario spingersi oltre le barriere dei sensi per raggiungere, mediante le parole, il significato profondo delle cose stesse: chi, come i barbari, si arresta di fronte alla barriera sensoriale è da Eraclito accostato a chi è desto ma è come se dormisse (frammento 1: ” agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo “). Quando si entra in contatto con ciò che è comune, allora si sveglia l’intelligenza e gli uomini si fanno intelligenti: ” unico e comune è il mondo per coloro che sono desti ” (frammento 89), mentre nel sogno ciascuno si rinchiude in un mondo che è solamente suo e a cui gli altri non hanno accesso. Resta ora da chiedersi che cosa si debba fare per entrare in contatto con il LogoV comune: a tal proposito, Eraclito asserisce in modo significativo, nel frammento 101: ” ho indagato me stesso “; solo chi indaga la propria persona, seguendo l’inscrizione presente sul tempio di Delfi gnwqi sauton (“conosci te stesso”), può attingere al LogoV comune, mentre gli uomini che non compiono quest’operazione ” danno retta agli aedi popolari, si valgono della folla come maestra “; in quest’ottica, i molti non valgono nulla e a contare davvero sono i pochi. Eraclito se la prende anche con i sapienti (una delle prime polemiche della storia della filosofia), cui rinfaccia di imbandire una conoscenza che altro non è se non erudizione: ” sapere molte cose ( polumaqia ) non insegna ad avere intelligenza: l’avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo ” (frammento 40). Ad accomunare la via di ricerca intrapresa da tre filosofi diversissimi tra loro, Democrito, Anassagora ed Empedocle, è la convinzione che l’uomo possa conoscere a fondo la struttura dell’universo perché, in ultima istanza, egli è costituito dagli stessi elementi che compongono l’universo stesso: in altri termini, secondo la convinzione di questi pensatori, la similarità dell’uomo con il mondo gli permette di conoscerlo. Certo siamo di fronte a tre figure di sapiente non amalgamabili tra loro: vivono tutti a cavallo tra la prima e la seconda metà del V secolo a.C. Empedocle da Agrigento è, dei tre, il più giovane ma si configura, per molti aspetti, come il più anziano: è un sapiente eccezionale e la sua raffigurazione se la dà lui stesso, sostenendo che a conferirgli poteri fuori dal comune è il sapere di cui è detentore. Compose un’opera intitolata Peri fusewV e una dal titolo Purificazioni: non è però ancor oggi chiaro se le Purificazioni fossero una parte del poema Peri fusewV o un’opera indipendente. E del resto le due opere sono incommensurabilmente diverse: nel Peri fusewV Empedocle si attiene al sapere fisico, nelle Purificazioni disserta di trasmigrazione delle anime e di colpe da scontare nelle reincarnazioni; ci troviamo dunque di fronte ad un Empedocle fisiologo contrapposto ad un Empedocle mistico. Le Purificazioni, dedicate ai migliori destinatari, si aprivano così: ” o amici, che la grande città presso il biondo Acragante / abitate sul sommo della rocca, solleciti di opere buone, / porti fidati per gli ospiti, ignari di malvagità, / salve! Io tra voi come un dio immortale, non più mortale / mi aggiro fra tutti onorato, come si conviene, / cinto di bende e di corone fiorite. ” Affiora chiaramente la concezione che Empedocle ha di se stesso: egli si propone come un dio immortale e dotato di poteri formidabili, preclusi ai più. La stessa tradizione ci ha descritto Empedocle come un indovino, profeta, medico, mago ed eroe: si racconta perfino che avrebbe richiamato in vita una donna che non respirava più da quaranta giorni (Galeno ne farà un caso di isteria più che di medicina). Eppure c’è un modo per conciliare le vocazioni poetiche, magiche, eroiche e mediche di Empedocle con la sua attenzione naturalistica: la filosofia così com’egli l’ha concepita l’ha portato a comprendere la struttura profonda dell’universo, penetrando quell’invisibile inaccessibile agli altri uomini; con la conseguenza che, secondo il filosofo agrigentino, solamente chi conosce l’universo può intervenire in termini pratici su di esso. Intorno alla figura di Empedocle circola un pulviscolo di aneddoti che hanno fatto quasi sfumare nella leggenda il personaggio: per esempio si narra che egli avesse arrestato il soffiare dei venti portatori di pestilenza ad Agrigento (e per questo fu detto “carceriere dei venti”) o che si fosse gettato nell’Etna per dimostrare la propria immortalità divina. La convinzione di fondo che sta alla base della sua filosofia è, come abbiamo detto, la credenza che si possa conoscere il mondo perché siamo costituiti dai suoi stessi elementi: a tal proposito, egli rintraccia quattro “radici” ( rizwmata ), ovvero quattro elementi fondamentali che compongono l’universo (acqua, aria, terra, fuoco) e legge il processo conoscitivo in chiave di attrazione del simile verso il simile. Il simile che è nelle cose riconosce il simile che è in noi, cosicchè il simile conosce il simile: ciò tuttavia non significa che la conoscenza si risolva in un processo di assimilazione, quasi come se l’uomo rendesse simili a sé gli oggetti. Viceversa, spiega Empedocle, ciascuno di noi è dotato di minuscoli pori da cui entrano flussi di materia provenienti dai corpi estranei (per attrazione del simile sul simile): riusciamo a riconoscere cosa sta fuori di noi perché noi stessi siamo costituiti dai medesimi quattro elementi. Sorge spontanea la domanda: e con che strumento avviene, concretamente, la conoscenza? Con i sensi: Empedocle non dubita della loro validità come mezzi gnoseologici, ed è consapevole che non sia facile cogliere la verità; l’errore più grave che si possa commettere (e che, di fatto, si è inclini a commettere) è di privilegiare un senso specifico trascurando gli altri: al contrario, tutti e cinque i sensi hanno pari dignità e ciascuno di essi avvalora ciò che testimoniano gli altri, sicchè tutto il nostro corpo è coinvolto nella conoscenza, la quale avviene, ad avviso di Empedocle, in tempi molto lunghi e con difficoltà consistenti. La verità che il pensatore agrigentino vuole trasmettere è racchiusa nelle parole da lui pronunciate: il suo linguaggio, dunque, è il linguaggio della verità, latore di un messaggio salvifico che redime dalla colpa originaria che ciascuno di noi sconta nella vita attuale. Ma è assai difficile persuadere la mente umana, perché essa è infestata da credenze che si fermano al sensibile ed Empedocle in persona prega Dio affinchè lo liberi da questa prigionia, dalla ” follia ” in cui sono immersi gli uomini comuni; ed è appunto per differenziarsi da costoro che egli impiega un linguaggio innovativo. Nella storia della filosofia antica si fa sempre più strada l’idea che la vera conoscenza attinga alla profondità delle cose, non alla loro parvenza: in questa prospettiva si muove già, come abbiam visto, Empedocle, ma non è il solo; acccanto a lui, anche Democrito e Anassagora intraprendono, entrambi nel V secolo a.C., la stessa via. Anassagora , proveniente dalla Ionia e, in particolare, dalla città di Clazomene (situata nell’attuale Turchia), riveste un’importanza particolare perché con lui il pensiero antico sbarca ad Atene, città che, da quel momento per parecchi secoli, costituirà il fulcro della vita intellettuale. Ad Atene giungeranno pensatori e uomini di cultura da tutto il mondo: grandi poeti tragici (Sofocle, Euripide), grandi commediografi (Aristofane) e illustri medici (Ippocrate). Il trasferimento di Anassagora ad Atene segna poi la fine del naturalismo ionico: da quel momento la filosofia cambia modi e oggetti, abbandonando l’indagine sulla ricerca del principio. Non bisogna dimenticare che quando Anassagora approda ad Atene, proprio in tale città Socrate stava cominciando la propria formazione (nel “Fedone”, Platone ci riferisce che Socrate ebbe modo di leggere e di criticare Anassagora). Anassagora, dunque, è l’ultimo ad occuparsi, in senso stretto, di studi della natura, poiché con Socrate la filosofia cambia oggetti di riflessione e si trasforma in riflessione sui logoi , sui discorsi e sui valori umani. Anassagora riveste un ruolo di rilievo anche perché fu uno dei primi pensatori della storia ad essere condannato di empietà (condivideranno una sorte analoga anche Socrate e Protagora) per le idee rivoluzionarie di cui si faceva portavoce: giusto per addurre un esempio, la sua convinzione che gli astri fossero costituiti da terra e il sole da fuoco non poteva che suscitare lo sdegno dei benpensanti che leggevano in essi la presenza divina. Per Empedocle gli elementi costitutivi dell’universo erano di numero limitato (quattro radici) ed erano abbinati a delle divinità; ora, per Anassagora alla base della realtà non stanno quattro radici, ma un numero infinito di princìpi , poiché l’infinita varietà della realtà non può spiegarsi se non postulando una serie infinita di princìpi che, associandosi o disgregandosi, danno origine alla composizione o alla dissoluzione dei corpi. Anassagora, per rendere più concreto il discorso, ricorreva ad una metafora di stampo biologico: chiamava “semi” i suoi princìpi, con un evidente riferimento alla generazione animale e vegetale tramite i semi. Tali semi stanno a principio di ogni generazione, sono infiniti di numero, ma anche infinitamente divisibili: infatti, dice Anassagora, per quanto li si possa suddividere, non si arriva mai ad un punto ultimo non ulteriormente divisibile. Anassagora ne traeva la conseguenza che ” tutto è in tutto “: gli uomini mangiano un singolo pezzo di pane e crescono le loro unghie, i loro capelli, ecc., perché nel pane stanno nascosti i semi di tutte le cose (quindi anche dei capelli, delle unghie, ecc.); sorge spontaneo chiedersi perché, stando così le cose, non si vedano tutti i semi ma solo un pezzo di pane. La risposta di Anassagora è che tutti i semi che costituiscono il mondo sono compresenti nel pezzo di pane, ma sono invisibili perché troppo piccoli e troppo pochi rispetto ai semi del pane; sicchè vedo questi ultimi proprio in virtù del fatto che sono in stragrande maggioranza. Questa prospettiva può essere compendiata nel detto: ” oyiV adelwn ta fainomena , “le cose che appaiono sono uno sguardo sulle cose oscure”, con l’idea che ciò che appare alla vista consente empiricamente di gettare uno sguardo su ciò che non si vede. Il punto di partenza, anche per Anassagora, resta il visibile: sul piano gnoseologico, questo consente di affermare che la conoscenza procede per inferenze, ovvero si parla di ciò che non si vede a partire da ciò che invece si vede. Ma il sapere umano, secondo Anassagora, procede gradualmente e l’esperienza costituisce solo il primo e il più basso, nonché il più immediato, gradino della scala conoscitiva, gradino sperimentabile con facilità da tutti quanti; ma al di là di questo livello base si colloca la memoria, formata dal ripetersi delle esperienze. Essa restringe la conoscenza al solo ambito umano, precludendola a tutti gli altri esseri. Anassagora, poi, faceva nascere dalla memoria il terzo gradino, quello della sofia (sapienza), in riferimento alla sua dimensione teorica: la sofia altro non è se non il sapere puro, meramente intellettuale. E al gradino più alto della sua scala gnoseologica, il pensatore di Clazomene collocava quella che a suo avviso era la conoscenza superiore a tutte le altre: la tecnh , il sapere tecnico. Dopo aver distinto nettamente il sapere (sofia) dal saper fare (tecnh) in virtù del fatto che la “tecnica” implica il risvolto pratico della conoscenza, Anassagora predilige il saper fare rispetto al puro e semplice sapere, perché convinto che l’uomo riveli la propria grandezza conoscitiva quando produce oggetti. Anzi, a rigore, l’applicare ciò che ha appreso all’attività pratica è ciò che più contraddistingue l’uomo dagli altri animali: la supremazia dell’uomo sul mondo è, in quest’ottica, determinata dal possesso delle mani. Stando a quel che ci riferisce Aristotele, Anassagora sostiene che l’uomo è il più intelligente fra gli animali perché è dotato delle mani; dal canto suo, Aristotele capovolge l’asserto anassagoreo e arriva a dire (in una prospettiva finalistica) che l’uomo ha la mano perché è il più intelligente fra gli animali. Anche Democrito di Abdera procede in direzione piuttosto simile ad Anassagora: anche a suo avviso la conoscenza è possibile grazie alla similarità tra l’uomo e gli oggetti del suo sapere, ed è altresì convinto che la conoscenza giaccia in profondità e sia raggiungibile per inferenza a partire dal visibile. Democrito è passato alla storia, insieme al suo maestro Leucippo (di cui sappiam pochissimo), per aver gettato le basi dell’atomismo: con lui, con Anassagora e con Empedocle il problema della conoscenza diviene un problema assolutamente fisico; infatti, per Empedocle il simile attira il simile (sento il calore di un oggetto perché il calore è già presente in me), per Anassagora è il dissimile che conosce il simile (conosco il caldo in virtù del fatto che so cosa sia il freddo, attraverso una compenetrazione degli opposti); il chiamare in causa l’anima nel processo conoscitivo arriverà solo un po’ di tempo dopo. La dottrina atomistica, così come viene formulata da Democrito, ha degli sviluppi grazie ad Epicuro e a Lucrezio, anche se, in realtà, i tratti generali che la contraddistinguono restano pressochè invariati: ciò che più colpisce di tale dottrina è la sua marcata economicità, grazie alla quale con una sola ipotesi si spiegan tutti i fenomeni esistenti. Nella ricerca della chiave di lettura della perennità dei movimenti di generazione e corruzione (evitando però l’inganno eleatico della negazione del divenire), questi tre pensatori (Empedocle, Democrito, Anassagora) tendono a postulare una molteplicità di princìpi (per questo sono spesso chiamati “pluralisti”) in base ai quali spiegare tali processi di aggregazione e disgregazione: i princìpi considerati da Empedocle sono le “radici”, quelli di Anassagora i “semi” e quelli di Democrito sono gli “atomi”, accomunati dal fatto di essere un “sostrato” (la definizione è di Aristotele) che non muta mai e garantisce in eterno la generazione e la corruzione. Come si dimostra l’esistenza degli atomi? Osservando le cose che continuamente divengono sotto ai nostri occhi: nell’aggregarsi e nel disgregarsi costante cui vanno incontro le cose, ci dovrà pur essere qualcosa che non muta mai, altrimenti le cose e, in generale, il mondo si sarebbe già disgregato da tempo; questo qualcosa sono, secondo Democrito (e secondo Epicuro, che si avvarrà di questa dimostrazione) gli atomi (aqumoi), strutture che non possono essere divise e che quindi sono totalmente “piene”; essi sono l’ultima parte che resta quando si divide un corpo fino ai suoi elementi di base; se i “semi” di Anassagora erano infinitamente divisibili, gli atomi democritei non lo sono (Leibniz avrà da ridire con la nozione così intesa di atomo), perché se lo fossero allora sarebbero composti da parti e quindi sarebbero soggetti alla corruzione e all’aggregazione. Accanto agli atomi, Democrito introduce la nozione di “vuoto”, che deve necessariamente essere postulato come condizione per il movimento degli atomi: se infatti tutto fosse “pieno”, gli atomi non avrebbero spazio in cui muoversi e l’aggregazione e la disgregazione non potrebbero avere luogo; ma i sensi ci testimoniano il contrario, per cui è necessario postulare il vuoto. E’ curioso il fatto che, influenzato dall’eleatismo, Democrito chiamasse gli atomi e il vuoto, rispettivamente, “essere” e “non essere”, parlando a livello fisico di ciò che per Parmenide era a livello puramente logico. Gli atomi non sono infinitamente divisibili, ma sono di numero infinito: il che comporta importantissime conseguenze; prima fra tutte, il fatto che siano infinitamente aggregabili, ovvero possono dare vita a infinite combinazioni e, di conseguenza, a infiniti mondi. In secondo luogo, di vuoto se ne parla in due accezioni: c’è un vuoto esterno (condizione di movimento per gli atomi); ma anche nelle strutture che si formano dall’aggregarsi degli atomi vi sono parti vuote e ciò è attestato dal fatto che la struttura dei corpi è suscettibile di trasformazioni: la struttura dell’animale è indubbiamente compatta, eppure cresce (ovvero assume materia) e invecchia (cede materia), e questo si spiega solo in base al movimento degli atomi all’interno di questa struttura. Dunque ci deve essere il vuoto anche all’interno dei composti di atomi. Asserendo che tutto è costituito da atomi, Democrito presuppone la similarità di struttura tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto: tutta la conoscenza, dunque, è riconducibile ad una forma di sensazione e l’anima stessa è un composto di atomi cosicchè la conoscenza di cui essa è artefice avviene per aggregazione. Aristotele, nel “De anima”, ci riferisce che per Democrito l’intelligenza è legata alla presenza di atomi ignei nell’anima, caldi e velocissimi e, dunque, idonei per spiegare la velocità del pensiero. Nell’ottica democritea, non c’è differenza di livelli di conoscenza, tutto è percezione (persino gli oggetti del pensiero): dal cielo alla terra non ci sono che corpi costituiti da atomi e contenenti il vuoto e che (proprio perché contenenti il vuoto) emanano gli eidwla, le “immagini” delle cose; tali eidwla altro non sono se non atomi che si staccano continuamente dai corpi (Epicuro parla di pulsazione dei corpi stessi) e si rendono così a noi percepibili. Anche il corpo del soggetto percipiente, infatti, è un aggregato atomico dotato di vuoto o, meglio, di canali vuoti: gli eidwla si incuneano in questi canali vuoti e rispecchiano l’immagine dell’oggetto rendendolo percepibile: si ha dunque una conoscenza per contatto. Ricapitolando, la conoscenza avviene per percezione (sensismo gnoseologico) e quest’ultima avviene per contatto attraverso i cinque sensi e, se non ci fosse il vuoto, la percezione sarebbe dolorosa perché gli eidwla colpirebbero i nostri atomi anziché infilarsi nei canali vuoti. Tuttavia, se i corpi continuano a cedere materia (gli eidwla che si staccano), allora ne consegue che essi sussistono fin tanto che la materia ceduta è bilanciata da quella ricevuta: e la mancanza di respiro, ovvero la fine del ricambio di atomi, è la prova della fine dell’esistenza del corpo. La legge che vige nel mondo degli atomisti è il caso, nel senso che non vi è alcuna causa extranaturale capace di governare il movimento degli atomi: essi si aggregano in maniera puramente casuale (ed è anche per questo che Dante rinfaccia, nel IV canto dell’Inferno, a Democrito di porre il mondo a caso). Naturalmente sorge spontaneo un quesito: che cosa mi garantisce che gli eidwla mi riportino tale e quale la forma dell’oggetto a cui provengono? Non potrebbe essere che, nello spazio che percorrono per giungere a me, subiscono una modificazione? Qui le posizioni degli atomisti divergono: Epicuro pensa che gli eidwla ci raggiungano con velocità pari a quella del pensiero, cosicchè non vi è possibilità di errore. Per Democrito, invece, tutto cambia: ” nulla conosciamo secondo verità perché la verità è nel profondo “, egli afferma; sembra quasi una professione di scetticismo, ma in realtà non lo è affatto. Infatti, Democrito vuol semplicemente dire che la verità sono gli atomi e il vuoto e che tutto il resto (il dolce, l’amaro, il caldo, il freddo, ecc) è opinione che, in quanto tale, è suscettibile di essere vera o di essere falsa e che varia da individuo a individuo. Democrito si accosta dunque al motto di Anassagora ” oyiV adelwn ta fainomena “: il mondo che mi appare è opinione, e anche le opinioni si formano in base alla percezione, anche se si fermano alla superficialità, alle qualità esterne del corpo (caldo, freddo, ecc). In quanto frutto di sensazioni, anche le opinioni hanno un fondo di verità, anche se l’unica verità degna di essere definita tale è quella che si conosce quando si conoscono il vuoto e gli atomi. ” Non conosciamo nulla che sia invariabile, ma solo aspetti mutevoli “, dice Democrito: e ne deduce l’esistenza di due forme di conoscenza, una genuina (“legittima”, secondo il linguaggio giuridico), l’altra oscura (“illegittima”): la conoscenza sensibile è oscura, mentre gli oggetti di quella genuina sono nascosti. Nel V secolo anche i Pitagorici si interrogano sul problema conoscitivo prospettando soluzioni diversissime da quelle avanzate dai loro contemporanei: anch’essi rinviano ad una struttura profonda delle cose, costituita però non da semi, da radici o da atomi, ma dai numeri. Filolao di Crotone sostiene che la vera conoscenza delle cose deriva dal fatto che esse sono esprimibili in numeri: per noi essi sono entità astratte, ma i Pitagorici ne avevano una concezione fisico-spaziale e li rappresentavano con sassolini. I numeri consentono di delimitare sezioni spaziali e lassi di tempo, il che significa che le cose stesse hanno numero ed esso non può essere uno schema arbitrario imposto alle cose, ma, viceversa, sono le cose stesse a manifestare una forma di numero che le rende conoscibili ed esprimibili: possono essere contate e distinte le une dalle altre in base alla loro struttura componente elementare. Sono i numeri che conferiscono alle cose forme e strutture, conoscibili appunto attraverso relazioni numeriche: esse per Filolao si configurano come armonia, con un evidente richiamo alla musica. La conoscenza, quindi, consiste nella ricerca dei rapporti esistenti nelle cose, poiché, come dice Filolao, ” tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza numero non sarebbe possibile pensare o conoscere alcunchè. […] ma la natura del numero e la sua grande potenza […] le si vedono anche in tutte le attività degli uomini “; le stesse azioni divine sono numerabili, poiché ” nel numero non penetra menzogna “. Il numero diviene lo strumento di conoscenza della verità: Archita di Taranto segue la stessa strada di Filolao e in particolare mette in luce la funzione fondamentale del numero per una nutrita serie di discipline, fra cui troviamo anche l’astronomia e la musica, il che è interessante perché si tratta della prima attestazione dell’esistenza di scienze “speciali” all’epoca. L’impostazione matematizzante delle scienze di Archita viene curiosamente ripresa da Platone nella “Repubblica”, in cui la matematica e la musica rivestono un ruolo assolutamente centrale nell’educazione dei giovani; tutte queste scienze Archita le chiamava “sorelle”, perché figlie di un unico padre, il numero. Quest’ultimo costituisce la chiave d’accesso generale per conoscere le realtà particolari. Ma a quei tempi, accanto ai matematici come i Pitagorici, troviamo anche parecchi medici: ed è nei trattati ippocratei che il metodo della medicina viene teorizzato in modo completo; anche i medici, come i filosofi, partono dal visibile, in particolare dai sintomi delle malattie, e per inferenza sono in grado di risalire, con la sola forza del ragionamento, alle cause nascoste delle malattie e, in base a ciò, propongono terapie in grado di debellarle. Non tutti, però, concordavano nell’imputare a cause generali l’origine delle malattie: c’era anche chi restava saldamente ancorato alla sfera dell’esperienza, senza operare inferenze di alcun tipo; è questo il caso dell’anonimo autore di un trattato su “La medicina antica” (risalente al 430-415 a.C.). Il pubblico a cui si rivolge questo autore non è costituito esclusivamente da medici: il messaggio centrale che egli vuole trasmettere è che la medicina sta assumendo uno statuto ontologico autonomo e di scienza. La medicina può perfezionarsi solo col tempo e lo scritto si schiera contro ogni medicina “filosofica”, che pretende cioè di insegnare il mestiere ai medici a partire da teorie generali sull’uomo e sul mondo: ciò implica un eccesso di generalità che le rende inutilizzabili, giacchè i filosofi (sofistai) non spiegano il rapporto dell’universale col particolare. Non a caso l’autore etichetta queste teorie come “ipotesi”, ossia come supposizioni di come stanno le cose, ipotesi a partire dalle quali avanzano la pretesa di aver scoperto chiavi di lettura valide per tutti; e l’autore scaglia i suoi dardi contro Empedocle e contro gli altri pensatori dell’epoca. Il medico, a differenza del filosofo, può rivendicare di dare il bene reale agli uomini: molto marcato è il senso della scoperta della medicina e della sua autonomia indiscutibile, la sua capacità di fare scoperte cosicchè anche ” il resto nel futuro sarà scoperto “; non ci si deve, pertanto, fermare alle scoperte fatte, ma bisogna adoperarsi per farne di nuove e questo è possibile solo se le generazioni future faranno tesoro del sapere accumulato dai loro predecessori. Coi profani si deve solamente discutere dei mali che affliggono l’uomo e loro stessi: in quest’ottica, è importantissima l’anamnesi, ovvero la ricostruzione mediante il colloquio col paziente del male passato per costruire il male presente e l’evoluzione che la malattia avrà nel futuro. Questa metodologia non è propria solo dei medici: anche gli storici, in una certa misura, partono dalla convinzione che per prevedere il futuro si debba conoscere bene il passato, perché ciò consente di formulare delle costanti. Ma come è nata la medicina? E’ un sapere naturalissimo, risponde l’anonimo autore del trattato: il momento in cui uomini illuminati si interrogarono se chi soffriva dovesse seguire lo stesso regime alimentare di chi era sano fu la causa scatenante di tale disciplina, nata, in fin dei conti, per la naturalissima esigenza di sopperire alle malattie dell’uomo, necessità ineliminabili. Il passaggio dallo stato ferino alla civiltà sta, ad avviso dell’autore, nella scoperta del fuoco e nella cottura dei cibi. Proprio così si scopersero quali cibi erano utili e quali no: il sapere medico è nato nel momento in cui l’uomo è passato ad uno stato “umano” e al progresso della condizione umana è legato quello della disciplina medica. Non c’è da meravigliarsi se i primi scopritori di quest’arte erano visti come divinità, anche se, in realtà, erano uomini che esercitavano una tecnica tipicamente umana. Ma addirittura per sapere cosa è la natura è necessario partire da studi di medicina: il medico sa cosa è l’uomo e lo deduce da ciò che l’uomo mangia e beve, studiandone la salute e la condotta di vita; medico non è, dunque, chi dice che il formaggio è un cibo cattivo, ma chi dice che il formaggio è cattivo perché genera questi determinati mali. Ma la tematica della ricerca del sapere non è solo in filosofia: nell’ “Edipo re” vengono posti a confronto alcuni tipi di sapere ed in particolare emerge la congetturalità del sapere umano: la verità nascosta nell’Edipo è la scoperta di chi è il colpevole dell’ efferato omicidio di Laio, vecchio re di Tebe, città in cui ora infuria la peste come punizione divina per tale uccisione. All’inizio della tragedia Edipo si pone, come un detective, sulle orme dell’assassino e presenta la sua ricerca come quella dei cani sulle orme della selvaggina, mosso dalla responsabilità verso la città e verso i suoi concittadini. Egli segue indizi nella sua indagine: le testimonianze di chi ha visto o sentito qualcosa dell’accaduto; e chiede anche il responso dell’indovino Tiresia, detentore di un sapere ispirato dalle divinità: fuor di metafora, ciò significa che il sapere umano può far appello al sapere divino, capace di padroneggiare tutte le cose. Tiresia viene invitato a trarre gli auspici dal volo degli uccelli e viene riconosciuta la possibilità di errore della divinazione, la quale avviene non già in base ad un ragionamento, bensì su diretta ispirazione divina. Tiresia manifesta una certa paura perché mostra di conoscere gli uomini: e infatti Edipo, dopo aver udito il suo responso, lo accusa di aver congiurato contro di lui; in questa prospettiva, affiora come la verità porti anche dei mali. ” Aih, trasparente ( diafanhV ) verità! “, grida Edipo dopo aver appreso di essere stato lui l’uccisore del padre. Il V secolo a.C. è un’epoca di grande fermento intellettuale, in cui si intensificano i rapporti con culture diverse da quella greca: protagonisti di questa nuova stagione culturale sono i Sofisti, che di fronte alla diversità di costumi e tradizioni in cui si imbatte la civiltà greca propongono la relatività (già presente, in qualche misura, in Senofane), un modo di riconoscere a ciascuna di queste culture un’autonomia e una dignità. Questo nuovo modo di vedere è anche dovuto al fatto che in questo periodo si comincia a viaggiare con maggior frequenza e si entra in contatto con nuove culture, pur non mettendo da parte il greco-centrismo. Anche gli storici rappresentano bene questa nuova fase della storia greca: essi si basano soprattutto sull’autopsia, trasmettono cioè ciò che han visto loro stessi, ma accanto alla centralità della vista viene riconosciuta anche l’importanza dell’udito, ossia si presta importanza a ciò che si sente ma non si è visto. L’abilità dello storico risiede nel ponderare le fonti e le notizie: caso lampante è quello di Erodoto, le cui “Storie” non sono solo cataloghi di usi e costumi di popoli remoti. In questo scenario si colloca la figura di Protagora di Abdera, inauguratore della prassi dei viaggi e del movimento sofistico: in origine il termine “sofista” significa semplicemente “possessore della sofia “; fu da Platone e Aristotele in poi che assunse una sfumatura negativa, in quanto essi rinfacciavano ai sofisti il fatto che essi vendessero il sapere come una qualsiasi altra merce. Proprio sulla nozione di relatività era incentrata la più famosa delle tesi di Protagora, trasmessaci da Platone nel “Teeteto” (dialogo dedicato a cosa significhi conoscere) : ” l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono “. Questa frase, per l’impiego del termine “sono” e “non sono”, sembra inquadrarsi in un contesto vivamente eleatico, anche se viene prospettato chiaramente il criterio per distinguere l’essere da non essere: è l’uomo il metro di misura, sicchè Protagora propone un criterio di conoscenza puramente soggettivo. Resta però da chiedersi che cosa intende il sofista di Abdera per “uomo”: egli, probabilmente, non alludeva all’umanità considerata nel suo insieme, ma al singolo uomo nella sua immediatezza e nella sua soggettività; tutto questo rimanda, naturalmente, alla soggettività della verità. Sarà vero ciò che a me appare tale; viceversa, per lui sarà vero ciò che a lui appare tale, e così via. La conoscenza, in questo panorama, si riduce al sensismo: cosicchè il miele appare dolce a chi è sano, ma amaro agli ammalati. Tuttavia, in questo groviglio di verità ciascuna diversa dalle altre e ciascuna non meno valida delle altre, Protagora elabora un criterio per stabilire quale opinione (quella del sano che sente dolce il miele, o quella del malato che lo sente amaro?) sia migliore: tale criterio è incentrato sull’utilità e si risolve, per tornare all’esempio del miele, nell’interrogativo se sia migliore l’opinione di chi è malato o di chi è sano. Naturalmente, si risponderà che è migliore l’opinione del sano, anche se, ad onor del vero, sul piano gnoseologico tutte le opinioni sono equivalenti: le sensazioni si traducono in conoscenza, cosicchè la mia opinione, la tua, la sua e così via sono tutte vere, poiché l’uomo è misura di tutte le cose. Contro questa posizione protagorea si schiererà Platone che, nel Teeteto, smonterà l’argomentazione protagorea facendo notare che, se tutto è vero (come asserisce Protagora), allora è anche vero che esistono tesi false; e dato che, appunto, tutto è vero, è anche vero che ciò che dice Protagora è falso. Sempre in ambito sofistico, in quegli anni Gorgia di Lentini giungeva a conclusioni diametralmente opposte a quelle del collega di Abdera: nel suo scritto “Del non essere”, egli sosteneva che nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. La verità, dunque, resta per Gorgia inaccessibile: ne consegue che tutto è falso, e non “tutto è vero”, come invece credeva Protagora. Tutte le proposizioni possono, ad avviso di Gorgia, essere ribaltate attraverso l’arma del logoV (la parola), equiparato dal pensatore di Lentini ad una forza irresistibile alla pari del destino dei tragici o della divinità: la parola può tutto. Anche con Gorgia Platone, a cui stava particolarmente a cuore la possibilità di distinguere il vero dal falso, compie un’operazione simile a quella operata nei confronti di Protagora: se tutto è falso, cosa ci vieta di pensare che anche ciò che dice Gorgia lo sia? Ci si è spesso interrogati se Gorgia fosse un nichilista ante litteram o se, piuttosto, volesse esercitarsi con argomentazioni dialettiche al limite del pensabile. E’ tuttavia certo che l’obiettivo polemico del suo argomentare fosse l’eleatismo: egli si serve, nelle sue argomentazioni, della dimostrazione per assurdo; in altri termini, per dimostrare la verità di A, assume per assurdo che sia vero il contrario (non-A) e, a partire da tale assunzione, si mettono in luce tutte le contraddizioni che ne derivano, a tal punto che si è costretti a riconoscere la falsità di tale assunto (non-A) e ad ammettere la veridicità della tesi di partenza ad essa opposta (A). Le tre proposizioni poc’anzi elencate con cui nega la possibilità della conoscenza non è un caso che ci vengano riportate da uno scettico, Sesto Empirico, nell’opera “Contro i dogmatici”. Stando a quanto da lui riportato, Gorgia avrebbe sostenuto che se le cose pensate non sono esistenti, allora le cose esistenti non sono pensate: in altri termini, il pensiero non avrebbe un contenuto proprio (poiché ciò che è pensato non esiste) e, per converso, se ne ricaverebbe che ciò che esiste non è pensato. Alla base di quest’argomentazione sta una relazione che Gorgia pone: se A è in relazione con B, allora anche B è in relazione con A; se viceversa A non è in relazione con B, allora anche B non è in relazione con A. Dunque, dato che penso cose che non esistono (dragoni o uomini volanti), allora ciò significa che il pensato non è in relazione con l’essere e, per converso, che l’essere non è in relazione col pensato. Ammettendo, infatti, per assurdo l’esistenza delle cose pensate, ne conseguirebbe che l’uomo che vola o il carro che procede sul mare (tutti oggetti del mio pensiero) dovrebbero esistere, ma l’esperienza confuta ciò. Se poi dico che il pensiero rispecchia l’esistente, non si spiega perché nel pensiero trovino cittadinanza anche l’uomo che vola o il carro che procede sul mare. Il terzo argomento addotto da Gorgia poggia sull’analogia con l’esperienza: giacchè i sensi non interferiscono tra loro né si smentiscono a vicenda, si può essere spinti a credere che ciò valga anche per il pensato, cosicchè le cose che né vedo né sento né tocco, ciononostante il pensiero mi attesta che esistono. Ma in questo modo mi troverei costretto, ancora una volta, ad ammettere l’esistenza dell’uomo che vola e del carro che procede sul mare. Con Gorgia, quindi, viene per la prima volta messa in discussione la possibilità di conoscere alcunchè. Come nota acutamente Cicerone, con i Sofisti e con Socrate la filosofia viene riportata dal cielo alla terra, alla dimensione più squisitamente umana. Proprio con la figura enigmatica di Socrate ci si trova di fronte ad un problema imbarazzante: egli non ha scritto nulla, ma su di lui son state scritte intere opere. La testimonianza generalmente più accreditata è quella di Platone, anche se la statura filosofica di questo pensatore costituisce un nuovo dilemma: nelle opere in cui egli parla di Socrate, come si fa a distinguere il pensiero effettivamente attribuibile a Socrate da quello invece proprio di Platone? Ci sono dialoghi platonici, soprattutto quelli più “datati”, in cui la figura di Socrate è centralissima e ciò ci induce a pensare che Platone si limitasse a riportare fedelmente il pensiero del suo maestro; nei dialoghi scritti nella maturità e nella vecchiaia, invece, la figura di Socrate tende a sfumare e a farsi depositaria del pensiero platonico. Ma, a monte di questo problema, ci si deve anche chiedere: perché Socrate non ha scritto nulla? Nel “Fedro”, Platone presenta ciò come una libera scelta di Socrate, il quale avrebbe puntato tutte le carte della filosofia sull’oralità a scapito della scrittura. Socrate, poi, ha scelto di occuparsi esclusivamente di valori umani, respingendo l’indagine sulla natura tanto cara ai suoi predecessori: sempre nel “Fedro” viene ampiamente descritto un paesaggio idilliaco e Socrate, di fronte a questo incantevole scenario, dice di voler tornare in città, poiché gli alberi, a differenza degli uomini, non hanno nulla da insegnargli. Nel “Fedone”, poi, Platone ripercorre l’itinerario culturale di Socrate: da giovane egli si era interessato di natura, finchè non si era imbattuto nel libro di Anassagora, dal quale era rimasto deluso a tal punto da dover intraprendere una “seconda navigazione” attraverso la quale fondare la dottrina delle idee. Dall’ “Apologia”, scritto platonico nel quale vengono descritti gli atti del processo in cui è imputato Socrate, quest’ultimo ci viene presentato come il filosofo del non sapere: egli si professa ignorante e confessa che l’unica cosa di cui è a conoscenza è la propria ignoranza. Eppure ai suoi amici l’oracolo di Delfi aveva sentenziato che Socrate era l’uomo più sapiente: proprio a partire da ciò egli aveva avviato la propria indagine, demandando così l’origine della propria investigazione ad una forza soprannaturale. Questo è particolarmente significativo se teniamo presente che uno dei capi d’accusa che gravavano su Socrate era l’aver introdotto da parte sua delle divinità sconosciute. Proprio a partire da questo, Socrate, uomo tra gli uomini, non si era accontentato del responso e si era voluto accertare che l’oracolo avesse detto la verità. La sua è dunque un’indagine sulla verità cui non sfuggono neppure le forze divine; il suo è un procedere assolutamente empirico, poiché egli decide di far visita agli uomini comunemente ritenuti sapienti per constatare se essi davvero lo siano e di quanto più di lui: l’investigazione, cominciata ” contro voglia “, lo porta dai politici (detentori di un sapere competente quale è l’amministrazione della cosa pubblica), dagli indovini e dagli artigiani; Socrate li sottopone ad esame per appurare se il loro è un sapere, e non tarda a scoprire che, in realtà, il loro è un sapere settoriale che essi presentano come totalizzante. Come Socrate stesso dice, nell’ “Apologia”, ” da parte mia ero consapevole di non sapere nulla “: egli pone domande e attende le risposte dai suoi interlocutori; il metro di misura è rappresentato dalla capacità che essi hanno di rispondere senza contraddirsi: è proprio nello scambio di domande e risposte intentato da Socrate che risiede quella che Platone ha definito “dialettica”, ovvero, letteralmente, “discorso che va di qua e di là” ( dia + logoV ) . Naturalmente, tutto questo presuppone la disponibilità degli interlocutori a farsi interrogare: sul concludersi di alcuni dialoghi platonici troviamo gli interlocutori seccati dalle domande di Socrate, punzecchianti come un tafano, poiché esse mettono in crisi tutte le convinzioni di cui ciascuno di noi è imbevuto. Socrate, nel formulare le sue domande, adotta un metodo di carattere generale e universale: egli chiede ai suoi interlocutori “che cosa è x?” ( ti estin;), dove x sta per il coraggio, l’amore, la virtù, ecc; ma gli interlocutori finiscono per dare sempre a Socrate risposte particolari, senza mai cogliere l’universale (del coraggio, dell’amore, della virtù, ecc). Ecco perché si tratta di dialoghi aporetici, che si concludono con un nulla di fatto, irrisolti. Nel “Lachete”, ad esempio, tutti credono di sapere con certezza cosa sia il coraggio, ma Socrate fa notare come le loro siano risposte parziali. Essi mettono in gioco le loro opinioni e Socrate le dimostra false, poiché è necessario sgombrare il campo da esse: ” solo la verità è inconfutabile “. Così il condottiero Lachete, sicuro di sé, dice che il coraggio è non indietreggiare mai di fronte ai nemici; ma Socrate gli fa notare come gli Sciiti combattano con una tecnica consistente nell’indietreggiare a poco a poco; Enea stesso, del resto, viene da Omero presentato come espertissimo e coraggiosissimo nel combattere indietreggiando. L’interlocutore si vede così costretto a cambiare opinione e a riconoscere la falsità della propria definizione, dovendo dunque ripartire da zero: ma il sapere è la scienza, per cui non si può sapere cosa sia il coraggio se non si mostra perché è una scienza che per oggetto ha le cose temibili e quelle non temibili. La virtù stessa, in questa prospettiva, è la scienza del bene e del male. La scienza deve dunque possedere un carattere di assoluta certezza, senza ondeggiare tra vero e falso come fanno le opinioni: ed è proprio su questo che Platone proietta la propria indagine nel suo scritto “La Repubblica”, in cui egli si pone il problema di cosa fare di quelle opinioni vere o, come dice Platone stesso, “rette”. Che esse possano essere distinte dalla scienza vera e propria, Platone lo chiarisce nel “Teeteto”, dialogo in cui mostra come tutto ciò che appare sia una mescolanza di percezione e opinione e come sia facile sbagliarsi prestando fede ai sensi. Nel tentativo di spiegare ciò, Platone ricorre ad un’immagine destinata a divenire celebre: paragona l’anima umana ad una tavoletta di cera su cui ciascuno di noi imprime i segni degli oggetti di cui ha percezione. E’ dunque possibile che, quando scorgiamo in lontananza una persona qualunque, la si scambi per l’immagine che abbiamo impressa nella nostra tavoletta/anima di un nostro amico: ne consegue che, in questa prospettiva, l’errore è un errore di identificazione, e che l’opinione retta è quella che non commette tali errori ed identifica in maniera corretta l’oggetto percepito. Sempre nel “Teeteto”, Platone formula una definizione del pensiero che, per molti versi, rivela una marcata influenza socratica: il pensiero è, a suo avviso, un dialogo silenzioso, analogo a quello ad alta voce che Socrate intratteneva coi suoi interlocutori. L’opinione non va dunque intesa come un’alternativa indecisa: al contrario, essa tenta, al pari della scienza, di rispondere alla domanda “che cosa è x?”, ma (e qui sta la differenza rispetto alla scienza) fornisce risposte suscettibili di essere vere o false. In altri termini, la differenza tra opinione e scienza risiede nel fatto che solo quest’ultima è in grado di spiegare le cause per cui è lecito dire che X è Y o che X non è Y. In tal modo si comincia a profilare la possibilità di capire perché la scienza abbia carattere di stabilità e certezza: essa spiega gli oggetti come derivanti da determinate cause. Anche nel “Menone” viene da Platone affrontato questo problema: per illustrare il carattere oscillante delle opinioni, Platone le paragona a delle statue tanto belle da sembrare vive. Averle le une slegate dalle altre non ha alcun valore, poiché il pregio sta tutto nell’averle legate, in modo tale che si possano prendere. Le opinioni rette, dunque, stanno “ferme”, ovvero rimangono vere, finchè non ricevono una smentita: si tratta dunque di collegarle attraverso un ragionamento di tipo causale, che le leghi e le stabilizzi. Sia nel “Menone” sia nel “Fedone” traspare una teoria della conoscenza basata sulla reminescenza (e legata alla dimostrazione dell’immortalità dell’anima), che porterà Platone a concludere che ” conoscere significa ricordare ” (Menone). In quest’ottica, la conoscenza è possibile in virtù del fatto che, prima che l’anima si incarnasse nel corpo, ha conosciuto cose che, incarnandosi, ha dimenticato: si tratta, per l’esattezza, di enti (Platone li chiamerà “idee”) la cui natura è tale da poterli assumere come criterio di verità; ne consegue, dunque, che essi devono essere immutabili ed esistenti in maniera indipendente dalle cose sensibili (le quali cambiano di continuo), il che presuppone che l’anima abbia una vita precedente rispetto al corpo in cui si trova imprigionata. E’ con queste considerazioni sulle spalle che, nel “Menone”, uno schiavo assolutamente ignorante di matematica e adeguatamente interrogato da Socrate perviene alla risoluzione di un complesso problema geometrico: ne consegue che lo schiavo conosceva già tale teorema e che Socrate non ha fatto altro che aiutarlo a ricordarlo; non si tratta, tuttavia, di scienza, ma di opinione, poiché lo schiavo non è a conoscenza delle cause. E la conoscenza, secondo Platone, deve partire dal mondo sensibile che ci circonda per portarci a qualcosa che sta al di sopra ma che, in qualche misura, assomiglia ad esso. Per meglio spiegare questo concetto, Platone si serve, nel “Fedone”, di un esempio particolarmente calzante: così come la lira ricorda a chi è innamorato il proprio amante, anche se questo non è materialmente presente, così gli oggetti del mondo sensibile ci rimandano alle loro idee. Ne “La repubblica” questo processo conoscitivo è strettamente connesso alla tematica della formazione del filosofo e si configura, se letto in trasparenza, come un vero e proprio processo ascensivo. Al filosofo che ha raggiunto un livello supremo di conoscenza teorica deve, secondo Platone, essere affidato il governo dello Stato, cosicchè nella sua figura finiscono per coincidere il sapere pratico e quello teoretico. Infatti, solo il filosofo può governare rettamente perché lui solo conosce l’idea del Bene, a cui ispirarsi per governare. Teoria e prassi non risultano dunque ancora pienamente distinte in Platone o, almeno, non come in Aristotele. Platone, ne “La Repubblica”, descrive il processo conoscitivo in due modi: uno razionale, l’altro mitologico (il famoso mito della caverna). Esaminando quello razionale, Socrate dice che la conoscenza umana può essere accostata ad una linea: immaginiamo di dividere la linea in due parti; da una parte stanno gli oggetti sensibili, conosciuti secondo l’opinione ( doxa ), dall’altra troviamo gli oggetti intellegibili (le idee), conosciuti dalla scienza ( episthmh ). Suddividiamo ora la parte dell’opinione in due sottoparti: una dell’immaginazione ( eikasia ), l’altra della credenza ( pistiV ). L’immaginazione mi fa conoscere gli oggetti sensibili in modo nebuloso e confuso, e corrisponde alla conoscenza prima facie che ho del mondo. Nella spiegazione mitologica del processo, Platone spiega l’immaginazione come l’osservazione che gli uomini incatenati sul fondo della caverna fanno delle cose che stanno in superficie ma che loro vedono proiettate sul fondo della caverna. La pistiV (credenza) corrisponde invece al momento in cui si esce dalla caverna e si contempla il mondo che sta fuori, si vede cioè la natura e se ne ha credenza (il che significa che, a differenza di Aristotele, Platone crede che non possa esistere una scienza della natura, una fisica, giacchè le cose sensibili sono in divenire perenne). La vera conoscenza, dunque, deve scavalcare il mondo sensibile per spingersi al di là di esso: anche per quel che riguarda l’ episthmh (scienza), avente per oggetto gli enti intellegibili (cioè le idee), la linea si divide in due parti: da un lato avremo la dianoia (pensiero discorsivo), il pensiero che procede passando per tappe. La dianoia ha per oggetti gli enti matematici, che si trovano a metà strada tra il sensibile e le idee, giacchè si tratta di concetti che però richiedono un supporto sensibile (pensiamo al matematico che dimostra le proprietà del triangolo disegnandolo); proprio ad essi deve dedicarsi il filosofo appena inizia il suo itinerario. Le scienze matematiche, però, sono agli occhi di Platone inferiori alla filosofia, poiché, oltre a richiedere necessariamente l’aiuto di mezzi sensibili (disegni e altro), partono da postulati, assumono cioè le ipotesi come un qualcosa di vero a monte di ogni dimostrazione. Accanto alla dianoia troviamo la nohsiV (ossia il “pensare”): con essa non si discorre, ma si fissano e si conoscono le idee e la scienza che ne scaturisce è la dialettica, secondo la lezione socratica. Il filosofo de “La Repubblica” è il dialettico e i suoi oggetti di studio sono, appunto, le idee: e il metodo dialettico è nettamente superiore a quello matematico proprio per l’uso che fa delle ipotesi: non le assume dogmaticamente come postulati (come invece fanno i matematici), ma le sottopone a discussione, nella convinzione che di esse si possa rendere conto (come faceva Socrate con i suoi interlocutori): saranno mantenute solo quelle sostenibili, ossia quelle le cui conclusioni non sono in contraddizione con la definizione di partenza. A differenza della matematica, poi, la dialettica non è più costretta a ricorrere ad immagini sensibili, ma ragiona soltanto su idee: parte da ipotesi e le assume come una sorta di pedana per costruire attraverso un procedimento ascensivo il proprio ragionamento ipotetico. Questo metodo, oltre che ne “La Repubblica”, viene formulato anche nel “Fedone” (il che suggerisce che i due dialoghi possano essere coevi): si apre, però, un problema non da poco; se il dialettico si avvale delle ipotesi come punto di partenza, allora il suo procedimento dovrà andare avanti all’infinito nel tentativo di dimostrare ogni ipotesi? No, dice Platone: anzi, l’assunzione di ipotesi e la verificazione delle medesime procede fino a quello che egli chiama il “principio non ipotetico”, la cui esistenza è certa e non necessita di ipotesi. Tale principio altro non è se non l’idea del Bene, punto culminante del processo conoscitivo ed educativo. Tuttavia, Platone, ne “La Repubblica”, non ci dice in che cosa consista tale idea, ma, ciononostante, ne chiarisce la funzione in analogia con il sole: Platone dice che il sole sta alle cose sensibili come il Bene sta a quelle intelligibili. Il sole, da un lato, rende possibile, grazie alla luce che getta, la visibilità (e quindi la conoscibilità) degli oggetti sensibili e, dall’altro lato, è condizione, grazie al calore che sprigiona, del costituirsi delle cose e quindi del loro divenire. In analogia, l’idea del Bene è condizione della pensabilità stessa delle altre idee (l’analogo della luce solare è la verità, una specie di luce intelligibile) e, al tempo stesso, è condizione dell’essere delle idee (le quali però non divengono, ma eternamente sono). Occorre tuttavia chiarire che l’idea del Bene non è affatto sullo stesso livello delle altre idee: ancora una volta torna utile l’analogia col sole; come esso sta al di sopra rispetto alle cose del nostro mondo, così il Bene è incommensurabilmente al di sopra delle altre idee, che da esso ricevono luminosità ( ” è al di là della sostanza “, dice enigmaticamente Platone). Ma poiché le idee sono ciò di cui le cose sensibili in qualche modo partecipano, allora conoscere il Bene vorrà dire conoscere ciò che rende buone le cose: il Bene diventa così la chiave di lettura dell’intera realtà, tant’è che anche il buon uso del sapere dipende dalla conoscenza dell’idea del Bene. Da tutto ciò emerge come in Platone sia come non mai radicata la distinzione inconciliabile tra conoscenza sensibile (avente per oggetto le cose materiali) e conoscenza intelligibile (avente per oggetto le idee), attuabile solo a patto di liberare l’anima dai ceppi che la legano al mondo sensibile. Con Aristotele si tocca il rovescio della medaglia, anche se alcune acquisizioni platoniche restano salde: anche per Aristotele la conoscenza è un processo da percorrere a tappe; però egli tende a diminuire la distanza che in Platone separa i due tipi di conoscenza, intellettuale e sensibile. E il suo tentativo di rinsaldare quel legame spezzato da Platone va di pari passo con la sua dimostrazione dell’inesistenza di quelle idee ammesse da Platone e intese come forma delle cose: nella “Metafisica”, Aristotele dice che la forma non può assolutamente essere separata dalla materia, sicchè la forma “uomo” non potrà mai essere divisa dall’uomo in carne e ossa e fatta sostanza indipendente (“idea”). L’idea è, in altri termini, semplicemente un’astrazione logica con la quale separo la forma dalla materia, giacchè nella realtà non è mai possibile trovarle disgiunte, ma ogni cosa è un “sinolo” (sun + olon), un’unione perfetta e inscindibile di materia e forma. Il mondo delle idee prospettato da Platone risulta dunque, ad Aristotele, un inutile doppione che, più che risolvere problemi, ne crea di nuovi, anche perché Platone non è stato realmente in grado di spiegare come la materia possa acquisire una forma: egli infatti, come dice Aristotele nel I libro della “Metafisica”, non è stato in grado di cogliere la causa del movimento, in virtù della quale si spiega come la materia acquisisca la forma. Per fare un esempio, Aristotele dice che è grazie al principio del movimento immesso dall’uomo nella donna che si forma l’embrione. Egli ribadisce che il punto di partenza è costituito dal mondo della percezione sensibile, il punto di partenza a noi più chiaro: si tratta infatti di quell’ambito che è a noi più vicino e più noto; così facendo, Aristotele riconosce alla percezione sensibile uno statuto gnoseologico decisivo. E sempre nel I libro della “Metafisica” egli delinea le tappe del processo conoscitivo anche sul piano storico, facendo una sorta di storia della civilizzazione umana in cui si mostra come gli uomini, spinti dall’amore per la conoscenza, sono passati al sapere utile e poi a quello disinteressato; ed è appunto in questo I libro che troviamo esposte le teorie dei pensatori precedenti ad Aristotele, poiché anche dai loro errori si possono trarre insegnamenti . Come nota nell’incipit della “Metafisica”, la sensazione è amata dagli uomini; prova di ciò è il fatto che essi amano la vista indipendentemente dall’utilità che ne possono ricavare. Ma il problema della conoscenza non può essere ristretto al solo ambito umano (e del resto Aristotele fu iniziatore della zoologia), poiché l’uomo non è il solo essere vivente: proprio l’osservazione zoologica mette in luce come anche gli altri animali abbiano sensazioni (provano piacere o dolore, caldo o freddo, ecc), cosicchè per capire a fondo la specificità della conoscenza umana occorre operare un raffronto con il mondo animale. L’amore per le sensazioni, donato dalla natura, è comune a tutti gli animali: ma solo in alcuni di essi, a partire dalla sensibilità, si genera la memoria, e questo in base all’esperienza empirica. Si crea così una discrepanza tra animali dotati di sensibilità e animali dotati di sensibilità e memoria: quest’ultima altro non è se non la capacità di raccogliere esperienza. Ma, individuata questa prima differenza, se ne può ricavare un’altra: sono più adatti ad imparare gli animali provvisti di memoria. Ciò non toglie, tuttavia, che l’ape sia un animale intelligente anche se incapace di imparare: che sia intelligente lo si evince dal fatto che ogni sua azione è orientata verso un fine preciso, anche se mossa dall’istinto e non dalla ragione. Ma esistono anche animali capaci di apprendere perché dotati dell’udito, attraverso il quale è possibile sentire e quindi apprendere gli insegnamenti. Ci sono poi animali aventi la memoria e capaci di formulare immagini prescindendo dalla presenza fisica dell’oggetto ma partecipano poco all’esperienza. E l’esperienza nasce dalla memoria, perché è prodotta da molti ricordi della medesima cosa: siamo ora entrati nel campo strettamente umano; dal sedimentarsi dei ricordi nasce l’esperienza della cosa e dall’esperienza nasce il livello superiore, la tecnica, intesa come saper fare. Quest’ultima ha luogo dal ripetersi dell’esperienza: infatti, mentre l’esperienza riguarda conoscenze slegate, la tecnica nasce quando molte nozioni derivanti dall’esperienza danno luogo ad una sola credenza universale: l’esempio tipico di tecnica addotto da Aristotele è quello della medicina. Per esperienza posso sapere che un dato farmaco fa bene a più persone ammalate della stessa malattia, ma ciò riguarda solo casi particolari; la tecnica, invece, si applica a tutti i casi: il medico sa che un farmaco fa bene a tutte le persone ammalate da quella data malattia. Solo chi possiede la tecnica ha conoscenza delle cause: il medico, infatti, sa che X cura tutti gli Y e sa anche spiegare il perché. Un gradino al di sopra della tecnica troviamo la sapienza: essa consiste in quello che i Medioevali diranno “scire per causas”, dove le “causae” in questione sono quattro. Se i pensatori a lui precedenti ne avevano individuate al massimo due (magari intravedendone una terza), Aristotele spiega, sempre nel I libro della “Metafisica”, che le cause sono quattro e che conoscere per cause significa rispondere alla domanda “che cosa è x?”; il che vuol dire conoscere l’essenza di quella determinata cosa, cioè che essa è in quanto è quella determinata cosa. Quattro sono le cause perché quattro sono le domande che esauriscono l’essenza di una cosa: causa materiale, causa del movimento, causa formale, causa finale. Alla domanda “che cosa è x?” la risposta più immediata è dire di che cosa è fatto x e nell’indicare la materia di cui è fatto individuo la causa materiale che l’ha prodotto: così, alla domanda “che cosa è l’uomo?” la causa materiale risponde che esso è carne e ossa. Con la causa del movimento (detta anche causa efficiente) si spiega da che cosa ha avuto origine il movimento: ogni cosa, infatti, viene ad essere come effetto di un movimento e Aristotele ritiene di poter addurre a conferma di ciò esempi desunti sia dall’ambito naturale sia dall’ambito della produzione umana. Alla domanda “che cosa ha prodotto l’uomo?” si deve rispondere che è stato prodotto dal seme del genitore, alla domanda “che cosa ha prodotto la casa?” si deve invece rispondere che è stata prodotta dall’arte del costruttore. Tuttavia non ci si può fermare alla causa materiale e a quella efficiente: ed è per questo che Aristotele introduce quella formale, alludendo a quel particolare tipo di causa capace di determinare la materia di una cosa e di individuarla come quella cosa, senza possibilità di confusione. Potrò dunque chiamare Socrate “uomo” perché la sua è materia individuata da una forma che le compete necessariamente e che serve da principio di individuazione, poiché individua la materia. La causa formale corrisponde, dunque, all’essenza della cosa: Socrate è uomo perché la sua materia è individuata dalla forma uomo, che mi permette di individuare tutti i soggetti della stessa specie. Ma il punto di sutura tra queste tre cause finora tratteggiate è la quarta ed ultima causa: quella finale, che illustra lo scopo per cui quella determinata cosa è venuta ad essere così come è. La causa finale risponde quindi alla domanda “perché x è?” o anche “perché x è venuto ad essere nel modo in cui è?”: perché la casa è così come la vediamo? Perché deve servire da riparo all’uomo e non potrebbe fare ciò se non fosse disposta in quel modo. Perché l’uomo è così? Per svolgere al meglio quel compito che per natura gli compete, ossia il pensare, ed è per questo che ha la testa in alto, per poter meglio pensare. E per ciascuna cosa il fine può dirsi realizzato quando l’oggetto si è formato nella migliore forma possibile per poter assolvere alle sue funzioni; così una casa funziona bene se la sua forma la mette nelle condizioni di funzionare al meglio. Ne consegue che la causa finale è legata a filo doppio a quella formale. Che cosa è, però, che mette in moto quel processo per cui alla fine la materia è formata al meglio per assolvere le sue funzioni? Aristotele risponde che è la causa del movimento, giacchè, da sola, la materia non potrebbe mai passare da potenza ad atto. Conoscere queste quattro cause significa avere scienza e chi la possiede è perfettamente distinguibile da chi invece ne è sprovvisto e possiede solo una tecnica, o chi possiede solo l’esperienza, o ancora chi ha solo sensazioni: mentre infatti la sensazione si ferma al “che” delle cose e le conosce sempre come particolari, la scienza è in grado di conoscere il “perché” delle cose e, grazie a ciò, attinge all’universale. Ciò non toglie, tuttavia, che la percezione degli oggetti sia sempre vera: questo punto è sviluppato da Aristotele nel “De anima”, quando dice che la percezione nasce dall’attualizzazione di una potenzialità. Infatti, ogni singolo organo di senso percepisce secondo verità i suoi oggetti perché il soggetto percipiente, per effetto dell’azione esterna, passa da soggetto percipiente in potenza a soggetto percipiente in atto e, nello stesso tempo, l’oggetto passa da oggetto percepito in potenza a oggetto percepito in atto. Ma il grande limite della sensazione è la sua incapacità a spiegare le cause: in altri termini, grazie alla sensazione percepisco che il libro è rosso, ma poi sta alla scienza spiegarmi il perché. Il possessore della scienza è il sapiente (sofoV) e Aristotele si interroga su come gli uomini siano pervenuti a questi esiti: la causa scatenante è l’amore per la conoscenza insito in ciascuno di noi, ma il primo movente che ha indotto gli uomini ad amare l’indagine conoscitiva è stata (e in questo Aristotele è d’accordo con Platone) la meraviglia (to qaumazein). Essi infatti si meravigliarono dei solstizi o dell’incommensurabilità della diagonale col lato perché non riuscivano a spiegarsi come fossero possibili tali cose e questo perché non erano ancora riusciti a comprenderne le cause: è infatti la conoscenza delle cause a sconfiggere la meraviglia e a portare al sapere. Con la filosofia, l’uomo ha raggiunto un sapere assolutamente disinteressato, privo di ogni risvolto pratico (a differenza delle tecniche): è quel sapere che Aristotele chiama qewria (“contemplazione”) e che riguarda quegli oggetti che, nel VI libro della “Metafisica”, identifica con la matematica, la fisica e la metafisica. Se per il Platone de “La Repubblica” esisteva una sola scienza (quella del Bene), per Aristotele ne esistono una pluralità, tra loro non reciprocamente riducibili le une alle altre. Addirittura, Aristotele colloca la fisica ad un livello altissimo, mentre Platone le negava lo statuto di scienza; e poi Aristotele opera una netta distinzione tra teoria e prassi, tra filosofo e politico, tra scuola e città: tuttavia sullo sfondo lascia intravedere la possibilità di una conciliazione fra le due parti, dato che l’uomo è sì un animale razionale, ma anche un animale politico. E’ curioso il fatto che Aristotele non separi radicalmente chi ama il sapere da chi ama i miti, poiché, a suo avviso, entrambi muovono dalla meraviglia, anche se si servono di diversi modi di spiegazione (razionale e causale per il filosofo, mitico e irrazionale per l’amante dei miti). Proprio perché sapere teoretico e dunque non produttivo, la filosofia è fine a se stessa e, quindi, poiché priva del legame di servitù (infatti, propriamente, non serve a nulla), è il sapere più nobile. E da questa attività, come Aristotele dice nell’ “Etica Nicomachea”, si ricavano piaceri immensi, i più congeniali alla natura razionale dell’uomo. La filosofia è la sola scienza che può essere divina, perché universale e perché conosce le cause, cioè conosce oggetti divini. La scienza costituisce dunque il punto più alto della conoscenza, ma, propriamente, quando si scoprono le cause che cosa si fa? Secondo Aristotele, a tal proposito, è assolutamente centrale l’impiego della dimostrazione: il filosofo si distingue per parlare in modo consono alla verità e la conoscenza della causa (che porta alla verità) passa per la dimostrazione; il filosofo sa dimostrare le cause perché sa costruire ragionamenti concatenati (sillogismi). Il che significa che per Aristotele possono esserci anche ragionamenti concatenati che non sono dimostrazioni. Il sillogismo, dunque, è lo strumento (organon) della scienza e il sapiente (come dice Aristotele nell’ “Etica Nicomachea”) è colui che possiede la disposizione apodittica, ovvero la disposizione a dare dimostrazioni: si tratta di una procedura deduttiva, nel senso che si pongono premesse e si deduce una conclusione ad essa conseguente. Ed è la qualità delle premesse (che devono essere vere, salde, non dimostrate) a distinguere il sillogismo dimostrativo da quello non dimostrativo: perno della dimostrazione è il “termine medio”, che consente di stabilire la conclusione. Ma, nota Aristotele memore della lezione socratica, esiste anche il sillogismo dialettico, una sorta di ragionamento concludente che però assume le premesse in base all’accordo tra gli interlocutori; si tratta dunque di un ragionamento concludente ma che esula dalla dimostrazione. Per poter costruire i sillogismi, il filosofo deve partire da princìpi e qui Aristotele ne individua di due tipi, quelli propri di ogni singola scienza (e che quindi riguardano solamente gli oggetti specifici di quella data scienza) e quelli comuni a tutte le scienze; ovviamente, ciò significa che non solo la scienza per Aristotele non è una, ma che addirittura i princìpi che le governano variano da scienza a scienza. Essi però non possono essere assunti per via dimostrativa, sennò si aprirebbe un processo tendente all’infinito: c’è tuttavia un’altra facoltà presente in noi che presiede a tali principi; si tratta dell’intelligenza ( nouV ), un atto intellettivo di adeguazione immediata a tali princìpi. Non c’è scienza se non si conoscono i princìpi dai quali procede la dimostrazione: alla conoscenza di essi si arriva per via induttiva, cioè dalla sensazione, per lo stesso cammino che porta dalla percezione alla sapienza. Con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) si fa convenzionalmente iniziare l’età ellenistica, caratterizzata, sul piano culturale, in primis da forti contaminazioni frutto del contatto con culture lontane e profondamente diverse da quella greca; spesso questa nuova età del pensiero è stata letta come decadente, facendo riferimento agli ineguagliati vertici filosofici raggiunti da Platone e Aristotele. Alessandro Magno si era spinto fino in India e dopo le sue conquiste nulla fu come prima: Atene perse il titolo di capitale della cultura e la Grecia si avvia a diventare (nel 146 a.C.) provincia del mondo romano. Sul piano filosofico, lo scenario è dominato da tre correnti di pensiero principali, affiancate da un pulviscolo di correnti minori: queste tre scuole fondamentali sono lo Stoicismo, l’Epicureismo e lo Scetticismo, accomunate (come tutte le altre filosofie dell’età ellenistica) dal disinteresse per la sfera metafisica, tanto cara ai loro predecessori (pensiamo ai sistemi elaborati da Platone e Aristotele), e da una marcata esigenza di individuare un modello di vita che sia compatibile con le nuove condizioni socio-economiche in cui versava la Grecia dell’epoca; l’influenza illustre di Platone e Aristotele permane, anche se, di fatto, questi due pensatori non vengono mai esplicitamente menzionati. Tutte queste correnti pongono dunque al centro della loro indagine filosofica l’etica, prefiggendosi la formazione del saggio. Accanto a queste tre grandi scuole ce ne sono molte altre: tra queste, (oltre a quella dei Cinici, dei Cirenaici seguaci di Aristippo, degli ultimi Megarici, ecc) merita senz’altro di essere ricordata quella degli Aristotelici (o Peripatetici, dal Peripato, il luogo in cui Aristotele passeggiava filosofeggiando coi suoi discepoli): emblematica è, a tal proposito, la figura di Stratone di Lampsaco, tra i fondatori della imponente biblioteca di Alessandria. Ritornando agli sviluppi delle tre scuole che dominano questa fase della cultura filosofica greca, esse sono accomunate, oltrechè dalla preminenza dell’interesse etico, dalla classificazione tripartita (già presente nell’Accademia di Platone) della filosofia in etica, fisica, logica. Epicuro dà molto peso alla logica (detta anche “canonica” perché “canone”, ossia criterio della conoscenza) e gli Stoici distinguono due grandi parti all’interno della logica: la gnoseologia e la teoria dei discorsi. L’espressione “scienza della logica” è di loro conio, poiché per Aristotele la logica era “analitica”: se poi la teoria epicurea è monolitica e non subisce variazioni di rilievo nel tempo, quella stoica è, al contrario, una filosofia “in fieri”, soggetta a continue trasformazioni: a testimonianza della stabilità della dottrina epicurea si può ricordare come Diogene di Enoanda, nel II secolo d.C., fa incidere su una pietra nella sua città il verbo di Epicuro così come era secoli addietro. Ed è curioso come Epicuro polemizzi aspramente contro i poeti (a suo avviso mistificatori) e come il più grande divulgatore della filosofia epicurea presso i Latini, Lucrezio, scriva in versi. Epicuro, poi, sceglie in modo significativo di insegnare in un giardino fuori Atene, lontano dalle burrascose vicende politiche della città; gli Stoici , viceversa, hanno la loro sede nel “portico dipinto” nel cuore di Atene: lo stoico Crisippo paragona la filosofia ad un orto in cui la logica costituisce le mura che demarcano i confini, la fisica rappresenta gli alberi che crescono nell’orto e l’etica costituisce i frutti che pendono dagli alberi; dalla metafora, si evince come la filosofia abbia per Crisippo confini limitati (un orto chiuso) e sia difesa dall’esterno da un muro (la logica); centrale è (alla pari degli alberi in un orto), evidentemente, la fisica, alla quale è strettamente connessa l’etica: non ci possono infatti essere i frutti se non ci sono gli alberi, il che significa che per raggiungere la felicità occorre partire dalla conoscenza della natura. Con un’altra metafora alquanto efficace, gli Stoici accostano il sapere filosofico ad un uovo, il cui guscio è costituito dalla logica (quindi essa ha funzione difensiva, come nel caso del muro), l’albume dalla fisica, il tuorlo dall’etica. Tuttavia, a Posidonio, uno Stoico della cosiddetta “media Stoà”, queste metafore non piacevano perché non rendevano sufficientemente conto dei rapporti reciproci tra le tre scienze: a suo avviso, è meglio accostare la filosofia ad un organismo, in cui forte è la vivacità fra le parti; le ossa sono costituite dalla logica, il sangue e la carne sono rappresentate dalla fisica e l’anima dall’etica. La filosofia, così intesa, si configura come un sapere organico e retto da una fortissima unità, che per gli Stoici ruota attorno al LogoV , la ragione che permea ogni realtà. Nel LogoV gli Stoici vedevano convergere tre valenze: esso è principio di verità (e quindi legato alla logica, con la quale si formulano le leggi del conoscere, del pensare, del parlare), è un principio dell’essere delle cose (e dunque connesso alla fisica e allo studio che essa conduce sulla natura), è il principio del fine e del dover essere dell’uomo come ente di natura (e dunque è connesso all’etica). La teoria della conoscenza compete, secondo gli Stoici, alla logica: essa permette di cogliere il LogoV insito nelle cose, cioè ce le fa conoscere, pensare e dire nella loro verità; anche per Epicuro la logica è fondamentale, perché fissa il criterio di verità: la sensazione è, secondo lui, la base della conoscenza. Epicuro elimina la logica come filosofia del linguaggio e se ne interessa solo nella misura in cui essa studia il criterio di verità. Sia gli Epicurei sia gli Stoici sono sensisti ed Epicuro arriva a concordare, per quel che riguarda la conoscenza, validità assoluta ai sensi. Il suo canone di conoscenza si sviluppa in tre punti che corrispondono alle tre parti della filosofia: la logica (legata alle sensazioni), la prolessi (legata alla fisica), le affezioni (legate all’etica); egli critica le tendenze scetticheggianti che sospendono il giudizio sulla validità delle sensazioni e le proclamano aleatorie: fa notare come, propriamente, non possa esserci pensiero se non ci sono le sensazioni. Questo emerge benissimo nella nozione di prolessi (prolhyiV dal greco prolambanw , “prendo prima”) o anticipazione: per prolessi Epicuro intende l’anticipazione di qualcosa che non mi si è ancora presentato ai sensi (quando ad esempio penso ad una persona senza poterla percepire); se la conoscenza passa per le sensazioni, come può pensare senza percepire? Tutto si spiega proprio perché, secondo Epicuro, l’anticipazione si verifica quando ho avuto sensazione almeno una volta di quella determinata cosa, cosicchè (permanendo essa nella mia memoria) posso pensarla senza effettivamente percepirla (perché l’avevo già percepita prima). Ma come si dimostra che tutte le sensazioni sono vere? La sensazione, secondo Epicuro, è un’affezione, un paqoV in cui subisco qualcosa dall’esterno: ne consegue necessariamente che l’affezione deve rispecchiare fedelmente la cosa percepita. Ma, allora, come nascono gli errori e le illusioni dei sensi? Epicuro dice che neppure nel caso delle illusioni dei sensi si può parlare di percezioni errate: è la precipitazione del giudizio, cosicchè si dice che un determinato oggetto tondo è quadrato prima che la sensazione ci abbia sconfessato: il pensiero è fondato sulla sensazione, e non viceversa. Anche per gli Stoici la sensazione è importante, ma, a loro avviso, non basta: occorre che il dato della sensazione sia rappresentabile dal pensiero; non basta il dato del senso, ci vuole il pensiero. La sensazione si accompagna alla fantasia (che in Aristotele, nel “De anima”, era una facoltà dell’anima che permette la formazione di fantasmata ), ossia la rappresentazione dell’oggetto. E poi la sensazione per gli Stoici è un’impressione provocata dall’oggetto sui nostri organi sensoriali: come il suggello lascia un’impronta sulla cera (secondo la lezione platonica del “Teeteto”), come un foglio di carta pulita è adatto per copiare uno scritto, così i nostri organi di senso ricevono le impressioni. Tuttavia, la concezione dell’anima è simile a quella di Epicuro: l’impressione lasciata dagli oggetti è un’impressione corporea perché l’anima stessa è corporea; se per Epicuro essa era un composto atomico, per gli Stoici ha natura aeriforme e le impressioni ne modificano la struttura proprio come (dice Crisippo) l’aria è in grado di ricevere molte e contrastanti percussioni; Crisippo parlava anche, in maniera più raffinata, di alterazioni qualitative, come se l’anima cambiasse stato quando riceve impressioni. Bisogna però chiedersi quali rappresentazioni possano essere ritenute con certezza vere: secondo gli Stoici, questa attività di rappresentazione si articola in due momenti distinti; in un primo momento, infatti, riceviamo passivamente affezioni dall’esterno, poi il soggetto reagisce attivamente ad esse con l’ “assenso”, cioè acconsentendo, approvando ciò che si è passivamente ricevuto dall’esterno; questa approvazione avviene mediante il LogoV che è nella nostra anima e la differenza tra una rappresentazione falsa e una vera è che solo a quella vera si può e si deve dare il proprio “assenso”. Ma, dicono gli Stoici, di fronte alle rappresentazioni possiamo reagire o dando l’assenso, o non dandolo, o sospendendolo: e proprio nel riconoscere questa libertà di giudizio gli Stoici garantiscono, in una certa misura, una forma di libertà all’uomo; se, infatti, non possiamo scegliere se avere o meno rappresentazioni, ciononostante possiamo scegliere come reagire ad esse, concedendo o negando il nostro assenso. Particolarmente importante è la sospensione dell’assenso (epoch), che costituirà il perno della filosofia scettica e sarà destinata ad avere vita lunga nella storia della filosofia. Nel momento in cui do l’assenso ad una rappresentazione, l’impressione diventa apprensione, nel senso che ci si appropria della rappresentazione e questo emerge chiaramente nell’uso che gli Stoici fanno della parola katalhyiV (“appensione”, l’afferrare la rappresentazione); la rappresentazione diventa, in tal modo, “rappresentazione comprensiva” (o “catalettica”). Ma non tutte le rappresentazioni sono attendibili: solamente quelle che presentano evidenza e sono riconducibili alla realtà. Per illustrare questo procedimento conoscitivo, Zenone usava un’immagine alquanto efficace: la mano aperta rappresenta l’immagine, curvando le dita si ha l’assenso, stringendole e chiudendo il pugno si ha poi la comprensione e, infine, accostando la mano sinistra e afferrando il pugno si ha la scienza, intesa come sistema integrato di comprensioni catalettiche. Tuttavia, di rappresentazioni ce ne sono di due tipi: quelle che colgono immediatamente la realtà (comprensione catalettica), e quelle che la colgono con qualche difficoltà (comprensione non catalettica); solo la comprensione catalettica è, per gli Stoici, determinata dall’esistente, conforme all’esistente e impressa nell’anima. Ed è solo quando c’è la presenza effettiva dell’oggetto che l’assenso è fortissimo, quasi come se (per usare un’immagine impiegata dagli Stoici) venisse strappato per i capelli: gli Scettici osservavano invece come di fatto nessuna rappresentazione si presentasse con caratteri tali da meritare, senza possibilità di equivoci, il nostro assenso (pensiamo ai sogni, quanto ci appaiono veri!). Detto questo, per gli Stoici la conoscenza non si esaurisce nell’ambito della sensazione (come invece è per Epicuro): l’attività del pensiero che crea concetti rivela un’attività intellettiva autonoma dalle sensazioni, anche se non del tutto sganciata da esse. Ogni atto intellettivo (e gli Stoici designano l’atto intellettivo con la parola nohsiV, di forte sapore platonico) deriva da una sensazione, ma ciò avviene o per contatto (relazione diretta) o non per contatto (relazione non diretta) ed è facile capire come il pensiero possa svolgere autonomamente la sua attività: o per evidenza o per analogia o per somiglianza o per aggregazione. Per evidenza sensoriale sento il dolce, l’amaro, ecc; non per evidenza, ma per passaggio da cose evidenti creo concetti per composizione (componendo il concetto di uomo e quello di cavallo creo l’ippocentauro), per somiglianza (dall’uomo Socrate in carne e ossa creo il concetto di Socrate), per analogia (per analogia verso l’aumento dell’uomo creo il concetto di ciclope, verso la diminuzione dell’uomo creo uomini nani). E sia gli Stoici sia Epicuro insistevano tanto sulle operazioni del pensiero per polemizzare contro l’innatismo, secondo il quale le nozioni universali preesistono; gli Stoici, in opposizione a questa tesi, ammettevano che gli universali (le “prolessi” di Epicuro) fossero “connaturate” agli uomini, come se l’uomo nascesse con una predisposizione alla formazione di questi concetti perché è l’unico essere a possedere la ragione: in particolare, gli Stoici parlavano di concetti “connaturati” in riferimento alla morale e, soprattutto, all’innata disposizione dell’uomo alla virtù; infatti, poiché l’uomo è anima, cioè ragione, egli vive secondo ragione e vivere ragione vuol dire vivere secondo natura, ossia secondo virtù. Ma in quegli stessi anni compariva sullo scenario filosofico una figura inequivocabilmente nuova, destinata a diventare il fondatore dello Scetticismo : si tratta di Pirrone originario di Elide (nato circa nel 360 a.C.); egli avrebbe cominciato la sua attività filosofica ancor prima della fondazione della scuola stoica ed epicurea e avrebbe preso parte alla spedizione di Alessandro Magno in India, entrando così in contatto con i maghi e con i gimnosofisti; da questi avrebbe appreso il tipo di saggezza da lui professato. Come Socrate, Pirrone scelse di non scrivere nulla, poiché convinto di non avere nulla da affidare allo scritto e che altri potessero apprendere: ed è per questo che egli non fondò alcuna scuola e gettò le basi dello scetticismo; dal punto di vista di Pirrone e degli Scettici tutte le filosofie costituiscono un blocco unico, poiché pretendono di avere qualcosa da insegnare; si tratta, per di più, di un blocco dogmatico, dottrinario. In contrapposizione a tutto questo, gli Scettici non hanno dogmi e non hanno persone a cui trasmettere le proprie verità, proprio perché non ne possiede. Dalle testimonianze di cui disponiamo, possiamo ipotizzare che anche la filosofia scettica abbia attraversato delle sue fasi: l’immediato successore di Pirrone, Timone, ha composto in versi delle critiche indirizzate agli altri filosofi; la tradizione, poi, testimonia che anche due platonici come Carneade e Arcesilao avrebbero aderito allo Scetticismo. Dopo di che, si perdono le tracce della filosofia scettica, fino al II secolo d.C., quando ad abbracciare la causa scettica fu Sesto Empirico (detto “Empirico” perché appartenente alla setta medica degli “Empirici”), il quale si scatenò in un’accesa critica “Contro i dogmatici” e tratteggiò la figura del “filosofo pirroniano”, facendo in tal modo di Pirrone un modello da seguire. Stando a quanto dice Diogene Laerzio nelle “Vite dei filosofi”, Pirrone avrebbe desunto dallo Stoicismo i princìpi della akatalhyia (letteralmente “incomprensibilità”) e dell’ epoch (“sospensione di giudizio”), mentre, attenendoci alla testimonianza di Sesto, Pirrone avrebbe cominciato da solo, senza influenze, la propria attività filosofica. L’opposizione allo Stoicismo appare tuttavia evidente: se gli Stoici parlano di “rappresentazione comprensiva”, Pirrone nega invece la rappresentabilità (e quindi la comprensibilità) delle cose: la sua è una non-gnoseologia. Gli Scettici vengono così definiti dal termine greco skeyiV , che vuol dire “ricerca”, “indagine” sulla natura delle cose per stabilire cosa esse siano: nella sua ricerca, però, lo scettico scopre che le cose sono incomprensibili per due ordini di ragioni. In primo luogo per il fatto che tutte le cose appaiono diversamente a chi le osserva in condizioni diverse, in secondo luogo per il fatto che sulle stesse cose si può riscontrare che gli uomini hanno pareri contrastanti, spesso addirittura opposti (c’è, ad esempio, chi dice che tutto è costituito da atomi, chi da elementi, e così via). Lo scettico, tuttavia, non si limita a dire che le cose sono inconoscibili (poiché questo sarebbe un dogmatismo), ma ritiene che si debba sospendere il giudizio (epoch ): egli, cioè, non afferma né nega che le cose siano comprensibili e scopre che dalla sospensione del giudizio scaturisce una felicità irresistibile, sconosciuta a chi si ferma al dogmatismo. Secondo Timone, in particolare, occorre chiedersi tre cose per essere felici: a) quale è la natura delle cose? b) come ci si deve disporre nei confronti di esse? c) cosa risulterà a coloro che si trovano in questa disposizione? Come Timone stesso asserisce, le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili, indiscriminabili e perciò le nostre sensazioni e opinioni possono essere vere e false, poiché non disponiamo di criteri per distinguere le differenze tra le cose. Di fronte a quest’assoluta mancanza di certezze e verità, Carneade e Arcesilao (rivelando in ciò la loro ascendenza platonica) ovviavano, rispettivamente, con la nozione di piqanon (“probabile”) e con quella di eulogon (“ragionevole”): ma per Pirrone, invece, ” si deve vivere senza opinioni, senza inclinazioni, senza agitazioni “, poiché il seguire le opinioni ci turba; occorre, piuttosto, dire che ” ogni cosa è non più di quanto non è “. Ne derivano l’ afasia (“il non pronunciarsi”) e l’ ataraxia (“assenza di turbamenti”). Ma, in questa prospettiva, come conduce lo scettico la propria esistenza? Come dice Sesto Empirico, lo scettico è uomo tra gli uomini, sospende il giudizio ma dà assenso alle rappresentazioni naturali (la fame, la sete, ecc), non ha maestri ma impara come tutti gli altri uomini a leggere e a scrivere perché ciò è utile nella vita quotidiana; in altri termini, lo scettico si adatta alle condizioni comuni, vive seguendo i fenomeni, senza dar valori: non dice, ad esempio, che il miele è dolce, ma che sembra tale. Qualche secolo più avanti, Plotino cercherà di porre nuovamente al centro della discussione filosofica il platonismo, scivolato per molto tempo nell’oblio: secondo Plotino, non è l’anima ad essere nel corpo, ma, al contrario, è il corpo ad essere nell’anima; a suo avviso, perché sia possibile la riunificazione con quell’unico principio da cui tutto deriva, non occorre la ragione, ma, piuttosto, la mistica o, come la chiama Plotino, l’ “estasi”. Si tratta, cioè, di staccarsi dal mondo fisico, di rientrare in sé (ossia di riappropriarsi della propria anima) e di ricongiungersi all’ Uno, principio da cui ogni cosa proviene. Con Plotino il mondo perde definitivamente la sua autonomia: l’uomo stesso è solo anima, anzi, è anima separata dal corpo, poiché è come se in ciascuno di noi vi fossero tre persone diverse. Infatti, la prima persona è costituita dalla nostra anima considerata nella sua tangenza con l’intelletto, la seconda è rappresentata dall’anima come pensiero discorsivo e, infine, la terza è l’anima che vivifica il corpo terreno. Sullo sfondo di queste riflessioni, vi è la distinzione aristotelica (presente nel “De anima”) delle funzioni dell’anima: e, secondo Plotino, il nostro vero io è soprattutto quello della seconda persona, ossia l’anima come pensiero discorsivo, capace di tendere verso il meglio (la prima persona) o verso il peggio (la terza persona). In tale prospettiva, l’uomo altro non è se non un’anima che si serve di un corpo, il quale, a sua volta, non è che un’anima “caduta”: ne consegue che l’anima, non solo è slegata dal corpo (secondo l’insegnamento platonico), ma, addirittura, è strettamente congiunta all’assoluto. Nell’ambito gnoseologico, l’anima, essendo incorporea e dunque incapace di concepire alcunchè, può solo agire, mai subire, giacchè ciò che è incorporeo non è suscettibile di subire azioni: e allora la sensazione va intesa come azione del corpo esterno sul corpo percipiente ma, in questi termini, in virtù del rapporto tra anima e corpo, sembra che l’anima subisca, in qualche modo, l’influenza degli oggetti, cosa che abbiamo poc’anzi detto impossibile. Per evitare di incappare in questa contraddizione, Plotino ricorre ad una scaltrezza di sapore stoico, distinguendo tra sensazione esteriore (che è l’affezione e l’impronta che i corpi producono sui corpi stessi, poiché, stoicamente, sussiste una simpatia universale che lega ogni cosa) e percezione sensitiva (che è l’attività dell’anima in senso stretto: un atto conoscitivo che coglie l’impressione e l’affezione corporea appropriandosene). In altri termini, secondo Plotino, il nostro corpo subisce passivamente un’affezione e, dopo ciò, l’anima cattura tale affezione corporea e, successivamente, riesce a giudicarla; in particolare, nell’impressione sensoriale l’anima riesce a vedere l’orma delle forme intelligibili e, quindi, la stessa sensazione altro non è se non contemplazione dell’intelligibile nel sensibile; in tale ottica, le sensazioni possono anche, di fatto, essere definite come “pensieri oscuri”. Se non ci fosse l’anima superiore che ha nozione degli “intelligibili puri”, non potrebbe nemmeno esserci la sensazione. Plotino attribuisce all’anima anche la capacità di immaginare e memorizzare, riconoscendo invece nel corpo uno strumento di impaccio a queste due attività: prova ne è, secondo Plotino, il ricordo delle dottrine scientifiche, che col corpo non hanno nulla a che fare. E occorre notare come, propriamente, solo l’anima sia dotata di memoria (in quanto solo essa è legata alla temporalità): l’Uno e l’intelletto ne sono sprovvisti. Da sottolineare è la distinzione che Plotino opera tra memoria e reminescenza: quest’ultima è un richiamare alla memoria, un conservare perennemente nell’anima ciò che le è connaturato. Non c’è da stupirsi che, nella prospettiva plotiniana, la più alta attività conoscitiva dell’anima risieda nel pensiero che coglie le idee (intese non più alla maniera platonica, come enti a sé s
SITUAZIONE STORICA E SOCIALE DAL IV AL I SECOLO A.C.
Nella seconda metà del IV secolo, con l’espansione della monarchia macedone, l’assetto politico della Grecia e dell’intero mondo mediterraneo vennero radicalmente trasformati.
Dopo la battaglia di Cheronea Filippo raccolse le città greche in una confederazione che le sottometteva al potere macedone, garantendo loro l’autonomia nelle questioni interne e mantenendo gli equilibri sociali a vantaggio dell’aristocrazia contro il demos urbano.
Con le conquiste di Alessandro l’Asia Minore, la Persia e l’Egitto caddero sotto l’egemonia militare dei Greci. Alla sua morte l’impero venne diviso in una serie di regni militari: le dinastie più potenti si installarono in Egitto, Siria e Macedonia.
Questi regni, definiti ellenistici, non intaccarono la struttura sociale esistente, ma la rafforzarono sovrapponendovi solo il potere della Corte e del suo apparato militare e amministrativo. In Oriente la proprietà della terra rimase suddivisa fra il re, i grandi latifondisti e i templi delle divinità tradizionali. In Grecia l’aristocrazia delle città mantenne una certa autonomia locale, aumentando anche le sue ricchezze terriere. Il problema dell’eccedenza di popolazione priva di terra, che non aveva trovato soluzione nella polis indipendente, nella nuova situazione trovò agevole soluzione: la nuova forza militare dei re privò di cittadinanza il demos urbano povero e senza terra, costringendolo ad emigrare e a fondare nuove città in Oriente (come Alessandria), trovando occupazione negli eserciti mercenari di cui i nuovi re avevano bisogno per le loro interminabili guerre di espansione.
La nuova civiltà che si era venuta a creare fu detta ellenistica perché ellenisti erano stati chiamati gli Orientali ellenizzati attraverso la diffusione della lingua e della cultura greca, l’educazione scolastica, l’emigrazione, il commercio, i matrimoni misti e il servizio militare. La nuova monarchia assoluta si ispirava al culto dell’individuo eroico ed eccezionale. Il potere centralizzato si intromise anche nella sfera economica, si circondò di una corte fastosa e si appoggiò al favore dell’esercito e degli alti notabili. Centro motore dell’Ellenismo fu la borghesia, mentre la massa dei lavoratori dipendenti forniva le braccia allo sviluppo del commercio e dell’industria. Il linguaggio ufficiale delle burocrazie fu la Koinè, una lingua a base greco-attica, mentre la lingua nazionale sopravviveva nelle campagne e l’aramaico e l’egizio erano parlati dalle classi inferiori cittadine.
La società ellenistica è divisa in strati che non comunicano fra di loro. Al vertice vi è il potere del re e della sua corte di generali, re che viene divinizzato e fatto oggetto di culto religioso come accadeva per gli antichi monarchi orientali.
I nuovi stati, rispetto alle polis del periodo precedente, non presentano alcuna coesione etnica e sociale, essendo l’unico vincolo quello della sottomissione al re, sottomissione rafforzata dai re con il potenziamento dell’apparato burocratico e militare. Questo apparato era però costoso, e per mantenerlo occorreva aumentare il prelievo fiscale o andare a continue guerre di rapina e di espansione territoriale, le quali a loro volta richiedevano investimenti per pagare i mercenari. Per questi motivi il mondo ellenistico si presenta molto instabile, anche se da un altro lato bisogna riconoscere che la nuova situazione politica e geografica favorisce notevolmente lo sviluppo dei traffici e dei commerci, grazie all’aumento della circolazione del denaro e delle merci.
Grazie a questa situazione si crea un ceto di ricchi commercianti, che concentrano nelle loro mani autentiche fortune, cosa che difficilmente sarebbe potuta accadere nel mondo della polis.
Si tratta di un commerciante che non investe i suoi guadagni per diventare produttore, che rimane legato all’attività mercantile e che, nonostante la ricchezza, non vede aumentare il proprio prestigio sociale, lo status. L’unico modo per vedere aumentare il proprio prestigio sociale è quello di acquistare terreni: in questo modo egli può entrare a far parte della ricca aristocrazia cittadina.
In questa situazione aumenta la distanza sociale fra il re, il demos urbano (che viene espulso dalle città) e i commercianti, per cui l’unica protagonista della città ellenica resta l’aristocrazia: per questa vengono scritti i libri di filosofia e di cultura umanistica, vengono fondate grandi istituzioni educative ed elaborate nuove ideologie sulla condizione umana. Si tratta di un’aristocrazia che non si riconosce più nella tradizione aristocratico-sacerdotale precedente, che andava da Parmenide a Platone, in quanto gli sfugge l’intreccio fra sapere e potere che aveva caratterizzato quella tradizione (il sapere è ormai specializzato e chiuso nelle scuole, mente il potere è delegato al re).
In questa situazione nasce nel cittadino un senso di sfiducia; egli sente lontani il sapere (che non riesce più a dargli un’immagine compiuta e rassicurante del mondo) e il potere (scompare quella possibilità di partecipare alla gestione della vita pubblica che era stata una delle caratteristiche principali dell’epoca della polis). Ed è proprio per rispondere a queste ansie e domande che si sviluppano nel mondo ellenistico una serie di filosofie dell’uomo, della sua felicità e della libertà; nasce un sistema ideologico che ha lo scopo di rassicurare il cittadino sul senso della sua vita.
All’inizio del III secolo, su proposta di alcuni membri eminenti del Liceo, il re d’Egitto Tolomeo I fondò ad Alessandria una grande istituzione scientifica e culturale che diverrà ben presto il simbolo della cultura di quell’epoca: il Museo. I compiti del Museo erano quello di raccogliere in una grande e ordinata biblioteca tutta la produzione filosofica, letteraria e scientifica della Grecia e quello di ospitare i maggiori scienziati del mondo greco, offrendo loro una sede stabile, uno stipendio sicuro, e la possibilità di attendere in tutta tranquillità alle loro ricerche. Il Museo, grazie agli ingenti contributi finanziari dei re d’Egitto, restò per cinque secoli il maggior centro bibliografico di tutto il mondo antico.
Fu in questo contesto che si registrò la nascita del libro: i bibliotecari, per le loro esigenze di catalogazione, raccolsero tutti gli scritti in loro possesso e gli appunti in libri e collezioni di libri, ognuno dei quali doveva recare l’indicazione dell’autore e del titolo (che essi posero anche dove non c’era). Da questo momento il libro fu imposto come forma base della produzione e della comunicazione culturale. La nascita del libro modificò radicalmente anche i rapporti culturali, i quali fino al IV secolo si erano basati sull’incontro e sulla discussione personale, la polemica ravvicinata e la pubblica lezione: ora invece il libro rendeva possibile un colloquio culturale a distanza (per conoscere il pensiero di un filosofo non era più necessario andare nella pubblica piazza o nella scuola, bastava leggerne i libri e rispondere con altri libri, che finivano negli scaffali della biblioteca di Alessandria). Fu così che si svilupparono i commenti ai classici. Furono proprio questi commenti, che saranno il genere letterario più diffuso sino al medioevo, a staccare la cultura dal rapporto costante con i problemi della società e del sapere.
Il Museo di Alessandria divenne anche una sede permanente e centralizzata per la ricerca scientifica. In questo modo la scienza, in pochi decenni, fece passi da gigante, anche se il prezzo che dovette pagare fu il distacco dai problemi sociali e l’isolamento dalla vita della città, oltre all’abbandono dell’impegno politico e di ogni responsabilità. Tramontava così il progetto di Platone di mettere il sapere scientifico al servizio della riforma della società. E tramontava anche quell’ideale di tecnico-scienziato impegnato insieme nell’attività pratica e nell’elaborazione teorica di cui aveva parlato Anassagora e che i medici ippocratici avevano impersonato. I professori di Alessandria si presentano come scienziati puri, che rifiutano le applicazioni tecniche del loro sapere e il lavoro manuale (i biologi alessandrini non visitano i malati, a parte il re; i fisici non costruiscono macchine, a parte quelle da guerra che il re chiede loro). Tutto questo è causa del decadimento sociale ed intellettuale della figura del tecnico (demiourgos) che aveva dominato la scena del V secolo, la cui scienza decade al livello di attività puramente empirica e manuale.
Il contatto fra filosofi e scienziati era stato l’elemento che in passato aveva evitato che la filosofia divenisse astratta e vacua, grazie al suo legame con la politica e i problemi sociali della polis. Ora le scuole filosofiche si raccolgono tutte ad Atene ed elaborano una filosofia consolatoria e retorico-letteraria rappresentata da stoici, epicurei, Liceo ed Accademia; permane comunque anche una corrente critica nei loro confronti rappresentata da cinici, cirenaici e scettici. Le nuove scuole, a causa del loro dogmatismo, assomigliano molto a delle sètte, in cui scarso è lo spazio destinato alla discussione e al confronto con le altre scuole.
Si diffondono in questo periodo le prime dossografie, storie delle opinioni dei principali filosofi, molto schematiche e agevoli.
Analisi della situazione culturale
Il termine “ellenismo” (propriamente: “ciò che risente del carattere greco”) è stato per la prima volta coniato dal Droysen nella sua opera Storia dell’Ellenismo (1836-43) in cui cerca di fissarne i limiti cronologici tra il 323 (morte di Alessandro il grande) e il 30 a.C. (morte di Cleopatra e fine dell’ultimo regno ellenistico).
Se per Ellenismo intendiamo però il fenomeno del traboccare della cultura greca al di fuori dei limiti nazionali e la sua universalizzazione con la diffusione della “paideia” classica (equivalente greco del nostro concetto di cultura, intesa però non come semplice erudizione, ma come cultura formativa dell’individuo, sia come privato che come cittadino) allora esso sembra coprire un periodo molto più vasto.
Tra i meriti dell’Ellenismo bisogna ricordare la trasmissione alle generazioni future degli ideali che a suo tempo avevano ispirato la paideia classica e la fusione tra i caratteri della civiltà occidentale e quella orientale. In particolare per quanto riguarda i rapporti con l’Oriente occorre ricordare come la Grecia avesse già avuto contatti e acquisito elementi della cultura egiziana, ma bisogna anche ricordare che sempre aveva rielaborato quei contenuti investendoli della propria spiritualità. Del resto l’incontro con le culture orientali era stato anticipato dalla penetrazione pacifica, per scopi commerciali, delle poleis sulle coste dell’Asia Minore. Ora le imprese di Alessandro uniscono le due culture anche politicamente.
Il carattere di questa unione sarà però prevalentemente greco, come dimostra l’opera di Filone l’Ebreo, che interpreta la Bibbia in termini greci confrontando Mosè con Platone. La stessa cultura cristiana vive di questi apporti greci, di cui si serve per elaborare la sua nuova teologia. L’Oriente fornisce d’altronde alla grecità il suo spirito religioso e mistico, offrendo nuovi motivi alla sua speculazione religiosa, che comunque sceglie la via delle religioni misteriche, componente questa che si fa particolarmente forte, al punto da ispirare il sistema di Plotino e di Proclo, i quali comunque mantengono fede al carattere eminentemente greco della razionalità.
Un altro fenomeno che va considerato come tipico dell’Ellenismo è la caduta delle barriere culturali, politiche e sociali che da secoli dividevano i Greci dagli altri popoli considerati “barbari”.
Tra le tante possibili datazioni dell’Ellenismo sembra più attendibile quella che tende a dilatare tale periodo dalla fine del IV secolo a.C. alla metà circa del VI secolo d.C. Bisogna infatti considerare che l’ultima fase della cultura romana è permeata di ellenismo, e che nemmeno il Cristianesimo può essere considerato apportatore di elementi nuovi tali da non aver più nulla a che fare con l’Ellenismo, come dimostrano la predicazione di S. Paolo e le prime grandi sintesi cristiane dello Pseudo Dionigi, di Clemente Alessandrino, di Origene e di S. Agostino.
Uno degli aspetti più individuanti dell’Ellenismo è quello che riguarda i suoi rapporti con la polis: la cultura classica greca differisce infatti dall’Ellenismo in quanto è incentrata nella polis, fenomeno non solo politico sociale ma anche etico, spirituale e perfino religioso, tipicamente greco e mediterraneo. La polis rappresenta quel felice connubio fra stato (tutto) e singoli cittadini (parti) che risponde a quel concetto di sana democrazia a cui guardano sia Platone che Aristotele nei loro differenti progetti di “sane” costituzioni. Si tratta di una concezione in cui individuo e stato non sono considerati fini a se stessi, ma l’uno in funzione dell’altro. La polis per l’individuo rappresenta la vita stessa, la somma di tutti quei valori in cui egli si riconosce e crede (gli dei non sono qualcosa di universale o privato, ma sono gli dei della polis).
Con la conquista macedone le poleis non scompaiono, ma perdono tutto il carattere e l’importanza che avevano in precedenza; viene meno anche quella rivalità fra le poleis che ne aveva caratterizzato i rapporti per molto tempo.
Viene a cadere anche la distinzione fra Greci e “barbari”: termine che in passato indicava non solo le popolazioni di stirpe non greca, ma anche le differenze fra alcune poleis (Pericle stentava a riconoscere come Greci quelli che non erano dell’Attica).
Al posto delle grandi personalità che le poleis avevano saputo esprimere e in cui i cittadini avevano saputo riconoscersi, la personalità di Alessandro si impone con un carattere che le poleis avevano sempre combattuto, quello della regalità di una monarchia universale di tipo orientaleggiante. Alessandro, nonostante abbia favorito la diffusione della cultura greca in tutte le aree da lui dominate, fu sempre considerato dai Greci come un “barbaro”; solo Plutarco nelle Vite parallele ne rivalutò la figura.
La vera diffusione dell’Ellenismo si ebbe solo dopo la morte di Alessandro (323), a partire dall’epoca delle lotte di successione fra i diadochi (successori), i generali che si contendono il dominio dell’impero. Dopo numerose lotte si giunge nel 272 alla stabilizzazione in quattro regni: Macedonia, che comprende la Grecia continentale; Egitto, sotto Lagidi o Tolomei, con capitale Alessandria; quello dei Seleucidi, che comprende la Siria, la Mesopotamia, le provincie orientali e parte dell’Asia Minore, e che ha per capitale Antiochia; quello degli Attalidi, comprendente la parte interna dell’Asia Minore, con capitale Pergamo.
Le città della Grecia furono ben presto assoggettate al dominio di alcuni tiranni di comodo, ossia a governi pseudodemocratici che in realtà erano autocratici (il termine tirannia non ha comunque quel significato negativo che noi oggi gli attribuiamo). Le poleis perdono così la loro libertà ma non scompaiono, anzi vengono usate dai sovrani come intermediarie fra il potere centrale e l’amministrazione periferica (come provincie), tanto che verranno addirittura moltiplicate. La sovranità si mostrerà paterna e benefattrice nei loro confronti, come attestano le titolazioni di cui si fregiano questi sovrani (Soter=Salvatore; Eugene=Benefattore; Nikator=Vincitore).
All’accentramento politico corrisponde, come già abbiamo visto, l’istituzionalizzazione regale della cultura, che porta ad un asservimento di questa ai fini politici. Ciò non vuol dire che la cultura ellenistica sia di scarso valore, ché anzi raggiunse buoni risultati in tutti i settori. Possiamo dire di essere di fronte alla nascita di una nuova grecità, il cui carattere dominante è il sincretismo. Questo fenomeno è evidente nell’assimilazione di divinità greche a divinità di altri paesi, nell’importazione di divinità locali in territorio greco. Anche le grandi celebrazioni panelleniche, come le Olimpiadi, vengono non solo mantenute, ma anche diffuse per aumentare la coesione di aree culturali diverse. Un contributo analogo diedero anche i commerci: questi erano favoriti dalla presenza di numerose banche e dall’abbondante monetazione dei sovrani, spesso in gara fra loro; da quando poi la terra, tutta nelle mani dei sovrani, non rappresentava più una fonte di ricchezza, il commercio era diventato la principale fonte di arricchimento, contribuendo a creare una nuova élite sociale, che rispetto alla precedente ha un carattere internazionale. Gli stessi sovrani favoriscono la koinè giuridica greca fra le varie nazioni.
Nonostante tutto ciò alcuni problemi sociali si acuiscono, mentre diventa sempre più forte il contrasto fra città e campagna e fra ricchi e poveri all’interno della città. Permane il grosso problema della schiavitù, nonostante le sempre più frequenti rivolte; all’equiparazione fra Greci e barbari non segue quella fra uomini liberi e schiavi (differenza che Aristotele nella Politica aveva motivato come differenza naturale, e che poteva essere spiegata con le necessità imposte dall’arretrata tecnologia del lavoro). D’altra parte alcune scuole filosofiche, come quella dei cinici, proclamano che tutti gli uomini sono per natura uguali e liberi. Quando l’impero romano conquisterà i regni ellenistici, di questi erediterà anche i problemi.
Con la fine della polis passiamo da un individualismo politico ad un individualismo privato, generato dal nuovo universalismo. E’ l’ideale del “vivi nascosto” epicureo o stoico, mentre l’assuefazione alla tirannide, l’adulazione e il servilismo diventeranno tratti comuni anche a molti uomini di cultura. Prevale la rinuncia all’azione, l’atarassia, la rassegnazione, l’introversione, il ritorno al passato. Vi sono anche alcuni elementi positivi, come il recupero dell’indagine interiore (il “conosci te stesso” socratico) e l’intensificazione della vita spirituale intesa come azione interna anziché esterna. Bisogna inoltre precisare che l’atarassia predicata da stoici ed epicurei non significa lassismo o rinuncia abulica, ma è l’atarassia del saggio, sinonimo di una faticosa conquista spirituale. Se Solone poneva il suo ideale umano nell’azione politica, l’Ellenismo valorizza la rinuncia ad essa.
Dal punto di vista filosofico l’Ellenismo è un periodo molto ricco, non solo per le grandi costruzioni sistematiche (Plotino, Epicuro) ma anche perché l’interesse per la filosofia è condiviso dalla maggior parte degli uomini d’ingegno, che in questa attività trovano il loro appagamento intellettuale e spirituale.
All’inizio questa filosofia è mossa da istanze pratiche più che teoretiche: il problema è trovare un “modus vivendi” che permetta di giungere alla pace interiore, condizione prima di ogni felicità. Il carattere settario di molte scuole di quest’epoca si spiega con il fatto che le conoscenze da queste offerte per risolvere i problemi dell’uomo assomigliano a nuovi culti religiosi: tutte poi presentano un carattere di sistematicità e dogmatismo nelle dottrine che è legato al timore che la discussione possa mostrare i limiti delle verità di cui invece questa età è alla ricerca, verità assolute. Nascono così i sistemi ateo e antimetafisico degli Scettici, materialistico degli Epicurei e degli Stoici, spiritualistico in senso religioso dei Neoplatonici. Il metodo privilegiato è quello deduttivo (Plotino).
La critica degli Scettici alla metafisica ne favorisce l’eclisse, che lascia poi spazio alla fisica messa al servizio di una determinata concezione etica o etico-religiosa del mondo. A favorire questa eclisse sono anche l’ampliarsi degli studi più propriamente scientifici e l’affermarsi degli studi di filologia. Gli interessi metafisici ricompariranno esplicitamente nell’ultima fase della filosofia ellenistica in concomitanza con gli interessi religiosi che contribuiranno a fare della filosofia una specie di teologia.
La scuola che più di altre incarna l’ideale di quest’epoca è quella stoica, che mira a fare del saggio l’ideale e il prototipo di tutta l’umanità. Si tratta, in senso filosofico, di quel cosmopolitismo che corrisponde, in senso politico, all’opera di dilatazione del mondo dovuta alla conquista di Alessandro.
Un’altra esigenza tipicamente ellenistica incarnata dallo stoicismo è quella di trovare una nuova fede, di credere in un solo dio che si sostituisca alle tante divinità tradizionali; l’unità divina per gli Stoici è un’unità impersonale immanente, il logos, presente in tutta la natura (di questo aveva già parlato Eraclito, ma dagli Stoici inteso in una rigorosa concezione panteistica). Ciò comporta l’idea di una più intima unione fra l’umano e il divino: concetto cui aderirà anche il Cristianesimo. Riflesso etico di questa concezione è che il saggio può conseguire lo scopo supremo, che è quello della condotta della vita, solo immedesimandosi con la divinità, identica alla ragione universale. Questa, presente in tutte le cose, gli è di guida per dargli modo di raggiungere attraverso l’estirpazione delle passioni la quiete e la felicità interiore: l’atarassia.
Mentre gli epicurei propendono per l’apoliticità, gli stoici ammettono anche, per il saggio, la possibilità di partecipare alla vita politica: Epicuro contrappone alla società senza confini una società più ristretta, quella degli amici, dove l’amicizia, intesa come consonanza spirituale, diventa il nuovo modus vivendi, la nuova religione, in cui l’uomo venera l’altro uomo.
Se nell’ultima fase dell’Ellenismo assistiamo ad un recupero della filosofia platonica e di quella pitagorica, questo è perché esse meglio rispondono alle esigenze religiose maturate in quella fase del pensiero ellenico; bisogna però osservare che esse, per essere dotata di quella sistematicità che Platone aveva sempre rifiutato come metodo filosofico, vengono stravolte, tanto che Pitagora diventa una sorta di santone e mistico, mentre Platone viene svisato dall’utilizzazione che ne fa Plotino. In quest’ultima fase il concetto di infinito da negativo diventa positivo: nasce così quella teologia negativa che influenzerà i primi pensatori cristiani (Pseudo Dionigi, Origene).
Più aderente al platonismo autentico è la concezione di Filone l’Ebreo, in cui si attua quella concezione di simbiosi fra platonismo e Bibbia che anticipa gli esiti cristiani di S. Agostino, attraverso una concezione personale (e non impersonale, come quella degli stoici) del divino.
Bisogna poi ricordare le versioni romane dell’epicureismo e dello stoicismo, che ebbero successo proprio perché si occuparono di problemi pratici, etici e del mondo umano. Oltre a questo interesse pratico vi era nei pensatori romani anche un interesse per il problema religioso, come dimostra la protezione accordata dall’imperatore Gallieno a Plotino, con l’incentivo a fondare una scuola-città intitolata a Platone (Platonopoli).
Periodi in cui viene diviso l’Ellenismo
1) Dall’inizio della preponderanza macedone alla morte di Alessandro (359-323 a.C.).
E’ il periodo definito pre-ellenistico, caratterizzato dall’ultima strenua difesa delle poleis contro l’invasore macedone. Di questa lotta è campione in Atene Demostene, avversario del filomacedone Eschine. In questo periodo si afferma la filosofia di Aristotele e quella della scuola peripatetica (Aristotele era stato anche il precettore di Alessandro). Nel frattempo Senocrate succede a Speusippo nella direzione dell’Accademia platonica (339). Nel campo delle lettere si afferma l’indirizzo filologico; nell’oratoria, oltre Isocrate e Demostene, s’impongono Eschine e Iperide. E’ il periodo in cui nasce l’universalismo ellenistico, in cui la scienza tende ad autonomizzarsi nei confronti della filosofia. Gli animi tendono a fuggire la vita politica per rifugiarsi nel passato.
2) Dalla morte di Alessandro alla caduta della Grecia sotto l’Impero romano (323-146 a.C.).
Dopo le guerre di successione dei Diadochi, la Grecia diventa una provincia romana e assume il nome di Acaia. Si tratta dell’Ellenismo propriamente detto, nella sua fase orientalizzante. Atene non è più il principale centro della cultura, sostituita in questo da città come Alessandria, Pergamo e Antiochia (fenomeno che prende anche il nome di alessandrinismo e il cui principale rappresentante in campo letterario è Callimaco). Sorge l’erudizione libresca e la critica filologica iniziata da Callimaco; l’eloquenza si fa pesante, accademica; sorge la poesia bucolica (Teocrito) e si afferma la commedia con Menandro. Aumenta l’assenteismo politico e prevalgono gli interessi etici nelle grandi scuole materialistiche degli stoici e degli epicurei (Epicuro nel 306 fonda la sua scuola, “Il Giardino”, in cui insegna sino alla morte, nel 270). Si assiste all’affermarsi dello scetticismo con Pirrone, Arcesilao e Carneade. Prosegue il Peripato. Si affermano le scienze esatte e le discipline storiche (con Polibio).
3) Dall’affermarsi dell’Impero romano a quello del Cristianesimo (146 a.C. – 270 d.C.).
E’ l’ellenismo alessandrino-romano, che si può datare sino alla morte di Plotino (270 d.C.). L’asse della cultura continua ad essere Alessandria, ma tende a spostarsi verso Roma. Politicamente prevale l’inattivismo nelle città greche cadute sotto il dominio di Roma, mentre si diffonde il municipalismo (prevalere di interessi locali che stimolano un nuovo provincialismo anche nel campo della cultura). Nella cultura si afferma sempre di più il sincretismo, ossia la fusione di disparati elementi: greci, romani, orientali, cristiani, sia nella letteratura che nell’arte e nella filosofia. Quest’ultima penetra decisamente in Roma all’epoca degli Scipioni, e vi si diffonde con tendenza pragmatico-eclettica rappresentata soprattutto da Cicerone (106-43). vi penetrano tuttavia anche l’Epicureismo con Tito Lucrezio Caro e soprattutto lo Stoicismo che entra così nel suo ultimo periodo: Stoicismo romano (con Epitteto, Seneca e Marco Aurelio, I-II sec. d.C.). Roma divenne meta di molti filosofi greci come Panezio di Rodi, Plutarco di Cheronea e Plotino che vi insegnò e che riuscì, col favore dell’imperatore Gallieno, ad aprire una scuola in Campania (III sec. d.C.). Nel campo delle lettere prevale una tendenza realistica e nasce un nuovo genere: il romanzo, rappresentato soprattutto da Luciano di Samosata (Storia vera, Lucio o l’asino) e che trovò subito imitatori anche a Roma (Apuleio, Petronio). Dopo una parentesi scettica (che trova nei dialoghi dello stesso Luciano la sua più pungente espressione) risorge il fervore e l’interesse religioso che anima le due ultime scuole filosofiche della grecità : il Neopitagorismo e il Neoplatonismo e segna anche l’inizio della filosofia cristiana (Origene, Clemente Alessandrino) e di quella giudaica (Filone).
4) Dalla morte di Plotino alla chiusura della Scuola di Atene (270-527 d.C.).
L’ultimo periodo dell’Ellenismo (post-ellenismo), vede la continuazione del Neoplatonismo ad opera dei discepoli di Plotino: Porfirio, Giamblico, Proclo. Con Giamblico il Neoplatonismo si rifà orientale impregnandosi di elementi misticheggianti; con Proclo, che ne segna l’ultima ripresa (agli inizi del V sec. d.C.), la scuola si trasferisce di nuovo da Alessandria ad Atene. Qui sopravviene (nel 527) il decreto di chiusura ad opera dell’imperatore Giustiniano. E’ la fine della grecità pagana: dopo il breve tentativo di restaurazione del paganesimo (361-363) compiuto da Giuliano l’Apostata, il cristianesimo, ovunque trionfante, procede alla distruzione dei templi, riti, ecc. In questo modo finisce anche la filosofia veramente greca: Boezio, un cristiano di cultura ellenica vissuto alla corte del barbaro Teodorico, non ne è che un tardo epigono (+525). Eppure con Clemente Alessandrino (II sec.), filosofo greco-cristiano di tendenza ortodossa, la filosofia greca era tornata a rivivere proprio in Alessandria, nella scuola da lui risuscitata con tendenze appunto greco-cristiane (gnosi cristiana in opposizione alla gnosi orientaleggiante) quasi a sottolineare un rapporto di continuità.
Fonti della cultura filosofica Ellenistica
Sincretismo è il termine più adatto per indicare il processo di rielaborazione e di assimilazione degli elementi ricevuti dalla tradizione precedente: termine che non va confuso con quello di eclettismo (che può essere adatto ad indicare solo una particolare tendenza della filosofia ellenistico-romana che fa capo a Cicerone), ossia semplice accostamento di influenze, prive di una vera rielaborazione teoretica in senso unitario.
Le suggestioni orientali si manifestano soprattutto sotto la forma di tendenza religiosa ispirata al misticismo razionalizzato dell’ultima filosofia ellenistica, in particolare quella di Plotino, mentre il senso della continuità col passato che alimenta il senso storico dell’Ellenismo fa sì che nulla della speculazione precedente (nata in Grecia dal riscattarsi e dall’autonomizzarsi del pensiero filosofico dalla tradizione religiosa ellenica) vada perduto.
Le due tradizioni filosofiche che esercitano maggiore influenza nell’Ellenismo sono quelle costituite dalla concezione platonico-socratica, continuata dall’Accademia, e dalla concezione aristotelica continuata e diffusa dal Peripato. Più che di recupero è bene forse parlare di continuità.
Non mancano tuttavia influssi del pensiero presocratico, in particolare in Epicureismo, Stoicismo e Neopitagorismo. Dagli Ionici (Talete, Anassimandro, Anassimene) gli Stoici sembrano trarre ispirazione per quella indistinta promiscuità di materia e di spirito (detta “ilozoismo) che contrassegna la loro concezione del reale, mentre la suggestione di Eraclito è presente nella stessa concezione di un Logos divino, onnipervadente e governante il tutto. Suggestioni eleatiche sono presenti nella concezione del mondo come un tutto unico e compatto (monismo), indivisibile da dio (panteismo), eterno e immutabile nella sua complessità soggetta soltanto a un divenire ciclico (concezione che sembra sposare la concezione filosofica di Parmenide a quella di Eraclito).
Il Pitagorismo è presente non solo nel Neo-pitagorismo, ma anche in certe correnti derivate dal Platonismo (in particolare per una certa spiritualità, ovvero distinzione dell’anima dal corpo: concetto al quale appare contribuire anche la dottrina della metempsicosi presente in Empedocle e quella del Nous di Anassagora).
Come il monismo da un lato (Stoici), anche il pluralismo fa sentire la sua suggestione: non tanto nella forma elaborata da Anassagora (dottrina delle omeomerie) quanto in quella elaborata da Democrito, ossia dell’atomismo che costituisce la base della concezione materialistica di Epicuro e degli Epicurei. La concezione di Democrito è la prima ad abbandonare del tutto quella visione complessivamente razionale del mondo, della sua origine e del suo governo (che si traduce nel concetto di provvidenzialità degli Stoici), quale sembra esprimere, nel suo complesso, la grecità. Nessuna legge razionale presiede infatti, secondo Democrito, all’incontrarsi cieco degli atomi che danno origine alle cose, ma soltanto il caso e la necessità, che di quello è la conseguenza, in ordine a una concezione prevalentemente meccanicistica della realtà fisica. Si tratta di un concetto che in parte sembra corrispondere al concetto del Fato e della Tyche ricorrente nell’Ellenismo, soprattutto a proposito degli eventi umani (Polibio). Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, l’etica democritea è invece pervasa di un forte senso di autonomia e di spiritualità che la apparenta alla contemporanea etica socratica (“Felicità e infelicità non stanno nei greggi o nell’oro: l’anima è sede del demone). Si tratta di un’etica razionalistica che anziché in continuità con la natura (irrazionale) si pone, a differenza degli Stoici, in contrasto con essa. Pare di assistere a quella contrapposizione fra natura e cultura che è teorizzata da alcuni dei più noti sofisti (Prodico, Ippia, Antifonte).
E’ proprio dei Sofisti, come di Democrito, anche il concetto di universalità dell’uomo che sembra rompere decisamente con la preclusione della polis. A parte le degenerazioni della sofistica il senso dell’opposizione, in loro, fra natura e cultura (fusis-nomos) acquista un significato nettamente umanistico (tanto da far risalire all’uomo non solo l’origine del linguaggio e delle istituzioni civili, ma perfino degli dei): questo concetto rompe con la sacralità della polis e delle sue istituzioni fornendo una giustificazione anticipata dell’evemerismo (divinizzazione degli eroi assunti al rango di dei) e della consacrazione ellenistica della regalità.
Alla morale socratica l’Ellenismo è debitore del concetto di interiorità (approfondimento del precetto delfico del “conosci te stesso”) a cui si ispirano, nella loro morale, sia Stoici che Epicurei (questi ultimi nel senso apertamente apolitico del “vivi nascosto”). Sempre da Socrate deriva il concetto di eudaimonia, ossia della felicità che è necessaria compagna della virtù, e che come tale si riflette nell’adeguato concetto del piacere presso Epicuro. Anche l’intellettualismo socratico (che è in realtà un razionalismo) secondo il quale la virtù consiste nel sapere, non mancherà di riflettersi sull’etica stoica. Infine il suo individualismo, condizione indispensabile per l’affermarsi della vita etica permane alla base della concezione di vita di Stoici ed Epicurei.
Il platonismo autentico non ebbe invece, almeno per quanto riguarda la metafisica, nell’Ellenismo il successo che il titolo di Neoplatonica, di cui si fregia parte della filosofia di quel periodo, potrebbe lasciar supporre. Della dottrina delle idee restano tracce solo in Filone, in Epicuro e nel Neoplatonismo. Il fatto è che il platonismo autentico non corrisponde in pieno allo spirito del periodo ellenistico: né per quanto riguarda il concetto della filosofia come ricerca (eros) e come dialettica, in un modo del tutto avverso al sistema, né per quanto riguarda il significato della trascendenza, essendo le principali filosofie ellenistiche (Stoicismo, Epicureismo) orientate verso l’immanenza e presentando l’ultima filosofia ellenistica, ossia il Neoplatonismo, un concetto della trascendenza assolutamente ambiguo e in tutto anti-platonico (panteismo emanazionistico).
Nonostante questo la filosofia ellenistica trae diversi spunti dal pensiero platonico, spunti in genere devianti, a partire dal problema dell’uno e dei molti, riguardante tutte le relazioni fra idee e i rapporti fra queste e il sensibile, per la soluzione del problema della realtà. E’ dalle nove ipotesi del “Parmenide” platonico che Neopitagorici e Neoplatonici prendono le mosse per elaborare una teologia delle ipostasi divine e della realtà tutta come proveniente per emanazione dall’Uno-Uno superessenziale, corrispondente alla prima ipotesi del “Parmenide” e da Plotino identificato col Bene (in senso platonico) cioè Dio. Anche le configurazioni platoniche del kosmos noetòs (mondo ideale), dell’anima divina del mondo, del demiurgo, della materia, dell’eros, trovano posto in Plotino, ma assunte in un contesto, quello emanazionistico, che non ha nulla a che fare con Platone. Negli ambienti mistici ebbero poi particolare successo i miti platonici dell’anima, la metempsicosi, il demiurgo, ecc. Possiamo dire che più che Platone ha influito sull’Ellenismo un certo platonismo di scuola, di tendenza matematizzante (come quello di Speusippo e Senocrate, successori di Platone alla guida dell’Accademia dopo la sua morte) o dualistica (come quello rispecchiato da talune opere giovanili di Aristotele).
Per quanto riguarda l’influsso di Aristotele sull’Ellenismo, bisogna prendere in considerazione la tesi del Bignone, che sostiene che per gran parte dell’Ellenismo si sarebbe conosciuto solo l’Aristotele delle opere essoteriche, quello cioè dualistico, platonizzante e mistico, mentre l’Aristotele che noi conosciamo sarebbe stato scoperto solo dopo l’anno 86 d.C. Questa tesi è stata però criticata per diversi motivi: è difficile credere che la maggior parte delle opere didattiche di Aristotele fosse conosciuta solo a partire dall’epoca di Silla, mentre prima sarebbe stata totalmente sconosciuta o trascurata; è difficile credere che il Peripato non abbia lasciato filtrare idee nell’ambiente circostante; dottrine e concetti aristotelici traspaiono continuamente, sia in filosofi del primo Ellenismo che in pensatori dell’ultima fase (Neoplatonici).
L’Ellenismo ha ereditato dall’aristotelismo lo spirito sistematico e la concezione dell’essere come totalità organica (concetto dinamico con cui Aristotele intende un insieme in cui le parti hanno senso solo in rapporto al tutto e viceversa, e che esprime una tensione intrinseca al concetto di finalità esteso a tutta la natura) e come natura interamente finalizzata, concetto quest’ultimo cui si ispirano, secondo una versione rispettivamente immanentistica e trascendentistica, sia Stoici che Neoplatonici. Nelle trattazioni di Stoici ed Epicurei compaiono anche elementi dell’etica aristotelica (autosufficienza del saggio, attività contemplativa) e della politica (la costituzione mista).
Oltre la versione dell’Aristotele essoterico ed esoterico, si diffonde in epoca ellenistica anche quella di un Aristotele scettico, motivata da una presunta appartenenza del filosofo all’indirizzo scettico dell’Accademia platonica, quale si concretò nella Seconda Accademia di Arcesilao e Carneade. Questo indirizzo scettico trova scarso riscontro nell’Accademia originaria (fatta eccezione per una certa svalutazione della conoscenza sensibile e del mondo), mentre trova più legittima ascendenza nel relativismo sofistico, nonché nelle scuole megarica e cinica, due delle cosiddette “scuole socratiche”. Di queste scuole del IV sec. a.C., che di socratico non hanno quasi nulla, occorre parlare, data la loro importanza nel determinare gli indirizzi scettico, stoico ed epicureo.
La corrente megarica, fondata da Euclide di Megara (da non confondere con il matematico), sviluppa in senso metafisico la scoperta socratica del concetto, assimilandola all’essere eleatico e alle sue caratteristiche di immutabilità ed eternità. Dall’assimilazione dell’essere alla Verità e al Bene discende una concezione immobilistica di entrambi, anche per quanto riguarda la vita conoscitiva ed etica dell’uomo. Risulta così praticamente negata la possibilità di una morale attivistica, così come di una conoscenza di tipo discorsivo (fondata cioè sul collegamento dei concetti), con ampie influenze in particolar modo sullo Scetticismo. Unica virtù sembra essere per loro l’impassibilità o indifferenza, sola in grado di realizzare l’autonomia del saggio.
La corrente cinica, fondata a Cinosarge da Antistene, che Platone definì l’antifilosofo per il suo ostentato disprezzo per la cultura, è una scuola a sfondo antiedonistico e autarchico, basata su un concetto pragmatico di virtù, consistente nel realizzare l’autodominio in vista dell’assoluta autosufficienza del saggio (autarchia). L’autarchia, il disprezzo dei beni esteriori e la rinuncia alla vita politica fanno dei Cinici i precursori dell’ideale di vita stoico ed epicureo: famoso è l’episodio di Diogene che vive in una botte e tratta con grande disprezzo Alessandro, espressione di una vita basata sulla rinuncia a tutto ciò che è superfluo (compresa la cultura) e sul rifiuto di ogni autorità. L’unica legge del cinico è la natura, cui si deve obbedienza a prescindere da ogni imposizione di carattere civile e religioso. Questa corrente è l’espressione del più radicale individualismo, alieno da ogni compromesso col mondo, la religione, la società; è la manifestazione di un radicalismo ingenuo e anarchico che confluirà nello Stoicismo, per riproporsi poi alla fine dell’Ellenismo, in concomitanza con certi motivi del nascente Cristianesimo.
La corrente edonistica o cirenaica si sviluppò dalla scuola di Aristippo di Cirene, che si rifà sempre al socratismo, converte il concetto di felicità (eudaimonia) socratico, consistente essenzialmente nella pratica razionale della virtù, nel principio del perseguimento del piacere (nella sua più vasta accezione), trasformando così l’eudamonismo socratico in puro edonismo. L’unica condizione richiesta per il conseguimento di questo piacere è che si tratti non di un piacere statico ma in movimento, e inoltre che si sia sempre in grado di possederlo, non di esserne posseduti. Questa corrente influenza soprattutto Epicuro, il quale però vi reagirà imponendo un calcolo dei piaceri commisurato ai bisogni e preferendo quelli (spirituali) che non inducano turbamento nell’anima. Epicuro sostiene quindi un concetto di piacere in riposo anziché in movimento. Per Egesia, un discepolo di Aristippo, il piacere è sempre accompagnato da dolore, per cui la felicità è irraggiungibile: così lo scopo della vita è quello di scansare i piaceri cercando l’indifferenza, la rinuncia e l’apatia.
Altrettanto importanti per comprendere la filosofia ellenistica sono, malgrado le cospicue deviazioni dalle dottrine dei rispettivi maestri, le correnti platoniche e aristoteliche che si sviluppano dall’Accademia e dal Liceo.
Abbiamo visto che l’Accademia, dopo la morte di Platone, fu diretta prima da Speusippo e poi da Senocrate, che le impressero un indirizzo pitagorico-matematizzante estraneo al pensiero del platonismo originario (Platone ha sempre respinto l’idea di una metafisica quantitativistica, rimanendo essa per lui incentrata in una concezione qualitativa della realtà, espressa dalle idee-valori). Speusippo e Senocrate interpretano la dottrina del Filebo platonico (circa il limite, l’illimitato, la causa, il misto) in termini matematici: facendo cioè dell’Uno e della Diade (limite e illimitato platonico) l’unica spiegazione della realtà. In Speusippo le idee scompaiono del tutto, mentre in Senocrate sussistono ancora, anche se come derivate. Questa manipolazione della dottrina platonica costituisce l’aggancio per Neopitagorici e Neoplatonici, in particolare per Plotino, che farà dell’Uno superessenziale (uperanon) il principio e il fine della sua concezione emanazionistica, ossia della sua interpretazione mistico-razionalistica della realtà. E così dall’Accademia, oltre ad un indirizzo scettico, proviene un indirizzo mistico.
L’indirizzo del Peripato (la cui sede Stratone di Lampsaco trasferì ad Alessandria) fu quello di volgersi sempre più all’indagine empirica e alla sistemazione dei dati delle singole scienze ordinate per specie, abbandonando ogni presupposto metafisico. La scienza perde così il carattere dimostrativo e abbandona il finalismo che Aristotele ha presupposto e che ha orientato la sua spiegazione dei fatti. Questo indirizzo venne inaugurato da Teofrasto, il primo successore di Aristotele alla direzione della scuola. In logica egli seguì una tendenza empirico-formale, abbandonando ogni presupposto di corrispondenza fra le leggi del pensiero e quelle della realtà, contribuendo così allo sviluppo del sillogismo ipotetico elaborato dagli Stoici. Altri membri del Peripato furono Eudemo di Rodi (autore di una Storia dell’astronomia e della geometria), Aristosseno (autore di una Storia della musica e di biografie dei filosofi) e Dicearco. Quest’ultimo scrisse tre importanti opere: una Vita dei filosofi in cui esalta l’ideale di vita pratico, contrapponendolo a quello teoretico che Aristotele aveva considerato come assolutamente superiore all’altro, e dove cerca di dimostrare che i primi filosofi non furono dei contemplativi; una Storia della Grecia in cui cerca di combattere l’idea del fato o della volontà divina, mostrando che gli uomini sono responsabili del loro destino, essendo la loro decadenza dovuta al cattivo uso della ragione; il Tripolitico, in cui ribadisce la superiorità della vita attiva su quella contemplativa e la responsabilità dell’uomo nella costruzione del proprio destino, e in cui prospetta l’ideale di una costituzione (che fu detta “dicearchica” e che fu tenuta presente da Cicerone) che sia il frutto del contemperamento delle tre forme politiche “rette” (aristocrazia, democrazia e monarchia), ritenute tali sia da Platone che da Aristotele.
La concezione di Stratone di Lampsaco è vicina a quella di Epicuro quando parla di una Fisica rigorosamente meccanicistica e quando rifiuta ogni interpretazione trascendentale delle cause.
Il periodo del quale ci stiamo occupando è caratterizzato dal declino della teoria nei confronti della prassi, dal declino della metafisica tradizionale e del corrispettivo ideale contemplativo. Questa eclissi coincide con l’età alessandrina, ma si tratta di una scomparsa momentanea: impulso teoretico e metafisica risorgeranno sotto la spinta di fattori religiosi e mistici che caratterizzeranno l’ultimo Ellenismo giungendo, con Plotino e Proclo, a porre come supremo traguardo della vita dell’uomo la contemplazione e l’estasi.
Influssi del fattore religioso sull’Ellenismo
Tutto l’Ellenismo è animato da un profondo bisogno di rinnovamento religioso, in quanto la religione ufficiale legata alla “polis” non soddisfa più. Da tempo del resto si era sviluppata accanto ad essa un altro tipo di religione, filosofica, che adombra nella divinità il proprio principio di spiegazione causale della realtà.
A volte questo concetto filosofico del divino assume un aspetto del tutto interiore (basti pensare al daimon socratico); in altre occasioni incarna il concetto della legge civile o di quella che domina l’universo (il dio-giustizia di Solone o il dio-logos di Eraclito); altre volte ancora esso perviene ad esprimersi nel concetto di un valore supremo al di sopra di tutti i valori (il dio-bene di Platone o il puro intelletto di Aristotele, nous).
Tra religione ufficiale e filosofica vi sono spesso degli scontri: Senofane fu accusato di empietà per aver affermato che il sole è una palla infuocata; Socrate fu accusato di non rispettare gli Dei ufficiali della “polis” per avere adorato un “daimon”, una specie di divinità personale, interiore. Nonostante l’apparente vittoria della religione ufficiale, cui va un ossequio esteriore, vincitrice è la nuova religione filosofica, che assume sempre più l’aspetto di una religione individuale.
Fondamentale per comprendere l’affermarsi di questa religione personale fu l’ellenizzazione del mondo orientale operata da Alessandro Magno. Nel 324 Alessandro, come coronamento della sua impresa, ottiene dalle città della Grecia onori divini e Demostene concede che egli venga considerato figlio di Zeus o di Poseidone, proprio perché ormai il fatto religioso ufficiale non ha più grande importanza.
Lo scetticismo che si va diffondendo porta ad un personale distacco dai culti ufficiali più che ad un tramonto del senso della religiosità in generale. Si diffondono così nuove credenze di origine orientale alle quali si partecipa non perché si è cittadini di una polis, ma perché ognuno si sente di scegliere gli dei che più si addicono alla sua personalità. Questo fiorire di nuove credenze orientali favorisce lo sviluppo di una religione universale, in cui il concetto di divino si allarga sino ad includere divinità esotiche che nulla hanno a che fare con il culto tradizionale. Il panteon sanzionerà a Roma l’accoglimento di questo universalismo, così come l’altare ateniese al “dio ignoto”.
Del resto la religione olimpica (di tipo civico, modellata sullo schema di una società aristocratica e che incarna una certa forma di razionalità) non era l’unica religione diffusa in Grecia: accanto ad essa si era diffusa in Grecia sin da tempi antichissimi un tipo di religiosità rurale, misterica e ispirata alle vicende della natura, espressione delle forze oscure e passionali dell’uomo.
Diversi studiosi hanno messo in luce la duplice componente razionale-irrazionale della spiritualità greca (che Nietzsche chiamerà apollineo-dionisiaco). Dioniso (dio dell’ebbrezza e del vino) esprime la religiosità dei campi che si contrappone a quella cittadina di Apollo (dio della musica): alla fine il culto di Dioniso (che comportava manifestazioni orgiastiche) venne accettato anche nella polis. Il culto di Dioniso si intensifica in epoca ellenistica, insieme a quello di altre divinità soccorrevoli, come Asclepio. Il concetto di un dio salvatore, maturato nella religione iranica (Zaratustra), si diffonde sempre più in quest’epoca. E’ così che la divinità scende dall’Olimpo e si avvicina agli uomini, di cui può intendere anche le preghiere.
La nuova spiritualità si esprime attraverso la religiosità misterica, come nel caso dei misteri eleusini. Il culto misterico più diffuso è però quello orfico, che in quest’epoca raggiunge il massimo della diffusione e della popolarità. Riproducendo sotto la forma dell’eroe Orfeo il mito di Dioniso dilaniato dai Titani per poi risorgere sotto nuovo nome, esso proponeva il concetto di una salvazione e di una resurrezione spirituale ottenuta non solo con atti rituali, come nei misteri eleusini, ma attraverso la comunicazione di una dottrina riguardante l’anima e la sua sopravvivenza nell’aldilà. L’orfismo, adottato da Pitagora e Platone, fa uso solo di elementi spirituali, nonostante vi sia un rito di iniziazione simile a quello dei misteri eleusini. L’istanza che anima l’Ellenismo è il desiderio di fuggire l’impurità e la speranza di un’altra vita, oltre alla voglia di essere partecipi della comunità nuova, quella degli iniziati. Si tratta di una fuga dal mondo terreno operata nell’al di qua.
Accanto al concetto di anima individuale si diffonde anche quello di anima universale, tramite fra il mondo e Dio (si tratta di un’antica idea di origine orientale, che troviamo anche nei Pitagorici e in Platone; quest’ultimo nel Timeo pone, attraverso il Demiurgo, l’anima al centro del mondo come principio senza fine del movimento e dell’animazione universale e come intermediaria fra Dio e il mondo, mondo che viene inteso come un organismo vivente). Aristotele abbandona questa teoria e spiega il movimento con la finalità relativa al Primo Motore (Dio) verso cui le cose tendono come al supremo Bene o Fine, ma una concezione animistica dell’universo traspare da altre parti del suo sistema, come a proposito dell’animazione degli astri e delle sfere celesti. L’anima del mondo ritorna poi con gli Stoici, che la identificano col pneuma o fuoco divino insito nella natura.
Plotino riprende questo concetto facendo dell’anima cosmica, considerata un’ipostasi divina, l’intermediaria fra mondo intelligibile e mondo sensibile, assorbendo in essa anche la figurazione platonica del demiurgo. In Plotino questa concezione sottende un panteismo o panpsichismo (che non va confuso con l’animismo, che significa materia con un’anima simile a quella dell’uomo, o con l’ilozoismo, che considera la materia come semplicemente animata).
Mentre la religione olimpica si avviava ad essere demolita del tutto (soprattutto ad opera di Epicuro), con l’affermarsi di nuove forme di religione greco-orientali si assiste ad un interessante fenomeno sociale: il formarsi cioè di particolari comunità di individui che si propongono il reciproco perfezionamento spirituale attraverso pratiche ascetiche ed una vita in comune. Alcune di queste comunità furono vere e proprie sette e derivarono dai pitagorici o, come gli Esseni, dall’ebraismo.
Alcuni attribuiscono l’origine di queste comunità ascetiche o “terapeutiche” al Buddismo e all’India. India e Iran hanno sviluppato sistemi filosofico-religiosi in epoca molto anteriore al sorgere della speculazione greca, dando luogo ad esposizioni dottrinali che accompagnano o precedono la speculazione greca; i primi contatti possono essere fatti risalire a Pitagora, i cui viaggi, così si dice, lo avrebbero portato a conoscere la dottrina della trasmigrazione delle anime. Aristotele parla di Zoroastro come di un precursore di Platone. Con Alessandro i contatti della Grecia con l’India e l’Iran si fanno più intensi e di conseguenza più forti sono gli influssi di queste filosofie sul pensiero greco.
La più antica religione indiana è quella dei Veda: di stampo naturalistico, adora sotto forma di divinità le forze della natura, presenta un sacrificio con cui si nutrono gli dei mentre non compare ancora la dottrina della trasmigrazione delle anime.
La dottrina della trasmigrazione delle anime fa la sua apparizione nel Brahmanesimo, dottrina di carattere assai spirituale esposta nelle Upanishad. Suoi concetti fondamentali sono quelli di brahman (spirito universale) e atman (anima soggettiva). Questi due principi, che sono della stessa natura, sono destinati a coincidere nel brahman-atman. A questa unione è d’ostacolo il Karman, la legge di causalità determinata dalle vite precedenti che incatenano le anime ai corpi e al mondo fenomenico (samsara). Questo fino a quando esse non riusciranno a liberarsi dall’illusione sensibile (maya) attraverso l’ascesi, consistente nel superare l’io superficiale per trovare l’io profondo. L’assoluto, brahman, non è afferrabile positivamente, ma solo allontanando da lui tutte le attribuzioni fenomeniche (né…né…). Una volta realizzata l’unione filiale col brahman, costituita dall’estasi mistica, le negazioni potranno divenire affermazioni. Questa concezione offre lo schema di un panteismo di tipo spiritualistico e trascendentistico, di una teologia negativa, nonché di un’ascesi di puro tipo contemplatico quali si ritroveranno nell’ultima filosofia dell’Ellenismo, quella Neoplatonica.
Dal brahamanesimo si distaccano due correnti: lo yoga, che con particolari tecniche persegue la completa smaterializzazione dell’io; il giainismo, religione atea come il buddismo, che esprime una teoria dualistica e atomistica che concepisce atomi materiali e spirituali.
La concezione buddista, fondamentalmente monistica, approda al relativismo. La dottrina di Budda passa attraverso le quattro verità (constatazione dell’illusorietà del tutto e del dolore universale; constatazione che il dolore viene dal desiderio, sopprimendo il quale si giunge alla terza verità, il nirvana; la via della salvezza che comporta otto diramazioni: fede, volontà, parola, azione, esistenza applicazione, memoria e meditazione pure). La morale buddista raccomanda la rassegnazione alla sofferenza individuale, la benevolenza, la pietà, il perdono e la carità. Il buddismo pare abbia esercitato un’influenza sul cristianesimo primitivo, mentre è singolare la sua corrispondenza con le analoghe dottrine epicuree soprattutto circa il dolore, il desiderio, l’atarassia e la superfluità della regione positiva. Il buddismo si dividerà poi in piccolo veicolo (hina-yana) e grande veicolo (maha-yana): la prima tendenza si occuperà della salvezza individuale, mentre la seconda di quella collettiva; il Budda verrà poi divinizzato.
Altre correnti orientali o medio-orientali che hanno contribuito alla formazione della spiritualità ellenistica sono lo gnosticismo e la magia. La gnosi è una dottrina della conoscenza che significa anche salvazione: essa si propone il riscatto dell’anima attraverso la conoscenza delle cose umane e divine. Ritenuta la massima espressione del sincretismo ellenistico, unisce in sé concezioni iraniche, siriane, ebraiche (essenismo), medio-orientali e cristiane. Si distingue una gnosi volgare, dedita alla formazione di sette di tipo purificatorio e molto diffusa in Siria, Egitto, Asia Minore e anche a Roma, da una gnosi dotta, che ha sede in Alessandria e che conta personalità di grande rilievo come Ireneo e Marcione, in reazione alla quale sorgerà poi la gnosi cristiana. La gnosi dotta professa l’idea di un dio assolutamente trascendente e inconoscibile all’uomo o conoscibile solo attraverso intermediari (ipostasi) detti eoni, vere emanazioni di Dio. Nella versione cristianeggiante della gnosi si aspetta uno Spirito Salvatore (Cristo). L’uomo è considerato un’entità mista, formato da un elemento ilico (materiale), da uno psichico che ha la funzione di intermediario e da uno pneumatico (spirituale). A seconda di quale è l’elemento predominante abbiamo uomini ilici, psichici o spirituali; di questi solo agli ultimi è promessa la salvezza.
La gnosi riflette una visione dualistica e pessimistica del mondo e una concezione aristocratica della salvezza riservata a pochi eletti. Include in sè la credenza nella predestinazione unita a elementi di determinismo astrale e a pratiche magiche (basate sulla credenza all’esistenza di potenze malvagie accanto ad altre benefattrici che occorre ingraziarsi). Proprio per la sua svalutazione dell’azione morale, la gnosi ha incontrato grosse resistenze, sia in ambiente cristiano che in quello filosofico pagano.
Anche la magia si divide in volgare, basata sulla credenza nell’esistenza di demoni buoni o malvagi (la magia che evoca gli spiriti buoni è detta teurgia, mentre quella che evoca spiriti cattivi è detta negromanzia), e una dotta che si rifà alla dottrina dei Magi o sapienti iranici, dei quali il principale è Zoroastro. La magia viene associata alla libertà, in quanto l’uomo può operare sulle cose dell’universo modificandole; per l’astrologia invece l’uomo è determinato dall’influsso degli astri, il che esclude la libertà. La magia dotta è una vera e propria filosofia religiosa: possiamo notare una differenza fra una filosofia religiosa indiana monistica e una iranica dualistica (Zaratustra). Zaratustra è considerato, in epoca ellenistica, il sommo dei Magi. Egli cerca di contenere l’originario dualismo bene-male in una visione trascendente del dio unico chiamato Ahura Mazdah, divinità spirituale che crea col pensiero e da cui tutto dipende. Zaratustra crea lo spirito santo e quello malvagio, i quali si contendono il dominio del mondo e pongono l’uomo e lo stesso Dio di fronte ad una scelta, che presuppone quindi l’esistenza del libero arbitrio. Per la sua idea di un dio unico, spirituale, creatore, onnipotente giudice del bene e del male; per l’idea di responsabilità e colpa riferita all’uomo come conseguenza di una libera scelta originaria; per l’idea di un giudizio finale universale ed individuale è evidente quanto lo zoroastrismo abbia influenzato l’Ebraismo. Il dualismo più radicale ricomparirà più tardi ed influenzerà il manicheismo.
Fonte comune, nel tardo Ellenismo, di magia, gnosi, astrologia è il corpus hermeticum, riferito dalla tradizione al mitico Ermete Trismegisto, singolare contaminazione del dio egiziano Toth e del dio greco Ermes. I trattati che compongono il Corpus rappresentano un tipico esempio di sincretismo tardo-ellenisticoin cui confluiscono motivi platonici, aristotelici, stoici, insieme a suggestioni misteriosofiche orientali, e presentano somiglianze con gli oracoli caldaici, con gli scritti orfici e gnostici. Dio ormai è attingibile solo attraverso un’intuizione e nell’ambito di una conoscenza rivelata, ma, parallelamente, è concepito anche come creatore, conoscibile attraverso il creato. Due anche le etiche che ne derivano, una di disprezzo per il mondo perché considerato frutto di un dio malvagio, l’altra di amore per il mondo considerato creatura di un dio buono.
In quest’ultima fase dell’Ellenismo la razionalità si eclissa per lasciare spazio alle tendenze esoteriche (si avverte chiara l’esigenza di un mediatore tra l’uomo e Dio).
Un ultimo cenno, per una migliore comprensione di questo periodo al contributo dato da cristianesimo ed ebraismo. La traduzione della Bibbia in greco detta dei settanta rappresenta l’ellenizzazione della cultura ebraica. Il Nuovo Testamento fu redatto addirittura in greco, fatto che contribuì a dare origine ad una tendenza gnostica dualistica, quindi ad una gnosi cristiana. Un altra conseguenza fu l’interpretazione allegorica, ossia in termini razionali, della Bibbia, che diede luogo anche a numerose eresie. L’Ebraismo fornì il contesto di una cosmogonia ispirata al concetto di Dio unico, creatore, benefattore e provvidente per quanto giudice severo dell’uomo, in virtù del dono a lui offerto del libero arbitrio (con le conseguenze del peccato originale, della cacciata dall’Eden e del giudizio finale). Il Cristianesimo fornì, attraverso la predicazione paolina, il concetto di un Redentore, dio incarnato e promulgatore di una nuova legge: quella dell’amore; oltre al concetto di una salvezza offerta a tutti in grazia della passione di Cristo e della sua resurrezione.
I pagani furono molto attratti dal messaggio ebraico, ma l’ostacolo della circoncisione frenò la loro adesione a quella comunità; ciò favorì il successo del cristianesimo, il quale prometteva la resurrezione della carne: un concetto fino allora estraneo alla mentalità greca e che serviva a rafforzare la speranza e la fiducia di una vita completa nell’al di là. Successo ebbe anche l’etica cristiana con il suo concetto del rispetto della personalità umana, concetto di cui nel mondo ellenistico si avvertiva l’esigenza, sollecitata da una riflessione prima romana e poi stoica.
L’ INCONTRO DI ROMA CON LA FILOSOFIA GRECA
Nel 146 a.C. , con la distruzione di Corinto , la Grecia diventa di fatto una provincia romana . In realtà i rapporti del mondo romano con la cultura greca erano già avviati da tempo . Dottrine filosofiche , estrapolate dai complessi contesti argomentativi dei quali originariamente facevano parte , già circolavano , tra il terzo e il secondo secolo a.C. , soprattutto in forma di massime , attraverso gli scritti di poeti come Ennio , il quale , tra l’ altro , faceva riferimento alla dottrina empedoclea degli elementi e a quella dell’ anima e delle sue reincarnazioni . Ma é soprattutto a partire dalla metà del secondo secolo d.C. che si fa progressivamente più massiccia la penetrazione della filosofia a Roma . Nel 161 a.C. un decreto espelleva da Roma filosofi e retori : ciò é segno del fatto che alcuni intellettuali greci cominciavano a stabilirsi nella città . Di fronte alla filosofia greca i ceti dominanti romani assunsero atteggiamenti ambivalenti . Da una parte , si ebbe la resistenza dei membri più tradizionalisti , i quali nutrivano sospetti verso un senso di vita refrattario o inutile alla politica o addirittura dannoso in una prospettiva etico – politica che ha il suo nucleo portante in un rapporto organico con lo Stato e i valori tradizionali . L’ esempio più noto é rappresentato da Catone il censore , che pure non era ignorante di cultura greca , e l’ episodio più significativo l’ ambasceria dei filosofi inviati nel 155 a.C. da Atene a Roma per ottenere il condono di una multa . Di essa faceva parte Carneade , che diede prova in pubbliche conferenze della sua abilità di discutere pro e contro la teoria della giustizia , un tema estremamente delicato per la vita politica . Carneade , infatti , argomentò sia a favore , sia contro l’ esistenza di una legge naturale universalmente valida . Questa impostazione , che rischiava di condurre ad un atteggiamento scettico , non poteva che essere respinta da Catone , ma , sottilmente , Carneade impiegò anche un argomento che poteva essere ben accolto dai conquistatori romani : a quale diritto si appella il più forte nell’ aggredire il più debole , se non a quello della forza stessa ? Se i romani conquistatori avessero voluto essere giusti e , quindi , restituire il bottino delle loro vittorie , sarebbero rimasti poveri . Su una linea di reale giustificazione dell’ ” imperialismo ” romano si mosse , con le sue Storie , lo storico greco Polibio , ( 208 – 126 a.C. ) . Esso veniva presentato come il legittimo sbocco della storia , perchè Roma era riuscita a costruire una forma di costituzione mista ( che già Platone aveva esaltato delineando il suo stato secondo ) che riuniva gli aspetti positivi delle tre forme costituzionali ( monarchia , aristocrazia , democrazia ) , senza avere i difetti propri di ognuna . Non é un caso che Polibio fosse benevolmente accolto nella cerchia di potenti aristocratici romani , quali gli Scipioni . Di questa cerchia faceva parte anche un filosofo , Panezio , ma l’ apertura verso la filosofia di questi aristocratici non deve essere scambiata per interesse personale : la filosofia appare , piuttosto , un ingrediente importante per la formazione di un nuovo tipo di uomo e politico , meno legato ai valori tradizionali della frugalità e della rudezza , propri di una civiltà rurale qual era quella della Roma più antica . In generale , il rapporto positivo con la filosofia da parte di membri colti dei ceti aristocratici di Roma non si traduce nella adesione rigida a una singola scuola filosofica . Estranei al mondo delle scuole e dell’ insegnamento , essi avvertono meno vincoli di ortodossia e risultano più disponibili all’ ascolto di voci filosofiche anche in dissenso tra loro . Tra le correnti filosofiche , soprattutto l’ epicureismo aveva mantenuto una maggiore impermeabilità nei confronti di dottrine di altra provenienza , ancorandosi fedelmente all’ insegnamento del fondatore della scuola . Le altre correnti , invece , soprattutto quelle più influenti , come lo stoicismo e l’ Accademia scettica , cominciarono già a partire dalla metà del secondo secolo a.C. a trasformarsi . Da allora si assiste a travasi concettuali e terminologici sempre più frequenti tra scuole diverse , ma senza che ciò dia luogo a quello che é stato definito eclettismo , ossia una acritica e incoerente mescolanza di elementi teorici di provenienza diversa e talvolta contradditori . La tendenza a tener conto delle soluzioni dottrinali fornite da scuole filosofiche diverse da quella alla quale si appartiene , é confermata dall’ attività della èlite politica e culturale di Roma , Panezio , Posidonio e Antioco , dei cui scritti tuttavia rimangono soltanto frammenti .
FILOSOFIA CRISTIANA
Per cristiana intendiamo quella filosofia sviluppatasi in epoca cristiana , ossia nel periodo tardo-antico e mediovale , e la si suole suddividere in due diversi tipi di filosofia , quella patristica e quella scolastica . Spesso tendiamo ad avere in mente una concezione erronea di filosofia cristiana e ad immaginarci che essa sia esclusivamente ciò che é nei vangeli , ma non é affatto così : la vita stessa di Gesù é carica di valori simbolici e filosofici . La parola Logos , con cui inizia il vangelo di Giovanni ( ” in principio era il Logos ” ) , é un intreccio evidentissimo con la filosofia , pensiamo solo ad Eraclito e agli Stoici : la parola di Dio é creatrice , vale a dire che bastano le parole di Dio a creare la realtà ; noi possiamo solo dire le verità , Dio invece le crea proprio . Peculiarità del cristianesimo é quella di non essere una setta , come le varie scuola filosofiche , ed é destinata a superare l’ ebraismo per aprirsi totalmente , pur con un nettissimo riallacciamento alle filosofie greche . La patristica é una filosofia apologetica , ossia un tentativo dei cristiani di giustificarsi nell’ ambito di un impero in cui sono una minoranza malvista ; successivamente si affermerà e diventerà la religione di stato e così i cristiani non dovranno più giustificarsi e passeranno così a ragionare sui veri e propri concetti , dando così vita alla scolastica , così denominata perchè si svilupperà nelle università . Problema fondamentale per i cristiani é come comportarsi di fronte al mondo classico greco ; le possibilità sono due : 1) un netto rifiuto di un mondo che non ha nulla a che fare con quello cristiano 2) lo sfruttamento di questa cultura . La prima delle due soluzioni però non era certo conveniente per i cristiani : si sarebbe rifiutato l’ impero sul piano politico e il cristianesimo si sarebbe ridotto ad una setta , come tutte le altre filosofie greche , destinato ben presto a sparire e non avrebbe certo avuto il seguito che invece ebbe . La seconda era invece migliore perchè con l’ intrecciamento con le altre filosofie , il cristianesimo si sarebbe potuto diffondere universalmente . Si scelse dunque la seconda e cristianesimo e impero si sfruttarono a vicenda : il cristianesimo si diffuse facilmente e l’ impero ebbe un valido strumento di sopravvivenza ; quando , infatti , l’ impero romano si sfascia , tutto ciò che ne resta é la Chiesa . Questa seconda scelta , però , implicò la perdita della purezza cristiana , che con la prima scelta si sarebbe mantenuta , ma guadagnò in capacità di diffusione e in capacità di permeazione tra società e stato : se avessero preferito trasmettere il loro messaggio in forma pura , avrebbero potuto trasmetterlo solo a poche persone e in forma di setta , ma loro scelsero di trasmetterlo in forma ” impura ” , ma a tutta Europa . Lo stesso vale per la cultura classica : ci furono anche qui due correnti di pensiero : vi era chi sosteneva che la cultura classica andasse rifiutata , e in questa direzione vanno le Lettere di San Paolo , in una delle quali la Croce di Cristo viene definita ” scandalo per gli ebrei e follia per i pagani ” ; follia per i pagani , perchè essi erano molto colti e avevano una concezione trascendente di dio , sulla scia di Plotino , e quando gli si parlava di un dio crocifisso , essi proprio non riuscivano a capire e prendevano i cristiani per pazzi . Si tratta di un qualcosa di più che indimostrato e indimostrabile : é un qualcosa addirittura di pazzo e assurdo . Il culmine di questo atteggiamento lo si trova in Tertulliano , la cui filosofia é sintetizzata in un’ espressione latina , ” credo quia absurdum ” ( credo proprio perchè é assurdo ) : la Croce diventa proprio la prova del cristianesimo : la ragione umana fino a un certo punto può farcela ad arrivare , ma oltre no , occorre avere fede : parrà quindi una cosa senza senso e indimostrabile con la ragione quella della Croce , ma tuttavia qui non ci vuole ragione , ma fede . La ragione non può arrivare a scoprire le verità più profonde perchè é vincolata dal peccato originale : se si é particolarmente pessimisti , come nel caso di Lutero , si arriva a dire che solo chi ha fede sarà salvato da Dio , mentre tutti quelli che non la hanno saranno dannati . Se invece si é meno radicali , si apprezza anche chi usa la ragione : certo la fede é meglio ancora , ma tuttavia la ragione qualcosa può fare e se unita alla fede é il massimo . Il ” credo quia absurdum ” diventa sensato solo se si ammette che la ragione umana é corrotta al massimo dal peccato originale . Per i cristiani meno radicali e più aperti , comunque , la filosofia greca é fortemente positiva , sebbene incompleta : é proprio il cristianesimo che si propone di completarla e la stessa costruzione dell’ impero può essere vista come in funzione del cristianesimo , come fa Dante . E’ risaputo che l’ impero romano fosse diviso in due parti , l’ Occidente , di lingua latina , e l’ Oriente , di lingua greca : la patristica che si sviluppò nell’ Oriente fu più ottimistica e aperta , in quanto reduce della tradizione greca e quindi più propensa ad accettare di buon grado la filosofia e la cultura greca ; é naturale che nell’ Oriente prevalse alla grande la seconda opzione , quella di accettare il mondo greco , e di riservare per l’ uomo maggiori possibilità di salvezza : pensiamo a Origene , che arrivò a dire che alla fine sarebbe stato salvato perfino il diavolo .
SCOLASTICA
CRONOLOGIA
La filosofia scolastica occupa un periodo molto ampio che va dalla rinascita carolingia fino al 1400 con l’ avvento dell’ Umanesimo in Italia e del Rinascimento , in seguito , nel resto dell’ Europa ; generalmente la filosofia scolastica viene suddivisa in 3 periodi ; il primo periodo é piuttosto povero ed emerge solo la figura di Scoto Eriugena , che é tuttavia circondata da una miriade di personaggi inferiori , per lo più persone colte e maestri finalizzati a dare l’ insegnamento di base , riprendendo la filosofia antica , ai cosiddetti ” rudes ” , ossia ai rozzi , che dovevano a tutti i costi resi più colti : bisognava almeno dar loro gli strumenti indispensabili per avere un minimo di cultura . Nasce così un vero e propria sistema scolastico con tanto di metodo , che tempi addietro esisteva solo in modo marginale : bisogna dissodare un’ età percorsa da barbarie quale é quella che sconvolge il mondo latino a partire dal sesto secolo ; questa prima fase va collocata tra l’ 800 e il 900 . Il secondo periodo é quello detto ” argenteo ” , in cui emergono effettivamente grandi figure : siamo nel 1000 e nel 1100 ; accanto alle grandi figure vi sono anche le grandi scuole , e la vera novità é che la cultura esce dai monasteri e dalle scuole cattedrali e capitolari , ossia quelle formate dai capitoli delle chiese . Nascono così le Università e si crea il ” cetus studiorum ” : l’ intero corpo delle arti viene notevolmente approfondito . Il 1200 é il secolo d’ oro della scolastica , in cui si raccolgono i frutti del 1000 e del 1100 ; però una volta raggiunto l’ apice é difficile mantenerlo , e così dopo lo splendido 1200 vi é un rapido tramonto , ossia il 1300 , che rappresenta la dissoluzione della filosofia medioevale : quando sembra che tutto sia già stato detto , ecco che invece nasce la seconda scolastica , che vede tra i suoi protagonisti la figura di Guglielmo di Ockham . Dopo di che vi sarà effettivamente la totale dissoluzione della filosofia medioevale , sulle cui ceneri nascerà la filosofia moderna .
CARATTERI FONDAMENTALI
Il primo carattere da evidenziare é che questa filosofia si esprime tutta nelle ” scholae ” , sebbene esse siano molto diverse tra loro : tuttavia presentano anche molte analogie ; con esse la cultura ha trovato un luogo di trasmissione , di formazione e di ricerca ; i maestri entrano come allievi , poi diventano trasmettitori e infine ricercatori . Va detto che é una cultura limitata alla scuola e a chi si reca a scuola : essa riguarda quindi un numero ristretto di persone e non sarà mai un fenomeno di massa ; ricordiamoci che il mondo medioevale é essenzialmente un mondo di analfabeti , anche se non di stupidi : Caterina da Siena , per esempio , pur essendo stata analfabeta , fu personaggio di gran carisma , consigliera di papi ; ma che cosa si insegna in queste scuole ? Il trivio e il quadrivio , le famose sette materie medioevali che Dante identifica con il castello presente nel limbo . Il trivio fornisce gli elementi fondamentali , il quadrivio si apre ad una prospettiva che comporta la riflessione filosofica . Le tre materie del trivio sono la logica , che insegna come ragionare e costruire discorsi , la dialettica , che insegna il dialogo in forma di domanda e risposta , e infine la retorica , il grado sommo del trivio , che insegna come dire le cose bene , in modo conveniente ed elegante , sulla scia dei sofisti che dicevano ” la parola può tutto ” . E’ con Boezio che torna in uso il sillogismo , usato soprattutto in una logica formale , quasi al fine di dimostrare l’ impossibile . Il quadrivio comprende invece 4 materie , che sono : la geometria , l’ aritmetica , l’ astronomia e la musica . Viene spontaneo chiedersi perchè la geometria sia prima dell’ aritmetica : prima di misurare , infatti , bisogna saper contare . Va però detto che il quadrivio veniva insegnato dopo al trivio , era un insegnamento superiore che voleva portare gli studenti al ragionamento ; gli antichi e così anche i medioevali vedevano l’ ordine e il rapporto tra varie realtà sotto forma di relazione e quindi la geometria andava insegnata prima delle altre tre , che altro non sono , in fondo , che applicazioni della geometria : nell’ aritmetica , che si propone di contare , é chiaro che tra l’ 1 e il 2 , per dire , vi sono rapporti : posso fare 1 + 2 , 1 : 2 , 1 – 2 , etc . Da qui si passa poi anche all’ algebra : a + b , a – b , etc . Discorso analogo va fatto per l’ astronomia , la scienza che studia gli astri : l’ uomo é proiettato nel mondo , il mondo a sua volta é proiettato nell’ universo , che per i medioevali era vivo , come già spiegava Platone . La musica , poi , non é altro che un insieme di rapporti numerici . Tra l’ uomo stesso e i suoi organi c’ é armonia e rapporto . Il maestro che impartiva questi insegnamenti era lo ” scholasticus ” e a lui succedeva o il ” magister philosophiae ” o il ” magister artium ” o il ” magister teologiae ” . L’ insegnamento della filosofia e quello della teologia procedeva di pari passo , e si suddivideva in 2 tipi di insegnamento : la lectio , ossia il commento al testo letto dal ” lector ” , colui che aveva raggiunto il primo grado di insegnamento , e la disputatio ossia i commentio che scaturivano dalla lettura ( lectio ) dei testi . Il secondo carattere da sottolineare é che la scolastica é una filosofia che interessa l’ Occidente , é radicata nella ” civitas cristiana ” occidentale e quindi riguarda solo una piccola parte del mondo : contemporaneamente fiorisce la cultura bizantina e slava , e soprattutto quella araba , nata intorno alla figura di Maometto . Va però detto che se la filosofia medioevale si sviluppa nella civitas cristiana , bisogna però precisare due momenti diversi : nel primo il mondo cristiano si chiude in se stesso di fronte all’ Oriente , in quanto non ha più nulla da ricevere da tal cultura ; solo la Chiesa romana ha sempre contatti con la Chiesa orientale , ma sono sempre contatti più bruschi e avversi ; il cristianesimo se la deve vedere con l’ islam della guerra santa e della conquista ; gli arabi sono padroni dell’ Africa e dell’ Arabia e tramite la Spagna insidiano il mondo occidentale ; solo con la battaglia di Poitiers del 732 il pericolo arabo verrà stornato . Proprio dopo la battaglia di Poitiers l’ Occidente comincia ad aprirsi , specie nella cultura : il Turco non fa più paura e neppure l’ Ebreo . Questo si nota nella filosofia scolastica in quanto vi é una sintesi di 3 culture : quella cristiana , quella araba e quella ebrea ; nel 1200 vi sono maestri nelle università che si appellano a queste diverse culture . Altro carattere da sottolineare é che per tutto il medioevo non si scrive mai ” adversus ” , ma ” contra ” : adversus implica l’ esclusione totale delle ragioni dell’ avversario , come a dire ” io ho la verità , tu no : non ti ascolto neanche ” . Il contra , invece , presume uno scambio di pareri e di teorie , un dialogo : tu mi dici questo , ebbene io in contrapposizione ti dico quest’ altro : é una cultura dialogica , dove si dà spazio anche a posizione divergenti dalle proprie .
LE TEORIE
Va subito detto che la filosofia cristiana scolastica , a differenza della patristica , si muove ormai su un cristianesimo consolidato , che si é già affermato ; si cerca di vedere se usando l’ armamentario della filosofia antica si può argomentare in favore del cristianesimo ; la filosofia diventa ” ancilla teologiae ” , ossia serva del cristianesimo . I temi trattati più significativi sono essenzialmente questi : rapporto fede e ragione , dimostrazione dell’ esistenza di Dio in termini razionali , disputa sugli universali aristotelici . Per quel che riguarda il rapporto fede e ragione vi sarà chi riprenderà la tesi di Agostino di assoluto non contrasto tra le due : la ragione e la fede si compensano ; Galileo sarà di questo parere : la ragione da sola non può scoprire tutte le verità , altrimenti sarebbero già state scoperte da altri grandi pensatori del passato , come Platone e Aristotele : Dante stesso sarà di questo parere e dirà : ” matto é chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone ” ( Purgatorio , III 34 ) . Vi saranno però anche persone che proporranno variazioni , come San Tommaso D’ Aquino , che divide le possibili verità e i possibili ambiti della ragione , individuandone 3 : 1 ) Ci sono verità che con la fede hanno ben poco a che fare , come per esempio il teorema di Pitagora , che é irrilevante per la fede : in questo ambito la ragione si muove da sola . 2 ) Vi é poi l’ ambito delle cose che possono essere spiegate sia con la fede , sia con la ragione , i cosiddetti ” PREAMBULA FIDEI ” ; un esempio é l’ esistenza di Dio , che può essere accettata per fede o dimostrata razionalmente . 3 ) Il terzo ambito é quello delle cose che vanno accettate per fede , ma che tuttavia possono essere chiarite con la ragione , come per esempio la Trinità , ossia le tre persone della divinità : esse non sono dimostrabili con la ragione , ma vanno accettate con un atto di fede , tuttavia sono chiarificabili con la filosofia , per esempio quella aristotelica . E’ interessante notare che per Tommaso nulla é inaccessibile alla ragione . Dante stesso , nell’ Inferno , ha gran rispetto per coloro che , pur non essendo vissuti in un contesto cristiano , tuttavia fecero buon uso della ragione , come Platone , Aristotele , Socrate , Democrito e altri : il castello che sorge nel limbo é un’ esaltazione stessa del logos , della ragione , una luce nel buio infernale . Vi furono anche grandi pensatori razionalisti , come per esempio Abelardo . Vi fu anche chi disse che tra ragione e fede non c’é alcun rapporto : la separazione tra fede e ragione può essere dimostrata in vari modi , ma tuttavia la cosa più interessante da notare é che nel momento in cui esse vengono separate , ciascuna é libera di procedere autonomamente per la sua strada ; tra i maggiori sostenitori di questa separazione radicale c’é Guglielmo di Ockham , che sul piano religioso sosterrà una tesi fideistica : la fede é fede e non ha nulla a che vedere con la ragione : si tratta chiaramente di una posizione molto conservatrice , tipicamente francescana : i francescani , infatti , sono portati a rifiutare la ragione ” intellettualistica ” : a loro non importa come é fatto Dio , ma come si comporta : la loro é una fede che punta solo sull’ amore per Dio . Però separando fede e ragione , così come la fede , anche la ragione resta autonoma : da un lato é un modo di vedere piuttosto retrogrado , però va detto che comporta anche elementi di modernità : la ragione diventa ” pura ” , senza avere più nulla a che fare con la fede . Non a caso si usa definire Guglielmo di Ockham ” l’ ultimo pensatore medioevale e il primo moderno ” . Altra posizione é quella di Averroè , esponente della scolastica araba : egli elabora una dottrina della doppia verità : la vera verità é quella portata dalla filosofia e dalla ragione ( che per lui era essenzialmente Aristotele ) , tuttavia anche quella della religione é utile perchè dice le cose in modo comprensibile per tutti : i migliori , tramite la filosofia , accedono alla vera verità , mentre la massa degli ignoranti accede ad una verità di secondo livello , trasmessa dalla religione . Con Averroè siamo chiaramente di fronte ad una concezione aristocratica ; la filosofia araba , ed in particolare quella di Averroè riuscì a penetrare nell’ Occidente e diede vita all’ averroismo latino , che riprende soprattutto la dottrina della doppia verità : uno dei massimi esponenti fu Sigieri di Brabante , che chiaramente dovette scontrarsi con le autorità religiose ; stranamente Dante lo colloca in Paradiso , definendolo come colui ” che sillogizzò insidiosi veri ” , ossia colui che argomentò verità pericolose per la Chiesa , però pare più logica la lettura ” invidiosi veri ” , ossia verità che lo misero in cattiva luce : altrimenti perchè mai dovrebbe essere in Paradiso uno che andò contro la Chiesa ? In effetti l’ Occidente interpreta la dottrina della doppia verità in modo ” invidioso ” per la Chiesa : si diceva ” io sono studioso di Aristotele e la ragione mi insegna che il mondo é eterno , ma da buon cristiano penso e dico che é stato creato ” : é una concezione addirittura più radicale di quella di Averroè : probabilmente questi filosofi , per non essere processati come eretici , si mascheravano con la fede , ma in realtà non credevano a una parola di quel che diceva il cristianesimo , per loro la verità era solo quella data dalla ragione , però non potevano dirlo pubblicamente , e allora fingevano di essere religiosi ; si é però scoperto che Sigieri , a lungo ritenuto il maggior sostenitore della dottrina della doppia verità , in realtà non la sostenne mai , ma gli fu attribuita dai suoi avversari , in particolare il vescovo Tempier . Un altro aspetto che va notato é che questa filosofia di derivazione averroistica e quindi di derivazione aristotelica , chiaramente , nega l’ immortalità dell’ anima , come quella del corpo : l’ uomo é un sinolo di materia ( il corpo ) e forma ( l’ anima ) e quando viene meno la materia viene meno la forma . A questo proposito va ricordata la questione del nous poietikòs aristotelico : a differenza di Alessandro di Afrodisia , che voleva il nous poietikos parte integrante del corpo umano e quindi destinato a morire , Averroè sosteneva che il nous non appartenesse al corpo umano , ma fosse un qualcosa di esterno ed eterno , che interviene ogni qual volta che l’ uomo usa il cervello : quindi Averroè ipotizza l’ immortalità non del singolo , ma del collettivo : é come se l’ uomo , pensando , godesse di una sorta di immortalità : chi più pensa , più fa subentrare il nous e di conseguenza chi più pensa più é immortale ; é una concezione aristocratica dell’ immortalità . Tornando alla scolastica cristiana , essa può essere definita , abbiamo detto , come il tentativo di difendere il cristianesimo servendosi della filosofia antica : i due principali filosofi antichi erano Platone e Aristotele ; in un primo tempo si preferì Platone , soprattutto per via di due sue dottrine : quella dell’ immortalità dell’ anima , esposta nel Fedone , e quella della creazione del mondo , esposta nel Timeo , sebbene Platone parlando della creazione effettuata dal Demiurgo non vada preso alla lettera . L’ idea di un dio ” architetto ” , quale é il Demiurgo , che ad un certo punto ordina il mondo é piuttosto vicina a quella cristiana ( sebbene Platone parli di ” plasmare ” servendosi di materia già esistente , mentre il cristianesimo parli di una creazione avvenuta dal nulla ) , soprattutto se messa a confronto con quella aristotelica dell’ eternità del mondo . Lo stesso per quel che concerne l’ anima : per Aristotele é mortale , in quanto facente parte del sinolo corpo , mentre per Platone é immortale , così come é per il cristianesimo . Però per Platone l’ anima é eterna , ossia é sempre esistita e sempre esisterà , per i cristiani é perenne , ma non eterna : Dio la crea ad un certo punto , e da allora non morirà mai , però non é che sia sempre esistita . Tuttavia in un secondo tempo penetrerà anche la filosofia aristotelica , a partire dal XII secolo , nel periodo delle crociate , quando vi saranno contatti con il mondo arabo , dove Aristotele era il filosofo più ” di moda ” . Comincerà a penetrare Aristotele soprattutto a partire dalla terza crociata , che di fatto fu una non-crociata : vi furono contatti culturali con l’ Oriente e così Aristotele potè penetrare ed affermarsi anche ad Occidente , fino ad arrivare a surclassare Platone . I due ordini più importanti nel Medioevo erano i Francescani e i Domenicani , e non a caso gli insegnanti universitari o erano francescani o erano domenicani : i Francescani tenderanno a prediligere le teorie di Platone , per via della mistica meno razionalista , mentre i Domenicani preferiranno Aristotele , per via della sua grande razionalità : i Domenicani erano più ” intellettuali ” : non a caso mentre Tommaso , che era domenicano , cercherà di dimostrare razionalmente l’ esistenza di Dio , Bonaventura , che era francescano , descriverà l’ itinerario mentale verso Dio . Non a caso i Domenicani sono i successori di Domenico , un ottimo predicatore , mentre i Francescani sono i successori di Francesco , più legato alla mistica . Servendosi delle teorie di Platone e di Aristotele , si cercherà di dimostrare in termini razionali l’ esistenza di Dio , sebbene molti fossero del parere che essa fosse indimostrabile e accettabile solo con un atto di fede : uno dei tentativi più apprezzabili e interessanti é senza dubbio quello di Anselmo da Aosta : la sua é una dimostrazione ” pura ” dell’ esistenza di Dio , che non si riallaccia alle esperienze : é una dimostrazione che parte dal puro concetto di Dio e che sembra davvero solida : Anselmo immagina un discorso con un ateo , ossia con una persona che in cuor suo nega l’ esistenza di Dio ; per negare qualcosa si deve sapere per forza che cosa sia , altrimenti non lo si può negare : per negare l’ esistenza di un drago devo pur sapere che cosa sia : c’ é differenza tra esistenza ed essenza . Quindi l’ ateo deve sapere che cosa é Dio : e che cosa é Dio ? Dio é ciò di cui nulla si può pensare di maggiore . Il drago , pur non esistendo nella realtà , ha un suo tasso di essere in quanto ente immaginario , pensato ; certo il suo tasso di essere sarà inferiore rispetto a quello di un cavallo , che esiste sia come ente pensato sia come ente reale ; immaginiamo che il drago esista : al tasso di essere che ha in quanto pensato , si aggiunge quello che ha in quanto esistente . Ora passiamo a Dio come puro concetto e ammettiamo che esista : prendiamo in esame il Dio come puramente pensato , che é quello che ha in mente l’ ateo : Dio é ciò di cui nulla si può pensare di maggiore , ma se lo si vede come esistente avrà un tasso più elevato di essere e quindi sarà maggiore : quindi rispetto all’ essere di cui nulla si può pensare di maggiore si può pensare qualcosa di maggiore : il ragionamento dell’ ateo cade in contraddizione . In fondo il ragionamento di Anselmo può così riassumersi : l’ essere perfettissimo , per essere tale , non può mancare di esistenza , altrimenti non sarebbe il più perfetto . Bonaventura dirà : ” Se Dio é Dio , non può che esistere ” . Però la dimostrazione razionale di Anselmo fu criticata da Gaunilone , che scrisse un ” Pro insipiente ” , ossia un trattato in cui difendeva l’ ateo , o , meglio , mostrava come la dimostrazione di Anselmo fosse contradditoria : egli attaccava la dimostrazione con due argomentazioni : a ) la dimostrazione dovrebbe allora valere per ogni forma di perfezione : se parliamo di un’ isola felice , perfetta , allora a rigore , secondo Gaunilone , seguendo il ragionamento di Anselmo , si dovrebbe arrivare a dire che esiste : e questo dovrebbe valere per tutti gli enti perfetti . Ma Anselmo fa notare che il suo ragionamento vale solo per l’ essere perfetto in assoluto , Dio , e non per i perfettissimi di ogni categoria : nell’ essere perfetto assoluto ci sarà la sapienza , nell’ isola perfetta non ci sarà . b ) Anche ammesso che funzioni , il ragionamento di Anselmo deve partire da un concetto corretto di Dio e solo chi ha fede può avere un corretto concetto di Dio ; il ragionamento funziona , ma solo per chi già ha la fede , per l’ ateo no . Anselmo dovrà riconoscere che Gaunilone ha ragione e dovrà ammettere che il suo ragionamento serve solo a chiarire al credente i fondamenti della sua fede : chiarisce che Dio é ” causa sui ” , ossia non é creato , ma crea , e che in lui ( e solo in lui ) l’ essenza implica l’ esistenza : ecco allora che rientra in gioco il ” credo per capire e capisco per credere ” di Agostino : la ragione da sola non potrà mai dimostrare l’ esistenza di Dio e necessita quindi della fede . Altro tentativo di dimostrare l’ esistenza di Dio in termini razionali sarà quello di Tommaso , vissuto due secoli dopo ad Anselmo , in un’ epoca in cui ormai si era affermato , a fianco del platonismo , anche l’ aristotelismo . Tommaso cercherà di dimostrare l’ esistenza di Dio tramite 5 vie , dove nessuna delle 5 é totalmente originale : infatti riprende le teorie platoniche e aristoteliche e se ne serve in termini cristiani . Due di queste vie sono platoniche e le restanti tre sono aristoteliche : 1 ) ” I GRADI “ : é la più platonica di tutte , é una delle tante con cui Platone é arrivato ad ammettere il mondo delle idee : siccome nella realtà ci sono diversi gradi di perfezione e di uguaglianza ( due libri si assomigliano di più che non un libro e una penna ) , Platone aveva immaginato l’ esistenza di un’ idea di uguaglianza : ci deve essere un grado di perfezione assoluta e Platone l’ aveva identificato nell’ Idea del Bene , Tommaso lo identifica in Dio . 2 ) ” L’ ORDINE “ che c’è nel mondo ( e che non può essere casuale ) implica l’ esistenza di un ordinatore divino , che Platone aveva identificato con il Demiurgo e Tommaso identifica con Dio . 3 ) ” IL MOTORE “ : questa é la classica dimostrazione dell’esistenza di Dio di Aristotele : dal momento che ” omne movens , ab alio movetur ” , teoricamente la ricerca di ciò che mette in moto i pianeti e tutte le realtà andrebbe avanti all’ infinito e di fatto nulla si muoverebbe : bisogna ammettere l’ esistenza di un motore immobile , che muove senza essere mosso : questo é per Tommaso Dio . 4 ) ” LE CAUSE “ : é la stessa prova del motore , ma vista sotto chiave di cause : tutto ciò che esiste é causato da qualcosa , ma non si può andare all’ infinito alla ricerca delle cause e bisogna ammettere una causa che causi senza essere causata : questa é per Tommaso Dio . 5 ) ” LA CONTINGENZA “ : contingente é una cosa che pur esistendo potrebbe benissimo non esistere : se tutto fosse contingente , nulla potrebbe esistere perchè nulla creerebbe nulla : dalla catena delle cose contingenti si deve risalire ad un ente non contingente , vale a dire necessario , ossia che ha la causa della sua esistenza in sé : Dio é ” causa sui ” , é necessario e si crea da solo . Da notare che le ultime 2 ” vie ” di Tommaso , pur se di derivazione aristotelica , Aristotele non le avrebbe accettate perchè in esse é presente l’ idea di creazione , che non é invece presente nelle prime 3 . Ben diversa sarà la posizione di Guglielmo da Ockham : per lui non si può argomentare nè l’ esistenza nè l’ essenza di Dio . Soffermiamoci ora sulla cosiddetta ” disputa sugli universali ” , ossia le idee platoniche e le forme aristoteliche : le idee erano trascendenti , ossia stavano al di fuori , avevano esistenza indipendente dalle cose empiriche , mentre invece le forme erano immanenti , ossia esistevano dentro alle cose materiali . La disputa scaturisce da un testo di Porfirio , un allievo di Plotino , che in un ” Commento alla logica di Aristotele ” dice che a riguardo della questione degli universali , se esistano o meno , e se abbiano esistenza propria o no , tratterà in seguito , ma in realtà non ne parla più . Da qui scaturisce la disputa , che altro non é che un tentativo dei medioevali di affrontare la tematica lanciata da Porfirio : le posizioni di fronte alla domanda ” gli universali esistono ? ” sono essenzialmente due ; vi é una posizione NOMINALISTA , che vuole che gli universali altro non siano che ” flatus vocis ” , soffi di voci : esistono solo come vibrazioni sonore . Vi é poi una posizione REALISTA che , sulla scia di Platone e Aristotele , ammette l’ esistenza degli universali ; tuttavia vi sono delle varianti : 1 ) Vi é chi sostiene che esistano ANTE REM , ossia prima dell’ esistenza stessa della cosa in questione , come aveva sostenuto Platone . 2 )Vi sarà chi sosterrà che esistano IN RE , nella cosa stessa , come aveva detto Aristotele . 3 ) Vi sarà chi dirà che esistono POST REM , ossia nella misura in cui esistono nella mente , come concetti : per esempio , guardando ad una folla estraggo il concetto di ” uomo ” . Queste tre diverse concezioni dell’ universale non si escludono a vicenda : l’ ordine in cui le abbiamo poste implica che se ammettiamo la prima , allora ammettiamo anche le altre due , ma non viceversa . In un certo senso viene ripreso Plotino e la sua ipostatizzazione della realtà : nel nous c’ erano le idee platoniche , nell’ anima le forme aristoteliche : questo testimonia che l’ esistenza dell’ universale ante rem e in re non contrasta ed é compatibile : la forma era allo stesso tempo trascendente e immanente . Da notare che l’ espressione “universali ante rem ” va depurata dal significato platonico vero e proprio : per i cristiani le idee esistono nella misura in cui son pensate da Dio : per Platone le idee erano autonome rispetto a Dio ( al Demiurgo ) , per i neoplatonici esistono e vengono interiorizzate e diventano l’ oggetto interno alla mente divina , per i cristiani esistono nella misura in cui sono pensate da Dio ; le idee esistono ” ab aeterno ” in Dio e dato che tutto deriva da Dio , allora tutto é presente come idea nella mente di Dio e quindi il mondo delle idee di Platone si identifica con la seconda persona della Trinità , la sapienza : Dio ha quindi un pensiero interno , ossia le idee . La differenza tra il pensiero di Dio e quello dell’ uomo é che l’ uomo pensando può solo riconoscere le verità , Dio invece pensando ad una verità la fonda : la verità che 2 + 2 = 4 é autonoma e sarebbe così anche se io non la pensassi : é tale perchè pensata dalla mente divina : Platone stesso diceva che l’ uomo le verità ( quando proprio gli va bene ) può conoscerle ma non fondarle ; però per lui lo stesso era per Dio : il Demiurgo le verità non le fondava , si limitava a ” copiarle ” e una cosa era santa non perchè piaceva a Dio , ma piaceva a Dio perchè era santa . Quindi Dio crea il mondo prendendo se stesso come modello , o , meglio , l’ apparato ideale insito nella sua natura : e così le idee ( o universali che dir si voglia ) ante rem passano in re con la creazione . Dio le idee le possiede ab aeterno , ciò significa che l’ idea di uomo , per esempio , l’ ha sempre avuta ( universale ante rem ) e quando crea l’ uomo la fa passare in re . Se ammettiamo l’ ante rem , oltre all’ in re , allora sarà anche compatibile il post rem : é un processo di astrazione che avviene nel nostro cervello , ossia da casi particolari si astrae mentalmente l’ universale . Se però ammetto solo il post rem , allora non sarà più necessario ammettere l’ ante rem : infatti dirò che gli universali esistono solo come processo umano di astrazione , e quindi nè l’ ante rem platonico nè l’ in re aristotelico potrà esistere . Naturalmente vi furono anche posizioni radicali di nominalismo : il concettualismo , che ammetteva in qualche modo , pur non riconoscendo valida l’ ante rem e l’ in re , l’ esistenza degli universali . Il vero e proprio nominalismo , però , tendeva a volere gli universali come ” flatus vocis ” , espressione coniata dal primo vero nominalista , Roscellino : l’ universale é solo una vibrazione sonora ed esiste solo nella parola che esprimo ( ” uomo ” , cavallo ” … ) . Di Roscellino non possediamo scritti perchè venne condannato dalla Chiesa : pare infatti essere stato accusato di triteismo , ossia di spezzare la Trinità in 3 divinità , ricadendo così nel politeismo : era la conclusione necessaria alla quale lo portavano le sue idee , in quanto la dottrina trinitaria implica una natura e tre persone , ma se si é nominalisti non si può ammettere che tre persone siano presenti in una natura : per i nominalisti l’ unica cosa esistente sono i casi singoli , gli individui singoli : non vi é alcuna idea o forma di uomo : una cosa non può partecipare di tre cose ( nel caso della Trinità ) . Queste sono questioni sia logiche sia metafisiche ; Tommaso é il maggior filosofo di ispirazione aristotelica del Medioevo e più di ogni altro rese l’ aristotelismo adatto al cristianesimo : prima di lui ci si era accontentati della versione averroistica o si rendevano in qualche modo compatibili i punti aristotelici meno adatti al cristianesimo . Questo fino ad Alberto Magno ; Tommaso , invece , operò una vera e propria riforma dell’ aristotelismo nel suo nucleo in modo tale da rendere effettivamente compatibile al cristianesimo l’ intero sistema aristotelico . E’ risaputo che in Aristotele siano presenti una sfilza di dualismi come quello potenza-atto , materia-forma , essenza ( ciò che una cosa é ) – esistenza ( il fatto di esistere ) ; potenza-atto corrisponde a materia-forma ( la materia é la potenza e la forma é l’ atto ) , ma essenza ed esistenza in Aristotele stanno entrambi dalla parte dell’ atto ( la madre dà la materia , il padre la forma e un uomo in potenza diventa uomo in atto quando ha sua essenza ed esistenza ) . Tommaso ammette sì il dualismo potenza-atto : però lui mette dalla parte della potenza sia la materia sia la forma , che danno l’ essenza ; dalla parte dell’ atto lui mette l’ esistenza : Aristotele era convinto che la materia fungesse da ” principium individuationis ” : noi siamo diversi l’ uno dall’ altro per via della materia ; se non ci fosse materia saremmo tutti uguali , o , meglio , saremmo uno solo : non a caso l’ unico essere privo di materia che Aristotele ammetta é Dio , che é uno solo , puramente formale . Per Tommaso la materia , invece , é QUANTITATE SIGNATA , ossia é quantitativamente determinata : non é la materia che ci distingue , ma quella determinata quantità di materia che contraddistingue ciascuno di noi : é l’ unica forma uomo che si cala in diversi quantitativi di materia . L’ introduzione di questa concezione permette a Tommaso di affermare che per gli esseri materiali l’ essenza non é data solo dalla forma , ma anche dalla materia : d’ altronde se parlando di ” uomo ” escludiamo la materia non stiamo più parlando di un uomo , ma di un essere senza materia , un angelo . Materia + forma = essenza e vanno collocate tutte e 3 dalla parte della potenza perchè l’ essenza in quanto tale é solo potenza : l’ essenza dell’ uomo é l’ essenza dell’ uomo così come esiste nella mente di Dio : l’ uomo é esistito prima ancora di essere creato , come essenza insita nella mente di Dio , ma solo in modo potenziale : Adamo non c’era , o meglio , c’ era come idea nella mente di Dio ; per il passaggio all’ atto é necessario che Dio decida di creare il mondo : all’ essenza ( materia + forma ) , Dio aggiunge l’ esistenza e quindi la materia ” quantitate signata “ . E’ la modificazione che consente a Tommaso di rendere l’ aristotelismo compatibile al cristianesimo : la concezione aristotelica , di per sè , non potrebbe rendere ragione dell’ atto creatore del mondo : tutto infatti per Aristotele ha in sè la ragione della sua esistenza . Ogni cosa che esista effettivamente ha in sè essenza ed esistenza . Cartesio quando cercherà di definire la sostanza dirà che essa é ciò ” che non ha bisogno di nient’ altro fuori di sè ” : così come per Aristotele , anche per Cartesio sostanza é tutto ciò che esiste da sè . Aristotele divideva tra sostanze , dotate di esistenza autonoma , ed accidenti , cose che per esistere hanno bisogno che esista la sostanza : essi hanno esistenza ” parassitaria ” : il giallo per esistere ha bisogno di una sostanza , per esempio un libro : di per sè il giallo non esisterebbe , esiste solo insieme all’ esistenza della sostanza . In una concezione cristiana , a rigore , solo Dio é sostanza , perchè tutto per esistere ha bisogno di essere creato da Dio ; sostanza per Aristotele era ciò che aveva essenza ed esistenza : é la forma che ad un cavallo lo fa essere e lo fa essere cavallo . Solo Dio ha identificazione tra essenza ed esistenza ; Tommaso correggerà la frase ” sostanza é tutto ciò che per esistere non ha bisogno di nulla all’ infuori di sè ” facendola diventare ” sostanza é tutto ciò che per esistere non ha bisogno di null’ altro , se non di Dio . L’ uomo é essenza nella misura in cui é pensato da Dio ab aeterno , é esistenza nella misura in cui Dio vuole crearlo : pare quindi che non ci sia differenza tra uomo in potenza ( pensato da Dio ) e uomo in atto ( creato da Dio ) : invece c’é perchè Tommaso spiega che é vero che Dio poteva decidere di non creare l’ uomo , ma non poteva decidere di non pensarlo , perchè il pensare é connaturato all’ essenza stessa di Dio : Dio può tutto , ma non può non essere Dio : dalla volontà di Dio dipende l’ aver creato il mondo , cosa che volendo avrebbe potuto non fare , ma non il pensarlo : fa infatti parte della sua natura . E così le verità che noi possiamo solo conoscere , lui le fonda col suo pensiero : tuttavia Dio non decide che 2 + 2 = 4 , ma che 2 + 2 = 4 dipende dall’ essere pensata da Dio : la verità dipende dall’ essere pensata da Dio . Per Tommaso l’ onnipotenza divina é limitata dalla natura stessa di Dio . Diversa é la concezione dell’ onnipotenza divina di Ockham : lui é francescano e il francescanesimo é un ordine più mistico che non intellettuale : scarso é l’ interesse per la speculazione teologica , forte é invece l’ amore per Dio e la mistica . Chiaramente questa concezione ha portato i francescani ad una diversa idea dell’ onnipotenza : i domenicani , nella loro visione intellettuale , identificavano di fatto il mondo delle idee con la seconda persona della Trinità , la Sapienza : l’ esistenza del mondo per loro dipende dall’ essenza divina , l’ essenza del mondo dipende invece dalla sapienza divina . Per loro l’ onnipotenza era limitata : Dio non può scegliere qualsiasi cosa : io so che 2 + 2 = 4 , per Dio 2 + 2 = 4 perchè lo pensa lui : ma non é che decida che sia così , é limitato dal suo pensiero stesso . Per i francescani , invece , Dio ha onnipotenza totale : tutto dipende da Dio , sia l’ essenza sia l’ esistenza del mondo ; tra quelli che la pensano così vi é appunto Ockham : per loro ciò che é santo lo é perchè piace a Dio ; Ockham diceva , riprendendo il primo comandamento che dice di amare Dio , ” se Dio avesse decretato che fosse meritevole odiare Dio , allora sarebbe giusto odiarlo ” : questa é la cosiddetta prospettiva voluntarista : Dio ha stabilito ogni cosa : se avesse stabilito che 2 + 2 = 5 , allora sarebbe così . Dio può scegliere ciò che vuole , é talmente onnipotente da poter cambiare l’ essenza delle cose . Questo discorso si riconnette anche con il radicale nominalismo di Ockham : la volontà di Dio é addirittura più potente dell’ intelletto divino : in Ockham si trovano 3 posizioni che in qualche modo si riconnettono tra loro : a ) nominalismo , ossia il negare l’ esistenza degli universali ; b ) separatismo , ossia l’ inconciliabilità tra fede e ragione ; c ) voluntarismo , ossia la prospettiva secondo la quale Dio può tutto e ha stabilito tutto secondo il suo volere . Per quel che riguarda gli universali Ockham nega totalmente la loro esistenza : non esistono nè in re , nè post rem , nè ante rem : per lui gli universali sono una inutile moltiplicazione della realtà : questo é un problema già affrontato da Platone nel Parmenide ed era una delle accuse mossegli da Aristotele : tuttavia anche le idee in re di Aristotele sono per Ockham una inutile moltiplicazione della realtà : per Ockham bisogna evitare tutto ciò che é inutile e questa idea é sintetizzata nel cosiddetto ” rasoio di Ockham ” , così chiamato perchè con esso si cerca di tagliare via il superfluo : ” frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora ” : quando si può spiegare una cosa con poco , perchè dilungarsi ? Nel Medioevo , poi , ogni minima cosa la si attribuiva ai diavoli o agli angeli , a seconda che fosse positiva o negativa . Chiaramente il ” rasoio ” Ockham lo applica pure agli universali : se posso spiegare qualcosa con pochi elementi , perchè introdurne di superflui ? Ma come si può fare a meno degli universali per spiegare la realtà ? Pare assai difficile , ma Ockham ci prova , grazie all’ introduzione di due concetti : 1 ) intentio e 2 ) suppositio La intentio é la caratteristica propria dei segni di possedere un significato : gli universali non ci sono , ci sono solo realtà individuali : la parola ” uomo ” é una realtà individuale , che , scritta , altro non é che un insieme di macchie di inchiostro e si riferisce alla parola detta : se la si legge suona nell’ aria ” uomo ” : é una realtà individuale che vibra nell’ aria e si riferisce ad un concetto , quello di uomo che io ho nella testa : non é un universale , però si riferisce agli uomini : il concetto uomo , di per sè individuale , si può riferire a più persone : non esistono universali , ma funzioni universali con la caratteristica di potersi riferire e tendere ad altre : la parola scritta ” uomo ” non si riferisce all’ idea di uomo ( che non esiste ) , ma alla parola vibrante nell’ aria : dopodichè la parola vibrante nell’ aria si riferisce a tanti uomini contemporaneamente : ma tuttavia non é un universale . Ma come possono esistere le funzioni universali se gli universali non esistono ? Infatti si passa da una macchia di inchiostro ad una parola e poi a più cose : come fanno a richiamarsi tra loro ? C’ é la suppositio ( dal latino subpono = metto al posto di ) : i segni sono ciò che può stare al posto di qualcos’ altro ; dire ” Socrate é uomo ” per Platone e Aristotele significava che Socrate partecipava dell’ idea di uomo per l’ uno , e che la forma uomo era in lui per l’ altro : una cosa individuale partecipava di una cosa universale . Per Ockham vuol dire che la parola ” Socrate ” sta al posto di quella particolare cosa che é Socrate in carne e ossa : parlando o scrivendo sostituiamo le realtà di cui parliamo con parole o macchie di inchiostro . Anche per la parola ” uomo ” é lo stesso : la si usa per sostituire gli uomini in carne e ossa , ossia Socrate più altri : ciò significa semplicemente che esiste una cosa per la quale possono ugualmente stare sia la parola ” Socrate ” sia la parola ” uomo “ ; alcune cose stanno al posto di altre quando sono un segno o naturale o artificiale di quelle cose ; si parla di segni artificiali quando , ad esempio , vediamo un cavallo ed esso ci lascia un ” segno ” nella nostra testa e questo segno non sarà solo più segno di quel determinato cavallo ( segno naturale ) , ma anche di tutte le cose simili ( gli altri cavalli ) . E’ una questione sia logica ( in quanto si occupa del significato ) sia ontologica ( gli universali non esistono ) che porta a delle conseguenze : dire che esistono solo i casi particolari significa di fatto far venir meno la distinzione essenza-esistenza ; l’ idea generale del Medioevo era che nella mente di Dio vi fosse ab aeterno l’ apparato ideale e che Dio ad un certo momento decidesse di creare il mondo con queste idee insite nella sua mente : era sì Dio a decidere se creare o meno il mondo , ma tuttavia non poteva decidere se pensarlo o meno : l’ apparato ideale nella sua mente lo vincolava ( Dio può tutto , ma non può non essere Dio ) ; per Ockham , invece , gli universali ( o idee che dir si voglia ) non esistono e quindi Dio non ha l’ apparato ideale nella sua mente che lo vincola : creando il mondo , crea essenza ed esistenza : non é che crei Adamo seguendo l’ idea di uomo ( che per Ockham non esiste ) : Dio crea dal nulla Adamo e gli dà simultaneamente esistenza ed essenza . Il nominalismo si lega radicalmente al volontarismo : implica una onnipotenza totale , dove Dio non é vincolato neanche più dall’ apparato ideale della sua mente e può davvero tutto : tutto dipende esclusivamente dalla sua volontà . E’ vero che in natura ci sono delle forme di regolarità ( le leggi fisiche ) ; queste leggi potrebbero essere pensate come essenze della realtà e si potrebbe dire che non é Dio a decidere che vadano così : per esempio , ogni corpo tende a cadere verso il basso , e quindi anche una penna cadrà verso il basso . Ockham era pienamente cosciente di ciò ma tuttavia arrivava a dire : ” é vero che ogni corpo cade verso il basso , ma se Dio volesse non sarebbe così ” : Dio può cambiare le regole a suo piacimento perchè non ha vincoli ; quella che noi chiamiamo ” regolarità naturale ” non é però tale perchè presente nella mente di Dio come idea , ossia come essenza di Dio . Ockham arriverà a distinguere il modo di operare divino in potentia absoluta e potentia ordinata : Ockham é consapevole che esistano forme di regolarità in natura , ma é convinto che il fatto che esistano non comporti che esse debbano per forza esistere : se Dio volesse cambiare le regole del gioco potrebbe farlo a suo piacimento : potrebbe benissimo non far cadere in basso gli oggetti , ma farli cadere obliquamente . In altre parole , se una penna cade a terra é così perchè Dio ha deciso che sia così , che ci sia un ordine : tuttavia non é vincolato da quest’ ordine . Quindi é vero che per potenza ordinata ci sono delle leggi fisiche , ma tuttavia per potenza assoluta Dio può stravologerle ( pensiamo ai miracoli ) . Una concezione simile a quella teologica di Ockham sarà quella politica del 1600 , il secolo dell’ assolutismo : ci sarà chi dirà che esistono leggi , ma che esistono solo perchè il sovrano l’ ha decretato . Nel Medioevo invece , per quel che concerne la politica , il sovrano era vincolato , per esempio , dalla consuetudine . Tutto questo ha una conseguenza ancora più importante che porterà Ockham a concepire la filosofia e la religione come inconciliabili : ciò che é necessario é prevedibile , ciò che é volontario ( ossia arbitrario ) non é prevedibile : per esempio , l’ atteggiamento di un cane affamato davanti al cibo é prevedibile , quello di un uomo no , perchè é dotato di libero arbitrio : può decidere se mangiare o trattenersi , e quindi il suo atteggiamento non sarà prevedibile . Se ammettiamo le essenze ( le idee ) divine che da Dio non dipendono e che sono necessarie é un conto , ma se dico che esse non ci sono allora sarà impossibile effettuare ragionamenti che seguano le strutture della realtà : prendiamo il caso della dimostrazione geometrica dove i vari passaggi hanno legami tra loro : da una verità A passo ad un’ altra verità B , poi a una C e così via : si tratta di collegamenti necessari che non dipendono da Dio . Se però , ad esempio , qualcuno ( per esempio Dio o il triangolo stesso ) potesse decidere che la somma degli angoli interni di un triangolo vale 37 gradi , ossia se dipendesse dalla volontà di qualcuno , allora non avrebbe più senso e sarebbe impossibile effettuare i passaggi dimostrativi . Lo stesso vale per quel che riguarda Dio secondo Ockham : siccome le essenze ( le idee ) non ci sono , allora non si può ragionare sulle strutture della realtà divina : quindi le complesse catene di ragionamenti di Tommaso sono agli occhi di Ockham assurde e inutili . L’ esistenza di Dio é indimostrabile . Finchè ragiono sulle regolarità in natura che dipendono dalla potenza ordinata allora io posso ragionare e risalire le varie ” catene ” di ragionamenti : verità A poi B e poi C ; ma quando entro nel campo delle realtà soprannaturali allora entro nel campo di Dio e non posso ipotizzare di argomentare ragionando perchè non esistono concatenazioni ( da una verità A a una B e così via ) ; sostenendo il volontarismo di Dio é come se spezzassi l’ ipotetica ” scala ” delle dimostrazioni che mi permettono di dimostrare con la ragione perchè il rapporto tra Dio e la natura non é più necessario ( tra Dio e le idee ) , ma é un rapporto volontario ( tra Dio e Dio ) . Se ammetto le idee nella mente di Dio , come Tommaso , posso dimostrare razionalmente l’ esistenza di Dio e posso risalire la ” scala ” delle verità , ma se nego gli universali , come Ockham , allora ciò non é più possibile perchè Dio agisce solo secondo la sua volontà . Nella matematica , ad esempio , i pioli della scala argomentativa sono fortissimi perchè tutto é regolato , ma più c’ é arbitrio e meno si possono usare i pioli . Secondo Ockham più ci si avvicina a Dio e più ci si allontana dalla realtà : ammettendo il nominalismo elimino l’ essenza e la scala non può più funzionare in ambito divino : così allora Ockham arriva a spezzare la scolastica , che altro non era che tentare di dimostrare le realtà divine con la ragione e con la filosofia . La filosofia diventa indipendente dalla religione : la fede allora si rafforza perchè é la sola che può portare a Dio ( se infatti l’ esistenza di Dio fosse dimostrabile razionalmente nessuno avrebbe più fede ) . La fede arriva a darmi la ” certezza di cose non viste ” , come diceva san Paolo .
RINASCIMENTO
LA FILOSOFIA UMANISTICA
Umanesimo e Rinascimento sono i due termini che vengono usati a volte indifferentemente per segnare una periodizzazione interna alla storia europea che coincide con il passaggio dall’ età medioevale a quella moderna . A volte invece i due termini sono usati addirittura per indicare periodi distinti . Entrambi sono termini coniati piuttosto di recente , nel 1800 , quando alcuni storici hanno cominciato a ravvisare una piena coscienza degli autori del 1400 e del 1500 di vivere un periodo di autentica rinascita . Il concetto di Rinascimento implica sì l’ idea di un rinnovamento , ma di un rinnovamento che si riaggancia a radici , a quelle classiche : é un tornare radicalmente alla cultura classica latina e greca , cercando di dimenticare la ” tragica ” parentesi del Medioevo ; anche in campo religioso si vuole tornare alle origini del cristianesimo , al Vangelo , alle fonti antiche : Lutero stesso , il padre della Riforma , é quindi assolutamente coerente alle teorie rinascimentali . Certo noi parlando di riforma abbiamo in mente l’ idea di ” rinnovamento ” , ma all’ epoca significava tornare alle origini , dare di nuovo al cristianesimo la sua forma primordiale ( da qui il termine Riforma ) . Ma tornare alle origini non significa riagganciarsi alla cultura classica e basta , bensì vuol dire riprendere quella cultura per poter dare nuovi frutti : Giordano Bruno , filosofo dell’ epoca , descriverà il Rinascimento servendosi dell’ immagine di una pianta amputata , ma non ancora morta ; il tronco é ancora vivo e dopo secoli bui ( il Medioevo ) ricomincia a germogliare . Per la prima volta , si ha coscienza che c’é stata una rottura con il mondo classico , che va ripreso , pur nella consapevolezza che esso sia ben diverso : per gli uomini medioevali , invece , non c’era stata alcuna frattura e non coglievano differenze tra il loro mondo e quello dell’ età classica : Dante stesso non era consapevole della rottura e nella Commedia fa un ” calderone ” di personaggi di ogni epoca : per dirne una , Didone e Paolo e Francesca si trovano a tu per tu nell’ Inferno . Il giudizio che si dà al Rinascimento é di solito fortemente positivo , ma é interressante notare che ci furono anche aspetti negativi : nella sua prima fase di sviluppo , il Rinascimento é un periodo di chiusura politica e sociale , a differenza del Medioevo ( ricordiamoci che Dante condannava l’ eccessiva dinamicità di Firenze ) . Questa chiusura é presente anche nella cultura , che é fortemente aristocratica : l’ Umanesimo del ‘400 é latino ( il latino già a fine Medioevo stava prendendo sempre più piede ) , mentre il Medioevo aveva invece visto nascere il volgare e la Commedia stessa di Dante non é in latino . Nel Medioevo , infatti , la borghesia stava affermandosi sempre più e non era certo a conoscenza del latino . Le Signorie e i Principati sono , per esempio , simboli della chiusura politica e sociale del Rinascimento . Nel ‘500 , anche se non si parlerà più in latino , l’ italiano sarà volutamente aulico e latinizzante , espressione di un’ aristocrazia volutamente conservatrice . Altro aspetto negativo del Rinascimento é senz’ altro la concezione che si ha e che é arrivata fino a noi del Medioevo , visto come un’ epoca di decadenza e di ignoranza : i Rinascimentali volevano segnare il più possibile il distacco dal Medioevo , sebbene vi fossero stati periodi d’ oro per la cultura , come il XII secolo , anche perchè la fase del Medioevo che essi meglio conoscevano era il 1300 , il secolo a loro più vicino , caratterizzato dalla peste e dalla carestia . Il concetto di Umanesimo , anch’ esso coniato in epoca recente , é diverso rispetto a quello di Rinascimento e tra i due risulta piuttosto difficile trovare analogie ; il modo più semplice di intenderli , evitando di dire che essi si riferiscono a due periodi distinti , é sostenere che essi si riferiscano a due aspetti diversi della stessa cosa . Con il termine Rinascimento ci riferiamo in generale alla rinascita avuta dopo il Medioevo e al riagganciarsi alla cultura classica , con il termine Umanesimo invece ci riferiamo a determinati aspetti di questo rinascere , e più precisamente alle humanae litterae : nel 1400 rinasce l’ interesse per la letteratura latina che era andato perduto nel Medioevo : comincia una vera e propria caccia delle opere latine nei monasteri , vengono realizzate edizioni critiche e si riscopre il latino classico , quello di Cicerone , ben diverso da quello medioevale , rozzo e pieno di errori , dove , per dirne una , l’ uscita del genitivo della prima declinazione era diventata -e al posto di -ae . A questo proposito va senz’ altro ricordato il lavoro di Poggio Bracciolini , che rinvenne , tra le varie opere , le Istituzioni oratorie di Quintiliano e La natura delle cose di Lucrezio . Nasce la filologia , ossia si hanno gli strumenti linguistici per recuperare le origini del testo : accanto al latino troverà ampio sviluppo anche il greco , che si affermerà soprattutto dopo il crollo dell’ Impero bizantino ( 1453 ) con l’ avvento in Italia di dotti greci che portavano con sè manoscritti in greco . Nel Medioevo , ancora più che con il latino , c’ era stata un’ autentica rottura con il greco : quasi nessuno lo conosceva più e Dante stesso , nella Commedia , farà citazioni greche scorrette ! Umanesimo significa anche humanitas , la paideia greca , già presente ai tempi dei Romani : l’ humanitas non é nient’ altro che l’ insieme degli spetti che contribuiscono a formare l’ uomo e può quindi essere tradotta con ” formazione dell’ uomo ” . Nel Rinascimento si cerca di riprendere l’ humanitas romana ” in toto ” : il che presenta senz’ altro aspetti positivi , come il recupero di testi antichi e la diffusione del greco , ma non dobbiamo dimenticarci che ebbe anche aspetti negativi , in primis la tendenza formalistica , ossia il tenere in maggior considerazione la forma rispetto al contenuto , tendenza che é arrivata fino a noi . Non a caso gli Umanisti polemizzarono aspramente contro i Medioevali solo perchè esponevano le loro teorie in un latino poco gradevole , senza però neanche badare a ciò che essi dicevano : Pico della Mirandola sottolineerà particolarmente questo ” cattiva abitudine ” degli Umanisti nella lettera in cui critica Ermolao Barbaro per il suo disprezzare i Medioevali esclusivamente per via del loro parlare . Se la mettiamo in questi termini , anche Platone scriveva meglio di Aristotele , ma non per questo Aristotele non va apprezzato ! Anche Montaigne si accorse di questa tendenza alla formalità e alla retorica e disse a riguardo della cultura umanistica : “noi sappiamo declinare la virtù , ma non amarla ” . Se prendiamo Giordano Bruno , per esempio , ci accorgiamo che egli scrive in modo molto elegante , ma senza rigore filosofico . L’ humanitas implica più di ogni altra cosa la centralità dell’ uomo in ogni campo ; ciò non significa che egli sia al vertice della realtà ( dove invece ci sarà sempre Dio ) , bensì vuol dire che é al centro di tutto quanto . Come accade per tutte le grandi correnti culturali , anche per quel che riguarda l’ Umanesimo esso fu usato per denominare ” umanisti ” certe persone effettivamente del ‘400-‘500 , ma anche per altre persone di altri periodi ; i sofisti , ad esempio , verranno chiamati ” illuministi ” e sempre i sofisti verranno chiamati ” umanisti ” perchè abbandonano la ricerca del principio per concentrarsi esclusivamente sull’ uomo ; in poche parole , come dice Cicerone , essi riportano la filosofia ” dal cielo alla terra ” e quindi possono essere classificati , giustamente , come umanisti . Tuttavia l’ Umanesimo del ‘400 é cristiano e vede sì l’ uomo al centro , ma Dio resta pur sempre il vertice della realtà ; é una prospettiva ben differente da quella teocentrica del Medioevo , dove si arrivava addirittura a vedere la vita come preparazione alla morte ( Dante dice : ” il vivere che é un correre alla morte ” ) ; l’ uomo é quindi per gli Umanisti al centro della realtà e lo si può notare anche dai quadri che lo vedono in modo assai diverso rispetto al Medioevo . L’ uomo assume un significato importantissimo : gli viene riconosciuta medietà ; egli sta cioè a cavallo tra mondo razionale e mondo celeste , tra mondo spirituale e mondo non spirituale , tra angeli e cose . Già Platone aveva sottolineato questa medietà dell’ uomo e per questo per tutto il Rinascimento sarà apprezzato molto più di Aristotele ( lo si preferirà anche per il suo stile oratorio , più raffinato e ricco di metafore ) : l’ uomo é copula mundi , ossia é l’ elemento di medietà tra Dio e tutto il creato , quell’ elemento in grado di tenere insieme mondo materiale e Dio : é solo grazie all’ uomo e alla sua attività che c’ é unitarietà dell’ Universo . La centralità dell’ uomo , poi , si manifesta nel cosiddetto ” Umaneimo civile ” , dove l’ uomo adempie funzioni politiche e sociali . Ma recupero del mondo classico non significa solo recupero del latino e del greco : vengono riportate in auge la matematica di Euclide , la medicina di Galeno e anche i filosofi venuti prima di Platone e Aristotele , così come quelli venuti dopo . Nascerà una vera e propria disputa tra sostenitori di Platone e sostenitori di Aristotele ; tuttavia tutti , anche i suoi più accaniti sostenitori , rifiuteranno l’ Aristotele ” medioevale ” , quello che veniva chiamato il ” philosophus ” per eccellenza : l’ Aristotele medioevale va assolutamente scartato e quindi si preferisce , paradossalmente , l’ aristotelismo di Averroè o di Sigieri di Brabante . Ma , come detto , vengono ripresi anche i filosofi più antichi e quelli più moderni : il naturalismo dei primissimi come l’ epicureismo , che era stato condannato nel Medioevo . Soprattutto quest’ ultimo , ovvero l’ epicureismo , si confaceva particolarmente alla prospettiva umanistica : infatti chi più di Epicuro proclamava la centralità dell’ uomo nel mondo ? Anche l’ idea di cercare la felicità più di ogni altra cosa , tipicamente epicurea , verrà apprezzata e messa in pratica soprattutto nella Firenze del ‘400 , contro la quale tuonerà il Savonarola . Il filo conduttore della filosofia , in fin dei conti , sarà l’ acceso anti-aristotelismo , dove si combatterà non tanto contro Aristotele in sè , quanto piuttosto contro l’ Aristotele ” philosophus ” della Scolastica . Particolarmente interessante risulta l’ atteggiamento generale del Rinascimento nei confronti della magia , nella quale crederanno perfino gli intellettuali e i filosofi , come Pico della Mirandola ; va subito precisato che questo rapporto con il magico ( e con l’ astrologia ) é espressione di un atteggiamento culturale vivace e dinamico . Già negli ultimi secoli del Medioevo era nata l’ alchimia , ossia quella che al giorno d’ oggi definiamo ” chimica ” , orientata alla trasformazione materiale della realtà tramite riti e formule magiche . Nasce la concezione del sapere come potere , ossia del sapere che può diventare strumento di trasformazione della realtà . Viene quindi meno , in fin dei conti , l’ idea aristotelica del sapere per il sapere e prevale quella che il vero sapere é quello utile , che può trovare applicazioni nella realtà . La magia se é vero che va contro le concezioni aristoteliche é altrettanto vero che si fonda su presupposti neoplatonici : alla base della magia sta infatti l’ idea della realtà vista come vari livelli legati tra loro in modi complessi dove basta toccare la corda giusta in uno di questi livelli per avere risultati su altre ” zone ” della realtà ; é evidente la derivazione neoplatonica di questa concezione della realtà basata su livelli , segreti e corrispondenze .
FILOSOFIA MODERNA
INTELLETTO E RAGIONE DA CARTESIO A HEGEL
INTRODUZIONE
Non appena cerchiamo di esaminare il problema del rapporto tra intelletto e ragione nella filosofia moderna ci troviamo ad un bivio: possiamo infatti dire, in prima analisi, che tra intelletto e ragione non vi è alcuna differenza, cosicchè si tratta di due termini diversi che designano la medesima cosa; oppure possiamo sostenere che intelletto e ragione siano termini specifici che hanno contenuti concettuali diversi fra loro: in questo caso, si tratterà allora di stabilire quale tra i due (l’intelletto? la ragione?) debba avere la priorità sull’altro. Probabilmente, il massimo esponente del primo atteggiamento è stato Cartesio stesso, il quale ha – in sostanza – considerato l’intelletto e la ragione come espressioni generiche riferibili all’attività del pensiero: secondo questa prospettiva, non esiste un’ipotetica facoltà dell’intelletto e una della ragione, ma, al contrario, esiste solamente una più generale facoltà del pensare, la quale potrà essere ora appellata “ragione”, ora “intelletto”, ora “coscienza”. In questo caso, l’unico elemento di specificità riconoscibile è che questa facoltà è esclusivamente umana, ed è anzi ciò che contraddistingue il nostro genere da quello animale: solo l’uomo, infatti, può esercitare il pensiero. Un’importante conseguenza derivante dall’identificazione di ragione e intelletto è l’impossibilità di distinguere nettamente la funzione conoscitiva da quella pratico/morale, poiché sarà la stessa facoltà del pensare che ora si applica all’ambito teoretico, ora a quello pratico. Questa posizione, sostenuta a gran voce da Cartesio – l’iniziatore dell’età moderna – sarà condivisa da Hobbes, da Locke e da Hume, mentre sarà Spinoza a distaccarsene e a lui si rifaranno gran parte delle posizioni successive fiorite nel Settecento e prevalse dalla fine dell’età dei Lumi in poi. Prima di addentrarci nelle problematiche dell’età moderna, sarà opportuno chiedersi dove sia storicamente nata l’idea della distinzione tra intelletto e ragione: non è possibile stabilire chi per primo l’abbia prospettata, ma, ciononostante, si può dire con certezza che ad Aristotele vada fatta risalire la sua formulazione più precisa. Secondo lo Stagirita, attraverso la ragione (dianoia) possiamo acquisire conoscenze impiegando i sillogismi, ossia quei ragionamenti concatenati strutturati in maniera tale che, partendo da due premesse, si pervenga ad una conclusione. Classico esempio di sillogismo è il seguente: ” a) tutti gli animali sono mortali, b) tutti gli uomini sono animali, quindi tutti gli uomini sono mortali”. Ciascuna delle premesse costituisce, a sua volta, la conclusione di un altro sillogismo, con l’assurda conseguenza che – risalendo la scala di sillogismo in sillogismo – si correrebbe il rischio di andare all’infinito. Ed è per scongiurare questo pericolo che Aristotele fa riferimento a premesse che non sono conclusioni di nessun altro sillogismo: tali sono, ad esempio, il principio di non contraddizione, il principio del terzo escluso, il principio di identità e il principio secondo cui il tutto è maggiore della parte. Tali premesse vengono da lui dette “princìpi” e, a differenza delle normali premesse (colte tramite il ragionamento discorsivo, dianoia), possono essere intuitivamente colti dall’intelletto (nouV), il quale gode pertanto di una sua superiorità logica e assiologica. Questa distinzione operata da Aristotele tende sempre più ad affermarsi nella tradizione filosofica, soprattutto presso i Neoplatonici, ad avviso dei quali la realtà è – un po’ come la luce che emana dalla fiaccola – una emanazione processuale (prodoV) dall’Uno assoluto, il quale non contiene in sé alcuna determinazione specifica. Ma tra l’Uno e i molti quali appaiono ai nostri sensi c’è un elemento intermedio che, da un lato, ha già in sé la molteplicità (e ne è principio) e, dall’altro, coglie l’assoluta unità della molteplicità dell’Uno: tale elemento mediano è il LogoV (“ragione”), che sta alla base dell’ordine dell’universo; ma tale LogoV deve contenere anche la molteplicità dell’Uno e non può cogliere ciò attraverso la ragione (intesa come ragionamento discorsivo), bensì intuitivamente, mediante il NouV (“intelletto”). Questa concezione influenzerà fortemente il cristianesimo originario, e non è un caso che il Vangelo di Giovanni si apra con l’enigmatica espressione “in principio era il LogoV”. La ragione non può cogliere l’unità delle cose, poiché il suo ufficio è di cogliere le divisioni, di mettere ordine: spetta invece all’intelletto afferrare intuitivamente l’unità che soggiace al molteplice. Proprio sulla scia di questa remota tradizione neoplatonica (la quale porta alle estreme conseguenze la concezione aristotelica), la filosofia moderna porrà al centro della propria riflessione la differenza tra le due facoltà: in particolare, Spinoza sarà dell’idea che l’uomo, attraverso l’intelletto, possa guardare la realtà “sub specie aeternitatis”, così come la vede Dio, in maniera totalizzante e assoluta; la ragione, dal canto suo, può soltanto stabilire corrette connessioni causali, procedendo discorsivamente (il che per la scienza va benissimo), ma non potrà mai giungere alla comprensione unitaria del reale. Sarà invece l’intelletto – operante intuitivamente – a rivelarci che tutte quelle cause colte dalla ragione sono effetti di una causa infinita da cui tutto deriva: Dio. La superiorità dell’intelletto sulla ragione risiede, secondo Spinoza, nella capacità del primo di cogliere la realtà nella sua interezza attraverso un colpo d’occhio “intuitivo” (dal latino “intueor”, “vedo”), pur senza smarrire le infinite differenze che la animano. La distinzione spinoziana ritorna in Kant, il quale tuttavia inverte il significato dei termini e il loro valore: sarà l’intelletto (Verstand) a procedere discorsivamente, cogliendo le realtà finite e inquadrandole attraverso le dodici categorie, mentre la ragione (Vernunft) avrà a che fare con le totalità. La differenza tra le due funzioni della nostra mente risiederà soprattutto nel fatto che, se l’attività dell’intelletto produce conoscenza autentica attraverso catene causali, passando dal condizionante al condizionato, la ragione procederà in maniera illegittima: essa scende in campo quando, dopo aver colto con l’intelletto le catene causali, si pensa di poter schizzar via dall’esperienza sensibile per cercare una causa incausata, un incondizionato totale. Se orientati all’acquisizione di nuove conoscenze, l’impiego dell’intelletto sarà legittimo, quello della ragione no, così come di fronte ad un puzzle infinito possiamo aggiungere sempre nuove tessere senza però mai completarlo. Ciò avviene perché si tratta, secondo Kant, di un’irrinunciabile esigenza della nostra mente. Si tratta – è evidente – di un capovolgimento della posizione spinoziana, alla quale si proporrà invece di ritornare l’idealismo tedesco (Schelling e Hegel soprattutto): mantenendo salda la distinzione kantiana tra intelletto come facoltà che conosce il finito e ragione come facoltà che conosce l’infinito, gli Idealisti sentiranno l’esigenza di tornare – spinozianamente – ad una conoscenza che abbia per oggetto l’infinito (l’ “Assoluto”), in netta rottura con l’illuminismo e con Kant.
CARTESIO
Entrando in medias res per quel che riguarda la coincidenza di intelletto e ragione in Cartesio, egli nega ogni possibilità di distinzione tra i due sia nel “Discorso sul metodo”, sia nei “Princìpi di filosofia”, cosicchè – tenendo presente che i due scritti risalgono il primo alla “gioventù” e il secondo alla maturità – si può dire che la sua è una posizione che resta invariata per tutto il corso della vita. Il “Discorso sul metodo” è spesso stato considerato come il manifesto della modernità, ma a dire il vero è teoreticamente meno significativo rispetto alle “Meditazioni metafisiche” (in cui sono ripresi e ampliati i temi contenuti nel “Discorso”), che segnano una cesura definitiva e netta con il passato. Composte mentre infuriava la guerra dei “Trent’anni” (nel 1637), in esse Cartesio si propone di dare una definizione della “ragione”, prendendo le mosse dal “buon senso”, da lui identificato con il corretto esercizio del pensiero in generale. Di sfuggita, possiamo notare come l’espressione che in italiano significa “buon senso”, in tedesco venga meglio tradotta con “Gesunder Verstand”, che letteralmente significa “sano intelletto”. Il “Discorso sul metodo” si apre con la constatazione che “il buon senso è fra le cose del mondo quella più equamente distribuita”: ma che cosa dobbiamo intendere per “buon senso”? a) Secondo Cartesio, esso corrisponde al giudicare rettamente, al discernimento fra vero e falso (e non tra bene e male); b) naturalmente ciò implica che non possa sussistere una contrapposizione tra l’intelletto e la ragione o l’intuito. c) A sua volta, ne deriva una evidente universalità, poiché si tratta di potenzialità appartenenti a tutti: la differenza tra individuo ed individuo non è quantitativa o essenziale, ma, piuttosto, accidentale e differisce solamente per il corretto uso che se ne fa. Proprio questa insistenza sull’uso fa sì che la filosofia sia da Cartesio intesa come metodo: potenzialmente la ragione non ha limiti, le sue variazioni dipendono esclusivamente dall’uso. L’unico elemento di specificità di tali facoltà è il fatto che appartengono solo all’uomo, ma in lui si ritrovano nella loro interezza (e Cartesio fa poi una sorta di captatio benevolentiae verso gli Aristotelici). Il problema del metodo in Cartesio matura a partire dalla sua insoddisfazione nei riguardi dell’uso logico della ratio, sia quella di Aristotele sia quella di Raimondo Lullo (l’ “arte combinatoria”), due logiche marcatamente formalizzate e poggianti su base metafisica: non erano solo funzionalistiche, né rispecchiavano la realtà della mente umana (Vico e Port-Royal), bensì avevano criteri di procedura rigorosi ed erano lo specchio riflettente in maniera esatta l’ontologia del reale. Ma ciò non poteva coesistere con la dottrina cartesiana del buon senso: Cartesio, per questo motivo, faceva crollare ogni riferimento alla formalizzazione e il legame tra logica e metafisica, poiché il buon senso non ha regole fisse, non è la traduzione dell’ordine metafisico e, in questo senso, elimina la logica, rendendola non più necessaria (basta usare il buon senso con giusto metodo). Ma che cosa rifiuta, in sostanza, Cartesio? In primis, l’eredità aristotelica – impantanatasi nei dogmi – della metafisica e della logica formalizzate, fondata sulla formula “ousia = sostanza = essenza”, con riferimento all’esistenza e alla definizione, per cui to ti esti ma anche to ti eneinai. L’ousia individua e indica oltre l’essere anche l’essere-che-cosa. Secondo Aristotele, le sostanze sono individui, l’individuo è cioè sostanza prima che rinvia a concetti superiori: ciò significa che le sostanze prime sono tutte specie che si riferiscono ad un genere che (antiplatonicamente) non esiste nella realtà. I generi sono, a loro volta, sostanze seconde: si delinea, in tal senso, una scala gerarchica che risale fino a dieci generi sommi, ossia a dieci “categorie” (sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, avere, agire, subire) come modi dell’essere, al di sopra delle quali non c’è più nulla di generale. Infine, dalle specie alle categorie c’è una gerarchia di sostanze: l’uomo rientra nel genere “animale”, ma occorre differenziarlo dalle altre specie che rientrano nel medesimo genere. Quindi troveremo il “genere prossimo” (animale) e la “differenza specifica” (tra uomo e cane, ad esempio) e in base a ciò otterremo la “definizione essenziale”. Da qui derivano le inferenze aventi premesse giuste, cioè rispecchianti le definizioni essenziali, che attendono alla metafisica e al suo ordine. Se per Aristotele il sillogismo – avente nelle due premesse il termine medio e collegante specie e generi (come nella realtà metafisica) – , per Cartesio le cose stanno in altri termini, poiché egli non crede nella definizione essenziale, nell’identità tra logica e metafisica, nella loro presunta corrispondenza. Non c’è bisogno di introdurre specie e generi, basta il buon senso, il quale non è collocato “metafisicamente”. E, respingendo il sillogismo come forma di conoscenza mediata, Cartesio privilegia in maniera netta la conoscenza immediata, facendo a meno del termine medio. Non ci sono più gerarchie, bensì si procede per singole identità: A=B=C=D (mentre per Aristotele era: A=B; B=C; A=C). La deduzione stessa non è un sillogismo, ma una semplice concatenazione, una serie di intuizioni. Il “metodo” a cui fa riferimento Cartesio è – come è noto – quello di tipo matematico: così Euclide, ad esempio, partiva da definizioni indimostrate e indimostrabili e su di esse faceva affermazioni (ad es. posto che un punto sia inesteso, vi passa una sola perpendicolare), affermazioni che – è facile capirlo – erano il frutto di passaggi immediati. In questo modo, Cartesio dà una veste scientifica al pensiero e si sbarazza della “mediatezza” (l’elemento formale della matematica è minimo). La logica aristotelica era riuscita a conoscere l’essere come esso era senza creazione; dal canto suo, la logica di Lullo era una logica inventiva e combinatoria, in cui – per composizione – si arrivava ai concetti primi, i più semplici; e a tali concetti si hanno simboli che sostituiscono le quantità algebriche. Si trattava di un processo di denotazione progressiva, in cui – operando sui simboli – si potevano combinare e creare relazioni che senza tale tecnica sarebbero rimaste invisibili. Questa logica lulliana è per Cartesio una chimera, una mera fantasia, anche se opposta a quella aristotelica, che ripeteva e ribadiva la realtà (Lullo la sostituiva denotandola con i “fuochi d’artificio”). Cartesio rifiuta quindi la formalizzazione: ma l’uso può esso stesso essere formalizzato? E poi: come oltrepassare la formalizzazione? Il rifiuto cartesiano del sillogismo aristotelico (inutile strumento che rende farraginosa la conoscenza che già ci dà il buon senso) e della logica di Lullo (eccessivamente fantasiosa), accomunati dalla struttura formalizzata e dal radicamento nella metafisica, induce Cartesio a percorrere strade alternative: il sillogismo spiega cose che già si sanno (perché attestate dal buon senso), l’arte di Lullo parla di cose “nuove” ma ne parla “senza senso”, senza seguire alcun filo conduttore. Occorrerà pertanto definire un metodo della ragione e del buon senso che si discosti dalla tradizione, un metodo che non sia formalizzato e che non sia più una logica, ma una serie di regole che ciascuno trae dal proprio buon senso, il quale si rivela in maniera autoevidente. C’è una certa analogia con la logica di Port-Royal (di tipo mentalistico), che descrive il funzionamento della mente umana e non della realtà (come invece faceva Aristotele), secondo quattro regole fondamentali. Cartesio aveva già scritto le “Regulae ad diretionem ingenii” (del 1627, dieci anni prima del “Discorso sul metodo”), in cui aveva rinvenuto parecchie regole, impelagandosi però in sottigliezze troppo specifiche: ed è per questo che egli compone il “Discorso sul metodo”, in cui ritiene di poter ridurre le regole a quattro. La prima prescrive di “non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè di evitare scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente più di quanto si fosse presentato alla mia ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciarmi nessuna occasione di dubitarne”. E’ la regola dell’evidenza, assume un principio dettato dal buon senso (e quindi non dimostrabile): la verità si manifesta apertamente nella coscienza, coincide con l’evidenza, la quale non si fonda, bensì si autofonda. Cartesio si serve di questo principio (che sarà l’arma fondamentale di tutto lo spiritualismo francese, il quale sosterrà che la coscienza è la fonte della verità – per Cartesio, invece, esistono ancora criteri per stabilire se una cosa è evidente oppure no) in senso epistemico, considerandolo valido per la conoscenza. E infatti introduce un criterio per distinguere ciò che è evidente da ciò che non lo è: sarà evidente ciò che è chiaro e distinto. Spinoza dice che noi conosciamo idee e Cartesio non la pensa poi così diversamente: un’idea è connotata dalle sue “notae”, ossia dalle sue caratteristiche, cosicchè posso conoscere molte, poche, nessuna delle sue “notae”. Se le conosco tutte, l’idea mi sarà chiara: così, l’idea di uomo mi sarà chiara quando saprò che è bipede, animale, dotato do occhi, di mani, di ragione, ecc. Quanto meno l’idea è chiara, ossia tante minori sono le “notae” di essa ch’io conosco, e tanto più è oscura. Oltre ad essere chiara, l’idea può tuttavia essere distinta: dirò che un’idea è per me distinta se di essa conosco solo quelle “notae” che le competono, senza mescolanze con qualità che riguardano altre idee. Poniamo che io abbia un’idea chiarissima di cosa è l’uomo, poiché conosco con chiarezza tutte le sue “notae”, e in più dico che è alato: l’idea è chiara, ma non è distinta, poiché ci sono, sì, tutte le connotazioni che la distinguono, ma ce n’è una (l’essere alato) che è fuori luogo: ho un’idea chiara ma non distinta, o – se preferiamo – chiara e confusa. Questa prima regola è strettamente connessa al dubbio cartesiano: se devo accettare solo ciò che è chiaro e distinto, allora devo dubitare di tutto ciò che non è tale. La seconda regola prescrive invece di “dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente” e la terza di “condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l’un l’altra”: per risolvere un problema, devo secondo Cartesio scomporlo in tanti problemini più semplici; così, quando ho concetti complessi, devo scomporli in concetti semplici e “imporre ai miei pensieri un ordine”: può essere un ordine che costituisco io stesso, un ordine cioè che non rispecchi necessariamente il reale (come invece era per Aristotele). Infatti Cartesio dice anche, con orgoglio, che la sua interpretazione del mondo ci descrive un mondo “nuovissimo”, ricostruito ex novo sulla base delle nostre esperienze conoscitive. Ma Cartesio, pur rifiutando la formalizzazione della logica, non intende rinunciare al rigore del metodo, tant’è che si rifà alla matematica. Ne consegue che, dietro a queste regole, sussiste un livello interpretativo più profondo, in particolare soggiacciono due modelli matematici diversi, due diversi indirizzi interpretativi risalenti al tempo dei Greci. Uno prediligeva l’analisi, l’altro la sintesi: il primo trova il suo eroe nel matematico Pappo (del III secolo), autore di una Sunagogh (Collezione), tradotta in latino nel 1589 da Federico Commandino; Pappo distingue tra analusiV (“resolutio”) e sunqhsiV (“compositio”), prediligendo nettamente la prima delle due (proprio come Cartesio) perché è assai più empirica e richiede una minima formalizzazione: non richiede cioè di partire da princìpi primi da cui far discendere ogni cosa, ma di considerare i singoli problemi concreti; e Pappo, a tal proposito, distingue tra “analisi dei problemi” e “analisi dei teoremi”. Così, si prende il problema, lo si scompone in problemi più semplici, li si risolve uno ad uno, li si riunisce e si trova la soluzione del problema di partenza; lo stesso avviene coi teoremi. E’ vero che uso princìpi generali primi (di non contraddizione, di identità, ecc), ma opero empiricamente sul problema dato per scomporlo. L’altro modello (detto della sintesi) è invece quello di Euclide, che nega che si possa partire dal problema particolare: si deve invece sempre partire da princìpi e da problemi generali, che riguardano le determinazioni dei problemi: il punto è realtà inestesa, per un punto passano infinite rette; poi gli assiomi. Il senso di questa procedura è che la dimostrazione ha carattere discensionale: si parte da princìpi e si ricava il tutto; il problema non viene risolto scomponendolo in tanti problemini, e non è un caso che Euclide si presenti come un aristotelico (tutto deriva dalle dieci categorie). Ora, Cartesio, pur prediligendo il metodo dell’analisi di Pappo, non dice che il metodo sintetico di Euclide non vada bene: solo, gli rinfaccia di essere eccessivamente formalizzato e di funzionare solo quando il problema è stato già risolto. Cartesio precisa le sue posizioni in merito nelle “Risposte alle obiezioni alla Meditazioni Metafisiche”: una di queste obiezioni suonava così: “perché non usi abbastanza il metodo sintetico?”. Cartesio risponde che la matematica non procede solo con tale metodo euclideo, bensì anche con quello analitico di Pappo, che è un metodo incredibilmente più fecondo: lo sanno tutti, ma chi scrive di geometria non lo fa vedere. Dunque, il pensatore francese mette in luce come il metodo sintetico non vada respinto, ma come comunque sia inferiore a quello analitico, che è inventivo, mostra la vera via per la quale la verità è stata scoperta e fa vedere come gli effetti dipendono dalle cause. Se spieghiamo le cose col metodo analitico, che ce le ha fatte scoprire, non veniamo compresi: il metodo sintetico, invece, mostra per via diversa in maniera apodittica derivando le conseguenze dalle premesse: anche gli antichi geometri procedevano per analisi, ma poiché si tratta di un metodo non formalizzabile, esporrò gli stessi risultati seguendo l’altro metodo, che per spiegare è molto più efficace. Lo stesso Cartesio dimostra l’esistenza di Dio in maniera analitica, ma poi, quando si tratta di esporla ai suoi lettori, fa ricorso al metodo sintetico: questo è possibile, è evidente, solo se si è preventivamente ricorsi al metodo analitico, poiché tutte le teorie si fanno dopo. La sintesi funziona benissimo in geometria, dove si parte da poche definizioni: in filosofia, però, tutto è diverso e più difficile, soprattutto stabilire quali siano i princìpi primi da cui far scendere tutto. In altri termini, rispetto alla geometria, la filosofia è meno formalizzabile e dunque meno incline ad essere assoggettata al metodo sintetico euclideo; anche se, a dire il vero, Cartesio stesso scriverà una “Geometria” in cui farà esclusivamente uso del metodo analitico. Questo spiega la quarta regola, che prescrive di “fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla”: inoltre giustifica anche quel senso di pochezza che proviamo leggendola dopo aver letto le tre che la precedono. Propone di rivedere – senza spiegare quale strategia sia opportuno seguire – il tutto per sincerarsi di non aver dimenticato nulla; perciò già Vico e Spinoza rimproveravano a Cartesio che il suo non era un metodo. Lo sviluppo del discorso cartesiano prende il via dalla prima regola, la verità come evidenza (chiarezza e distinzione): fino a che non ho evidenza, devo dubitare di tutto (comprese le procedure del mio ragionare): ma come fa, allora, il soggetto pensante a sottrarsi al dubbio? Perché è evidente, risponde Cartesio. Egli gioca la carta del dubbio metodico: gran parte delle credenze, su cui si fonda la conoscenza umana, è frutto di una tradizione la cui certezza – nota il filosofo francese – viene subito meno non appena si comincia a dubitare. La prima cosa che fa Cartesio è, appunto, mettere in dubbio ogni cosa, per vedere se qualche cosa si salva e, di conseguenza, risulta vera, evidente, tralasciando invece come falsa ogni realtà dubitabile. Il filosofo francese annuncia che l’evidenza non può essere sancita da determinate procedure formali, ma è invece qualcosa che o c’è o non c’è, un qualcosa che si autopone immediatamente. E a tal proposito egli procede gradualmente: il primo oggetto del dubbio è l’esperienza esterna, la quale è ambigua e segnata da errori (già gli antichi Scettici avevano messo in dubbio le attestazioni sensibili, ricorrendo all’esempio del remo immerso in acqua che appare spezzato). In questa maniera, si arriva a dubitare di tutto ciò che proviene da “idee avventizie”, ovvero da quelle idee provenienti dall’esterno. Ma si potrebbe allora obiettare che si può, sì, dubitare dell’esperienza esterna, ma non di quella interna, a livello coscienziale, ossia di quelle verità che nascono da un ragionamento interno, non inficiato dall’insicurezza dell’esperienza (ad esempio le verità matematiche, del tipo 2 + 2 = 4). E qui Cartesio non vuole lasciar fuori nulla dal dubbio e perciò dubita perfino delle verità a noi interne, ipotizzando che la nostra mente possa essere congegnata in modo tale da funzionare male: essa potrebbe cioè essere costantemente ingannata se non da Dio, almeno da un genio maligno che si insinua nei nostri processi mentali e fa sì che ci sbagliamo clamorosamente perché il nostro stesso meccanismo di pensiero porta all’errore (magari in verità due più due non fa quattro, ma cinque). Infine, Cartesio ritiene possibile mettere in dubbio complessivamente la realtà del mondo: egli arriva pertanto ad ipotizzare che le cose stiano effettivamente come sembrano e che, radicalmente, esista per davvero un mondo. Quello che noi abitualmente chiamiamo mondo, infatti, potrebbe semplicemente essere il risultato di un sogno, poiché anche nei sogni ci sembra di vivere per davvero, ci pare cioè che il sogno sia realtà: chi può assicurarci, allora, che anche la realtà – quella che noi diciamo tale – non sia il frutto di un sogno? Evidentemente, non disponiamo di strumenti per distinguere ciò che è frutto del sogno da ciò che invece è frutto della veglia: in questa tesi cartesiana converge buona parte del pensiero del Seicento, pensiamo ad esempio alle tesi emerse in “La vita è sogno” di Calderòn de la Barca, dove si fa credere al giovane sovrano in prova che il suo regno è stato solo un sogno e si giunge alla paradossale conclusione – già in qualche misura presente in Pindaro e nell’Aiace sofocleo: “Cos’è la vita? Follia. Cos’è la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione, e anche il bene più grande ha poco valore, perché la vita è un sogno”. Anche “La Tempesta” di Shakespeare è in qualche misura sullo sfondo delle riflessioni cartesiane: in quest’opera il protagonista, Prospero, arriva a dire che “siamo tutti della stoffa di cui sono fatti i sogni” (“We are such stuff as dreams are”). Esteso il dubbio ad ogni cosa, perfino al mondo (considerato alla stegua della realtà onirica) ve n’è una sola che si salva: ed è il fatto che io dubito; infatti, dubito di tutto fuorchè del fatto che io dubito e ciò significa che io penso e allora – lo si coglie in maniera immediata in quanto è autoevidente – che io esisto, esisto (almeno) come soggetto pensante. “Cogito, ergo sum”: penso, dunque sono. Non posso, tuttavia, avere garanzia di esistere come corpo (giacchè il corpo può appartenere al mondo onirico). In questo modo, dovrò necessariamente ammettere l’eventualità della falsità dell’oggetto pensato, ma mai quella del soggetto pensante: la verità “penso, dunque sono” è una verità assolutamente salda, è la prima, grande ed unica evidenza che ottengo e che non può essere minimamente scalfita dal dubbio. In molti, però, hanno attaccato l’argomentazione cartesiana, facendo leva soprattutto sulla contraddittorietà dell’ “ergo”: dicendo “penso, dunque sono” – si è obiettato – è come se Cartesio giungesse alla certezza di esistere attraverso un ragionamento (quasi un sillogismo: ciò che pensa esiste, io penso; dunque io esisto), un’inferenza di tipo stoico, quando Cartesio stesso ci ha invitati a dubitare delle nostre procedure mentali (le quali potrebbero essere manovrate da un genio maligno). Se devo dubitare delle mie facoltà mentali, allora dovrò anche dubitare della veridicità del “cogito, ergo sum”, giacchè esso è il frutto di un ragionamento partorito dalla mia mente (ne è prova l’ “ergo”). La risposta fieramente addotta da Cartesio è che il suo non è affatto un ragionamento, tant’è che si potrebbe benissimo eliminare l’ “ergo” e limitarsi a dire: “penso, esisto”; è infatti nel fatto stesso di pensare che ho l’autoevidenza immediata di esistere (senza passare per ragionamento alcuno). Si tratta, allora, di un’autoevidenza che si realizza a livello coscienziale e non argomentativo. Lo stesso pensiero verrà da Cartesio concepito come autoriflessione coscienziale. Con il “cogito, ergo sum” viene dimostrata l’esistenza irremovibile di qualcuno che sogna: permane tuttavia il dubbio sul mondo esterno e su tutto il resto. Scrive Cartesio (nel “Discorso sul metodo”, parte quarta): “conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale”. La certezza che ho di me riguarda esclusivamente il pensiero: se penso, è evidente che esisto come soggetto pensante, ma non è affatto evidente che esista un corpo e che esistano le cose che io penso. Perché esista una sostanza, a ben pensarci, non è necessario che esistano un corpo ed un mondo esterno: basta un soggetto pensante, e così Cartesio realizza un’identificazione della sostanza col pensiero che sta alla base del suo radicale dualismo metafisico. Risulta pertanto chiaro, fin da ora, che se esiste un corpo (e Cartesio dovrà successivamente dimostrarlo), esso sarà necessariamente separato dal pensiero (il quale esiste in maniera indipendente), sicchè avremo due mondi nettamente distinti ed eterogenei: il mondo del pensiero (libero e immateriale) e quello della materia (necessario e quantitativamente esteso). Tale dualismo è, al contempo, una forza (poiché sganciando il pensiero dalla materia si può affermare l’esistenza del pensiero stesso pur mantenendo il dubbio sulla materia) ma anche una debolezza (crea non pochi problemi per quel che riguarda l’influenza dell’uno sull’altro: come faccio io, soggetto pensante, ad agire sul mondo corporeo, e viceversa?). Che cosa sono io, di cui ora ho la certezza dell’esistenza, si domanda Cartesio nelle “Meditazioni metafisiche”? Posso essere sicuro di avere un corpo? Non posso dire di essere il mio corpo, poiché esso è soltanto oggetto della mia rappresentazione. Perciò Cartesio, tralasciando momentaneamente la questione del corpo, passa ad esaminare gli attributi dell’anima (termine col quale dobbiamo intendere il pensiero, ma anche il soggetto animale, dotato di vita): i primi elementi costitutivi di essa sono il nutrirsi e il camminare, ma neanche di tali attività posso per ora avere certezza, giacchè sono indisgiungibilmente legate a quel corpo sul quale permane il dubbio (come posso camminare se non facendo riferimento al corpo?). E il sentire? Ugualmente: non si può sentire senza il corpo, per cui cade anche su tale attività il dubbio. E poi anche nel sogno si sentono cose che, al risveglio, si rivelano fasulle. E il pensare? Esso – dice Cartesio – è indipendente dal corpo, e pertanto è “attributo che mi appartiene”, esulante dal dubbio. Infatti, ch’io esista come pensiero è certo, ed è vero per tutto il tempo che penso: quando smetto di pensare, tale certezza cade, poiché potrebbe accadermi di cessare di esistere. “Non sono nulla se non una cosa pensante, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini sinonimi il cui significato m’era prima ignoto” (Meditazioni metafisiche”): con queste parole, Cartesio assimila l’intelletto, la ragione e il pensiero e ammette che finora non eravamo in grado di attribuire un significato certo a tali termini (solo ora che abbiamo spiegato il “cogito” possiamo definire il pensiero); il pensiero è l’atto di autocoscienza esistenziale con cui l’individuo riconosce di esistere in quanto cosa pensante. Si tratta, allora, di prendere coscienza della propria esistenza come cosa pensante, il che avviene appunto con il “cogito, ergo sum”. Cartesio presenta la prima regola del metodo – quella dell’evidenza – come diretta conseguenza del dubbio metodico: è infatti dubitando di ogni cosa che egli ha raggiunto la certezza del “cogito” e l’ha tradotta in una regola (accettare solo l’evidente); in realtà, si può anche dire l’esatto contrario, ossia riconoscere che il metodo non è l’effetto ma la causa del “cogito”, ammettendo che, poiché devo accettare solo l’evidente, sono pervenuto al “cogito”, che è la cosa più evidente che ci sia. In sostanza, il dubbio metodico e la prima regola del metodo finiscono per coincidere, e hanno comune origine nel considerare la verità come autoevidenza: infatti, la verità si impone secondo Cartesio nella sua autoevidenza, e mancano criteri formali per distinguere il vero dal falso (l’unica soluzione consiste, appunto, nel far riferimento all’autoevidenza). Nella sua unica opera sistematica – i “Princìpi della filosofia” -, che è giustamente stata considerata come il punto d’arrivo della sua riflessione, Cartesio dà (nel paragrafo 9) una definizione del pensiero non troppo distante da quella formulata nel “Discorso sul metodo”: “Con la parola pensiero io intendo tutto quel che accade in noi in modo tale che lo percepiamo immediatamente in noi stessi. Ecco perché non solo intendere, non solo volere, non solo ragionare, non solo immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare”; così nelle “Meditazioni metafisiche” diceva che solo dopo aver spiegato il “cogito” si può capire che cosa sia il pensiero e passava al suo esame. Ora, nel passo riportato dei “Princìpi della filosofia”, Cartesio considera il pensiero come attività generica nella quale rientrano la ragione, l’intelletto, il volere, l’immaginazione e perfino il sentire, il che risulta piuttosto strano, soprattutto se teniamo a mente che nelle “Meditazioni metafisiche”, alla domanda “che cosa sono io?”, egli rispondeva “sono una cosa che pensa” ed escludeva categoricamente il sentire in quanto funzione connessa al corpo. Ora invece, enigmaticamente, il sentire è riabilitato ed è a pieno titolo inserito tra le funzioni non del corpo ma dell’anima. Tutto si spiega se attribuiamo al verbo “sentire” due diversi significati, come fa appunto Cartesio: nelle “Meditazioni metafisiche” il sentire è inteso come l’entrare in contatto, mediante il corpo, con l’oggetto esterno, un sentire la realtà dell’oggetto esterno e del corpo che fa da tramite: per questo motivo, il sentire così inteso va respinto, poiché connesso direttamente con quel corpo su cui ancora pende il dubbio. Nei “Princìpi della filosofia”, invece, Cartesio fa riferimento ad un’altra accezione di “sentire”, in particolare allude al “sentire” inteso come capacità di rappresentarsi “idee avventizie” (cioè provenienti dall’esterno) senza far riferimento all’esistenza reale di tali idee all’esterno. In questo mondo che è un sogno, vedo l’albero, ma ciò non vuol dire ch’esso esista: posso solamente dire che esiste una rappresentazione (l’idea appunto) di tale albero, data come sensazione distinguentesi da altre rappresentazioni (si distingue da quelle della volontà – il voler costruire una casa -, da quelle dell’intelletto – 2+2=4 -, da quelle dell’immaginazione – il cavallo alato); il che significa che le rappresentazioni del mondo esterno hanno una loro specificità, si presentano come sensazioni, hanno in comune con tutte le altre di essere “oggetti interni del pensiero” – sono parole di Cartesio. Poiché pensare è sempre pensare qualche cosa, e siccome restiamo fedeli all’ipotesi del dubbio (il mondo come sogno), allora il pensato non corrisponde ad un oggetto esterno, ma è un mero pensato la cui verità non consiste nel corrispondere a qualcosa di reale, ma piuttosto nell’essere un pensato senza il quale è impossibile pensare, così come sono certo della mia esistenza sono anche certo delle idee che penso, certo della loro esistenza come prodotto del mio pensiero. Anche il sentire, dunque, fa parte del pensiero e non della sfera corporea. Successivamente, Cartesio, a partire dal “cogito, ergo sum”, recupererà la certezza su tutto ciò che aveva gettato al dubbio: in particolare, gli basterà dimostrare l’esistenza di Dio per revocare il dubbio su ogni cosa; se infatti Dio esiste e ci crea (come Cartesio dimostrerà con una pluralità di argomentazioni), essendo Egli buono e perfetto, non potrà ingannarci, cosicchè saremo autorizzati a dire che due più due dà quattro, che il mondo esiste quale ci appare, e così via. Molti autori del Seicento condividono con Cartesio la concezione del pensiero senza distinzioni tra intelletto e ragione, pur con un’importante differenza rispetto al filosofo francese: una differenza che fa di questi autori dei veri e propri precursori e, in un certo senso, preparatori dell’Illuminismo (Voltaire vedrà in Cartesio l’anti-illuminista per eccellenza). Come è noto, Cartesio legge nel pensiero un’attività tipicamente umana, ma non intende per questo limitarlo e farne qualcosa di finito (quale è appunto l’uomo): sicchè, paradossalmente, l’uomo è un ente finito, ma il pensiero – che è la peculiarità umana – è infinito, non ha limiti, può conoscere ogni cosa. Viceversa, molti autori del Seicento, riconoscendo – sulle orme di Cartesio – nell’uomo una facoltà conoscitiva di tipo intuitivo in grado di cogliere i princìpi ultimi della realtà, riterranno che nell’uomo ci sia, sì, una facoltà conoscitiva simile a quella di Dio (che tutto conosce), che fa conoscere in maniera assoluta; ma, riconducendo il pensiero ad attività squisitamente umana, essi finiscono per leggere in esso qualcosa di finito, al pari dell’uomo: se è finito l’uomo, allora sarà finito anche il suo attributo più peculiare, che è appunto il pensiero. Qui sta la differenza rispetto a Cartesio: egli vede l’uomo come finito, ma il pensiero come infinito; viceversa, molti suoi contemporanei (e da qui prenderà le mosse l’Illuminismo) vedono sia nell’uomo sia nel pensiero qualcosa di finito e limitato. Per Cartesio, invece, il pensiero è onnipotente, non ha confini, può essere solo ridimensionato dal cattivo uso, ma se lo impieghiamo correttamente allora esso non ha limiti e l’uomo può conoscere tutto in maniera assoluta. E’ questa una discrasia che trae origine dal fatto che Cartesio non formalizza il pensiero: l’autoevidenza da lui ammessa può effettivamente conoscere ogni cosa, è sconfinata. Gli autori successivi, però, vedranno nel pensiero qualcosa di limitato, poiché limitato è colui che lo esercita. Questo sarà uno dei grandi portati dell’età illuministica, un portato che sarà tuttavia superato con l’Idealismo, che ritornerà ad una conoscenza di tipo assoluto, attuantesi attraverso un’intuizione capace di cogliere la realtà nei suoi princìpi ultimi.
PASCAL
A rinunciare all’individuazione di una facoltà che, attraverso un particolare strumento, colga i princìpi ultimi della realtà, sono tutti quei pensatori che ritengono che l’intelletto (o la ragione) sia una facoltà limitata, proprio perché specificamente appartenente a quell’essere finito che è l’uomo: si tratta di una finitezza intrinseca, interpretabile ora come data dall’oggetto della conoscenza, ora come data dal fatto che la mente proceda in modo da non poter cogliere la verità, ora dal fatto che nell’uomo la conoscenza noetica è contrapposta ad una “sentimentale” ed emotiva. Questo è il caso di Blaise Pascal, la cui filosofia è incentrata sulla fondamentale distinzione tra il cuore e la ragione, tra quelli che lui chiama “esprit de finesse” ed “esprit de geometrie”. In questo caso, Pascal distingue tra due diversi modi di porsi in relazione con l’oggetto: nel primo caso, quello del cuore, si ha un rapporto immediato con l’oggetto, un rapporto fondato sull’intuito e su una percezione molto vaga e sfumata, quasi sentimentale, delle cose percepite. Nel secondo caso, invece, – quello della ragione – si ha un approccio all’oggetto che fa ricorso a strumenti razionali e precisi, a princìpi che sono formalizzabili perfettamente (al pari della matematica e della geometria). Ora, Pascal non ha difficoltà ad ammettere che la ragione costituisca una forma di conoscenza più forte e comunicabile, proprio perché formalizzabile, ma proprio per questo – egli nota – non è applicabile a tutto lo scibile umano e all’intera realtà: c’è un ambito dell’indagine umana, che è anzi la parte più importante – l’uomo stesso -, che sfugge a questo modo di affrontare la conoscenza. Tutto ciò che concerne la metafisica è infatti indagato con strumenti extra-razionali; gli stessi fondamenti della geometria, della matematica, non sono dimostrati dalla ragione, e se vogliamo accertarli dobbiamo fare affidamento sulla conoscenza che avviene attraverso il cuore. Se ne evince che la ragione non solo non fornisce risposte alle grandi questioni metafisiche (cos’è l’uomo? E la vita? Perché viviamo? Esiste Dio? E quale è il nostro rapporto con Lui?), ma addirittura non riesce a dimostrare neppure quei fondamenti sui quali si basa il suo stesso procedere (ad esempio i princìpi matematici). La contrapposizione tra “spirito di finezza” e “spirito di geometria” è assai forte: nei “Pensieri”, contrapponendoli, affiorano caratteri specifici di ciascuno dei due “spiriti”. Il primo elemento di contrapposizione risiede nel fatto che lo spirito di geometria procede attraverso formalizzazioni, del tutto escluse dal procedere dello spirito di finezza. Il secondo elemento di dissidio è invece rintracciabile nel fatto che lo spirito di geometria parte da pochi princìpi chiari e formalizzabili per derivare da essi tutte le altre formalizzazioni, mentre lo spirito di finezza non ha un numero definito di punti di partenza, ma prende le mosse da molti presupposti, mai formalizzati e chiariti, ma sempre sentiti in maniera allusiva e sentimentale. Il terzo elemento di disaccordo sta nel fatto che lo spirito di geometria procede discorsivamente, cioè per argomentazioni (aggiungendo una prova all’altra, in maniera concatenata), mentre lo spirito di finezza procede intuitivamente, cogliendo in maniera subitanea e immediata i princìpi e la loro connessione con quanto segue. E’ nei “Pensieri” (S. 1-4; B. 1-4) che Pascal si sofferma su tali distinzioni: ” Nel primo i princípi sono tangibili, ma lontani dal comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger la mente verso di essi, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si volga a essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionar male sopra princípi cosí tangibili che è quasi impossibile che sfuggano. Nello spirito di finezza i princípi sono, invece, nell’uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta aver buona vista, ma buona davvero, perché i princípi sono cosí tenui e cosí numerosi che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, basta ometterne uno per cadere in errore: occorre, pertanto, una vista molto limpida per scorgerli tutti e una mente retta per non ragionare stortamente sopra princípi noti. Tutti i geometri sarebbero, quindi, fini se avessero la vista buona, giacché non ragionano falsamente sui princípi che conoscono; e gli spiriti fini sarebbero geometri se potessero piegare lo sguardo verso i princípi, a loro non familiari, della geometria. Se, dunque, certi spiriti fini non sono geometri, è perché sono del tutto incapaci di volgersi verso i princípi della geometria; mentre la ragione per cui certi geometri difettano di finezza è che non scorgono quel che sta dinanzi ai loro occhi e che, essendo usi ai princípi netti e tangibili della geometria, e a ragionare solo dopo averli ben veduti e maneggiati, si perdono nelle cose in cui ci vuol finezza, nelle quali i princípi non si lascian trattare nella stessa maniera”. Per princìpi “tangibili” dobbiamo intendere quei princìpi dimostrabili e chiari nella loro evidenza originaria, così come appunto li concepiva Cartesio; sono tuttavia troppo lontani dalla vita quotidiana, sono generalizzazioni (e perciò son pochi) ma non immediatamente rintracciabili: con ancora un chiaro riferimento a Cartesio, Pascal spiega che solo il cattivo uso della mente impedisce la conoscenza. Con queste considerazioni, il pensatore francese non intende schierarsi contro la ragione, lui che nel Seicento fu uno dei massimi scienziati; semplicemente, è sua intenzione mettere in luce come la ragione non possa conoscere ogni cosa, come invece credeva Cartesio. Solo una persona colta effettua dimostrazioni geometriche, ma è cosa da tutti comprensibile nella vita quotidiana – senza ricorrere ad astratti princìpi – sapere quale sia l’essenza ultima dell’uomo, la sua miserevole condizione, tesa tra il tutto e il nulla. Non si tratta – come invece è nel caso dello spirito di geometria – di pochi princìpi evidenti e difficilmente comprensibili, bensì siamo di fronte, con lo spirito di finezza, ad un mare magnum di princìpi, vaghi ed incerti, informalizzabili, sentiti nell’esperienza interna e non riconducibili ad isolamenti; non è possibile cogliere distintamente il principio per cui l’uomo è misero, sono tanti princìpi sentimentali che affollano il cuore. Pascal insiste sul fatto che non ci sono strumenti di comunicazione formale delle acquisizioni del cuore: o li si sentono o non li si sentono, non vi sono procedure inferenziali chiare, non si può dimostrare che l’uomo è misero come si può dimostrare che 2+2=4, è una verità che si sente col cuore. “Bisogna cogliere la cosa di primo acchito con un solo sguardo, e non per progresso di ragionamento, almeno sino a un certo punto”, dice Pascal: questa opposizione tra spirito di geometria e spirito di finezza è a poco a poco riproposta nei termini di contrapposizione tra cuore e ragione, dove Pascal sostiene che la ragione non solo non riesce a trattare i temi metafisici, ma neppure i propri princìpi, li vede con chiarezza ma con un occhio che è del cuore: “noi conosciamo la verità non solo con la ragione, ma anche col cuore”. Ciononostante, egli non vuole negare che la ragione abbia le sue ragioni (per certe ricerche essa è il miglior strumento), intende semplicemente delimitare gli ambiti, mettendo in evidenza come il cuore abbia ragioni sconosciute alla ragione, ed è anzi attento a combattere quella tradizione scetticheggiante che metteva in dubbio qualsiasi certezza umana, comprese quelle matematiche, sicchè Pascal spiega che la conoscenza del cuore è superiore perchè ha a che fare con oggetti superiori (ad esempio Dio), ma ci tiene anche a specificare che ci sono ambiti in cui la ragione dà certezze assolute, e in tal caso il cuore serve a consolidare la ragione. Gli Scettici sono pertanto in errore quando negano la certezza del procedere matematico: che da P derivi P1 e poi P2 è certo, ma a dimostrare il principio P (su cui poggia tutto il resto) è il cuore, cosicchè Pascal viene in soccorso alle matematiche facendo leva sulla certezza di P, indimostrabile dalla ragione (e qui Pascal concorda con gli Scettici). C’è qui una consonanza con la tradizione aristotelica, per la quale i princìpi sono colti dal NouV e non dalla ragione, con la differenza, però, che per Aristotele l’intelletto ha una funzione tecnica, rilevare i primi princìpi, mentre per Pascal il cuore non si limita a cogliere i princìpi primi, ma riguarda tutto ciò che cade al di là dello spirito di geometria. L’immagine che Pascal ci dà della conoscenza risulta in una stretta sezione in cui opera la ragione, e una sezione pressochè illimitata in cui opera invece il cuore, che determina i princìpi su cui lavora la ragione stessa. “Infatti la condizione dei primi princìpi […] è altrettanto salda di quelle procurateci dal ragionamento […]. Questa impotenza [della ragione] deve dunque servire ad umiliare la ragione”: il limite che Pascal impone alla ragione serve a mettere in evidenza come essa, valida nel proprio ambito, non possa travalicare i suoi confini; nel suo terreno, essa è padrona (il cuore deve starne fuori), al di fuori non può far altro che tacere, senza invadere le regioni che competono al cuore. Si è detto che uno degli elementi di distinzione tra ragione e cuore è il fatto che la prima si serve di un procedimento discorsivo, il secondo di uno intuitivo; ma, allora, come può Pascal collocarsi nel novero di quei pensatori che non distinguono diverse facoltà nel pensare umano? Il punto di svolta sta qui: il pensatore francese, accanto al procedimento discorsivo della ragione, riconosce una dimensione intuitiva, ma ad essa non attribuisce in alcun modo il carattere di conoscenza assoluta; infatti, le ragioni del cuore sono sempre umane, ancorchè esso proceda intuitivamente, sempre di cuore umano si tratta, e l’uomo non può mai disporre di una conoscenza intuitiva che colga i princìpi assoluti della realtà, tant’è che i princìpi del cuore restano vaghi e confusi, sicchè Pascal è, se inserito nella sua epoca, un outsider, in quanto riconosce sì all’uomo una sfera genuinamente intuitiva, ma essa non è in alcun modo legata alla conoscenza di princìpi assoluti; certo, colgo dimensioni dell’esistenza umana che, con la sola ragione, non potrei mai cogliere, ma resto sempre nel campo dell’esistenza umana, dell’uomo finito e limitato: neanche il cuore può varcare i limiti della finitezza umana, tant’è che sento sì Dio, ma non lo colgo con certezza. Sarà poi Spinoza che assegnerà all’intuito la capacità di cogliere i princìpi assoluti (Dio stesso), mentre Pascal resta un filosofo del finito, apre spiragli verso l’infinito, ma rimangono meri spiragli: Dio resta sempre una pura trascendenza che non può essere attinta.
HOBBES
Thomas Hobbes si colloca a pieno titolo nello stuolo di quegli autori seicenteschi post-cartesiani che non fanno distinzione tra intelletto e ragione, e, di conseguenza, hanno una concezione finita della conoscenza umana; Hobbes preferisce il termine “ragione” rispetto a quello “intelletto”, pur non operando alcuna distinzione di contenuto tra i due. I motivi della sua concezione, tuttavia, risultano differenti da quelli pascaliani, e forse sono più precisi, perché dipendono strettamente dallo stesso modo in cui funziona la ragione umana. Hobbes è un rigoroso sensista, per cui la conoscenza umana parte sempre dai sensi e dal sensibile: e il modo in cui tali sensi forniscono materiale è descritto negli usuali termini meccanicistici (così frequenti da Cartesio in poi); c’è un oggetto esterno, colpisce gli organi sensoriali periferici (l’epidermide, la cornea, ecc) e, attraverso di essi, penetra nel corpo meccanicamente. Il filosofo inglese, però, correggerà questa prospettiva cartesiana inserendo una capacità del corpo di reagire positivamente se l’impulso è piacevole, o negativamente, nel caso esso sia sgradito. Il risultato di tale impressione dei corpi esterni sull’apparato sensoriale è un’immagine, (fantasma o imaginatio): tra queste immagini e i concetti – nota Hobbes – non vi è alcuna differenza, poiché da buon sensista egli nota come le nostre idee si risolvano in immagini sensoriali provenienti dall’esterno, senza alcuna attività razionale, è insomma una fase meramente passiva. A queste immagini, l’uomo può imporre dei nomi, e così trae origine il linguaggio: così le sensazioni mi danno l’immagine della sedia, immagine priva di nome fino a che la ragione non gliene impone uno (“sedia” appunto), con un’imposizione arbitraria, senza corrispondenza essenziale tra nome ed immagine; in questo senso, Hobbes si oppone alla tradizione platonica – che ritorna in Vico – che vuole i nomi naturalmente corrispondenti alle cose. Tali nomi hanno due funzioni: la prima è quella di rammemorare, ossia di far sì che il soggetto che ha ricevuto l’immagine possa richiamarla attraverso il nome, che si configura così come una sorta di etichetta. I nomi sono dunque notae (“marcks” in inglese), ma hanno anche una funzione comunicativa, cioè, oltre a ricordarmi delle immagini, mi servono a comunicarle agli altri, posto che ci siamo preventivamente accordati che quella data immagine la chiamiamo “sedia”. In questa maniera, oltre a notae, i nomi sono signa. E la ragione per Hobbes è un’attività molto specifica e particolare, consistente nell’addizionare o nel sottrarre immagini oppure nomi: sono le forme elementari del calcolo, e dire che ragione equivale a sottrarre e addizionare è come dire che la ragione ha la funzione di calcolare, e lo fa prendendo più immagini e addizionandole (o sottraendole), oppure – ad un livello superiore – compie questa medesima operazione con i nomi, con la differenza che finchè opera solo con immagini si stabiliscono connessioni di carattere più o meno generico, ma quando si addiziona e si sottrae coi nomi, non si stabiliscono solo connessioni generiche, ma si devono per forza stabilire connessioni causali, ossia si osservano le conseguenze di certi nomi rispetto ad altri. In questo caso, ragionare equivale a calcolare le conseguenze dei nomi. Ad una tale immagine assegno il nome “sedia”, ma quando lo si è fatto non si è messa solo un’etichetta, si è anche data una definizione, si è data tutta una serie di conseguenze che derivano dal nome: “sedia” perché è un oggetto su cui ci si può sedere, sicchè quando dico “sedia” è implicito “lì c’è una sedia, se vuoi puoi sederti”. Scrive Hobbes nel “Leviatano” (libro I, cap. V): “Quando uno ragiona non fa altro che ottenere una somma totale attraverso una addizione di parti, o un resto sottraendo una somma da un’altra; il che se è fatto con le parole consiste nel ricavare dai nomi di tutte le parti il nome del tutto, o dai nomi del tutto e di una singola parte il nome della parte rimanente. E sebbene in certe cose come nei numeri gli uomini annoverano accanto all’addizione e alla sottrazione anche altre operazioni come la moltiplicazione e la divisione, tuttavia queste ultime operazioni sono identiche a quelle, poiché la moltiplicazione significa nient’altro che sommare insieme quantità eguali e dividere significa sottrarre da una quantità tante volte quante si vuole. Queste operazioni non si applicano solo ai numeri ma a tutte quelle specie di cose che si possono sommare insieme e sottrarre le une dalle altre. E infatti come l’aritmetica ci insegna a sommare e a sottrarre in termini di numeri, cosí la geometria insegna le stesse cose nel campo delle linee e delle figure, solide o piane, di angoli, proporzioni, tempi, gradi di velocità, forza, potenza e simili concetti; i logici insegnano le stesse cose nel campo della connessione fra le parole: sommando insieme due nomi si ha un’affermazione, sommando due affermazioni si ha un sillogismo, sommando alcuni sillogismi si ha una dimostrazione; e dalla somma, o conclusione di un sillogismo sottraggono una proposizione per trovarne un’altra. Gli scrittori di politica sommano insieme i patti stipulati per trovare quali sono gli obblighi degli uomini, e i legislatori sommano le leggi e i patti per trovare che cosa è il diritto e che cosa è il torto nelle azioni dei privati. Insomma in qualunque campo in cui c’è posto per l’addizione e la sottrazione c’è anche posto per la ragione; dove queste cose mancano la ragione non ha niente da fare”. Quando lavora sulle immagini, la ragione sta lavorando prima dell’uso linguistico: ciò significa che non necessariamente si lavora coi nomi, anche se questa è la forma più alta di ragionamento. L’esempio che adduce Hobbes (nel “De corpore”) è quello dell’immagine scorta da lontano: la vedo in lontananza e per me è già un’immagine e, anche se non so bene cosa sia, posso attribuirle quella proprietà che poi chiamerò “corpo” (sono infatti certo che, qualsiasi cosa sia, è un corpo). Successivamente, noto ch’essa si muove, e allora aggiungo all’immagine di “corpo” quella che successivamente chiamerò “animale”. Poi noto ch’essa ha le caratteristiche di quelle immagini a cui son solito dare il nome di “essere razionale” (perché vedo che ragiona, parla, ecc). Mi trovo così a possedere l’elemento del corpo, dell’animalità e della razionalità; sommandoli, compongo un’unica immagine e posso dire che essa è ciò a cui usando successivamente il linguaggio do il nome di “uomo”; sottraendo dall’immagine “uomo” i vari elementi posso naturalmente regredire all’immagine di “corpo”. Con questo esempio, Hobbes dimostra un modo in cui la nostra mente può operare, senza ricorrere ancora alle parole. Ma c’è un’altra maniera di sottrarre e addizionare immagini, e cioè di stabilire connessioni tra un’immagine e l’altra. Se ad esempio ho constatato che tutti gli oggetti corrispondenti all’immagine “uomo” tendono a morire, allora all’immagine “uomo” sarò autorizzato ad associare l’idea di “mortalità” e a stabilire tra queste una connessione; ma la mortalità non può essere elemento costitutivo dell’immagine “uomo”, semplicemente ho ricavato dall’esperienza l’immagine di uomini che muoiono e con la ragione ho addizionato l’idea di mortalità all’immagine “uomo”. Ho cioè addizionato all’immagine la conseguenza dell’immagine, dicendo che l’uomo andrà necessariamente incontro alla morte. Così vedo le nuvole in cielo (e ne ho un’immagine), e penso che pioverà (è la conseguenza): è l’esperienza che mi fa connettere queste due immagini, nuvole e pioggia, ma non è che nella nuvola sia insita l’idea di pioggia. Ugualmente: vedo il sole splendere, e dico che non pioverà: ho eseguito una sottrazione. Questo tipo di connessione causale pre-linguistica è particolarmente rilevante perché implica che anche gli animali in senso lato ragionino, sicchè la ragione non è una prerogativa dell’uomo: infatti, il cane che vede il bastone alzato e scappa perché all’immagine del bastone associa quella delle botte; così come noi prendiamo l’ombrello quando vediamo le nuvole in cielo. A questo livello, gli animali compiono le stesse operazioni mentali degli uomini, addizionano e sottraggono immagini (ma non nomi): il cane vede la ciotola e ad essa addiziona la possibilità di mangiare e sottrae la possibilità di ricever botte. La differenza tra uomo e animale, tra ragione umana e ragione animale, risiede nel fatto che solo quella umana opera sui nomi (solo l’uomo dispone del linguaggio), col vantaggio che essi sono note rammemorative e comunicabili, cosicchè posso utilizzare il contenuto semantico dei nomi per creare una fitta rete di conseguenze universali, posso cioè costruire una scienza (il che naturalmente è impossibile per gli animali). L’attività della ragione umana si sviluppa in due direzioni con i nomi: sono quella che Hobbes definisce come funzione comunicativa e funzione rammemorativa, implicante il vantaggio di non dover rifare ogni volta da capo i ragionamenti precedentemente effettuati, ma poterli condensare tramite i nomi. L’esempio che a tal proposito adduce il filosofo inglese è quello delle proprietà del triangolo: col ragionamento, posso venire a sapere che gli angoli interni di un triangolo sono uguali ad un angolo piatto, senza tuttavia far uso dei nomi; mi basta sommare delle mere quantità. Se però non mi avvalgo successivamente del linguaggio, quando mi trovo dinanzi ad un diverso triangolo (magari scaleno anziché isoscele) ho l’impressione di trovarmi di fronte ad un’altra realtà, e allora mi trovo costretto a compiere la medesima operazione di calcolo che mi porta a dire che la somma degli angoli interni è uguale ad un angolo piatto, e così dovrò agire ogni qual volta mi imbatto in un qualsivoglia triangolo. Se invece impiego il linguaggio e chiamo “triangolo” tutte quelle cose aventi determinate proprietà, allora una volta che ho trovato che la somma degli angoli interni di quel qualcosa è di 180 gradi, potrò estendere tale verità a tutte quelle cose a cui ho dato il nome “triangolo”. Ciò vale – oltrechè per la funzione rammemorativa – anche per la comunicativa: quando parlo con altri di un triangolo, uso il nome del “triangolo” e nella mente dei miei interlocutori si avrà il concetto a cui corrispondono tutti i triangoli, e non una singola ed individuale immagine di triangolo. E così noi disponiamo di una serie di nomina che sono gravidi di conseguenze logiche; da ciò seguono due aspetti degni di nota. In primo luogo, l’importanza di definire correttamente i nomi, perché se parto dalla definizione di triangolo come figura avente quattro angoli, ne trarrò evidentemente delle conseguenze errate perché errata è la definizione di partenza. Non è però facile avere definizioni precise, poiché esse sono completamente arbitrarie alla pari dei nomi: basta sì mettersi preventivamente d’accordo sul contenuto della definizione, ma manca pur sempre il riferimento oggettivo all’essenza della definizione stessa, tutto è frutto di un accordo originario tra gli uomini. La prima cosa da fare sarà allora esplorare le definizioni per sincerarsi che siano chiare. Il secondo aspetto degno di nota sta nel fatto che se la scienza è per Hobbes costruzione derivante dal calcolo delle conseguenze dei nomi, allora essa non è scienza di cose o di immagini, ma sempre e comunque di nomi, ossia di definizioni: la scienza è allora qualcosa di assolutamente astratto, una costruzione puramente logica in cui a contare è la rigorosa consequenzialità tra le conseguenze logiche dedotte e le definizioni da cui son dedotte. Il costrutto della scienza e la sua validità non sono di tipo mimetico, non riproducono cioè la realtà, ma risiedono invece nell’essere una costruzione coerente, improntata su costruzioni logiche a cascata e scevre di contraddizioni. Quella hobbesiana è una concezione piuttosto curiosa, perché il filosofo inglese finisce paradossalmente per trovarsi lontanissimo dal suo sensismo iniziale: la scienza, infatti, lavora su nomi arbitrari, in netta opposizione con quel processo conoscitivo che reca materialmente immagini alla mente e con quel processo del ragionamento che porta all’edificazione della scienza e che fa di Hobbes un sensista in senso pieno. Il pensatore inglese è diviso tra un atteggiamento anticartesiano per quel che concerne lo spiccato sensismo di cui è portavoce e tra uno profondamente cartesiano per quel che invece inerisce alla concezione della scienza, cartesianamente concepita a partire dall’evidenza coscienziale (il “cogito” per Cartesio, la chiarezza della definizione per Hobbes) e svincolata da ogni riferimento all’empiria; ne nasce un mondo logico senza connessioni con quello empirico. Come per Cartesio, anche per Hobbes la scienza si regge sulla coerenza delle connessioni consequenziali che derivano dalle precise definizioni primarie. E “da ciò appare chiaro che la ragione non è una facoltà nata con noi come lo sono il senso e la memoria, e nemmeno ricavata dall’esperienza, come la prudenza, ma qualche cosa che si ottiene attraverso un’operosa attività consistente in primo luogo nel sapere imporre dei nomi adeguati alle cose, secondariamente nel seguire un metodo esatto e ordinato col quale procedere dagli elementi che sono i nomi alle affermazioni ottenute collegando i nomi gli uni con gli altri, e cosí ai sillogismi che costituiscono le connessioni fra le asserzioni, finché giungiamo alla conoscenza di tutte le conseguenze dei nomi appartenenti all’argomento del quale si tratta; ed è questo ciò che gli uomini chiamano scienza. E mentre il senso e la memoria non sono che conoscenza del fatto, che è una cosa passata e irrevocabile, la scienza è conoscenza delle conseguenze e della dipendenza di un fatto da un altro, per cui, oltre a quello che noi possiamo fare presentemente, noi sappiamo come possiamo fare qualche altra cosa quando noi vogliamo, o una cosa simile in un altro momento; poiché quando noi vediamo come ogni cosa si produce, per quali cause e in quale maniera, quando le stesse cause vengono in nostro potere noi vediamo come fare perché esse producano gli stessi effetti” (Leviatano, I, cap. V). Pare che qui Hobbes recuperi una struttura decisamente aristotelica: si parte dalla definizione dei nomi (la definizione “essenziale” di cui parlava lo Stagirita) per ricavarne delle proposizioni, si congiungono due elementi in un’asserzione e, collegando tali asserzioni, nasce un ragionamento di tipo sillogistico. La differenza rispetto alla prospettiva cartesiana risiede nel fatto che per Hobbes le definizioni sono del tutto arbitrarie, mentre per Cartesio l’evidenza è originaria, ovvero nasce dalla coscienza e, conseguentemente, l’uso della ragione è in Cartesio ab origine, non è una funzione che si sviluppa gradualmente, ma è la presa di coscienza delle cose in noi evidenti (a partire dal “cogito”); in Hobbes, al contrario, dipendendo da un’attività artificiale quale è l’attribuzione dei nomi, la ragione non è qualcosa di naturale, è anzi un’attività artificiale che deve essere appresa nel tempo e con l’uso. Ne consegue che si deve imparare a ragionare e a derivare le conseguenze dei nomi dalle loro premesse, cosicchè ” la scienza è conoscenza delle conseguenze” (Leviatano, I, cap.V); finchè non usiamo il linguaggio, ci possiamo affidare ad un calcolo di immagini che riguarda il passato (l’immagine che ho non è infatti utilizzabile per il futuro), ma grazie ai nomi il calcolo si riferisce immediatamente alle conseguenze e, quindi, al futuro. Da ciò consegue che l’impiego più alto della ragione è quello linguistico, che ha carattere progettuale, ossia teso verso il futuro, e non constatativo (cioè rivolto al passato): Abbagnano diceva, a tal proposito, – forse calcando un po’ la mano – che tale calcolo è “previsione”. Hobbes opera poi un’importante distinzione fra errore ed assurdità: la scienza è – abbiamo visto – calcolo delle conseguenze dei nomi (e ha valore proprio per il modo in cui le concatena), ma se non si procede bene, allora si entra in una contraddizione, perché si deriva da una definizione un elemento che in essa non è contenuto, il che è importante perché quando si compie questo sbaglio non si commette solo un errore, ma una vera e propria contraddizione – un’assurdità – in quanto si fanno coesistere due realtà contraddittorie, che si elidono vicendevolmente (esempio di tale assurdità può essere la stravagante nozione di “quadrilatero rotondo”). L’errore è invece meno grave rispetto all’assurdità, e consiste nel connettere conseguenze quando in realtà tale connessione non si verifica: siamo in presenza sì di un errore, ma non di un’assurdità. Un esempio di errore può essere il seguente: “è nuvolo: pioverà”, ma poi non piove; ora, è evidente come non ci sia alcuna contraddizione, ma tuttavia nel connettere le nuvole alla pioggia si è commesso un errore. Quest’ultimo si esplica sempre in un discorso di tipo non scientifico, ossia attinente non a nomi ma ad immagini, a livello di ragionamento prelinguistico. E infatti non do una definizione scientifica dell’essere nuvoloso, bensì resto ad un livello di immagine senza uso linguistico, e associo tale immagine a quella della pioggia; l’errore, in fin dei conti, non riguarda la scienza, ma la prassi, sicchè è nella pratica (dove cioè non ci avvaliamo di un linguaggio propriamente scientifico e, dunque, ragioniamo alla stregua degli animali) che commettiamo errori. Molto più cauti saranno Locke e Hume: Hobbes, dal canto suo, è piuttosto radicale, in quanto afferma che la conoscenza è o assoluta o contraddittoria, senza proporre vie intermedie. La sua posizione è ben compendiata dalle sue stesse parole: “si chiama errore […] il caso in cui si fanno ragionamenti senza termini. […] Quando però ragioniamo con termini di significato generale ed arriviamo ad un’inferenza errata […] si tratta di assurdità”. Come è facile arguire, non c’è spazio per le vie di mezzo: o si è in contraddizione o si è nel giusto. Contraddittorio sarà, nella fattispecie, parlare di volontà libera, di sudditi liberi, di sostanze immateriali (come faceva Cartesio), giacchè sono parole “senza significato”, ovvero assurde – nell’acezione poc’anzi chiarita. Nel “De homine” (1658), che è una delle sue ultime opere, Hobbes riprende queste tematiche, ma in una prospettiva notevolmente mutata – e più sfumata – rispetto ai tempi del “Leviatano”: due sono le grandi modifiche che possiamo rinvenire nel pensiero hobbesiano di questa tarda fase della sua filosofia; in primis, egli ammorbidisce radicalmente l’opposizione netta tra scienza e non-scienza, quell’opposizione netta che regnava incontrastata nel “Leviatano”: in quello scritto, la conoscenza – per essere tale – doveva necessariamente essere scienza, e si poteva avere la scienza solo quando si ragionava deduttivamente a partire da una definizione, dalla quale si traevano le conseguenze. Ora, nel “De homine”, Hobbes ammette la possibilità di una conoscenza che parta dall’esperienza (e non dalle astratte definizioni), risalendo dagli effetti alle cause (e non dalle cause agli effetti, come invece era nel “Leviatano”); ciò non toglie, tuttavia, che l’autentica conoscenza resti quella che sale dalle cause agli effetti; l’altra – detta “a posteriori” – è sì una conoscenza, ma non può essere etichettata come vera scienza. La seconda basilare modifica introdotta da Hobbes è di natura terminologica: finora, abbiamo parlato esclusivamente di “conseguenze logiche”, conosciute dalla scienza; ora, nel “De homine”, non si parla solamente di tali “conseguenze logiche”, ma anche di quella causalità che restava esclusa dal “Leviatano”; certo, anche la causalità comporta una consequenzialità, ma ha comunque un’estensione maggiore perché la causa riguarda anche il mondo reale (e non solo quello logico), cosicchè ben si spiega il cambiamento linguistico. Infatti, dal momento che Hobbes recupera la conoscenza empirico/induttiva, si trova necessitato a far riferimento al termine “causalità”, ossia al risalire dagli effetti alle cause. Addirittura – nota Hobbes – la conoscenza è sempre causale: può essere conoscenza che procede dalle cause agli effetti (e in tal caso si ha la vera scienza), o dagli effetti alle cause (e allora si ha una conoscenza inferiore, da Hobbes detta “cognizione”). Se la conoscenza orbita intorno alla causalità, allora essa ruota anche attorno alla generazione dell’oggetto in questione, giacchè conoscere una cosa vuol dire vedere come essa nasce; anche la dimostrazione a posteriori è ritenuta valida, ma, parlando di generazione, viene ribadito che la vera conoscenza è quella delle cause prime che spiegano l’origine, procedendo dalle cause agli effetti, poiché se invece parto dagli effetti mi trovo in serie difficoltà nel risalire alla giusta causa. Ciò può essere chiarito con un esempio: partendo dall’effetto E, dico che C può essere la sua causa, introducendo quella possibilità esclusa dalla sfera della scienza. Se invece parto dalla causa C, posso affermare con certezza che da essa deriverà l’effetto E, senza possibilità di errore. Allora è facile evincere come il modello a priori sia preferibile non solo per la maggior garanzia della conoscenza (che non è in tal caso del possibile, ma del certo), ma anche per la diversa fruibilità di tale conoscenza: infatti, solo quella aprioristica è rivolta al futuro, perché solo la conoscenza delle cause mi permette una reale generalizzazione (data la causa X, avrò sempre e necessariamente l’effetto Y). Da queste due differenze subentrate col “De homine” ne nasce una terza: se diciamo che la scienza è conoscenza della genesi delle cose, è allora ovvio che devo a tutti i costi avere una conoscenza completa della causa e del processo, poiché se mi sfugge non posso esser certo che da C derivi E, ragion per cui posso davvero conoscere le cose solo quando sono io stesso a produrle. Se la cosa che debbo conoscere è prodotta da altri, diventa per me difficile conoscerla in maniera esaustiva, e devo allora accontentarmi di individuare la causa partendo dagli effetti (e restando nel regno della possibilità); “solo nel caso di quegli oggetti la cui generazione dipende dall’arbitrio degli uomini stessi” essi possono averne conoscenza certe, giacchè avendoli prodotti di persona, ne conoscono le cause e quindi sanno che dalla causa C deriverà necessariamente l’effetto E (ci si muove cioè nel regno della necessità). In quegli stessi anni Giambattista Vico parlerà analogamente di “verum ipsum factum”, mantenendo l’idea hobbesiana (forse Vico lesse Hobbes) che la vera conoscenza è quella di ciò che abbiamo noi stessi prodotto. Potrò allora secondo Hobbes conoscere con certezza (perché sono io stesso a farle) la matematica e, soprattutto, la geometria, intese come costruzioni a partire da definizioni (se Hobbes avesse conosciuto le geometrie non-euclidee si sarebbe sentito ulteriormente confortato nelle sue idee); similmente, Vico dirà che “mathematicam veram facimus”. Se però ci spostiamo all’ambito della fisica, qui troviamo cose che non abbiamo costruito noi (gli enti naturali), ma che son state prodotte niente poco di meno che da Dio stesso, il che implica che non possiamo conoscerle poiché non possiamo seguirne il processo genealogico; potremo soltanto seguire la dimostrazione a posteriori, muovendoci nel regno del possibile e del probabile, senza garanzie che le nostre conoscenze in merito siano estendibili al futuro. Sul piano teoretico Hobbes salva la matematica e la geometria (Vico salverà la storia), condannando la fisica; su quello etico, si salvano l’etica e la politica, scienze che facciamo noi, giacchè per Hobbes non esistono doveri naturali, e quelli che noi chiamiamo “doveri” sono il frutto di una statuizione umana, né esiste in natura un rapporto tra cittadini e sudditi: esso viene arbitrariamente sancito con un patto.
GIAMBATTISTA VICO
Vico è legato a Hobbes da (almeno) un punto di contatto: anch’egli è convinto che possiamo conoscere pienamente solo ciò che noi stessi facciamo. Però la divergenza tra i due pensatori c’è, anche se sfumata: Cartesio aveva propugnato una concezione dell’inferenza nella quale influivano immediatamente l’aspetto discorsivo e quello intuitivo, giacchè per lui il ragionamento consiste in una serie di intuizioni che, connesse, dan le deduzioni, che altro non sono se non catene di intuizioni. Per Hobbes, diversamente, ragionare è calcolare, in particolare calcolare le conseguenze in maniera causale: conoscere sarà dunque sapere che A causa B, che B causa C e così via. E’ una procedura deduttiva e discorsiva, ma non intuitiva, giacchè in nessun modo A e B vengon colti dall’intuizione. Si ha invece una progressiva successione non per intuizione ma per deduzione causale (e Hobbes recupera la logica sillogistica di Aristotele). Dunque, se Cartesio assegna il primato all’intuizione, Hobbes privilegia invece il modello deduttivo. Dal canto suo, Vico – nel “De antiquissima Italorum sapientia” – distingue tra un modello intuitivo (l’ “intellegere”) e un momento deduttivo (il “cogitare”): egli si avvale di questi due verbi latini perché mosso dal suo filosofico interesse per le etimologie (interesse che lo induce a scrivere il “De antiquissima Italorum sapientia”, anche se poi finisce per inventarsi le etimologie, come farà lo stesso Heidegger). Infatti, a suo avviso, “intellegere” deriva da “intus” e da “legere”, e può esser tradotto con “leggere dentro”, “penetrare”, sicchè tale verbo designa una conoscenza intuitiva, realizzantesi attraverso l’andar dentro a ciò che si conosce. “Cogitare” deriverebbe invece da “coagere”, “mettere insieme”, e quindi indica una comprensione data non dall’intuizione e dalla penetrazione, ma dal mettere insieme elementi giustapponibili: questa distinzione è usata da Vico per polemizzare con Cartesio, per il quale la conoscenza è data dalla raccoltà (“coagere”) delle qualità delle idee. Il cogitare è secondo Vico una forma inferiore di sapere, poiché vede le cose dall’esterno (mette insieme qualità senza cogliere l’essenza delle cose) e perché non si è mai certi di esaurire tutti gli elementi che si raccolgono; per comprendere in profondità il reale occorre invece penetrare al suo interno, ossia intellegere. Scrive Vico (“De antiquissima Italorum sapientia”): “Dai latini verum e factum sono usati scambievolmente o, come si dice comunemente nelle scuole, si convertono l’uno con l’altro. Di qui è dato supporre che gli antichi sapienti d’Italia convenissero, circa il vero, in queste opinioni: il vero è il fatto stesso; perciò in Dio c’è il primo vero perché Dio è il primo fattore: infinito, perché fattore di tutte le cose, perfettissimo, perché rappresenta, a sé, in quanto li contiene, sia gli elementi esterni sia quelli interni delle cose. Sapere è allora comporre gli elementi delle cose: sicché il pensiero è proprio della mente umana, l’intelligenza propria di quella divina. Infatti Dio legge tutti gli elementi delle cose, sia esterni che interni, perché li contiene e li dispone; ma la mente umana, che è finita, e ha fuori di sé tutte le altre cose che non sono essa stessa, è costretta a muoversi tra gli elementi esterni delle cose e non li raccoglie mai tutti: sicché può certo pensare le cose ma non può intenderle, in quanto è partecipe della ragione ma non è padrona di essa. Per chiarire tutto ciò con un paragone: il vero divino è l’immagine solida delle cose, come una scultura; il vero umano è un monogramma o un’immagine piana, come una pittura; e come il vero divino è ciò che Dio, mentre conosce, dispone ordina e genera, cosí il vero umano è ciò che l’uomo, mentre conosce, compone e fa. E cosí la scienza è la conoscenza della genesi, cioè del modo con cui la cosa è fatta, e per la quale, mentre la mente ne conosce il modo, perché compone gli elementi, fa la cosa: Dio, che comprende tutto, fa l’immagine solida; l’uomo, che comprende gli elementi esterni, fa l’immagine piana”. A differenza sia di Cartesio sia di Hobbes, Vico distingue due facoltà conoscitive: una è l’intuizione, l’altra è il pensiero cogitante che ci fa procedere discorsivamente (aggiungendo pezzo a pezzo). Sulla base di questa distinzione, sembra che tali due modalità gnoseologiche siano meramente contrapposte e che quindi Vico non solo si distingua radicalmente da Cartesio (che le faceva convergere) e da Hobbes (che eliminava l’intuizione), ma che addirittura sposi la tesi pascaliana della netta e inconciliabile distinzione delle funzioni (dello spirito di finezza e di quello di geometria), accordando maggiore importanza all’intuito. Se però prestiamo attenzione al testo, notiamo che le cose stanno in altri termini: le due modalità conoscitive sono sì distinte, ma non per questo contrapposte, giacchè è possibile un intellegere in cui rientri il cogitare (mentre non è possibile un cogitare che comprenda l’intellegere). In questo senso, la conoscenza intuitiva è intesa in due modi: a) come un colpo d’occhio immediato, che non ha bisogno di passaggi discorsivi ma coglie la totalità nella sua essenza; b) come un conoscere l’essenza totale della cosa, ma non per questo escludendo che all’interno di tale totalità si possa riconoscere un’articolazione discorsiva (cogliere cioè gli elementi connessi tra loro discorsivamente). In questa maniera, la discorsività non è esclusa, ma riguarda anzi la totalità stessa: immaginiamo un puzzle ricomposto; un conto è avere una sua visione per conoscenza discorsiva perché tessera per tessera l’abbiamo costruito (ciò equivale al cogitare); altra cosa è avere una intellezione (intus legere) dell’intero puzzle, pur tenendo presente la connessione delle varie tessere. Sarà questa un’alternativa che tornerà nell’idealismo tedesco: da un lato Schelling parlerà di un intuizionismo assoluto, dall’altro Hegel dirà che nel tutto si mantengono i rapporti fra le singole parti. Vico opta per la strada per cui l’intus legere non esclude il coagere (a differenza della scelta di Pascal): e per meglio spiegarsi, mette a confronto la conoscenza di Dio con quella dell’uomo per quel che riguarda il mondo esterno. L’uomo, trovandosi di fronte a fenomeni esterni prodotti non da lui, non può far altro che sommare A + B + C e cercare di allargare la sua conoscenza aggiungendo elemento a elemento, non può cioè far altro che cogitare. La cogitatio può farlo arrivare a risultati anche molto estesi (grandi catene di connessioni), ma in ogni caso non potrà mai raggiungere la totalità degli eventi e, poi, non potrà mai conoscere la catena nel suo insieme. Dio, che del mondo è l’autore, e quindi il responsabile non solo di A e di B, ma di tutti gli elementi, e non solo della connessione di A e di B, ma di tutta la connessione di tutti gli elementi, cosicchè Egli conosce tutta quanta la sequenza causale e la successione di elementi senza però perdere la possibilità di coagere, ma ciò sarà interno ad un punto di vista totalizzante che Gli permette di intus legere la totalità, sia pur nella sua successione causale. L’intellegere e il cogitare non sono dunque opposti, ma anzi l’intellegere è la forma più alta del cogitare, è quel cogitare in cui non ci si limita a raccogliere le tessere del puzzle, ma lo si vede subito nella sua interezza; ma ciò è possibile solo per chi ha creato quella data cosa. Solo chi ha creato una cosa può conoscere tutta la serie causale che ha portato a essere quella cosa; chi se la trova già fatta può solo mettere insieme i pezzi che la compongono (coagere): questo punto è compendiato da Vico nell’espressione “verum ipsum factum” (“il vero è il fatto stesso”), con la quale egli intende appunto dire che si può avere vera conoscenza solo di ciò che si è effettivamente fatto. Se ho progettato io il puzzle, anche quand’esso è scomposto mi basta vedere una tessera per capire la sua posizione esatta (perché nella mia mente ho l’immagine completa del puzzle), ma se non l’ho creato io posso solo mettere insieme pezzo per pezzo, senza mai arrivare a completarlo. La natura non la fa l’uomo e, quindi, egli non può conoscerla a fondo; solo Dio può penetrarla, perché è Lui che l’ha creata: la posizione vichiana è qui vicinissima a quella hobbesiana. Fin qui, Vico ha distinto l’uomo da Dio, ma in realtà ciò vale solo per il mondo naturale, perché può sussistere anche una forma di analogia tra l’uomo e Dio: se solo ciò che si fa può essere pienamente conosciuto, allora ciò che l’uomo fa può conoscerlo perfettamente: “il vero umano è ciò che l’uomo, mentre conosce, compone e fa”. Egli potrà intus legere non la natura (che è stata creata da Dio), ma – hobbesianamente – la matematica (“mathematicam veram facimus”, dice Vico), che è costruzione del tutto umana (e in questa fase del pensiero di Vico è la sola cosa che l’uomo crei davvero). Essa è la scienza più esatta, e perciò più lontana dalla natura e, quindi, può vigere il pensiero per cui le cose quanto più sono concrete e tanto più dipendono da Dio (e sfuggono alla nostra conoscenza), e quanto più sono astratte tanto più sono umane (e quindi conoscibili dall’uomo). E – nel “De antiquissima Italorum sapientia” – pone elementi intermedi tra i due estremi rappresentati dalla matematica e dalla natura: la meccanica è una sorta di matematica applicata al movimento, ma non considera mai entità fisiche reali, ma sempre astratte ed è per questo la scienza più vicina alla matematica; la fisica, invece, si serve della matematica, ma la applica al mondo reale, e perciò è meno perfetta della meccanica. La morale, infine, è una disciplina in cui c’è di mezzo il reale, poiché l’uomo è creatura di Dio, però ciò è solo il punto di partenza per costruire regole comportamentali astratte e, quindi, conoscibili. Nella sua opera più importante – “La scienza nuova” – Vico scopre che vi è un altro ambito che è prodotto esclusivamente dall’uomo: la storia. E’ infatti l’uomo a fare la storia e, dunque, si tratta di un ambito disciplinare che può perfettamente conoscere. Vico ritiene che nei fatti storici si riverberi il modo di pensare dell’uomo, cosicchè essi non sono assimilabili a quelli naturali, giacchè dipendono del tutto dalla struttura mentale umana e hanno impronta completamente umana, e poiché possiam conoscere la mente umana, possiam di conseguenza conoscere anche la storia, che si configura allora come “scienza nuova” contrapposta a quella cartesiana. Essa è perfetta alla pari della matematica, è una vera scienza, contrariamente a quel che di essa credeva Cartesio, il quale la intendeva come conoscenza del probabile. Per Vico, invece, gli uomini nel fare la storia non hanno fatto altro che proiettare all’esterno il loro procedere mentale.
JOHN LOCKE
Dopo Cartesio, invale una forte differenziazione nel pensiero filosofico: si comincia a credere che la conoscenza umana non sia onnipotenza, ma, al contrario, che abbia dei limiti intrinseci, ravvisati da Pascal nella distinzione tra cuore e ragione, da Hobbes nella ragione come calcolatrice delle conseguenze e da Vico nella diversificazione tra cogitare e intellegere, cosicchè se anche la usiamo nel miglior modo possibile, non per questo essa è illimitata. Questi limiti congeniti della ragione umana sono anche sottolineati dall’empirismo moderno inglese, di cui Locke è il più insigne esponente. Il motivo per cui egli pone fin da principio un forte limite all’estensione della conoscenza umana sta nel fatto che la fonte di tale conoscenza è data dall’esperienza empirica: in un passo, egli polemizza duramente contro le filosofie che sostengono la possibilità di idee innate (Cartesio, Malebranche, ma ancora di più il platonismo di Cambridge e, in qualche misura, anche l’aristotelismo di Oxford). Se ammettiamo l’esistenza di idee innate, esse sono chiare, complete, totali e la conoscenza di esse finisce per essere sconfinata, senza limiti empirici, come appunto era in Cartesio. Ora, Locke nega che possano esistere idee che occupino la nostra mente fin dalla nascita: al contrario, tutto deriva dall’esperienza, ed essa non è mai assolutamente oggettiva – anche senza scomodare le argomentazioni scettiche è facile notarlo – e, quindi, non è mai illimitata e sicura; contro le idee innate, Locke fa ricorso all’esempio delle “idee innate teoriche” e delle “idee innate pratiche”: in entrambi i casi, chi le sostiene parte dal presupposto che con esse si attui un sapere universale (poiché se sono innate, tutti gli uomini le hanno), in contrapposizione al sapere empirico, secondo il quale le idee passano dall’esperienza. Ma se le idee fossero innate dovrebbero allora averle tutti, sicchè in ogni individui dovremmo trovare la conoscenza del principio di non contraddizione o di identità: eppure, né i bambini né gli idioti ne sono provvisti; ciò è un forte indizio contro la possibilità dell’esistenza di idee teoriche innate. Similmente, sul versante pratico, Locke sbaraglia l’eventualità dell’innatismo ricorrendo al relativismo culturale: basta leggere qualche libro in cui si parli di viaggi in terre remote per accorgersi come in quelle terre sperdute sussistano costumi diversi dai nostri e ciò che per noi è grave colpa (l’incesto, l’antropofagia, l’uccisione dei genitori), per altri popoli non lo è. Ne consegue, allora, che non esistono neanche idee pratiche innate, e i costumi e le norme comportamentali provengono anch’essi dall’esperienza: “supponiamo che lo spirito sia come si dice un foglio di carta bianco, privo di qualsiasi segno, senza nessuna idea; come arriva a essere fornito di idee? […]. Dall’esperienza, nella quale è fondata tutta la nostra conoscenza, e dalla quale essa in ultima analisi deriva” (“Saggio sull’intelletto umano”, II, capp. I, 2-4; II, 1-2). Con ciò Locke sta dicendo che tutte le idee si formano empiricamente; ma che cosa intende egli per “idea”? Locke parte dal presupposto che la mente sia una tabula rasa (riprendendo l’immagine stoica della mente come foglio bianco), priva di contenuti, ma che l’unica cosa conoscibile siano le idee: paradossalmente, sotto questo aspetto, egli resta nell’alveo del cartesianesimo e della sua ammissione che possiamo conoscere soltanto idee (intese come contenuti mentali). Ora, pare dunque evidente che pure in un empirista quale è Locke resti qualche traccia cartesiana: non conosco mai le cose, ma sempre solamente le idee, non posso pensare altro che idee e quindi quando faccio riferimento agli oggetti della conoscenza faccio sempre riferimento alle idee stesse, le quali però (e qui sta la divergenza da Cartesio) sono acquisite dall’esperienza, perfino l’idea di Dio è acquisita per tale via (prova ne è che sussistano popoli che non hanno alcuna idea di Dio). Per Cartesio la garanzia della corrispondenza tra cose e idee era radicata nella bontà di Dio: in Locke questo (comodo) ponte di congiunzione manca e, quindi, la conoscenza rimane sempre confinata a idee, ovvero resta aperto il problema della corrispondenza delle idee al mondo esterno (ciò significa che non è detto che il mondo esterno sia quale io me lo immagino). In altri termini, se per Cartesio quando penso all’idea di tavolo sono certo che essa abbia riscontro nel reale perché esiste un Dio buono, per Locke ciò non è valido, sicchè non posso aver la certezza che l’idea abbia riscontro nel reale. Ne consegue, allora, che neanche Locke, che pure si professa empirista, creda che le idee provenienti dall’esterno siano mere fotocopie della realtà, come invece credevano un Democrito o un Epicuro. Al contrario, dirà che alcune idee ci ritraggono la realtà così come essa effettivamente è (tali sono le “idee semplici” della solidità, dell’estensione, del numero, e così via), mentre altre idee (l’idea del caldo, del blu, etc) non raffigurano la realtà esterna, ma la deformano a nostro uso e consumo: ci sono cioè qualità primarie e qualità secondarie, e così dicendo Locke commette un indebito passaggio, poiché come è possibile affermare che vi siano qualità che corrispondono alla realtà se si conoscono solamente idee e mai la realtà stessa? Dovrei poter disporre di un termine di confronto, che però Locke non ammette, e infatti Berkeley e Hume elimineranno la distinzione fra qualità primarie (le quantità) e qualità secondarie (le qualità), riconducendo tutte le idee a rappresentazioni del soggetto, sulla base delle quali non si può sostenere la corrispondenza con la realtà. Ma – concentrandoci su Locke – come può egli asserire che le idee derivino dall’esperienza? A suo avviso, ciò si verifica secondo due differenti modalità: a) attraverso l’esperienza esterna, ovvero mediante la sensazione: le idee giungono alla mente perché i sensi sono sollecitati da una realtà esterna. Ma non tutto è percepito oggettivamente nella stessa maniera (ciò che percepiamo come colore, nella realtà potrebbe non essere un colore); b) attraverso la percezione delle operazioni che la nostra mente compie dentro di sé: non si tratta più di esperienza esterna, ma di esperienza interna, una sorta di riflessione della mente sulle proprie operazioni; il materiale su cui essa riflette è quello già ricevuto attraverso l’esperienza esterna. La riflessione è qui intesa come un percepire mediante l’esperienza. Come nel caso dell’esperienza esterna vi sono le qualità delle cose che producono certe idee superando la barriera fra interno ed esterno, così nell’esperienza interna accade che tali idee vengano rielaborate dalla mente, unificate, confrontate e così via, e queste operazioni si riflettono sulla mente così come le qualità si riflettono sui sensi. Mi vedrò dunque operare sulle idee al mio interno. Come l’esperienza esterna, anche quella interna è caratterizzata da una certa passività. Leggiamo cosa scrive Locke a proposito della distinzione tra sensazione e riflessione: “in primo luogo i nostri sensi, avendo rapporti con oggetti sensibili particolari, convogliano nello spirito diverse percezioni distinte delle cose, secondo i vari modi in cui quegli oggetti agiscono sui sensi. […] Chiamo sensazione questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo, poiché essa dipende completamente dai nostri sensi e perché attraverso i sensi agisce sull’intelletto. In secondo luogo l’altra fonte dalla quale l’esperienza fornisce l’intelletto con idee è la percezione delle operazioni del nostro proprio spirito dentro di noi, quando esso è impiegato intorno alle idee che ha ottenuto. […] Ma come chiamo sensazione la prima fonte delle idee, cosí chiamo riflessione questa seconda fonte, perché, le idee che essa fornisce sono soltanto quelle che lo spirito ottiene riflettendo sulle proprie operazioni dentro se stesso” (“Saggio sull’intelletto umano”, II, capp. I, 2-4; II, 1-2). Si può leggere in filigrana una qualche assonanza con il discorso di Hobbes, quand’egli diceva che la scienza conosce i nomi e mai le cose stesse: anche per Locke la conoscenza non riguarda mai le cose, ma sempre e soltanto non i nomi hobbesiani ma le meno astratte idee cartesiane. Ma le idee, se singolarmente prese, non costituiscono ancora la conoscenza: per Cartesio se ho conoscenza evidente di un’idea, si tratta già di una conoscenza in senso pieno, anche se tale idea non è connessa ad altre; per Locke, viceversa, una o singole idee non bastano per costituire una conoscenza, la quale è al contrario data dal rapporto tra le idee, in una relazione di accordo o di disaccordo: “mi sembra che la verità, in quello che il nome propriamente vuol dire, non significhi nient’altro se non unire o separare segni secondo che le cose significate da quei segni sono in accordo o disaccordo l’una con l’altra” (“Saggio sull’intelletto umano”, IV, cap. V, 2, 8-9). Così, se dico che “il cerchio non è un quadrato” la verità non risiede né nella parola “cerchio” né in quella “quadrato”, ma nella relazione di disaccordo instaurata tra le due idee, e la conoscenza sta appunto nel percepire l’accordanza o la discordanza tra le idee. Dove manca tale percezione, non si ha conoscenza, giacchè anche nelle operazioni mentali più semplici, come quando diciamo che “il bianco non è il nero”, che altro facciamo se non percepire una discordanza tra idee? Ma per costruire la conoscenza le singole idee non sono sufficienti, tant’è che “sebbene possiamo fantasticare o credere o indovinare, tuttavia non arriviamo mai alla conoscenza”; Locke sta qui dicendo che ci sono cioè casi in cui metto in connessione (fantasticando) idee che non hanno nulla a che vedere tra loro, come quando penso all’ippogrifo come cavallo volante. Ciò significa che, per avere reale conoscenza, non basta mettere in relazione idee o inventarsi rapporti di accordo o disaccordo, ma bisogna scoprire relazioni che oggettivamente corrispondano ai rapporti che ci sono fra le idee: si pone qui il problema della certezza della conoscenza o – per riesumare termini cartesiani – della sua evidenza. E secondo Locke sussistono diversi gradi di evidenza: il grado massimo è quando si intuisce (ossia quando si vede immediatamente) la concordanza o la discordanza tra due idee, come quando ad esempio vedo l’idea di 2+2 e quella di 4 e subito colgo la loro identità (oppure 2+2 e 5 in cui colgo il disaccordo), quasi con un colpo d’occhio. Fin qui Locke resta profondamente cartesiano. Si tratta di una conoscenza immediata, come – dice Locke – l’occhio coglie immediatamente la luce, così a prima vista la mente coglie che il triangolo non è quadrato: è la conoscenza più certa ed evidente che l’uomo possa avere. Ad un secondo (ed inferiore) grado troviamo non più l’identità di 2+2 e di 4, ma quella di una quantità X con una quantità Y: si tratta di una conoscenza che non è più immediatamente evidente, ma che è dimostrabile solo attraverso il passaggio per molti momenti intermedi. Succede cioè che ci troviamo ad avere una dimostrazione, la quale non è altro che una catena di intuizioni. Anche qui Locke si muove in una sostanziale ottica cartesiana. Tuttavia c’è tra i due filosofi una differenza, non grande ma che può avere grandi conseguenze: per Cartesio questa seconda procedura (dimostrativa) ha la stessa certezza della prima (intuitiva), sempre con l’avvertenza di usare bene la ragione senza tralasciare nulla; Locke, dal canto suo, è meno fiducioso e ritiene che quanto più la catena dimostrativa si allunga, tanto più si rischia di commettere errori e quindi tanto più la conoscenza non è certa ma probabile. Così facendo, il pensatore inglese introduce la probabilità (pressochè sconosciuta a Cartesio) anche a livello di dimostrazione (quando cioè ragioniamo), poiché esse – in quanto catene – non possono garantire la certezza che invece troviamo nelle intuizioni (2+2=4). Il successivo livello proposto è quello che si ha quando la mente percepisce la concordanza e la discordanza tra idee non immediatamente: si ha in questo caso quella che Locke definisce una “congettura probabile”, esulante dalla certezza propria dell’intuizione. Il ragionare consiste allora nel costruire le catene dimostrative coi nessi intuitivi: ma che cosa ci garantisce che in tali catene non si creino fratture, sbagli o dimenticanze? Se ad esempio dico che X=Y=Z, posso essere sicuro che X e Z siano uguali ad uno stesso Y, e che non siano invece uguali rispettivamente ad un Y e ad un Y1? Non vi è strumento alcuno per poter verificare ciò e dunque in tale ambito regna il probabile, che ha così detronizzato il certo. Quello lockeano è un impianto rigorosamente cartesiano, con la sola aggiunta della probabilità, un’aggiunta innovativa importante per le conseguenze che crea (Hobbes stesso quando parlava di scienza riferendosi ai nomi escludeva – cartesianamente – che potesse infiltrarsi la probabilità al posto della certezza), stonando decisamente con il razionalismo di marca cartesiana e intonandosi perfettamente con l’empirismo. In qualche modo, proponendo una simile concezione del sapere umano, Locke ritorna su posizioni razionalistiche di stampo cartesiano, tradendo così la propria impostazione empiristica di partenza: le idee derivano sì dall’esperienza, ma una volta che le ho acquisite posso lavorare analiticamente su di esse senza far più riferimento all’esperienza. Un regresso simile dalle posizioni assunte in partenza si era verificato in Hobbes, che, partito da un sensismo esasperato, era approdato all’astratta elaborazione della teoria dei nomi, propugnando una conoscenza razionalistica non così distante da quella cartesiana. Ma Locke resta più cartesiano di Hobbes, poiché rimane fedele alla teoria della conoscenza intuitiva, mentre Hobbes obbedisce (nel “De homine”) ad una struttura di tipo causale (A produce B, e quindi B è diverso da A): per usare una terminologia kantiana, è come se Locke fosse analitico, Hobbes sintetico. E del resto Locke ritiene che l’intelligenza (“understanding”) abbia una funzione squisitamente attiva (a differenza della mera passività dell’esperienza), che si esplica nel mettere insieme le idee; e per meglio chiarirsi, egli riconosce tre diversi tipi di attività: 1) il percepire la relazione intercorrente tra idee; 2) il comporre le idee e fare di idee semplici idee composte; 3) l’astrarre, ossia il ricavare da tante idee un qualcosa di comune ad esse (da tante idee di uomini diversi astraggo l’idea di uomo): ma Berkeley e Hume gli rinfacceranno che, se si vuol davvero essere empiristi, si hanno solo immagini individuali date dall’esperienza, e da dove mai deriverebbe tale facoltà dell’astrarre? Locke sta qui effettivamente impiegando un meccanismo tipicamente razionalistico (cartesiano, aristotelico e tomistico), sganciato dall’esperienza. In sostanza, egli, più che un empirista, può configurarsi come un cartesiano che ha perso la fede e si impasta di empirismo. Dall’esperienza ci provengono sempre idee semplici (l’idea di blu, di pesante, di grande, ecc) e poi l’intelletto le compone in idee complesse (aggregando l’idea di nero, di freddo, di pesante crea l’idea complessa di tavolo).
HUME
David Hume ha in comune con Locke e con Hobbes il riconoscimento che tutto il materiale della nostra conoscenza provenga dall’esperienza; egli asserisce – in termini meno compromissori col cartesianesimo rispetto agli altri due autori – che tutte le nostre rappresentazioni sono impressioni e idee: le “impressioni” – spiega Hume – sono le rappresentazioni delle cose nel momento in cui tali cose sono attualmente percepite attraverso l’empiria (vedo il tavolo, ne ho una rappresentazione), mentre le idee sono le rappresentazioni che abbiamo delle cose quando queste non sono più percepite attualmente, ma vivono solo nella nostra memoria (penso al tavolo senza averlo di fronte); in sostanza, si può legittimamente dire che l’idea è ciò che resta dell’impressione quando viene a mancare l’oggetto esterno dell’esperienza, sono cioè impressioni illanguidite e meno vivaci. Hume concorda pienamente con Locke sul fatto che le singole idee e le singole impressioni non costituiscano conoscenze, ma siano solo le tessere sparpagliate di un mosaico che devono essere riconnesse: ma tale connessione (e in ciò Hume prende le distanze da Locke, da Hobbes e dal cartesianesimo) avviene perché certe conoscenze possono attuarsi solo per procedure razionalistico/analitiche, ma oltre un certo limite tale procedura si rivela assolutamente impotente. Il primo ambito in cui vale il metodo razionalistico/analitico è quello delle conoscenze astratte e universali derivanti dal semplice confronto tra le idee, e qui Hume si limita a ripetere quanto già detto da Cartesio e da Locke, ma esplicitando meglio come alla base di tali conoscenze stia il principio di identità (da Hume sfumatamente detto “criterio di somiglianza”). Si tratterà, allora, delle conoscenze matematiche, del tipo 2+2=4, in cui da una parte abbiamo l’idea del 2+2 e dall’altra quella del 4, e non appena le mettiamo a confronto appaiono immediatamente uguali (2+2 è appunto uguale a 4). Ora, per sottolineare la consonanza col razionalismo, occorre notare come – qualche anno prima rispetto a Hume – un razionalista convinto come Leibniz avesse detto cose del tutto analoghe, parlando esplicitamente di “verità di ragione”): “vi sono pure due specie di verità, quelle di ragione, e quelle di fatto. Le verità di ragione sono necessarie ed il loro opposto è impossibile, quelle di fatto sono contingenti ed il loro opposto è possibile” (Leibniz, “Monadologia”, 33). Così, quando dico che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a 180 gradi, con tale proposizione esplicito qualcosa di già del tutto contenuto nella nozione stessa di triangolo, senza aggiungere un’idea ad un’altra: appunto, mi limito ad esplicitare qualcosa di già presente, sicchè l’intera matematica è per Hume un’immensa tautologia: da A si tira fuori B, che però era già implicito in A (Kant parlerà a tal proposito di “giudizi analitici a priori”, ma vorrà spingersi al di là di essi). Hume si trova in questo d’accordo con il razionalismo cartesiano: quando facciamo ragionamenti di tipo logico, necessariamente ci basiamo sul principio di identità, ma non tutte le conoscenze sono secondo Hume di questo genere. Quando ad esempio vedo che sul tavolo da biliardo la palla A urta la palla B e questa si muove, ciò non può essere spiegato con il medesimo criterio analitico con cui spiegavo che 2+2 dà 4, poiché l’effetto (il moto della palla B) non è già contenuto in A (mentre invece il 4 era già contenuto nel 2+2), ma è qualcosa di diverso e, essendo tale, non mi è possibile indovinarlo in base ad A, non basta cioè esaminare A per capire che da essa scaturirà B, come invece basta guardare l’idea di 7+5 per ricavarne automaticamente il 12. E l’errore dei razionalisti sta appunto nel non aver seguito il metodo dell’identità (anticipato da Cartesio e ripreso da Locke e Leibniz) e nell’aver ritenuto possibile derivare con la ragione le conseguenze dalle cause: si tratta – nota Hume – di una mera illusione della ragione, giacchè essa, confrontando le idee, può solo tirarne fuori (con un’operazione analitica) ciò che esse già contengono, ma non può estrarre dall’idea di causa quella di effetto. Scrive a tal proposito Hume: “se un uomo fosse creato, come Adamo, già nel pieno vigore dell’intelligenza, non potrebbe mai, senza farne l’esperienza, concludere al movimento della seconda palla dal movimento e dalla spinta della prima. La ragione non vede nulla nella causa, che la muova ad inferire l’effetto”; era Hobbes che pretendeva di dimostrare la derivabilità dell’effetto dalla causa, ma ciò è secondo Hume impossibile, poiché il modello razionalistico è eccellente se applicato alla matematica e alla logica, ma quando devo spiegare un dato di fatto (matter of fact), quale può essere il moto della palla B urtata dalla palla A, la ragione non può analiticamente dirmi che da A derivi B, ed ecco che allora si pone un problema del tutto nuovo. Come giustificare le connessioni che si riferiscono non a idee astratte (2+2=4), ma a dati concreti (il moto delle palle sulla tavola da biliardo)? Una possibile via per un empirista quale è Hume sta nell’ammettere che il rapporto causale non lo trovo nella ragione ma nell’esperienza: ma posso davvero dire che l’esperienza mi dia ciò? Parrebbe di sì: quando vedo la palla A urtare la palla B, posso dire di vedere la causalità? Vedo davvero A che sposta B o vedo qualcos’altro? Hume risponde che in realtà io non vedo A che sposta B, ma vedo semplicemente una successione spazio/temporale (A e B che si muovono nello spazio e nel tempo), non vedo mai A che sposta B, potrebbe benissimo essere che A si ferma proprio nel momento in cui B parte, senza che tra le due sussista un rapporto causale; gli Occasionalisti arriveranno a dire che B si sposta perché Dio interviene per spostarla in occasione del movimento di A (in sostanza, il moto di A sarebbe occasione affinchè Dio sposti B). Ma – nota Hume – se ripeto più volte l’esperimento, facendo urtare B da A nello stesso modo, l’esperienza mi fornisce la ripetitività, ossia attesta che tutte le volte che A colpisce B, B si muove; ma non mi dice mai che A causa il moto di B. Hume ne trae la conseguenza che l’esperienza non dà la conoscenza necessaria del rapporto causale, ma che la reiterazione dell’esperienza (cioè quella che Hume chiama “abitudine”) può indurmi a credere con plausibilità che ciò che è avvenuto più volte avverrà anche in futuro, ma si tratta non di una conoscenza certa, bensì semplicemente di una “credenza” (come è la stragrande maggioranza delle nostre conoscenze: perfino che io sia sempre io o che gli oggetti da me percepiti continui a sussistere anche quando non li penso più è il frutto di una credenza): ho sempre visto che quando A tocca B, B si muove, e – per abitudine – è nata in me la credenza che ogni volta che A toccherà B, B si muoverà. Tale credenza, naturalmente, non è raffrontabile con la certezza del razionalismo cartesiano. Scrive Hume sul concetto di causa: “è evidente che tutti i ragionamenti sulle questioni di fatto si fondano sulla relazione di causa ed effetto, e che noi possiamo inferire l’esistenza di un oggetto da quella di un altro soltanto se si pone tra loro un nesso mediato o immediato. Per comprendere quei ragionamenti, ci occorre quindi una perfetta conoscenza dell’idea di causa. A questo scopo, guardiamoci attorno per trovare qualche cosa che sia la causa di un’altra. Ecco qui una palla ferma sul tavolo del biliardo, e un’altra palla che rapidamente si muove verso di essa. Si urtano, e la palla che prima era ferma ora acquista un movimento. Questo è un caso di relazione tra causa ed effetto, non meno perfetto di qualsiasi altro, che la sensazione o la riflessione ci facciano conoscere: conviene dunque esaminarlo. é chiaro che le due palle si sono toccate prima della trasmissione del moto, e che non c’é stato alcun intervallo tra l’urto e il movimento. La contiguità nel tempo e nello spazio è dunque una condizione necessaria dell’azione di ogni causa. È anche chiaro che il movimento, che era la causa, deve precedere l’altro, che era l’effetto. La priorità nel tempo è quindi un’altra condizione necessaria per ogni causa. Ma non basta. Facciamo l’esperimento con quante altre palle vogliamo, della medesima specie e in una situazione simile: troveremo sempre che la spinta dell’una produce il movimento dell’altra. Abbiamo dunque una terza condizione, ossia una unione costante tra causa ed effetto: qualunque oggetto simile alla causa produce sempre un oggetto simile all’effetto. Oltre a queste tre condizioni di contiguità, priorità, unione costante, io non so trovare altro in questo rapporto di causalità. La prima palla si muove e va ad urtare la seconda; subito la seconda si muove; e quando rifaccio la prova con palle uguali e simili, in condizioni uguali e simili, trovo che al movimento e all’urto della prima palla segue sempre il movimento della seconda. Da qualsiasi parte giri la questione e comunque la esamini, non vi so scoprire niente di piú. Cosí vanno le cose quando la causa e l’effetto sono presenti ai nostri sensi. Vediamo adesso quale fondamento abbia la nostra inferenza, quando dall’esistenza dell’una concludiamo all’esistenza passata e futura dell’altro. Se io osservo una palla che si muove verso un’altra in linea retta, subito ne deduco che esse si urteranno e che la seconda entrerà in movimento. é questa l’inferenza dalla causa all’effetto, e di tale natura sono tutti i nostri ragionamenti nella pratica quotidiana; su di essa si basa tutta la nostra fiducia negli avvenimenti storici e ogni scienza, tranne la geometria e l’aritmetica. Se riusciamo a spiegare l’inferenza che facciamo dall’urto di due palle, saremo in grado di giustificare la stessa operazione dello spirito in ogni altro caso”. Hume distingue – sulla scorta di Locke – tra sensazioni (provenienti dall’esterno) e riflessioni (il rispecchiamento della mente su se stessa), ovvero ritiene che il principio di causalità valga anche per il mondo interno a noi: e, una volta che la causalità verrà risolta in abitudine, ciò varrà ovviamente anche per il mondo a noi interiore, e in qualche misura la libertà d’arbitrio verrà negata. L’esperienza – come abbiam visto – non ci dà il concetto di causalità, ma si limita a fornirci serie spazio/temporali e la possibilità di ripetere lo stesso esperimento conseguendo gli stessi risultati, sicchè il resto è frutto di una nostra aggiunta e non proviene dall’esperienza né dalla ragione (la quale lavora analiticamente), bensì nasce dall’abitudine a vedere sempre quella stessa cosa. La spiegazione causale, allora, ha natura extra-razionale, giacchè sfugge al rapporto analitico e non è data ad un rilevamento razionale dell’esperienza. Servendoci di una terminologia kantiana sensu stricto, possiamo legittimamente sostenere che tutti gli autori di impianto razionalistico che abbiamo esaminato finora si distinguono perché adottano un modello analitico (connettendo cioè elementi in base alla loro identità: A=B, il che significa che B è già tutto contenuto in A), seguito perfino da Locke (nella conoscenza prevale l’intuizione sulla dimostrazione, intesa come catena di intuizioni), e da Leibniz (che esplicita il principio su cui si regge tale modello analitico: il principio di identità e di non contraddizione): anche l’empirismo estremo (e scetticheggiante) di Hume lo accetta, ma lo limita al settore delle conoscenze logico/matematiche, ossia delle conoscenze certe (sarà poi Kant a demolire questo modello), cosicchè assistiamo ad un passaggio dall’atteggiamento gnoseologico che lo vuole valido universalmente ad una posizione (quella di Hume appunto) per cui è il modello più rigoroso ma anche meno estendibile nella realtà; come dice Leibniz stesso, un tale modello è valido solo per le “verità di ragione”, ossia per l’ambito logico/matematico. Nel razionalismo seicentesco, tuttavia, accanto al modello analitico, è anche emerso il modello sintetico (per il quale la conoscenza è data dall’aggiunta di un elemento ad un altro e tale aggiunta si esprime in termini causali: B non è già contenuto in A, ma si aggiunge ad A, configurandosi come diverso e nuovo), propugnato da Hobbes e da Vico. Il fatto che se B non è già contenuto a priori in A (ossia il fatto che l’effetto differisca dalla causa) implica che non si possa mai essere sicuri che si tratti di una connessione necessaria, cosicchè non possiamo mai dire con certezza che B deriva da A; a meno che non vi sia l’autocausalità: se cioè sono io stesso la A che causa B posso esser certo della loro connessione, appunto perchè sono io stesso a causarla (e tale è la situazione di Dio, che è la causa dell’intero mondo); se però non sono io la causa, allora posso solo fare delle supposizioni più o meno probabili: solo di ciò che io stesso sono causa posso avere certezza (verum ipsum factum). C’era però un altro modo per garantire la certezza di B in tutti i casi (e non solo quando sono io stesso la causa), e questo modo consiste nel cercare di mostrare come il rapporto causale (il rapporto sintetico intercorrente fra A e B) sia nella natura ontologica della realtà, e non sia solo un mero principio gnoseologico: in questo caso, la conoscenza non sarebbe altro che rilevare tale criterio (così per Aristotele la struttura del sillogismo rispecchiava la struttura della realtà); ovvero basterebbe dimostrare che la realtà ha struttura causale e che non è solo la mia mente a legare tra loro causalmente A e B. Si può, seguendo questo percorso, procedere lungo vie diverse, che però portano alla medesima destinazione: è questo il caso di Leibniz e di Spinoza. Finora, i termini “intelletto” e “ragione” erano stati sinonimici, ma con Spinoza cominciano a distinguersi nettamente.
LEIBNIZ
Gottfried Leibniz segue una strada particolare ed esclude radicalmente che il rapporto causale abbia validità esterna: tra le cose non sussiste alcuna causalità, sicchè quando sul tavolo da biliardo la palla B si muove quando è urtata dalla palla A, ciò non avviene perché A causa il moto di B. In questa maniera, Leibniz si spiana la strada, aggirando più che risolvendolo il problema: di fronte all’evidente difficoltà del giustificare la causalità tra le cose, egli la nega. Ma come si spiega allora che quando la palla A urta quella B, quest’ultima si muove? Leibniz dice che a noi pare che A sia la causa del moto di B, ma si tratta di mera apparenza, giacchè in realtà è Dio che ha voluto che la palla A avesse una sua storia e che colpisse B, la quale è dotata a sua volta di una sua storia per cui ad un certo punto si mette in moto: A e B si muovono indipendentemente l’una dall’altra. Con questa posizione, Leibniz si avvicina molto all’occasionalismo di Malebranche, anche se il pensatore tedesco non concepisce l’intervento divino come continuo (come se ogni volta che A tocca B Dio intervenisse a muovere B stessa), ma piuttosto come una predisposizione originaria: in origine Dio ha – secondo Leibniz – creato ogni cosa in un’armonia perfetta, predisponendo le varie cose come orologi caricati sincronicamente, in grado di procedere per loro conto senza necessità di intervento; la posizione occasionalista, invece, prevede che Dio debba continuamente intervenire nel mondo. Pur bandito dai rapporti fra le sostanze, il rapporto causale sussiste all’interno delle singole sostanze stesse, e Leibniz si fa portavoce di un pluralismo metafisico, sostenendo – aristotelicamente – che le sostanze sono tante quanti sono gli individui. Per addurre prove a sostegno della sua tesi, egli arriva a far coincidere il rapporto causale con la relazione (aristotelica) fra sostanza e predicato: da sempre siamo abituati a concepire il predicato come un qualcosa che si aggiunge al soggetto, cosicchè dire che “Socrate” (soggetto) è “camuso” (predicato), significa appunto aggiungere qualcosa alla sostanza individuale “Socrate”. Ora, tradizionalmente, tale inerenza del predicato al soggetto è considerata come espressione meramente logica, esistente non nella realtà esterna, ma nella nostra mente (la quale congiunge, appunto, il soggetto e il predicato, dicendo che “Socrate è camuso”), sicchè potrò dire che “la penna è nera”, aggiungendo a livello logico al soggetto “penna” il predicato “nera” che le inerisce. Ma – continua Leibniz – in realtà sussiste una coincidenza assoluta tra logica e metafisica, tra pensiero ed essere, sicchè il soggetto non è mai meramente logico, ma è sempre una sostanza individuale precisa (Cesare, Socrate, Alessandro Magno, ecc.) e il predicato che logicamente le inerisce è anch’esso non già una nozione puramente logica, bensì una determinazione reale di tale sostanza reale: non è un caso che, quando noi diciamo “inerire”, Leibniz usi invece l’espressione latina inesse, con un evidente significato ontologico (inesse significa “essere dentro”); in questo modo, viene dimostrato che non si tratta di una relazione meramente logica, esulante dal reale. Al contrario, sussiste una sostanza reale (ad esempio Alessandro Magno), a cui ineriscono determinati predicati (l’esser uomo, il diventare re dei Macedoni, il vincere Dario, il nutrire grande affetto per il
FILOSOFIA DEL 1600
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E IL 1600
Tra Cinquecento e Seicento si assiste in Europa a un rapido progresso delle scienze, che investe non soltanto l’acquisizione di singole conoscenze, ma soprattutto il metodo scientifico adottato. Da una scienza fortemente asservita alla tradizione filosofica aristotelico – scolastica si passa alla formazione della scienza moderna , la quale progressivamente afferma la propria autonomia dalla filosofia e dalla teologia ed elabora procedure metodologiche che la caratterizzano in maniera specifica. A questa grande trasformazione , principiata essenzialmente nel campo dell’ astrologia , si suole dare il nome di rivoluzione scientifica . Si tratta comunque di un’ epoca della storia del pensiero in cui é complesso distinguere la dimensione scientifica da quella filosofica : il rapporto filosofia – scienza predominante in questo periodo si intreccia in una duplice maniera ; da un lato alcune modificazioni apportate alla concezione del mondo saranno a tal punto radicali da coinvolgere l’ immagine globale del mondo e non solo quella degli scienziati : già in Bruno l’ accettazione e l’ ampliamento della dottrina copernicana avevano un significato che andava ben oltre lo scientifico e arrivavano ad interessare da vicino l’ ambito filosofico . L’ altra maniera in cui in questo periodo filosofia e scienza si intrecciano é epistemologica : la scienza moderna é novità non solo per i contenuti che propone , ma anche per il modo in cui arriva ad elaborarli . Il problema fondamentale allora diventa essenzialmente metodologico , e parlando di metodologia scavalchiamo l’ ambito scientifico per entrare in quello filosofico . La filosofia della scienza non é la scienza ( infatti non é necessario essere filosofi per essere scienziati ) , ma la riflessione sul valore della scienza non é certo ambito scientifico , bensì filosofico : quando uno scienziato esamina il metodo scientifico ecco che allora in quel momento non é più scienziato , ma é filosofo . Per esempio , non rientrano tanto nel campo di interesse filosofico i contributi scientifici di Galileo Galilei , quanto piuttosto la sua riflessione sul metodo scientifico da lui coscientemente applicato nell’ elaborare le teorie . L’ epistemologia é quindi quella branca della filosofia che si occupa delle riflessioni sui metodi scientifici . Soffermiamoci ora sul concetto di rivoluzione scientifica : perchè ad un certo punto della storia si tira in ballo un concetto così forte , che implica certamente l’ idea di un cambiamento radicale ? Il concetto di ” rivoluzione scientifica ” é stato elaborato soprattutto da uno studioso di origini ungheresi di nome Thomas Kuhn ; egli nel 1960 circa scrisse un libro in cui prendeva in esame le rivoluzioni scientifiche studiando anche quella del 1500 – 1600 . Kuhn vivendo nel 1900 vive in un’ epoca che ha già alle spalle una tradizione scientifica e che la concepisce in termini cumulativi , ossia gradualmente , come se le conoscenze scientifiche crescessero a poco a poco grazie ad aggiunte e a ritocchi in itinere ; ogni scienziato é come se elaborasse un pezzetto , un tassello da aggiungere alla scienza : dà cioè il suo contributo alle conoscenze già presenti , magari effettuando qualche correzione ; si procede quindi in termini cumulativi . Quello che Kuhn ha individuato é che la scienza procede in fasi ” normali ” , ossia cumulative , dove ciascun scienziato dà il suo contributo aggiungendo un tassello alle conoscenze già presenti , ma anche in fasi ” rivoluzionarie ” , ossia quando certe nuove scoperte che si vanno accumulando risultano incompatibili con quello che Kuhn chiama paradigma scientifico di una determinata epoca . Il paradigma scientifico di un’ epoca é la struttura generalissima della concezione del mondo dell’ epoca stessa ed esso ” salta ” quando vengono apportate novità inconciliabili con il paradigma stesso e si hanno allora le fasi rivoluzionarie , nelle quali troviamo chi si schiera in difesa del vecchio paradigma e chi in difesa del nuovo . Quella del 1500 – 1600 non é l’ unica rivoluzione scientifica : un’ altra é maturata all’ inizio del 1900 che ha segnato il passaggio dalla fisica classica ( galileiana ) a quella contemporanea ( quantistica e relativistica ) , che diventa un ” quadro ” più ampio nel quale trova tuttavia spazio anche la fisica classica . La rivoluzione scientifica del 1500 – 1600 inizia con la rivoluzione astronomica e con Copernico , che ha effettuato un radicale cambiamento di punto di vista , sostenendo l’ eliocentrismo a svantaggio del geocentrismo , proprio perchè le cose viste dal Sole trovavano spiegazioni più soddisfacenti ; ma l’ aspetto più importante di questa rivoluzione astronomica é dato dalle conseguenze che essa ha avuto sul pensiero della gente , impaurita oltremodo da queste novità : certo non si poteva rimanere indifferenti di fronte a tali innovazioni , che portavano alla perdita di ogni punto di riferimento ; la Terra che era sempre stata ritenuta al centro dell’ universo , viene ora proclamata uno dei tanti pianeti ( probabilmente neanche il più importante ) e l’ uomo non é più al centro del creato ; già la scoperta dell’ America aveva messo in crisi da un certo punto di vista l’ Europa , che veniva a contatto con civiltà diverse e antiche di cui ignorava l’ esistenza : ecco che l’ Europa stessa non era più il centro della Terra , ma comunque la Terra era pur sempre il centro dell’ universo ; nel 1600 viene a cadere anche questa certezza e vi é davvero una perdita di ogni punto di riferimento ; il cristianesimo stesso non era più un punto di riferimento e si era sfasciato con la rivoluzione intrapresa da Lutero . Ma ciò che soprattutto distingue la scienza moderna dall’attività scientifica esercitata nell’Antichità e nel Medioevo è il carattere quantitativo . La precedente tradizione scientifica, infatti, in accordo con la filosofia aristotelica di cui era mancipia, si proponeva la ricerca della ” forma ” essenziale dei fenomeni , e si esauriva pertanto in un’analisi meramente qualitativa , anche perchè non possedeva gli strumenti idonei per effettuare misurazioni precise e in fin dei conti dire che una cosa era calda o fredda ( in modo qualitativo ) era più efficace che non scervellarsi in misurazioni che non potevano essere corrette ; l’ intuizione che la quantificazione della realtà fisica fosse fondamentale l’ avevano già avuta i pitagorici e Platone stesso , ma non avevano avuto successo proprio perchè privi di un armamentario strumentale portante : é inutile dire che la realtà é fatta di quantità se non sono in grado di quantificare , perchè finirò per fare come i Pitagorici , che , non potendo fare della matematica un uso effettivo , finirono per provare a cogliere delle somiglianze tra le caratteristiche dei numeri e quelle della realtà ( per esempio per loro il numero due corrispondeva al genere femminile , il tre al maschile , il cinque al matrimonio perchè 3 + 2 = 5 ) ; nella migliore delle ipotesi arriverò ad un uso analogico come quello di Platone o di Cusano , dove mi servirò della matematica non in senso scientifico , ma come primo passo per cogliere realtà metafisiche ( Cusano usava la matematica per dimostrare l’ inattingibilità di Dio , per esempio ) . Con il metodo scientifico vero e proprio oltre a dire che la realtà é misurabile e fatta di quantità arrivo proprio a misurarla quantitativamente e supero così il sistema qualitativo aristotelico , che tuttavia in assenza di strumenti per misurare era migliore : pensiamo a quando Aristotele diceva che tutta la realtà derivava dal caldo , dal freddo , dal secco e dall’ umido o quando invece Platone , in modo molto raffinato e piacevole , diceva invece che tutto derivava dai solidi regolari ( ed Epicuro stesso lo criticava ) ; era ovviamente più efficace l’ interpretazione di Aristotele . Il nuovo metodo scientifico poggia quindi sul presupposto che l’essenza delle cose è inattingibile o comunque esula dalle finalità della scienza , la quale deve invece indagare i rapporti tra le cose ed esprimerli attraverso una misurazione oggettiva e universalmente comunicabile . Per questo nella nuova scienza diventa indispensabile l’uso della matematica . Il riconoscimento dell’importanza della matematica non è certamente una novità dell’età moderna . Ma nel mondo antico e medioevale questa disciplina era stata studiata prevalentemente come scienza astratta, che per sua natura non poteva essere applicata all’analisi dei fenomeni naturali. La sua utilizzazione era per lo più limitata a quegli ambiti nei quali si faceva riferimento a rapporti puramente ideali (come nella musica) o a una sostanza per definizione incorruttibile e dotata di movimenti uniformi (come nella astronomia aristotelica ) . Quando veniva applicata alla natura – come nelle scuole pitagorica ( proprio i Pitagorici avevano per primi sostenuto che ” il numero é il principio di tutte le cose ” e avevano ravvisato come caratteristica comune a tutti gli enti la misurabilità ) e platonica – essa aveva la funzione di evidenziare una struttura metafisica soprasensibile, quindi qualcosa che andava al di là del fenomeno naturale. Nella scienza moderna la matematica – anche grazie agli sviluppi dell’algebra – diventa invece uno strumento metodologico per quantificare i fenomeni naturali come oggetti specifici della ricerca scientifica (anche se nei suoi primi esponenti , in Galilei e soprattutto in Keplero , l’uso strumentale della matematica si associa ancora a residui di impostazione pitagorico – platonica ) . La matematica nel 1500 – 1600 invece ha essenzialmente due funzioni : da un lato viene usata come strumento di indagine della realtà , dall’ altro essa diventa modello metodologico anche per cose non strettamente quantificabili : una cosa é dire ” affermo che il mondo fisico é fatto di quantità e lo indago servendomi della matematica ” ( ed é quello che fanno tutti gli scienziati ) , un’ altra cosa ( più strettamente filosofica ) é dire ” se il metodo di ragionamento della matematica funziona così bene in ambiti matematici , perchè non provare ad usarlo anche fuori dagli ambiti matematici ( per esempio in ambiti politici , metafisici , ecc. ) ? ” . Nel 1500 – 1600 si afferma il meccanicismo , che è l’immediata conseguenza della quantificazione della scienza : la connessione necessaria con cui in matematica le diverse proporzioni geometriche o le diverse operazioni aritmetiche e algebriche discendono le une dalle altre diventa in fisica la necessità con cui la causa è connessa con l’effetto . Solo in questa maniera posso arrivare a leggi fisiche . In altri termini il meccanicismo , come dice Cartesio , consiste nel ridurre tutto ad estensione e movimento , eliminando dal modo di indagare la realtà ogni riferimento agli aspetti qualitativi e badando solo a quelli quantitativi , riducibili a quantità , perchè gli altri o non esistono o preferisco non prenderli in considerazione . Misurabile é quindi l’ estensione , il movimento ; non potrò indagare le qualità ( i colori , i sapori , gli odori , ecc . ) . L’ immagine che meglio descrive il mondo visto in chiave meccanicistica é quella del tavolo da biliardo che ben spiega come la causalità venga ridotta a urti tra corpi ( il mondo é un insieme di enti materiali che si urtano ) , facendo così venir meno il complesso apparato delle quattro cause di Aristotele ; in paricolare nella tradizione aristotelica l’analisi qualitativa della natura era strettamente connessa con la prospettiva finalistica . Però non scompaiono tutte e 4 le cause aristoteliche perchè parlando di urti tra corpi é evidente che si parla anche di causa efficiente ( l’ urto ) e causa materiale ( ciò che si urta é pur sempre un corpo ) . Non vengono invece più prese in considerazione la causa formale , che era quella che esaminava soprattutto le qualità ( le forme ) , e soprattutto quella finale ( gli urti non avvengono certo in vista di un fine ) perchè non possono essere oggetto di un’ indagine quantitativa . Anziché in termini di ” cause finali “, la nuova scienza interpreterà quindi le connessioni tra i fenomeni come ” cause efficienti ” e meccaniche . Nella scienza moderna, la connessione tra la causa e l’effetto non viene tuttavia determinata soltanto dallo strumento matematico, ma sottoposta anche a verifica empirica . C’ é chi dice che Galileo , a differenza di Aristotele , osserva la natura : quest’ affermazione é sbagliatissima perchè forse é Aristotele ad osservare ancora più di Galileo la natura , ma la vera differenza tra i due sta nel fatto che Aristotele si appoggia sull’ esperienza di più di Galileo ; quello che Aristotele non fa é l’ esperimento , ossia un’ esperienza fatta in una situazione controllata e quindi misurabile ; se vedo cadere delle cose l’ esperienza di tipo aristotelico mi dice che ci sono oggetti che tendono al loro luogo naturale , al limite può dirmi che tendono ad aumentare di velocità man mano che precipitano ; ma quest’ esperienza non mi dice di quanto aumenta la velocità in un determinato tempo . Ma perchè quindi Aristotele si basa solo sull’ esperienza , mentre Galileo anche sull’ esperimento , ossia l’ esperienza controllata ? Ad Aristotele interessano i dati qualitativi – i corpi pesanti vanno verso il basso ; al limite può interessargli sapere che ci sono corpi che vanno più velocemente , altri più lentamente – ma non gli interessano dati quantitativi ( quanto ci mette a cadere un oggetto , per esempio ) proprio perchè non ha i mezzi per misurare ; invece Galileo può misurare con l’ esperimento , può quantificare ; Aristotele non ha i mezzi perchè non gli interessa , ma é anche vero il contrario , ossia non gli interessa perchè non ha i mezzi . Accanto alla matematica, la sperimentazione è il secondo mezzo a cui i nuovi scienziati fanno metodicamente ricorso . L’esperimento , inoltre , il quale ( come detto ) consiste nella riproduzione artificiale di processi naturali in condizioni di massima osservabilità , deve servirsi di strumenti di indagine e di misurazione sempre più raffinati (ad es. orologi, cannocchiali, telescopi, barometri) . Si stabilisce quindi una stretta connessione tra scienza e tecnica , sia nel senso che il progresso della scienza dipende sempre più dal progresso tecnologico che appronta gli strumenti necessari alla ricerca, sia nel senso che , all’inverso , si afferma la consapevolezza delle potenzialità pratiche del sapere scientifico , destinato a consentire un sempre più ampio dominio sulla natura : é un rapporto biunivoco nel senso che un maggiore sviluppo tecnologico permette alla scienza di conseguire risultati più apprezzabili , ma un maggiore sviluppo scientifico consente la creazione di strumenti sempre più precisi ; lo si può vedere bene in Galileo : é solo grazie al telescopio che dimostra certe verità astronomiche , ma é solo grazie ad alcune conoscenze di ottica geometrica che riesce a costruire ( non ad inventare ) telescopi particolarmente raffinati . Ma a caratterizzare il 1600 , più di ogni altra cosa , sono la matematica e la profonda fiducia nella ragione umana : a Galileo sorge il dubbio che in realtà il mondo sia fatto solo di quantità e che le qualità siano solo delle manifestazioni soggettive delle quantità sui nostri organi di senso ; tuttavia quello di Galileo é solo un sospetto : a lui non interessa più di tanto risolvere la questione e poi non ha prove razionali per farlo : egli é comunque certo che anche ammettendo l’ esistenza delle qualità , si debbano esclusivamente esaminare le quantità in quanto misurabili rigorosamente ( con la matematica ) . Ma tutti i pensatori del 1600 prenderanno il sospetto di Galileo per trasformarlo in realtà : esistono solo le quantità e il mondo é come una tavola da biliardo , ossia un insieme di urti casuali . Si tratta tuttavia di un passaggio non del tutto legittimo e logico quello dal sospetto galileiano alla certezza . Se ci addentriamo maggiormente nel 1600 , il secolo della matematica , scopriamo che le più importanti tematiche dibattute sono tre : 1) rapporto tra res cogitans e res extensa : Cartesio arriva alla certezza di esistere dal cogito ergo sum : se nutro dei dubbi vuol dire che penso e se penso vuol dire che esisto ; egli però conclude di esiste esclusivamente come sostanza pensante , come pensiero : arrivato alla conclusione di esistere proprio perchè dotato di pensiero , egli fa un passo avanti dicendo di esistere solo come pensiero ; la realtà pensante e spirituale ( res cogitans ) risulta quindi radicalmente separata dalla materia ( res extensa ) , riconducibile ad estensione e movimento ; se però sono due realtà incompatibili e nettamente diverse , come dice appunto Cartesio , come mai quando decido con il pensiero di muovere un braccio esso si muove effettivamente in termini fisici ? Cio deve essere un rapporto tra res extensa e res cogitans e le spiegazioni fornite da Cartesio , più che risolvere il problema , tendono ad ampliarlo ulteriormente . 2 )Innatismo ed empirismo , una questione gnoseologica : l’ innatismo consiste nel dire che la conoscenza , almeno in parte , non si fonda sull’ esperienza , ma é qualcosa di innato , di cui disponiamo già quando nasciamo ; di questo parere era stato Platone stesso e nel 1600 si fa portavoce di queste teorie , ad esempio , il tedesco Leibniz ; l’ empirismo consiste invece nel ricondurre ogni conoscenza all’ esperienza , secondo la tradizionale formula nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu ; secondo gli empiristi quando nasciamo la nostra mente é una tabula rasa , priva di conoscenze , che va riempita con le esperienze di ogni giorno ; Aristotele la pensava esattamente così e nel 1600 , ad esempio , l’ inglese Locke si farà portavoce di questa teoria . 3 )Dibattito politico : tante sono le posizioni e tanti gli esponenti , influenzati dal contesto storico in cui vivono : vi sarà chi sosterrà tesi liberali , come Locke , chi propugnerà tesi monarchiche , come Hobbes , e così via .
ILLUMINISMO
CARATTERI GENERALI DELL’ILLUMINISMO EUROPEO
Nonostante i grandi progressi in campo di cultura avvenuti nel 1600 per l’ audacia e l’ intelligenza individuale di pochi pensatori , la più diffusa immagine del mondo restava nel 1700 , al termine di quei cento anni rivoluzionari e innovatori , assai vicina a quella di tre o quattro secoli prima . Nell’ ambito della scienza il modello galileiano e quello copernicano , con il Sole fermo al centro , erano ancora lontani dall’ essere universalmente riconosciuti e ciò non solo nei paesi cattolici , ma pure in quelli protestanti , che pure avevano avuto una maggiore alfabetizzazione dovuta soprattutto alla teoria luterana del libero esame : la Bibbia continuava ad essere per la grande maggioranza degli uomini una fonte indiscutibile o almeno assai attendibile di verità . Solo un’ ostilità irriducibile nei confronti della religione poteva portare ad accentuare il contrasto tra scienza e Bibbia , ma di fatto personalità quali Galileo e Newton non misero mai in dubbio la perfetta compatibilità fra il proprio operato fisico e la fede cristiana . Le dimensioni fisiche dell’ universo , quindi , continuavano a rimanere tanto per gli scienziati ( che volevano rimanere fedeli alla Bibbia ) quanto per la gente comune piuttosto ristrette e in molti erano ancora convinti che il mondo fosse stato creato da Dio 4004 anni prima della nascita di Cristo . Tuttavia la scoperta degli indiani d’ America , a suo tempo , aveva creato qualche problema a riguardo della concezione classica del mondo , ma solo una migliore conoscenza del lontano oriente asiatico ( India e Cina ) e una riscoperta del Mediterraneo orientale ( Egitto ) avevano posto l’ umanità di fine 1600 di fronte a problemi insormontabili : le fonti storiche e letterarie di queste terre lontane sembravano testimoniare fatti che implicavano cronologie bizzarre , impossibili da mantenere entro la data 4004 a.C . Certo Aristotele aveva perso buona parte della sua autorità e cominciava ad essere messo in discussione , ma l’ ampliamento della conoscenza delle civiltà asiatiche stava producendo un nuovo effetto imprevisto . Il generale allargamento della prospettiva storica portò allora a un atteggiamento più critico nei confronti dei testi sacri e classici e non mancò chi arrivò a trattare la Bibbia come un qualsiasi testo e non come l’ infallibile parola di Dio , rivelando tra l’ altro le incongruenze di tali testi . Nel 1700 pare davvero inconcepibile che il mondo sia stato creato nel 4004 a.C. e la geologia , che si stava all’ epoca affermando , nell’ esaminare i fossili e i procedimenti di erosione portò alla conclusione che i 6000 anni concessi dalla Bibbia non bastavano per spiegare fenomeni così antichi . Nel 1700 la ricerca scientifica ottiene buoni risultati ; ma questo in fondo era già accaduto nel 1600 : ciò che accade nel 1700 e non nel 1600 é che le novità scientifiche diventano rapidamente patrimonio comune di un maggior numero di uomini , essenzialmente per due fattori : la diffusione dell’ alfabetismo e la nascita di strumenti capaci di trasmettere con facilità le nuove conoscenze . Va senz’ altro notato come in questo periodo si moltiplichino i giornali quotidiani , approfittando anche dell’ attenuazione dei controlli censori sulla stampa : da questo punto di vista , l’ Inghilterra é senz’ altro il paese più ” libero ” , anche perchè qui la censura era stata addirittura abolita ( 1695 ) . Questa apprezzabile alfabetizzazione non fa altro che conferire all’ illuminismo e ai suoi pensatori un carattere tipicamente divulgativo : ci si vuole rivolgere al maggior numero possibile di persone e quindi non si deve scrivere in modo complesso : ecco allora che il latino perde terreno e al trattato filosofico si preferisce il romanzo filosofico , comprensibile anche per un pubblico di media cultura . Se l’ Inghilterra si libera della censura , la Francia invece riesce a scrollarsi di dosso il clima cattolico intollerante e bellicoso che aveva caratterizzato il periodo in cui aveva governato Luigi XIV . Con questa liberazione Parigi torna a diventare la capitale intellettuale del paese ; nella prima fase del 1700 Parigi era già il più grande centro di produzione di idee e il francese si era affermato come lingua internazionale . E proprio a Parigi e in generale in Francia si avvia un rapido sviluppo di una produzione letteraria dotata di una forte carica di critica intellettuale nei confronti delle istituzioni politiche e , soprattutto , religiose . Spontaneamente questo ” esercito ” di saggisti e scrittori si diede un’ identità collettiva , una vera coscienza di partito di opposizione , seppur privo di influenza politica . Essi si chiamarono e si fecero chiamare ” filosofi ” e si attribuirono il compito di sgretolare con i ” lumi della ragione ” tutto ciò che la pesante e morta eredità dei secoli passati aveva trasmesso a un’ epoca che doveva essere una dinamica transizione verso un futuro di progresso e rinnovamento . In Francia si parla di filosofia dei lumi , altrove , in modo più generale , di illuminismo . Ma in fin dei conti che cosa é l’ illuminismo ? Il filosofo tedesco Kant risponde a questa domanda con un breve testo intitolato : ” Risposta alla domanda : che cosa é l’ illuminismo ? ” ; egli dà una definizione che , più che alle manifestazioni storiche del movimento , bada alla trasformazione dell’ atteggiamento intellettuale e culturale che esso comporta in ciascun individuo . L’ illuminismo é uscire dallo stato di minorità intellettuale , divenire maggiorenni sul piano razionale e imparare a pensare con la propria testa , staccandosi nettamente dalla superstizione . Kant definisce così l’ illuminismo : ” L’ illuminismo é l’ uscita dell’ uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso [ … ] abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza ! E’ questo il motto dell’ illuminismo ” . Rousseau , pensatore francese , dirà : ” grande e bello spettacolo veder l’ uomo uscir quasi dal nulla per mezzo dei suoi propri sforzi ; disperdere , con i lumi della ragione , le tenebre in cui la natura l’ aveva avviluppato ; innalzarsi al di sopra di se stesso ; lanciarsi con lo spirito fino alle regioni celesti : percorrere a passi di gigante , al pari del sole , la vasta distesa dell’ universo ; e , ciò che é ancor più grande e difficile , rientrare in se stesso per studiarvi l’ uomo e conoscerne la natura , i doveri e il fine ” . E’ innegabile il rapporto di parentela tra l’ età del razionalismo (1600) , ossia l’ età dell’ indiscussa onnipotenza della ragione umana , e l’ illuminismo : é evidente come vi siano analogie con l’ illuminismo , che prende il nome proprio dai lumi della ragione . Tuttavia tra razionalismo e illuminismo possono essere ravvisate anche differenze : il 1600 é l’ epoca in cui si riscopre , dopo un lungo periodo di svalutazione durato tutto il medioevo , la ragione umana e come ogni scoperta appena fatta vi é la tendenza ad entusiasmarsi troppo e a non vederne i limiti : ecco allora che nel 1600 i filosofi ripongono tutta la loro fiducia nella ragione in modo acritico , senza domandarsi se essa abbia dei limiti o meno . Nel 1700 , invece , dopo cento anni che questa riscoperta é stata introdotta , ci si comincia a chiedere se la ragione abbia dei limiti o meno : certo l’ illuminismo é figlio del razionalismo in quanto si predilige la ragione ad ogni altro strumento di indagine , ma l’ approccio con la ragione stessa risulta diverso , più ponderato e critico . Ma a questo punto sembra che con l’ illuminismo si ritorni al medioevo perchè in fondo già San Tommaso , che nutriva grande fiducia nella ragione , si era chiesto fin dove potesse arrivare . La vera differenza tra illuminismo e medioevo é che mentre per il medioevo la ragione é limitata da Dio stesso , per l’ illuminismo i limiti della ragione sono imposti dalla ragione stessa : questo lo posso conoscere , quest’ altro no . Locke , filosofo preilluminista , definisce la ragione come una candela che ci illumina il cammino ; é sì l’ unica luce che possa illuminarci il cammino , ma rimane comunque una luce fioca , che non può tutto . E’ anche interessante la metafora di cui si avvale il più grande filosofo illuminista , Kant , nella Critica alla ragion pura : egli dice di aver istituito il tribunale della ragione : la ragione é contemporaneamente sia giudice sia imputato : si vedono i limiti e si dà un giudizio , ma a dare il giudizio é proprio colei che é accusata , la ragione . Ecco allora che per gli uomini del 1700 la ragione non é più un qualcosa di illimitato come era per gli uomini del 1600 , ma é tuttavia l’ unico mezzo a nostra disposizione per conoscere la realtà . Tutti gli illuministi hanno grande fiducia nella ragione umana e nel futuro e grande svalutazione del passato , visto come somma di errori scientifici , ingiustizie sociali e superstizioni religiose ; é soprattutto contro il Medioevo che si scagliano i pensatori settecenteschi , che nutrono grandi speranze nel futuro , che ai loro occhi sarà migliore perchè retto non dalla tradizione e dalla religione , bensì dai lumi della ragione , una ragione uguale dappertutto : non si deve fare questo perchè lo dice la Chiesa o la tradizione , ma perchè la ragione dice che é giusto . Ecco allora che l’ illuminismo ha come sfondo l’ utilitarismo , ossia il far felici con la ragione il maggior numero possibile di uomini ; e il futuro consiste nel progresso : gli illuministi , di fronte all’ antico quesito se il bene consiste nel futuro o nel passato non esitano a scegliere il futuro . E quest’ idea in buona parte l’ hanno derivata dal Cristianesimo ( l’ acerrimo nemico degli illuministi ) che , a differenza delle concezioni classiche del tempo in chiave circolare , colloca l’ uomo su una linea retta strutturando la storia in punti che volgono al progresso : da Adamo fino alla redenzione . All’ atteggiamento illuministico é dunque connesso un sostanziale ottimismo , una fondamentale fiducia nel futuro e nel carattere progressivo della storia umana . La ragione a cui l’ illuminismo affida il compito di rischiarare l’ umanità non é però la ragione assoluta di Cartesio , dalla quale scaturiscono deduttivamente i sistemi metafisici della realtà , ma piuttosto una ragione scientifico – strumentale che , per il suo condizionamento empirico , é assai vicina a quella di Locke e di Newton ( e , più alla lontana , di Galileo . Pur avendo un’ identità collettiva , questo fronte di scrittori costituenti il partito dei filosofi , non avevano un’ identità di vedute su tutti i problemi : su parecchi problemi scientifici la pensavano in modo divergente tra loro , ma é soprattutto interessante notare la differenza nelle opzioni politiche e religiose : tra i filosofi ci furono sia atei dichiarati sia sostenitori dell’ esistenza di Dio , con le più diverse sfumature gli uni dagli altri ; c’ era chi vedeva nella natura la realizzazione di un progetto divino e chi invece pensava che la natura fosse autosufficiente . Ma almeno su un punto tutti i filosofi illuministi erano d’ accordo : il radicale rifiuto della Chiesa cattolica (“schiacciate l’ infame” era uno dei motti), con la sua intolleranza universale , i suoi dogmi inaccettabili per la ragione , il suo appoggio ai regimi tirannici , il suo ruolo di divulgazione dell’ ignoranza e la sua superstizione più profonda . L’ anticlericalismo dei filosofi talvolta era davvero infuocato ; non mancarono coloro che videro nella religione un grande inganno intessuto dai preti di tutte le epoche per tenere i popoli nell’ ignoranza e nell’ impotenza . Tuttavia vi furono anche illuministi ” simpatizzanti ” nei confronti della religione , nella quale vedevano un fenomeno naturale con un nucleo razionale ( l’ esistenza di un Dio buono e ordinatore del mondo ) . Senz’ altro l’ atteggiamento religioso più diffuso presso le compagini dei filosofi illuministi fu il deismo , ossia il credere nell’ esistenza di Dio solo sulla base di argomentazioni razionali , rifiutando ogni forma di rivelazione , un pò come aveva fatto Aristotele a suo tempo vedendo la divinità come ” primo motore ” , come ” causa incausata ” . Non si tratta , certo , di ateismo , tuttavia é evidente come sia assurdo pregare una divinità come quella in cui credevano i deisti , una divinità che di umano non ha nulla e che può essere colta non con la fede , bensì con la ragione : non é un Dio a immagine e somiglianza dell’ uomo ( come invece vuole il ” teismo ” ) , bensì é una sorta di principio metafisico garante dell’ ordine nel mondo . In qualche modo il pensiero anti – cristiano degli illuministi contribuirà ad una vera e propria scristianizzazione tipica del 1700 ; tuttavia sarebbe errato pensare che solo gli illuministi abbiano portato a questa laicizzazione della società : merita allora di essere ricordata la massoneria , ossia l’ associazione segreta che si suppone essersi sviluppata dalla corporazione medioevale dei muratori ; essa , nata in Scozia ed Inghilterra , divenne una vera e propria società e con diramazioni dislocate in tutta l’ Europa . Come gli illuministi , anche la massoneria propugnava il deismo , però in modo più ” terra a terra ” , più comprensibile a tutti : se il popolo si scristianizzò non fu certo perchè leggeva le opere dei filosofi illuministi , ma per via della massoneria e del suo ruolo intermedio di società nè nobile nè popolare . Tuttavia nell’ illuminismo troviamo anche vere e proprie posizioni atee : viene ripresa la definizione di Cartesio dell’ uomo come animale macchina dotato di anima ; ma ad essa si preferisce quella di animale macchina senza anima ; é un ateismo radicale . Ma illuminismo non significa solo anti – cristianesimo ; nel 1700 presso i filosofi nasce il gusto della scoperta per il nuovo , magari con soluzioni spericolate , il che spiega bene la grande passione di questi pensatori per le forme enciclopediche e per i romanzi filosofici , tipici del 1700 ; nasce anche l’ interesse per civiltà diverse rispetto a quella europea : così come la Terra non é più al centro dell’ universo , comincia ad affacciarsi l’ idea che l’ Europa non sia più il centro della Terra . E’ interessante citare a proposito le ” Lettere persiane ” di Montesquieu nelle quali si immagina un gruppo di persiani in visita a Parigi che descrivono tramite lettere ai loro corrispondenti iraniani vita e costumi di una società cattolica e assolutistica , con sguardo distaccato , nella loro nuda oggettività : l’ ovvio e il quotidiano diventano l’ assurdo e il grottesco e il lettore viene abituato all’ ottica del relativismo culturale : la Francia e l’ Europa non sono più il centro , ma solo un angolo del mondo ; ciò che a noi europei pare banale e ovvio perchè ci siamo abituati , agli Iraniani sembrerà ridicolo e bislacco . Una simile operazione , naturalmente , la si potrà compiere con un cinese o con un pellerossa . Si può anche addurre come esempio dell’ interessamento degli illuministi per le civiltà straniere il mito del buon selvaggio , sostenuto da Rousseau , che , a differenza degli altri illuministi , tende a vedere nel progresso qualcosa di fortemente negativo , destinato ad aumentare sempre più la dusuguaglianza tra gli uomini ; ecco allora che egli sintetizza questo concetto nell’ idea del buon selvaggio , non corrotto dalle tradizioni e che con la sua ragione può arrivare ad una concezione di Dio più pura e veritiera di quella di un teologo cattolico . Rousseau riscopre quindi una nozione moderna di primitivo , capace di illuminare il passato e la storia della civilizzazione umana . Se é vero che presso gli illuministi affiora l’ interesse per le culture diverse , tuttavia dobbiamo specificare che l’ Europa finisce comunque per rimanere al centro : in altre parole , l’ esame che Montesquieu e Rousseau fanno di civiltà lontane ed estranee all’ Europa non é volto effettivamente a conoscere meglio le medesime , ma a vedere l’ Europa e gli Europei da un altro punto di vista . Ma il manifesto del partito illuminista é senz’ altro l’ Enciclopedia , un’ opera mastodontica prevista in 17 grandi volumi che illustra attraverso i suoi articoli disposti alfabeticamente i progressi della scienza e della tecnica e che discute con la libertà consentita dal sistema di censura francese i grandi problemi teologici , filosofici e politici . La direzione del progetto era stata affidata a uno dei più vivaci e originali pensatori illuministi , Denis Diderot , e al matematico famoso un pò ovunque d’ Alembert : l’ intero partito dei filosofi era stato chiamato a raccolta per dar vita a quest’ opera di ampio respiro , baluardo della filosofia illuministica . L’ opera potè superare tutte le opposizioni ( forti erano soprattutto quelle dei gesuiti ) e godette perfino dell’ appoggio di molti aristocratici . Le vicende dell’ Enciclopedia sono esemplari : dimostrano come la cultura illuminista non tema rivali e come coi lumi della ragione tutto può essere vinto . Tuttavia dobbiamo dire che la forma enciclopedica , di misure mastodontiche , non era la sola forma di stesura : c’ erano , come accennavamo , i romanzi filosofici e in più anche il pamphlet , breve e non tecnico , alla portata di tutti . Molti studiosi hanno pensato che l’ illuminismo fosse una cultura tipicamente borghese , cosciente della propria opposizione globale alla società del tempo . Però non é del tutto corretto : infatti i borghesi non leggevano i testi illuministi in quanto totalmente assorbiti da attività più proficue ; essi circolavano soprattutto nei salotti aristocratici e non é quindi scorretto affermare che l’ illuminismo finì per diventare una manifestazione dello scetticismo dell’ aristocrazia e della sua perdita dei valori tradizionali . Detto questo , bisogna ora affrontare le posizioni degli illuministi in ambito politico : gli illuministi erano tutti grandissimi ammiratori del sistema liberale inglese ed erano tutti d’ accordo su alcuni punti essenziali : la completa libertà di religione , la fine del potere culturale della Chiesa cattolica , la libertà di stampa ( come già avveniva in Inghilterra ) , l’ abolizione dei privilegi fiscali , il netto ridimensionamento dell’ assolutismo regio . Ma anche in campo politico , come in campo religioso , non ci fu mai una totale identità di idee tra gli illuministi . Nel 1734 , nelle ” Lettere filosofiche ” Voltaire prende in esame il sistema parlamentare inglese ; nel 1748 Montesquieu argomenta in favore di tale sistema nella sua opera più importante , ” Lo spirito delle leggi ” : a suo avviso il sistema delle leggi di ciascun paese ha uno spirito , una logica occulta e quindi esse non sono il risultato del caso ; il che deve rendere consapevole chi cerca di attuare dei progetti di riforma che non tutte le evoluzioni sono facili o possibili . Un riformatore che non tiene in considerazione la struttura sociale di un paese , delle sue tradizioni , della densità umana , dell’ estensione geografica e dei determinismi ambientali é destinato a fallire . Le leggi non sono soltanto il prodotto della volontà del legislatore , ma ” intese nel loro significato più ampio , sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose ” , dice Montesquieu . Egli ravvisa tre modelli fondamentali : 1 ) repubblicano : , fondato sulla virtù e sulla libertà ( repubblica romana e cantoni svizzeri ) ; 2 ) tirannico : ispirato dalla paura dei sudditi ( in ultima istanza schiavi ) nei confronti del sovrano – tiranno : il sovrano é padrone assoluto del popolo ( civiltà orientali , Russia ) ; 3 ) governi temperati ( o moderati ) : c’ é un monarca e il rapporto monarca – sudditi é temperato da corpi intermedi : il suddito non é mai completamente solo di fronte al sovrano . Montesquieu é convinto che queste tre forme siano dettate dalle condizioni climatiche : la tirannide é tipica delle grandi pianure ( Russia ) dove la società , quasi come il terreno , si appiattisce : il cittadino é solo di fronte al sovrano , che su di lui può tutto . Le migliori sembrano le piccole repubbliche , ma esse vanno bene solo su territori ridotti ; quindi i più adatti per l’ Europa sono i regimi temperati , le monarchie costituzionali : se la Francia non degenera in tirannide , secondo Montesquieu é solo perchè il regime é temperato da organi intermedi quali l’ aristocrazia e il parlamento . Montesquieu guarda con simpatia al sistema inglese , ma sa di non poterlo trasferire in Francia in maniera pura e semplice . Dell’ Inghilterra bisogna secondo lui imitare soprattutto un elemento , la pratica di dividere il potere tra istituzioni diverse , la migliore procedura per evitare la tirannide : la magistratura dovrà essere totalmente dipendente dal potere del governo , il parlamento dovrà emanare leggi generali , il re e il suo governo dovranno eseguire le leggi e svolgere gli incarichi di alta politica , senza che nessuno dei tre poteri cerchi di usurpare le funzioni altrui . Tuttavia accanto a posizioni liberali , ne troviamo altre di stampo democratico in Rousseau , uno dei pochi illuministi a guardare al popolo con discreta simpatia : nella democrazia ognuno deve rinunciare ai propri per cederli ad un’ istanza superiore ; già Hobbes e Spinoza , nel secolo passato , avevano fatto discorsi simili ; per Hobbes però il sovrano era un qualcosa a parte , per Spinoza invece non é altro che la società che acquisisce in collettivo i diritti di cui si é privata singolarmente ; Rousseau la pensa come Spinoza : io cittadino contribuisco per quel che mi compete a elaborare le leggi che poi sono tenuto a rispettare , cedo i miei diritti di singolo per poi riacquistarli come collettivo : é la maggioranza a decidere le leggi e la volontà della maggioranza va vista come volontà di tutti : il paradosso é che devo considerare volontà mia ( ciò che ha deciso la maggioranza ) anche ciò che va contro la mia volontà . E’ bene quindi sottolineare come democrazia e liberalismo non siano la stessa cosa , ma anzi siano quasi concetti antitetici : il liberalismo consiste nel difendere il singolo cittadino ritagliando uno strato privato del cittadino intoccabile anche per lo Stato ; la democrazia invece vuole che tutti abbiano diritto a partecipare alle decisioni politiche ma che poi chi perde debba ” subire ” riconoscendo sue volontà che sue non sono , ma che tali ha deciso la maggioranza . Durante il 1700 non mancarono anche le utopie comunistiche , che si opponevano al progresso materiale che andava contro la coesione sociale e l’ uguaglianza tra gli uomini : queste utopie sono quasi un distacco dalla società ingiusta per rintanarsi con l’ immaginazione in una società giusta e garante dell’ uguaglianza . In ambito politico , come accennato , prevalse il liberalismo mentre in campo economico il liberismo , ossia la teoria secondo la quale lo Stato non deve intromettersi nell’ economia del cittadino . Il liberismo si basò soprattutto su una critica al mercantilismo ( ossia quella teoria che sosteneva che le ricchezze non fossero in crescita e che l’ unico modo per arricchirsi fosse farle entrare nel proprio Stato per poi non farle più uscire ) : non é vero che i traffici delle principali potenze commerciali stavano crescendo gli uni a spese degli altri . Tuttavia l’ intera discussione liberista assume due diverse posizioni ; da un lato troviamo la fisiocrazia ( soprattutto in Francia ) , dall’ altro troviamo l’ economia politica classica ( soprattutto in Inghilterra ) . Ma quali sono le differenze ? La fisiocrazia (fusiV + kratoV) é , in generale , il governo della natura ed é significativo che si sviluppi in Francia , dove l’ agricoltura era il settore primeggiante . I fisiocratici sostenevano che la vera ricchezza derivasse dalla natura , dalla coltivazione dei campi , in parole povere dall’ agricoltura . Certo aveva anche un significato metaforico questo governo della natura : i fisiocratici erano pur sempre illuministi e si richiamavano a ciò che é naturale ( la natura appunto ) in contrapposizione a ciò che é artificiale , riallacciandosi essenzialmente al mito del buon selvaggio di Rousseau ; i fisiocratici francesi sono convinti che nella ragione sia insita un’ organizzazione politica giusta , ma che gli uomini si siano visti dare costituzioni e sovrani ingiusti , che vanno contro la ragione . Rousseau questo aspetto lo coglierà dal punto di vista sentimentale ( ” La nuova Eloisa ” ) : il matrimonio per lui si deve fondare sul sentimento e non sui soldi , come capitava all’ epoca : tutti gli illuministi rivendicano ciò che é giusto per ragione in contrasto con ciò che é giusto per convenzione. I fisiocratici , sostenendo il governo della natura , sono convinti che l’ economia abbia le sue leggi naturali : spetta allo Stato non influenzarle ; esso per l’ economia non deve fare assolutamente niente , se non riscuotere le tasse . L’ idea generale fisiocratica é che , visto che l’ economia ha le sue leggi naturali , é ovvio che se lasciata a sè e alla natura non può che andare bene ! Ecco allora la caratteristica frase politica fisiocratica : laissez faire, laissez passer (“lasciate fare, lasciate passare”) ; se anche c’ é una carestia non bisogna intervenire : secondo gli illuministi se ci fosse una crisi in Piemonte , per dire , il grano arriverebbe comunque dalle zone vicine ( la Lombardia per esempio ) dal momento che in Piemonte , essendoci crisi salgono i prezzi perchè il grano scarseggia , e i venditori lombardi ci guadagnano solo a venire in Piemonte a vendere il grano perchè potranno venderlo a prezzi più cari che non in Lombardia . Ci fu un fisiocratico illuminista , di nome Turgot , che potè applicare questa teoria alla corte di Luigi XVI : ci furono grandi carestie e lui , da buon fisiocratico , propose di non intervenire ma la situazione non migliorò affatto : il grano non arrivò e Turgot fu licenziato e le sue teorie fisiocratiche vennero abbandonate . Va subito detto che se il progetto di Turgot si rivelò fallimentare fu solo perchè un’ economia di tipo fisiocratico é efficace solo con mezzi di traspoorto efficaci ( che all’ epoca non c’ erano ancora ) , ossia se il grano può arrivare in fretta laddove scarseggia . L’ economia politica classica ravvisa il suo esponente più importante nello scozzese Adam Smith : egli , in un periodo in cui si discuteva ampiamente se la vera ricchezza fosse nell’ agricoltura o nell’ industria , si chiese : ma che cosa é che fa il valore di una cosa ? La risposta che trovò fu sostanzialmente questa : la cristallizzazione del lavoro presente nella merce in questione . Di fatto tutte le cose che abitualmente compriamo o vendiamo sono incommensurabili e sarebbe quindi impossibile effettuare vendite o acquisti : un fruttivendolo che vada da un calzolaio quanti kg di patate dovrebbe dargli per avere un paio di scarpe ? E’ assurdo ! Teoricamente si potrebbero solo scambiare merci uguali : patate con patate e scarpe con scarpe . Eppure noi sappiamo che le scarpe e le patate hanno un loro valore , che é dato dal lavoro presente in esse : un tot di lavoro per fare le scarpe e un tot per le patate . Quindi il perno dell’ economia per Smith non é l’ agricoltura ( come era invece per i fisiocrati francesi ) bensì l’ industria ; la teoria economica di Smith , proprio per distinguerla da quella fisiocratica francese , verrà definita ” economia politica classica ” . Tra le varie ” scoperte ” di Adam Smith c’é anche quella dell’ importanza della divisione del lavoro : contò che per produrre uno spillo occorrevano 19 passaggi e capì che facendo fare un solo passaggio ad una sola persona si ottenevano due effetti positivi : innanzitutto costava meno perchè si trattava di manodopera meno qualificata , dovendo fare solo un passaggio . Poi si accorse che effettuando un solo passaggio l’ operaio finiva per diventare bravissimo . Smith , tuttavia , si accorse anche dei limiti della suddivisione del lavoro : un fabbricatore di liuti ha un rapporto soggettivo con ciò che produce , lo fa con amore perchè lo vede nascere e poi lo vede finito ; un operaio al quale spetti un solo passaggio non può avere questo rapporto con ciò che produce e , per di più , il compiere sempre e solo lo stesso passaggio causa in lui un abbrutimento fisico . Riprendiamo ora in modo più approfondito la questione della mano invisibile : per Smith lo stato non deve assolutamente intervenire nell’ economia ( egli é quindi un liberista ) e le cose vanno lasciate al loro destino senza interventi statali : ciascuno deve fare i propri interessi ; d’ altronde Smith diceva : ” non é dalla generosità del macellaio , del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo , ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi ” . Ma allora , dirà qualcuno , ci sarà chi si arricchisce e chi si impoverisce sempre più ! Per Smith non é così : se tutti fanno i propri interessi é ovvio che aumenterà in qualche misura la ricchezza collettiva e tutti godranno dei vantaggi , sebbene in maniera diversa : é ovvio che chi investe guadagnerà di più del povero , ma tuttavia anche quest’ ultimo avrà un incremento positivo di ricchezza : ” cercando per quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell’ industria interna e di indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore , ogni individuo contribuisce necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della società … egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo , come in molti altri casi , egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni . Nè per la società è un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni . Perseguendo il proprio interesse , egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intende realmente realmente promuoverlo . ” Quello che può essere considerato un vizio nel campo privato , ossia il fare i propri interessi , diventa una virtù nel campo pubblico . La forma più tipica della politica illuministica é indubbiamente l’ assolutismo illuminato , ossia il punto di incontro tra il governo assoluto ( la cui politica si può sintetizzare in una celebre frase di Luigi XIV : ” lo stato sono io ” ) e l’ illuminismo , incontro che avviene sostanzialmente tra il 1740 e il 1790 ; si capisce che per riformare ci si deve avvalere delle teorie illuministe . Gli illuministi intendono , sulla scia di quanto pensava Montesquieu , arrivare ad un compromesso che equilibri i rispettivi poteri ( monarchia , parlamento , ecc ) . I filosofi non avevano certo troppa fiducia nel popolo , nel quale tendevano a vedere una massa senza cervello succube degli inganni della religione ; certo si sarebbe voluto togliere il popolo dalla lunga notte dell’ ignoranza con i lumi della ragione , ma in fin dei conti gli illuministi preferirono riformare l’ alta società : bisognava conquistare i vertici della società , che detenevano il potere politico ed economico e non il popolo : ma l’ assolutismo illuminato dimostrerà ben presto i suoi limiti , trovando resistenze nella società stessa ( che si oppone con rivolte ) o talvolta nei sovrani ” illuminati ” , che accettano la collaborazione dell’ illuminismo finchè funzionale al rafforzamento del loro potere di sovrani ; in altre parole abbiamo sovrani molto assoluti e poco illuminati . L’ assolutismo illuminato si arena , pur avendo sortito qualche effetto positivo quale la stesura di catasti , ossia veri e propri censimenti degli averi dei cittadini volti a far pagare a tutti le tasse e a servire come spunto per gli investimenti ; l’ assolutismo illuminato fece sviluppare la cultura ( anche quella del clero tramite seminari ) e diede contro alla Chiesa : l’ illuminismo le diede contro perchè la riteneva una forma di superstizione , l’ assolutismo perchè vedeva in essa un rivale per il suo potere , un contropotere : il cattolicesimo prevedeva una duplice fedeltà ( al re e al papa ) e la Chiesa finiva per essere uno stato dentro lo stato . L’ assolutismo illuminato si affermò un pò ovunque in Europa , fatta eccezione per lo Stato Pontificio , per Venezia ( che era un’ oligarchia ) e per l’ Inghilterra , dove non c’ era l’ assolutismo , bensì il parlamento e dove le riforme erano già tutte avvenute nel secolo passato . Ma l’ assolutismo illuminato finì per arenarsi per diversi motivi : in primo luogo assolutismo e illuminismo sono e restano due cose ben differenti tra loro che non potranno mai essere del tutto congiunte ; in secondo luogo anche quando c’ era un monarca davvero illuminato ( quale fu , ad esempio , Giuseppe d’ Austria ) , fu la società ad ostacolare i progetti . Dobbiamo ancora fare una precisazione : da come abbiamo finora descritto l’ illuminismo , sembrerebbe essere il trionfo della fredda ragione e del meccanicismo , il vedere l’ universo come una grande macchina ; ma in realtà , sebbene in una prima fase l’ illuminismo non si discostasse molto da come l’ abbiamo appena descritto , dobbiamo dire che si assistette ad una seconda fase dove accanto alla ragione ( che pure si ammorbidisce , passando da scienze matematiche a scienze biologiche e chimiche ) nacque il sentimento : sarà ancora una volta Rousseau a dare la spinta iniziale : egli con ” La nuova Eloisa ” si schiera in favore ad un amore romantico e passionale contro le ragioni pratiche dettate dalla tradizione ; così come in economia non bisogna intromettersi e sovvertire le leggi della natura , anche in amore non bisogna immischiarsi , bensì bisogna lasciar trionfare la natura e l’ amore ; invece con l’ ” Emilio ” difende la figura del bambino che , secondo la tradizionale etica aristotelica , era privo di valore in quanto ” uomo in potenza ” : non aveva un valore in sè , ma aveva un valore come futuro uomo : non c’ era bisogno di tenere in considerazione le esigenze del bambino . Rousseau invece attribuisce valore e dignità al bambino in sé : in primis bisogna prendersi cura del bambino in quanto tale e solo dopo di ciò che sarà ; Emilio , il bambino che dà il nome all’ opera , viene messo dal maestro nelle condizioni di fare esperienze che gli permettano di imparare direttamente dalla natura . Quindi con l’ ” Emilio ” si dà nuova dignità al bambino , con la ” Nuova Eloisa ” alla donna , che non é più vista esclusivamente come ” creatrice di bambini ” , ma comincia ad assumere un valore di per sè . Va poi sottolineato , sempre a riguardo del sentimento e dell’ umanità illuministica , il rifiuto del diritto penale tradizionale , con il suo apparato di torture e pene orripilanti e fantasiose sul corpo del delinquente . Merita aìdi essere citato a proposito il libro del filosofo illuminista italiano Cesare Beccaria intitolato ” Dei delitti e delle pene ” , che ebbe una risonanza europea . Egli si schierò apertamente in primis contro la tortura , sottolineando come essa colpisca tanto i colpevoli quanto gli innocenti e come sotto tortura chiunque confessi , anche se innocente . Inoltre egli parlò contro la pena di morte , che a quei tempi era vista come una forma di vendetta istituzionalizzata ; nel 1700 lo Stato in generale si é nettamente rafforzato e i delinquenti vengono comunque catturati con più facilità : il delinquente sa che corre il rischio di essere preso e dovrà essere punito e quindi non agirà comunque , che ci sia o che non ci sia la pena di morte . Beccaria poi fa notare come la pena debba avere due funzioni : in primis deve correggere il criminale ( e uccidendolo non lo si corregge ) ; essa poi deve rendere più sicura la società . Anche una pena ” mite ” , purchè lo Stato sia efficiente e garantisca l’ applicazione della pena stessa , può funzionare per correggere perchè se so che sarò punito mi guarderò bene dal commettere ingiustizia . Fino al secolo passato la pena di morte era uno spettacolo pubblico ; con il 1700 invece spariscono le compiacenze pedagogiche verso i pubblici squartamenti degli assassini e dei parricidi : la gente non vuol più assistere a questi spettacoli tremendi ; ecco allora che entra in gioco il sentimento.
L’ILLUMINISMO ITALIANO
In Italia la diffusione della cultura illuministica si sviluppa in ritardo rispetto agli altri paesi europei. Ciò è dovuto al differente contesto storico-culturale della penisola. L’arretratezza economica, l’immobilità delle istituzioni, l’instabilità politica dovuta alla catena delle guerre di successione, l’assenza di una borghesia dotata di consistente peso economico-sociale, l’assolutismo delle dinastie regie, la pesante atmosfera controriformistica, il prevalere di una cultura umanistica e storico-erudita, dimentica della tradizione scientifica galileiana, producono per lungo tempo una situazione di stasi sociale ed intellettuale (la cui unica eccezione è costituita dal Vico). Solo con la pace di Aquisgrana (1748), che assicura al paese un arco quarantennale di pace, la situazione generale della penisola comincia a dare segni di risveglio. In campo politico, Milano, Parma, Firenze e Napoli, grazie alle nuove dinastie riformatrici degli Asburgo, dei Lorena e dei Borboni, che si ispirano ai “dispotismi illuminati” europei, avviano una serie di riforme in senso anti-feudale ed anti-clericale. Per ciò che riguarda la cultura, da un lato si ha lo studio e la divulgazione di importanti opere d’Oltralpe (compresa la traduzione della Enciclopedia), dall’altro si ha la creazione di una cattedra di economia a Napoli e la fondazione del giornale milanese ,Il Caffè, nel cui ambito abbiamo la comparsa di un libro di valore europeo: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Invece negli altri stati italiani, soprattutto nel Piemonte e nello Stato pontificio, la situazione tende a rimanere stagnante e le tendenze autoritarie dei governanti impediscono una consistente diffusione del pensiero illuministico, anche se non riescono a frenare l’eco delle nuove idee. Pur non essendo privo di debiti verso il pensiero inglese, l’Illuminismo italiano – che non è fatto di ” grandi solitari ” ma di figure di media statura impegnate in problemi sociali e cariche pubbliche – appare strettamente connesso a quello francese ed ha come sua caratteristica l’apertura verso problemi morali, giuridici ed economici. Perciò l’importanza dell’Illuminismo deve “essere rintracciata prevalentemente sul piano politico, dove esso rappresenta una vigorosa reazione al disinteresse per la cosa pubblica e alla separazione della cultura dalla società… Più empiristico di quello tedesco, meno speculativamente penetrante di quello inglese, meno radicale di quello francese, l’Illuminismo italiano non è per questo impedito dallo svolgere la sua specifica funzione, organicamente commisurata alle esigenze della società del tempo e capace di creare una temperie culturale vivace “. In Italia, come detto, i due centri in cui l’Illuminismo trova terreno più fertile per la sua diffusione sono Napoli e Milano: a Napoli lo spirito dell’Illuminismo trova i suoi precursori soprattutto in Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) e in Pietro Giannone (1676-1748). Il primo, storico ed erudito di fama europea, autore degli Annali d’Italia (1744-1749) e delle Riflessioni sopra il buon gusto nelle lettere e nelle arti (1708), è importante per la polemica contro i ritardi della cultura italiana del tempo e per aver stabilito alcuni principi della metodologia storiografica critico-scientifica: la messa tra parentesi della tradizione, l’accertamento della realtà dei fatti e dell’autenticità dei documenti, il rispetto dell’oggettività storica. Il secondo, autore della Istoria civile del Regno di Napoli (1723), mostra come il potere ecclesiastico abbia, per via di successive usurpazioni, limitato e indebolito il potere politico e come sia interesse di questo ridurre lo stesso potere ecclesiastico nei puri limiti spirituali. Il Giannone si attendeva dalla sua opera tra l’altro “il rischiaramento delle nostre leggi patrie e dei nostri propri istituti e costumi”.Una figura che appartiene più all’Illuminismo francese che all’italiano è quella del napoletano abate Ferdinando Galiani (1728-1787) che fu per dieci anni (1759-1769) segretario dell’Ambasciata del Regno di Napoli a Parigi e dominò i salotti intellettuali della capitale francese con il suo spirito e il suo brio. Galiani fu specialmente un economista. Il suo trattato Della moneta (1751) è diretto a criticare la tesi del mercantilismo che la ricchezza di una nazione consista nel possesso dei metalli preziosi. Le sue idee filosofiche, non esposte in forma sistematica, ma gettate qua e là come motti di spirito, sono contenute nelle Lettere (scritte in francese) e sono in tutto conformi alle idee dominanti nell’ambiente francese in cui Galiani è vissuto. Nei filosofi i quali affermano che tutto è bene nel migliore dei mondi, Galiani vede degli atei patentati che, per paura di essere arrostiti, non hanno voluto terminare il loro sillogismo. Ed ecco qual è questo sillogismo. “Se un Dio avesse fatto il mondo, questo sarebbe senza dubbio il migliore di tutti; ma non lo è, neppur da lontano; dunque non c’è Dio”. A questi atei camuffati bisogna rispondere, secondo Galiani, nel modo seguente: “Non sapete che Dio ha tratto questo mondo dal nulla? Ebbene, noi abbiamo dunque Dio per padre e il nulla per madre. Certamente nostro padre è una grandissima cosa, ma nostra madre non vale niente del tutto. Si prende dal padre, ma si prende anche dalla madre. Ciò che vi è di buono nel mondo viene dal padre e ciò che vi è di cattivo viene dalla signora nulla, nostra madre, che non valeva gran che” (Lett. all’Abate Mayeul, 14 dicembre 1771). Dal sensismo francese deduce il fondamento delle sue dottrine economiche Antonio Genovesi (1712-1769) che fu il primo in Europa a professare nelle università la nuova scienza dell’economia: ricopri infatti, dal 1754, la cattedra di lezioni di commercio nell’Università di Napoli. Genovesi riconosce come principio motore, sia degli individui sia dei corpi politici, il desiderio di sfuggire al dolore che deriva dal bisogno inappagato e chiama tale desiderio interesse, considerandolo come ciò che sprona l’uomo, non solo alla sua attività economica, ma anche alla creazione delle arti, delle scienze e ad ogni virtù (Lez. di commercio, ediz. 1778, 1, p. 57). Genovesi è anche autore di opere filosofiche: Meditazionifilosofiche sulla religione e sulla morale (1758); Logica (1766); Scienze metafisiche (1766); Diceosina ossia dottrina del giusto e dell’onesto ( 17 76). Nelle Meditazioni egli rifà a suo modo il procedimento cartesiano; ma riconosce il primo principio non nel pensiero ma nel piacere di esistere. Questo indirizzo che sembra derivato da Helvétius non impedisce al Genovesi di difendere le tesi dello spiritualismo tradizionale: la spiritualità e l’immortalità dell’anima, il finalismo del mondo fisico e l’esistenza di Dio. A Montesquieu si ispirava Gaetano Filangieri (1752-1788) nella sua Scienza della legislazione (1781-1788), che mette a partito l’opera del filosofo francese per dedurne ciò che si deve fare per l’avvenire, cioè per trarne i principi e le regole di una riforma della legislazione di tutti i paesi. Dalla riforma della legislazione, Filangieri si attende il progresso del genere umano verso la felicità e l’educazione del cittadino. Ispirato da questa fiducia ottimistica nella funzione formatrice e creatrice della legge, il Filangieri delinea il suo piano di legislazione. Nel quale è notevole una difesa dell’educazione pubblica, difesa che muove dal principio che solo essa può avere uniformità di istituzioni, di massime e di sentimenti e che per ciò soltanto la minor parte possibile dei cittadini va lasciata all’educazione privata.La dottrina di Vico delle tre età e dei corsi e ricorsi storici è ripresa nello spirito dell’Illuminismo da Mario Pagano (1748-1799) nei Saggi politici dei principi, progressi e decadenza della società (1783-1785). Ma a Pagano è estranea completamente quella problematicità della storia che domina l’opera di Vico. Il corso e ricorso delle nazioni è per lui un ordine fatale, dovuto più a cause fisiche che a cause morali. Pagano considera il mondo della storia come un mondo naturale, le cui leggi non sono diverse da quello fisico. L’altro centro dell’Illuminismo italiano fu Milano dove una schiera di scrittori si riunì intorno a un periodico, Il Caffè, che ebbe vita breve ed intensa (1764-1765). Il giornale, concepito sul modello dello Spectator inglese, fu diretto dai fratelli Verri, Pietro e Alessandro, e vi collaborò fra gli altri Cesare Beccaria. Alessandro Verri (1741-1816) fu letterato e storico. Pietro Verri (1728-1797) fu filosofo ed economista. In un Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773) Pietro Verri sostiene il principio che tutte le sensazioni, piacevoli o dolorose, dipendono, oltre che dall’azione immediata degli oggetti sugli organi corporei, dalla speranza e dal timore. La dimostrazione di questa tesi è fatta dapprima per ciò che riguarda il piacere e il dolore morale, riportati a un impulso dell’anima verso l’avvenire. Il piacere del matematico che ha scoperto un teorema deriva, per esempio, dalla speranza dei piaceri che lo aspettano in avvenire, dalla stima e dai benefici che la sua scoperta gli apporterà. Il dolore per una disgrazia è similmente il timore dei dolori e delle difficoltà future. Ora poiché la speranza è per l’uomo la probabilità di vivere nel futuro meglio che nel presente, essa suppone sempre la mancanza di un bene ed è per ciò il risultato di un difetto, di un dolore, di un male. Il piacere morale non è che la rapida cessazione del dolore ed è tanto più intenso quanto maggiore fu il dolore della privazione o del bisogno. Il Verri estende poi la sua dottrina anche ai piaceri e ai dolori fisici, facendo vedere come molte volte il piacere fisico non è che la cessazione di una privazione naturale o artificiale dell’uomo. All’obiezione che la tesi si può invertire, sostenendo con eguale verisimiglianza che ogni dolore consiste nella rapida cessazione del piacere, il Verri risponde che una simile generazione reciproca non si può dare, perché “l’uomo non potrebbe cominciare mai a sentire né piacere né dolore; altrimenti la prima delle due sensazioni di questo genere sarebbe e non sarebbe la prima in questa ipotesi, il che è un assurdo” (Discorso, 6). Verri giunge a confermare la conclusione che Maupertuís aveva tratto dal suo calcolo, e cioè che la somma totale dei dolori è superiore a quella dei piaceri. Difatti la quantità del piacere non può mai essere superiore a quella del dolore perché il piacere non è che la cessazione del dolore. ” Ma tutti i dolori’che non terminano rapidamente sono una quantità di male che nella sensibilità umana non trova compenso e in ogni uomo si dànno delle sensazioni dolorose che cedono lentamente” (ivi, 6). Anche i piaceri delle belle arti hanno la stessa origine: a loro fondamento ci sono quelli che Verri chiama dolori innominati. L’arte non dice nulla agli uomini che sono tutti presi dalla gioia e parla invece a coloro che sono occupati dal dolore o dalla tristezza. Il magistero dell’arte consiste anzi nello ” spargere le bellezze consolatrici dell’arte in modo che ci sia intervallo bastante tra l’una e l’altra per ritornare. alla sensazione di qualche dolore innominato, ovvero di tempo in tempo di far nascere delle sensazioni dolorose espressamente, e immediatamente soggiungervi un’idea ridente, che dolcemente sorprenda e rapidamente faccia cessare il dolore” (ivi, 8). La conclusione è che “il dolore è il principio motore di tutto l’uman genere”. Da questi presupposti muove l’altro discorso di Verri Sulla felicità. Per l’uomo è impossibile la felicità pura e costante, ed invece è possibile la miseria e l’infelicità. L’eccesso dei desideri sulle nostre capacità è la misura dell’infelicità. L’assenza dei desideri è piuttosto vegetazione che vita, mentre la violenza dei desideri può essere provata da ognuno ed è talvolta uno stato durevole. La saggezza consiste nel commisurare in ogni campo i desideri alle possibilità e perciò la felicità non è fatta che per l’uomo illuminato e virtuoso.
ROMANTICISMO
Essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi, è il cielo dell’uomo! Essere uno con tutto ciò che vive, tornare, in un beato divino oblìo di sé, nel tutto della natura, questo è il vertice dei pensieri e delle gioie, questa è la sacra vetta del monte, la sede dell’eterna quiete, ove il meriggio perde la sua afa e il tuono la sua voce, e il mare infuriato assomiglia all’ondeggiare d’un campo di spighe. (Hölderlin)
DAL CRITICISMO KANTIANO ALL’IDEALISMO
Sul finire del Settecento, i contemporanei di Kant erano pienamente consapevoli dell’enorme importanza del pensiero critico, tanto da accostare, per il radicale cambiamento introdotto, la rivoluzione copernicana operata dal pensatore tedesco in ambito gnoseologico alla rivoluzione francese. Tuttavia, si era convinti che con Kant il criticismo non avesse raggiunto la sua piena formulazione, in quanto continuavano a vivere dualismi inconciliabili (sensibilità/intelletto, soggetto conoscente/soggetto agente, noumeno/fenomeno), ecc. Muovendo da queste considerazioni, alcuni pensatori della Germania a cavallo di secolo, generalmente indicati col nome di post-kantiani, diedero vita ad una vivace discussione sul valore del criticismo e sulla necessità di effettuare una revisione del kantismo. In realtà, con il passaggio di secolo cambia quello che Hegel definirà lo spirito del mondo: cominciano ad affacciarsi prospettive romantiche, con l’inevitabile conseguenza che molte delle tesi esposte da Kant e perfettamente accettabili in un panorama illuministico, diventano ora improponibili. Uno dei primi ad intervenire, quando Kant era ancora in vita, nel dibattito sul criticismo fu KARL LEONHARD REINHOLD (1758-1823), con il Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione (1786-1788). Reinhold non aveva la pretesa di presentarsi come pensatore originale: lasciatosi convincere dalle tesi kantiane, egli sente il dovere di divulgarle e lo fa inserendo, inavvertitamente, alcuni elementi nuovi, che apriranno la strada all’idealismo. Reinhold sottolinea che il soggetto e l’oggetto non sono pensabili separatamente : non potrei mai pensare il soggetto senza tener conto dell’oggetto, e, viceversa, non potrei mai pensare l’oggetto senza tener conto del soggetto. Ne consegue inevitabilmente che soggetto e oggetto vengono da Reinhold concepiti e pensati come due facce della stessa medaglia, come se essi facessero riferimento ad un unico principio: la coscienza , intesa come facoltà della rappresentazione. Il soggetto costituisce la forma della conoscenza, cioè l’attività tramite la quale il molteplice viene unificato in un concetto, mentre l’oggetto ne costituisce la materia, cioè il contenuto rappresentativo che viene unificato. Questa indissolubile relazione, all’interno della rappresentazione, dell’elemento soggettivo-formale e di quello oggettivo-materiale giustifica la stretta connessione tra le diverse facoltà conoscitive: nella sensibilità l’oggetto prevale sul soggetto, nell’intelletto vi è equilibrio e nella ragione vi è un predominio della libera attività del soggetto. Secondo Kant, noi costruiamo l’oggetto fenomenico, ma a monte di esso esiste comunque una cosa in sè (noumeno), indipendente dal soggetto e dalla sua attività costitutiva: proprio con questa distinzione Kant prendeva le distanze dall’idealismo berkeleiano. Ora, Reinhold, concependo il soggetto e l’oggetto come facce di un’unica azione (la rappresentazione), fa venir meno la netta distinzione kantiana tra soggetto e oggetto. Sebbene Reinhold si consideri pienamente kantiano, egli apre la strada all’idealismo e alla sua tesi fondamentale: secondo la tesi idealista, è il soggetto che costruisce l’oggetto partendo da zero. A ben pensarci, una sorta di perdita della cosa in sè c’era già stata in Kant: più passava il tempo e più egli si convinceva che la cosa in sè fosse un concetto puramente negativo (noumeno è ciò che non è fenomeno), con un’attenuazione dell’autonomia dell’oggetto. E il passaggio all’idealismo consiste proprio in una progressiva eliminazione della cosa in sè kantiana ; non a caso, l’idealismo tedesco di fine settecento può essere definito come il progressivo tentativo di identificare l’oggetto con il soggetto, con una sfumatura tipicamente monistica : l’obiettivo ultimo, infatti, è trovare un principio che possa spiegare tutto quanto. Occorre dunque superare la sfilza di dualismi irrisolti lasciati in eredità da Kant (primo fra tutti quello soggetto/oggetto) riconducendoli, come tutto il resto, ad un unico principio. Queste problematiche sono già in parte avvertite da Reinhold, il quale risolve il problema della cosa in sè con questo ragionamento: l’aspetto formale della conoscenza, imputabile esclusivamente al soggetto, rientra nell’ambito della rappresentazione, al contrario, la materia conoscitiva deriva da una cosa in sè intesa come un qualcosa di assolutamente indeterminato e inconoscibile; in quanto tale, essa non è nemmeno rappresentabile, cioè cade al di fuori della rappresentazione stessa. E, non essendo rappresentabile, essa non è alcunchè di reale, poichè, se lo fosse, sarebbe un oggetto e rientrerebbe nella rappresentazione. La cosa in sè è dunque solo un concetto che, per quanto necessario alla giustificazione dell’elemento materiale della conoscenza, per la sua stessa impensabilità va al di là della rappresentazione e, quindi, della realtà. Autore di grande rilievo per il passaggio dal kantismo all’idealismo è anche GOTTLOB ERNST SCHULZE (1761-1833), il cui pseudonimo fu Enesidemo. Nel 1792 apparve anonimo il suo scritto Enesidemo, ovvero sui fondamenti della filosofia degli elementi sostenuta a Jena dal sig. prof. Reinhold, assieme a una difesa dello scetticismo contro le pretese della critica della ragione . Nella filosofia critica, da lui intesa come fusione del pensiero di Kant e di Reinhold, Schulze rinviene una serie di contraddizioni che giungono all’apice con l’affermazione della cosa in sè. Egli difende le posizioni dello scetticismo e vede in Reinhold un difensore ortodosso del criticismo, senza tener conto delle modifiche che ha apportato. Nel testo poc’anzi citato, Schulze muove una critica esplicita alla cosa in sè , mettendo in evidenza le contraddizioni scaturite dal criticismo. Kant ha mostrato razionalmente come la categoria di causalità sia applicabile legittimamente solo in ambito empirico, però poi ne ha fatto un uso meta-empirico applicandola alla cosa in sè: dicendo che la conoscenza altro non è se non il frutto dell’elaborazione del materiale d’esperienza, a sua volta frutto della cosa in sè , non è forse vero che Kant ha fatto un uso della cosa in sè come causa? La cosa in sè è infatti intesa come un qualcosa che causa, in maniera oscura, l’emergere dell’esperienza. Se la cosa in sè modifica i nostri organi di senso poichè da essa ricevono il materiale dell’esperienza, vuol dire che la cosa in sè agisce causalmente su di noi. Il paradosso colto da Schulze è che la cosa in sè resta inconoscibile, ma attorno ad essa Kant costruisce l’intero processo conoscitivo. Altro paradosso: Kant dice che si può conoscere solo se si unificano dati dell’esperienza con l’intelletto, con la conseguenza che dove non c’è esperienza non c’è conoscenza; tuttavia egli ammette la conoscibilità delle categorie, le forme a priori dell’intelletto, riconoscendo dunque che si può avere conoscenza anche senza l’apporto della sensibilità. L’intera Critica della ragion pura è proprio questo, un tentativo di conoscere le forme della conoscenza, quando Kant ha spiegato, paradossalmente, che le forme prive di dati sensibili sono inconoscibili. Tutto ciò porta Schulze a rifiutare l’esistenza della cosa in sè poichè, ammettendola, si cadrebbe inevitabilmente in contraddizione. Ecco che con Schulze entriamo pienamente nell’idealismo: tutti gli autori di questo periodo (Schulze compreso) hanno la pretesa di essere, per così dire, più kantiani di quanto non fosse Kant stesso, quasi come se il pensatore di Königsberg fosse stato ispirato dallo spirito giusto (l’idealismo), ma non avesse avuto il coraggio di spingersi oltre: la spinta idealistica, in effetti, è presente in Kant, soprattutto quando egli afferma che la conoscenza ruota tutta attorno al soggetto; ammettendo però l’esistenza di una cosa in sè, egli si è macchiato di pavidità, non avendo avuto il coraggio di riconoscere che tutto dipende dal soggetto. Sulla strada iniziata da Schulze si inoltra, percorrendola fino in fondo, Salomon ben Joshua, un ebreo lituano studioso di Mosè Maimonide, dal quale assunse lo pseudonimo di SALOMON MAIMON (1754-1800). Il suo pensiero trova l’espressione più matura nello scritto Ricerche critiche sullo spirito umano (1797). Se le contraddizioni del criticismo portavano Schulze a propendere per lo scetticismo di stampo humeano, Maimon è del parere che si possa restituire piena validità al criticismo, a condizione di una completa eliminazione della cosa in sè , la quale altro non è che un assurdo residuo di dogmatismo, quasi come se Hume non fosse stato in grado di svegliare del tutto Kant dal sonno dogmatico in cui era sprofondato. Se tutto ciò che è rappresentabile è contenuto nella coscienza, come asseriva Reinhold, allora la cosa in sè , cadendo al di fuori della coscienza ed essendo irrappresentabile, è una non-cosa (in tedesco Unding ) e una mostruosità inaccettabile. Essa viene accostata da Maimon ai numeri immaginari, alla radice quadrata di un numero negativo, che sono nella loro stessa essenza impossibili. Ma l’eliminazione totale della cosa in sè significa riconoscere che l’intera conoscenza, per quel che riguarda i suoi princìpi e i suoi contenuti, cade nella sfera della coscienza. Il dato non proviene da fuori, ma è ciò di cui, all’interno della coscienza, abbiamo ancora una conoscenza imperfetta e incompiuta: più precisamente, esso è l’elemento indeterminato della conoscenza, quel che non è ancora stato determinato dalle forme a priori dell’ Io. Al di fuori della coscienza non c’è nulla: nel caso della conoscenza meramente intellegibile (matematica) il soggetto può determinare del tutto il proprio oggetto, nel caso della conoscenza sensibile, invece, è possibile solo un avvicinamento indefinito alla completa determinazione, senza poterla mai ottenere. Se penso ad un triangolo, il mio intelletto inquadra totalmente l’oggetto in questione; ma quando ho un approccio conoscitivo con l’oggetto sensibile che mi sta di fronte (ad esempio il libro), una parte di esso sarà inquadrata dalle mie facoltà conoscitive, mentre una parte ne resterà esclusa e costituirà la famigerata cosa in sè . Questo residuo di indeterminatezza è ciò che ci fa apparire l’oggetto come dato, e non come prodotto del soggetto. Così facendo, Maimon sgancia il criticismo dal suo ancoraggio empirico e lo avvia verso esiti idealistici. Maimon porta alle estreme conseguenze il fatto che la cosa in sè sia un concetto puramente negativo, arrivando a concepirla come assolutamente relativa: la cosa in sè altro non è se non quel residuo non perfettamente inquadrato dalle forme conoscitive dell’uomo; è ciò che resta fuori dall’inquadramento categorico. Il processo conoscitivo va avanti all’infinito e, proprio per questo, non potrà inquadrare tutto nelle sue forme: ciò che resta non-inquadrato è appunto la cosa in sè . L’espunzione della cosa in sè dal quadro del criticismo viene ribadita anche da JACOB SIGISMUND BECK (1761-1840) , autore di uno scritto dal titolo L’unico punto di vista dal quale può essere giudicata la filosofia kantiana (1796). Beck si propone di interpretare il pensiero kantiano in modo da coglierne la verità essenziale e rimanere fedele ad esso, ma, ciononostante, egli finisce per compiere un ulteriore passo verso l’idealismo: a ragion veduta, dunque, egli viene sconfessato da Kant. Beck, in modo simile a Fichte, distingue due momenti nello sviluppo del processo conoscitivo: la produzione originaria e il riconoscimento. Se la cosa in sè non esiste, ne deriva necessariamente che il processo con cui il soggetto genera l’oggetto non è più una costruzione (organizzazione intellettuale di dati sensibili), ma una produzione: non lavoro su materiale che mi è dato (come credeva Kant), ma lo costruisco io stesso, sto all’origine dello stesso materiale che poi dovrò conoscere. Ne consegue che l’oggetto è una produzione del soggetto, il quale produce sia la forma sia il materiale della conoscenza. Il mondo che mi circonda è una mia produzione: non è vero che esiste un mondo e noi lo vediamo in modo diverso da come è (come credeva Kant); al contrario, il mondo lo produciamo noi (produzione originaria). Sembra un paradosso, poichè, se io come soggetto produco il mondo, come mai quando nasco sono convinto che esso esista indipendentemente da me, ovvero come oggetto a sè stante? Perchè abbiamo l’impressione di avere di fronte un mondo da noi indipendente? Beck lo spiega con con il secondo passo dello sviluppo nel processo conoscitivo, il riconoscimento: il soggetto produce l’oggetto (produzione originaria), ma lo fa in modo inconscio, dopo di che lo riproduce, ovvero lo riconosce (riconoscimento). L’illusione che esista una cosa in sè, un mondo da noi indipendente nasce proprio dal fatto che la produzione originaria sia inconscia, produciamo il mondo senza rendercene conto. Fichte spiegherà anche il senso di questa operazione, Beck si limita a proporla. In lui è implicita anche l’idea che vi sia una sorta di processo triadico per cui il soggetto pone l’oggetto, e poi lo riconosce, quasi come se lo recuperasse, in una sorta di processo triadico: prima c’è il soggetto che sta in sè, poi c’è il soggetto che pone l’oggetto e, infine, c’è il soggetto che recupera l’oggetto riconoscendolo. Questo, peraltro, è molto vicino alla Trinità cristiana: c’è il Padre, poi il Padre che genera il figlio e infine l’amore tra i due (Spirito Santo). Ad esplicitare quest’idea, presente embrionalmente in Beck, sarà Hegel. Su queste basi finora esposte nascerà la celebre triade degli idealisti, costituita da Fichte, Schelling e Hegel. Essi si succedono in tempi molto ravvicinati, cosicchè la parabola discendente dei primi due è molto rapida, poichè di volta in volta il nuovo arrivato oscura la fama del suo predecessore. E così il periodo culminante della riflessione fichteana si colloca negli ultimissimi anni del Settecento, quando sarà surclassato dall’appena venticinquenne Schelling, il cui predominio si estenderà fino al 1807 e non oltre: a questo punto entrerà in gioco Hegel. Dopo la fatidica data del 1800, quando ormai il suo astro è declinato, l’esito del pensiero di Fichte prende una coloritura teologico-religiosa: è interessante, perchè il periodo che segue alla filosofia kantiana è caratterizzato da una polemica anti-intellettualistica, una polemica contro l’intelletto, ovvero contro la facoltà conoscitiva del finito; in età romantica, dove è particolarmente sentita la ricerca dell’infinito, all’intelletto, che era la facoltà preferita da Kant e dagli illuministi, subentra la ragione, ovvero la facoltà di cogliere l’infinito, l’assoluto. In questo panorama vi saranno due atteggiamenti diversi: ci sarà chi rifiuterà sia l’intelletto sia la ragione, avvicinandosi in tal modo alle posizioni mistico-intuitive; ci sarà poi chi, come Hegel, riconoscerà l’inferiorità dell’intelletto rispetto alla ragione e, dunque, si dedicherà interamente ad essa. Il rischio della critica all’intelletto è, per così dire, di farsi troppo coinvolgere e di finire per travolgere con tale critica anche la ragione, negandole ogni legittimità conoscitiva. Resta però vero che tutta la cultura romantica sarà anti-intellettualistica, ma non tutta sarà anti-razionalistica (Hegel in primis). Naturalmente, finchè all’intelletto contrappongo la ragione e mi attengo ad essa, resto pur sempre nella sfera della filosofia, dell’indagine razionale; se però, oltre a criticare l’intelletto, critico anche la ragione, ecco che non mi muovo più nell’ambito della filosofia, la quale affonda le sue radici nella razionalità. Tornando ai tre idealisti, l’unico che resta coerentemente fedele alla ragione, fino in fondo, è Hegel (la sua scala gerarchica sarà 1 filosofia, 2 religione, 3 arte); Fichte e Schelling, invece, partono entrambe dalla filosofia per poi sconfinare in campi che esulano dalla ragione: Fichte riconoscerà il privilegiamento della religione, Schelling dell’arte. In questi due pensatori è come se, paradossalmente, la ragione decretasse essa stessa il proprio suicidio, appellandosi alla religione (Fichte) e all’arte (Schelling).
IL ROMANTICISMO
Sul finire del Settecento la Germania conosce una formidabile fioritura culturale e la filosofia tedesca assurge a vero e proprio centro della filosofia mondiale, tant’è che si è spesso parlato di età classica tedesca . Sul piano filosofico il periodo è contrassegnato da tre diverse manifestazioni: 1) il criticismo (che nasce e muore con Kant) 2)l’idealismo (di cui abbiamo parlato poc’anzi), che muove dalla riorganizzazione sistematica dell’opera kantiana per approdare alla negazione della cosa in sé 3) il romanticismo, che sfugge ad ogni precisa determinazione cronologica e contenutistica. Mancano infatti date precise dello sviluppo di tale movimento ma, come se non bastasse, mancano anche criteri oggettivi per decretare la romanticità degli autori. Se nell’Illuminismo regnava l’idea di uscire dalla precedente epoca buia grazie ai lumi della ragione, nel Romanticismo la questione è invece più complessa. Si può tentare di stabilire un raffronto, cogliendone il rapporto, tra Romanticismo e idealismo. L’idealismo è a pieno titolo la filosofia dell’età romantica, eppure non tutto l’idealismo è filosofia romantica: ovvero, l’idealismo nasce e vive in età romantica, ma non per forza esso costituisce la filosofia romantica. Hegel stesso, il più grande idealista, muove pesanti critiche al Romanticismo, pur essendo per molti aspetti egli stesso romantico. Forse l’elemento che meglio contraddistingue il Romanticismo è la vivace polemica anti-intellettualistica, combattuta contro l’intellettualismo illuminista. L’intera filosofia kantiana, massima espressione dell’età illuministica, rivendicava l’assoluto privilegiamento dell’intelletto (facoltà del finito) a discapito della ragione (facoltà dell’infinito), nella convinzione che la conoscenza umana, per essere legittima, non poteva mai assumere carattere infinito. I Romantici stravolgono l’insegnamento kantiano, convinti che attingere l’infinito sia azione legittima: ne consegue inevitabilmente che, essendo legittimo l’uso sia dell’intelletto sia della ragione, si preferirà la ragione, in grado di mettere l’uomo in contatto con l’infinito. Tuttavia, se buona parte dei Romantici (Hegel in primis) si schiererà a favore della ragione intesa come facoltà dell’infinito e contro l’intelletto inteso come facoltà del finito, un’altra grande fetta di intellettuali dell’epoca si lascerà troppo prendere dalla foga contro l’intelletto e finirà per polemizzare contro le facoltà razionali in generale (compresa la ragione): ora, è evidente che se ci si allontana dall’intelletto ma si resta fedeli alla ragione si può pur sempre elaborare un sistema filosofico, e non a caso Hegel, acerrimo nemico dell’intelletto, darà vita alla più grande elaborazione filosofica razionale mai esistita. Se però, accanto all’intelletto, si respinge anche la ragione, si esce dalla sfera filosofica e si sfocia in ambiti mistici. Se l’idealismo, nel complesso, tendeva a travolgere l’intelletto nella sua polemica ma riconosceva la validità della ragione, i Romantici, per lo più, si scaglieranno sia contro l’intelletto sia contro la ragione , decretando, paradossalmente, l’impossibilità di una filosofia romantica: ecco perché il più grande filosofo dell’età romantica, Hegel, sarà nemico del Romanticismo. Della triade idealista, i due più strettamente romantici sono proprio Fichte e Schelling, il cui pensiero giunge a staccarsi completamente dalle facoltà razionali, mentre il meno romantico (Hegel) è quello che resta più razionale. Forse l’elemento più comune ai pensatori romantici è l’accesa polemica contro il razionalismo . Alla ragione, dichiarata incapace di cogliere l’essenza più profonda della realtà e della natura umana, vengono contrapposti il sentimento, l’istinto e la passione. Si è spesso detto che la contrapposizione tra Illuminismo e Romanticismo risiede proprio nella riscoperta romantica della passione e del sentimento in antitesi alla fredda e rigorosa ragione illuministica: in realtà, con i Romantici vengono approfonditi e portati alle estreme conseguenze la passione e il sentimento, che però erano già stati scoperti e valutati positivamente da Illuministi quali Rousseau ( La nuova Eloisa ). Una differenza forse meno lampante ma senz’altro più corretta sta nella tendenza romantica a rivendicare la spiritualità a discapito del materialismo illuministico. Già Kant aveva timidamente aperto spiragli verso l’interiorità e la soggettività attuando la rivoluzione copernicana del pensiero; ora, i Romantici approfondiscono la questione e portano a compimento la progressiva attenzione alla soggettività avviata da Petrarca. Va però precisato che per soggettività bisogna intendere l’interiorità, il cuore delle passioni, e che l’esaltazione di tale componente della natura umana porta ad una rilevante rivalutazione dell’individualità . L’Illuminismo tendeva a far prevalere (perfino in ambito politico) ciò che era uguale, universale e valido ovunque, nella convinzione che vi fossero cose buone o cattive, giuste o sbagliate, in assoluto, a prescindere dalla specificità delle condizioni: secondo gli Illuministi si trattava di scegliere sempre e ovunque il giusto seguendo i dettami della ragione, senza tener conto della realtà o del periodo storico in cui si fosse. Il Romanticismo, invece, esalta la dimensione dell’individualità, facendo però delle distinzioni: ci sarà l’individualità singola, e da essa nascerà l’idea, tipicamente romantica, del genio , ovvero la convinzione che vi siano individui privilegiati e superiori agli altri (da cui spesso non vengono compresi) poiché capaci di cogliere l’essenza più intima della realtà. Non a caso sorge il desiderio di originalità e sempre più frequente diventa l’accusa di plagio, fino ad allora pressochè sconosciuta, in un clima in cui si vuole reagire all’incipiente massificazione avviata dall’appiattimento borghese della Rivoluzione Francese. Va poi ricordato che, dopo il 1815, siamo negli anni della Restaurazione ed è forte la delusione per il fallimento del progetto napoleonico, sicchè alcuni spiriti più sensibili sentono il desiderio di ribellarsi al clima soffocante della Restaurazione e lo fanno con opere d’arte fuori dal comune, degne di un genio. Vi è poi anche esaltazione dell’individualità collettiva : in reazione all’universalismo propugnato dagli Illuministi, si rivalutano le unità collettive, le distinzioni tra popoli e tra culture. Nasce l’idea che ciò che è giusto a Parigi può non esserlo a Napoli, sostiene Vincenzo Cuoco, a sottolineare che è assurda l’universalità astratta degli Illuministi. Non è vero che ciò che la ragione addita come giusto sia giusto ovunque e comunque, senza tener conto delle condizioni materiali effettive: ciò che è giusto a Parigi può esserlo anche a Napoli a patto che lo si cali nella concretezza della situazione, tenendo conto delle differenze effettive che intercorrono tra le due città. Connesso alla soggettività è anche il concetto di infinito , uno dei più Romantici: venendo meno la cosa in sé kantiana, il soggetto può legittimamente aspirare ad attingere l’infinito attraverso la ragione, la quale assurge così in posizione dominante rispetto all’intelletto. Perchè però si predilige proprio in età romantica la ragione, ovvero la facoltà dell’infinito? Finchè ritengo, sulle orme di Kant, che vi siano due princìpi della realtà (soggetto e oggetto) e due della conoscenza (forma e contenuto) radicalmente separati, tale ammissione comporterà che la mia conoscenza sia finita (privilegiamento dell’intelletto) perchè vi sarà pur sempre qualcosa fuori di me e che non potrò mai del tutto riassorbire nella mia testa: se conoscere significa, per così dire, introdurre l’oggetto dentro di sè, inquadrarlo, per Kant possiamo solo conoscere ciò che abbiamo messo noi, con le leggi del nostro pensiero, nel mondo, con l’inevitabile conseguenza che di ciò che non ho messo io nel mondo non potrò avere conoscenza certa. Ne consegue che sarà possibile solo un conoscenza finita e l’intelletto sarà lo strumento più adatto. Se però ammetto che tutto deriva dal soggetto, come fa l’idealismo, ovvero se ammetto che il soggetto non costruisce (cioè non organizza con le forme materiale che riceve dall’esterno), allora il mondo che vedo è un prodotto del soggetto e, proprio in quanto sono io stesso a produrlo, potrò conoscerlo perfettamente, totalmente, assolutamente, senza limite alcuno, con la conseguenza che la ragione (non l’intelletto) diviene lo strumento gnoseologico più adatto. L’uomo può e deve tendere all’infinito: eppure vi saranno pensatori che riterranno impossibile il raggiungimento dell’infinito, con la conseguenza che la loro filosofia sarà venata di pessimismo. Ci sarà dunque un Romanticismo pessimista , nato dall’aspirazione non realizzata all’infinito, e un Romanticismo ottimista poiché convinto che l’uomo possa raggiungere l’infinito. Le ultime lettere di Jacopo Ortis rappresentano un fulgido esempio di Romanticismo pessimista, in cui il protagonista perviene al suicidio dopo essersi capacitato dell’impossibilità di cogliere l’Infinito. Il pessimismo cosmico di Leopardi poggia su basi analoghe: l’uomo aspira all’infinito, eppure non può mai spingersi oltre al finito, dunque la sua vita è tormentata dal dolore e dalla sofferenza per non potersi spingere laddove vorrebbe. Hegel rappresenta invece il caso più lampante di Romanticismo ottimista: egli è convinto che l’uomo possa, avvalendosi della ragione, raggiungere l’infinito ed è uno dei filosofi più ottimisti della storia, tanto da arrivare a dire che ‘ ogni negativo è anche positivo ‘. Anche pensatori quali Fichte e Schelling sono fortemente ottimisti, sebbene per essi l’Infinito sia raggiungibile esclusivamente con strumenti extra-razionali (religione e arte). Ecco dunque che in alcuni pensatori prevale la fede come rapporto immediato (non mediato dalla ragione) con l’Assoluto; Schelling, per dirne uno, troverà un rapporto immediato e diretto con l’Assoluto nell’arte, tramite il genio creativo. Altri due concetti tipicamente romantici su cui spesso si è voluta costruire la contrapposizione con l’Illuminismo sono la storia e la natura. In età illuministica era prevalso il meccanicismo materialista e la sua visione del mondo come grande macchina costituita da singoli ingranaggi, per cui a prevalere sul tutto erano appunto questi ultimi (in fisica gli atomi, in politica i singoli individui); questo modello appare sorpassato ai Romantici, i quali ad esso preferiscono l’ organicismo , ossia la concezione secondo la quale a contare non sono le singole parti (come era per gli Illuministi), ma il tutto preso nel suo insieme. Era stato, ancora una volta, Kant ad aprire spiragli verso questa prospettiva, quando, nella Critica del Giudizio , aveva ammesso che un essere vivente, per quanto semplice possa essere, non potrà mai essere spiegato fino in fondo dalle leggi meccanicistiche. Se il meccanicismo, poi, tendeva a concepire come macchina anche ciò che macchina non era (gli esseri viventi), l’organicismo spinge nella direzione opposta, tendendo a concepire come organismo anche ciò che organismo non è. La natura non è più, dunque, una grande macchina che si muove secondo le leggi di Newton, bensì si connota come enorme essere vivente, essa stessa riflesso di una qualche spiritualità. E così, in campo letterario, viene esaltata la corrispondenza dello stato interiore dell’uomo e della natura, strettamente connessi tra loro. A questa interpretazione ha portato l’idealismo: nel momento in cui la natura è filosoficamente dichiarata prodotto del soggetto, Io capovolto, allora è evidente che anch’essa è spirituale, basta saperlo coglierlo (e proprio qui sta la difficoltà): a cogliere la verità riusciranno di più il poeta e l’artista che non lo scienziato. La natura assume una coloritura spirituale e vitalistica: in questo panorama, tornano in auge pensatori quali Giordano Bruno (riscoperto da Schelling) e Spinoza, accomunati dalla concezione panteista della natura. Rispetto all’età razionalista e illuminista vi è un radicale capovolgimento: la scienza stessa assume una nuova veste. Se Cartesio, nella sua foga meccanicistica, era arrivato a interpretare il cuore umano come un motore a scoppio, in età romantica la natura diventa viva e divina, come l’avevano intesa Bruno e Spinoza. Gli scienziati di quest’epoca (tra cui Volta), dunque, non si interesseranno tanto di meccanica (come invece avevano fatto gli scienziati del Seicento e del settecento) quanto di magnetismo e di elettricismo, i campi meno facilmente riducibili alla meccanica, aborrita in quanto emblema del meccanicismo. Il magnetismo e l’elettricismo, poi, sono accomunati dal fatto che entrambi suggeriscono una sorta di quella vitalità della natura ricercata dai Romantici: da Talete in poi, del resto, il magnete, con la sua capacità di attirare il ferro, era spesso stato concepito come vivente e animato. Si tende con insistenza a ricercare una polarità nella natura che corrisponda a quella ravvisata da Fichte tra Io e non-Io, con la pretesa di trovare una corrispondenza tra pluralità dell’attività spirituale e pluralità della natura. Gli interessi dei Romantici si concentrano anche sulla storia , particolarmente cara anche agli Illuministi: tuttavia, come nella concezione della natura, anche in quella della storia vi sono differenze. Gli Illuministi guardavano alla storia come storia degli errori umani del passato, nella convinzione che vi fossero modi razionali e naturali per vivere e che nel passato essi fossero stati compromessi da superstizioni e credenze: la storia si configurava allora come la progressiva liberazione dell’uomo dalle superstizioni e imperava la convinzione che nel passato stesse il male, nel futuro il bene e che il presente altro non fosse se non una tappa verso il bene. Sempre gli Illuministi vedevano come attore della storia l’umanità, concepita però, sulla scia del modello meccanicistico, come somma dei singoli individui e non come tutto organico. Per i Romantici non è vero né che la storia sia una sfilza di errori a cui guardare per non commetterli nuovamente né che l’umanità, l’attore della storia, sia una pura e semplice somma di individui. Vige la convinzione che l’attore della storia è uno solo e, in merito, Hegel parlerà di spirito del mondo e dirà di averlo visto a cavallo quando scorgerà Napoleone. L’attore della storia è qualcosa di più complesso rispetto alla sommatoria degli individui, è lo spirito del mondo: la storia è dunque governata non già dai singoli, bensì da un’entità superiore e su questi presupposti fioriranno le interpretazioni provvidenzialistiche (ad esempio, Manzoni ne I promessi sposi ). Resta però da chiarire se tale attore della storia sia trascendente o immanente: per i Cristiani sarà trascendente, starà cioè al di là del mondo (e per Manzoni è così), per molti altri sarà immanente, ovvero governerà la storia dell’umanità dall’interno. Da questa concezione emerge la superiorità dello spirito del mondo rispetto agli individui singoli (uomini) e collettivi (stati), sebbene resti vero che gli Stati valgono più dei singoli (in antitesi alla concezione meccanicistica). Per quel che riguarda la religione e la politica, gli Illuministi erano convinti che vi fosse in assoluto qualcosa di buono e di giusto (la religione naturale e lo stato giusto) rispetto a cui le realtà storiche erano tentativi mal riusciti: per lo più gli Illuministi erano deisti e consideravano le religioni storiche come tentativo mal riuscito di riprodurre l’unica vera religione, quella razionale, che dimostrava l’esistenza di Dio ricorrendo esclusivamente alla ragione. Allo stesso modo vi era a loro avviso un modello razionale di stato giusto che bisognava applicare ugualmente in tutte le realtà. I Romantici, dal canto loro, sono del parere che a contare sia solo l’unico attore della storia, che si realizza sempre e soltanto attraverso gli individui: Hegel, ad esempio, respingerà la distinzione tra religione applicata e religione ideale, convinto che una religione è quella che è nella sua applicazione concreta, non ve n’è una ideale. Sempre Hegel parla di spirito del mondo ma anche di spirito del popolo , che sono poi la stessa cosa: infatti lo spirito del mondo, di volta in volta, si realizza in un determinato spirito del popolo. All’epoca di Pericle lo spirito del popolo greco era l’incarnazione dello spirito del mondo, come Napoleone, a suo tempo, era l’incarnazione dello spirito del mondo. Tutto questo mette in evidenza che non può esservi uno spirito del mondo ideale, staccato dalla realtà. Dunque la religione esiste sempre e solo nelle singole realizzazioni storiche , sicchè non ha senso alcuno parlare di Cristianesimo ideale a sottolineare la distinzione tra la teoria del Cristianesimo e la sua concreta applicazione: il Cristianesimo è quello che è e che è stato nella prassi, nella sua applicazione. Lo stesso vale anche per gli individui: Napoleone ha incarnato in quel preciso momento lo spirito del mondo; esso era tutto lì, in Napoleone. Se ogni popolo rappresenta in un dato momento lo spirito del mondo, ciò significa che quel che la Grecia ha fatto l’ha fatto per se stessa ma soprattutto per lo spirito del mondo intero. Ecco perché in età romantica affiora l’idea che i popoli abbiano una missione: Mazzini credeva di poter riconoscere una missione dell’Italia, investita di valore universale. La tendenza di Mazzini era democratica e tale sarà anche quella di Fichte e di Schelling, mentre quella di Hegel sarà più aggressiva e poggerà sulla convinzione che il popolo che incarna lo spirito del mondo ha anche il compito di schiacciare gli altri popoli. Se gli Illuministi non nutrivano grande simpatia verso il passato, l’atteggiamento dei Romantici oscilla tra due diverse posizioni, aventi corollari politici differenti (il che spiega, tra l’altro, perché potevano essere romantici sia i progressisti sia i reazionari). Vi furono pensatori che provarono esplicita nostalgia verso il passato : in un’epoca in cui regna l’organicismo, è normale che si guardi con simpatia a quelle epoche in cui sono nate le collettività, i popoli, nella fatti specie al medioevo, che torna così in auge dopo la svalutazione rinascimentale e illuministica. Il medioevo gode delle simpatie di molti Romantici un po’ perché è l’epoca in cui son nati i popoli e le nazioni, un po’ perché la società stessa era vissuta come un tutto organico e non come un luogo in cui gli egoismi personali trovavano equilibri (come era la società illuministica), e un po’ anche perché i più reazionari guardavano con simpatia e rimpianto al feudalesimo medievale, ormai definitivamente scalzato dalla Rivoluzione Francese. Ci furono anche Romantici che ebbero un atteggiamento progressista e talvolta rivoluzionario nei confronti del passato : in un’epoca in cui è sempre più sentita l’idea di nazione, si guarda al passato medievale in cui le nazioni eran nate e c’è volontà di far parte di una nazione in chiave progressista, spesso dandosi alle rivoluzioni (il Risorgimento). Una dimensione rivoluzionaria è anche presente sul piano psicologico: non potendo essere per molti soddisfatto il naturale desiderio di raggiungere l’infinito, ci si sente spiazzati nella realtà circostante e ci si ribella. In questa prospettiva, possiamo citare ancora Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo: vi si trova il tema dell’esilio politico ed esistenziale al tempo stesso. Il protagonista, Jacopo Ortis, aspira all’Assoluto ma è relegato a realtà piuttosto modeste, sicchè opta per la rivolta e si toglie la vita. Si può essere progressisti anche per altra via, in modo connesso all’organicismo: se ammettiamo, come fa Hegel, l’esistenza di uno spirito del mondo, finiremo inevitabilmente per applicare un modello antropomorfo della storia , ovvero concepiremo le fasi storiche compiute dallo spirito del mondo come la vita di un individuo, caratterizzata da una nascita, da una crescita e da una morte. Non solo: la storia dell’individuo può anche essere vista in chiave finalistica (come faceva Aristotele) e ciò influirà sull’educazione che si impartirà ai bambini. Infatti, in chiave finalistica il bambino viene concepito in vista dell’uomo, cosicchè, propriamente, ad avere un valore è solo l’uomo compiuto. Ma se la storia può essere vista come la vita di una persona e se la vita di una persona è vista finalisticamente, allora anche la storia può essere vista finalisticamente. E proprio per questo la maggior parte dei Romantici non nega che vi sia finalismo nella storia : Hegel è convinto che vi sia un fine ultimo immanente ed intrinseco dell’umanità generale, presente embrionalmente fin dagli albori della storia e destinato ad essere, prima o poi, realizzato. A contare, però, in questa prospettiva, così come nella vita finalisticamente intesa non è il bambino ma l’uomo, dovrebbe essere il futuro, recante la realizzazione della finalità, e il passato dovrebbe avere minor valore, come credevano gli Illuministi. E invece i Romantici vivono nella convinzione che tutte le tappe della storia siano importanti: Hegel, non a caso, dirà che il vero è l’intero , a sottolineare che la verità c’è solo alla fine e risiede nella storia presa nella sua interezza. Certo, anche per Hegel e per altri Romantici come per gli Illuministi la situazione storica attuale è migliore rispetto alle precedenti, che però, seppur inferiori, non sono errori bensì sono tutte tappe necessarie, gestite provvidenzialmente dallo spirito del mondo. Ecco perché ‘ ogni negativo è sempre anche positivo ‘ (Hegel): anche le guerre, le rivoluzioni, le violenze e tutte le altre cose negative sono positive perché estrinsecazione necessaria e provvidenziale dello spirito del mondo; non ci sono errori nella storia perché tutto rientra nella finalità. Proprio per questo motivo in età romantica pullulano i romanzi storici, in cui gli smarrimenti del protagonista sono necessari e giusti. Questa concezione hegeliana è per alcuni versi progressista (perché legge la storia come processo che tende verso un fine), per altri conservatrice (ciò che è successo e che succede è sempre giusto perché tappa necessaria dell’umanità: non ha senso essere rivoluzionari), ma non è mai reazionaria (non ha senso guardare con nostalgia al passato). Ecco che affiora un’altra diversità: per gli Illuministi il progresso non andava verso un fine retto da un attore divino e a farlo erano i singoli e non l’umanità come tutto organico. Ad aprire la strada al Romanticismo è lo Sturm Und Drang, una forma di proto-romanticismo estremistico, che spesso sfiora il titanismo: l’individuo si innalza da solo contro la realtà. Ed è nello Sturm Und Drang che affiora per la prima volta il panteismo, l’identificazione della natura con Dio. Il processo che porta al panteismo prende il via con Fichte: spiritualizzata la natura, il passaggio all’identificazione con Dio è dietro all’angolo. In età romantica fioriscono dunque principalmente due atteggiamenti, il panteismo e il fideismo; resta escluso il deismo, che troppo puzzava di Illuminismo. Il panteismo troverà in Goethe uno dei suoi massimi esponenti e sarà caratterizzato dall’idea che a reggere la storia sia uno spirito immanente, all’interno del mondo. Il fideismo troverà invece in Jacobi e Hamann i suoi baluardi e rivendicherà la priorità della fede su tutto, nella convinzione che non vi sia altro strumento per entrare in contatto con l’assoluto. E’ bene ricordare la vivace polemica sul panteismo che nacque in età romantica: si rinvengono dei documenti in cui il filosofo illuminista Lessing confessava di essersi convertito allo spinozismo. Da qui scaturisce il dibattito, che segna, tra l’altro, il ricomparire di Spinoza sulla scena filosofica, dopo circa un secolo di assenza per via del suo presunto ateismo. Ci sarà chi si schiererà al fianco di Spinoza e chi lo criticherà, ma, è interessante, tutti ne riconosceranno la grandezza e l’importanza. Chi vedrà in lui un puro e semplice meccanicista lo criticherà, ma chi scorgerà in lui un grande panteista (Goethe) come fu Giordano Bruno lo apprezzerà. Con il filosofo HERDER e con HAMANN si stabilisce un’indisgiungibile connessione tra ragione e linguaggio. Hamann, in Metacritica del pluralismo della ragione (1784), critica la presunta purezza della ragione e finisce, come Herder, per sostenere l’inesistenza della ragion pura. Come lo spirito del mondo esiste sempre e solo incarnato, allo stesso modo non esiste una ragione che si incarna in singole manifestazioni linguistiche. Non è vero che c’è una ragione pura che effettua il ragionamento e poi esso viene meccanicamente tradotto in Italiano, in Francese e in Spagnolo. Parlare in una lingua significa, al contrario, pensare in una maniera. La ragione è, cioè, sempre calata nei suoi contenuti, proprio come la religione. E’ bene accennare a due vocaboli tipicamente romantici ed hegeliani, con significati diversi rispetto a quelli che siamo soliti attribuire noi : astratto (dal latino abstrahere ) significa ‘tirato via’, concreto (dal latino concresco ) significa ‘cresciuto insieme’. Saranno astratte cose concepite separatamente le une dalle altre; concrete saranno invece cose concepite le une in relazione alle altre. Ora, la ragione non esista mai separatamente dal linguaggio ed è dunque concreta, ovvero è concepita in relazione al linguaggio poiché è già operante in esso: ‘ senza il linguaggio l’uomo non ha ragione, e senza ragione non ha il linguaggio ‘ . La ragione kantiana era astratta, poiché concepita scevra da legami con il resto. In questa prospettiva, il meccanicismo è astratto (i singoli pezzi sono concepiti separatamente) mentre l’organicismo è concreto (ogni pezzo non è concepibile se non in riferimento a tutti gli altri e, soprattutto, al tutto). E’ interessante notare che, accanto ad una posizione romantica in senso stretto, vi è anche, ad essa contrapposta, una posizione classicista che muove critiche formali al Romanticismo. Ad aderire a tale corrente di pensiero fu Goethe stesso, distaccatosi dallo Sturm Und drang e dal Riomanticismo, come anche, sul versante italiano, Foscolo. Tuttavia non è del tutto corretto scorgere una netta contrapposizione tra classicismo e Romanticismo, come se non avessero aspetti comuni. Infatti, se il classicismo guarda con grande simpatia al mondo classico, anche i Romantici, seppur in una maniera tutta loro, apprezzeranno il mondo della classicità. La figura di GOETHE è interessante perchè segna il passaggio dai movimenti culturali più disparati, partendo dallo Sturm Und Drang, passando per il Romanticismo e approdando al neoclassicismo. Molto interessante è la sua filosofia della natura, poichè rivela la piena adesione ai modelli organicisti allora in auge. Goethe spiega che tutte le espressioni della natura sono variazioni di un unico prototipo originario, una pianta ( Urplanz ) da cui tutti i vegetali derivano. E’ una concezione tipicamente romantica poichè rappresenta uno dei tanti tentativi di eliminare ogni dualismo, nella convinzione che tutto sia riconducibile ad un unico principio: con Fichte e l’idealismo si è superata la contrapposizione soggetto/oggetto, con il panteismo quella natura/Dio e Goethe, panteista convinto, tenta addirittura di ricondurre ogni vegetale ad una pianta originaria. Goethe, fra le altre cose, scrive anche un opuscolo sulla teoria dei colori, in cui contesta l’interpretazione newtoniana secondo la quale i colori sono tanti e, se mescolati, danno la luce bianca: ad essa contrappone la teoria secondo la quale, viceversa, all’origine vi è la luce bianca, vista non come il risultato di una composizione; al contrario, sono i colori che derivano dalla scomposizione di essa. Sembra una diatriba puramente scientifica, ma in realtà riveste un ruolo importantissimo in ambito filosofico: si tratta infatti del sistema meccanicistico (Newton), secondo cui a contare effettivamente sono i singoli (i colori), contrapposto a quello organicistico (Goethe), secondo cui il parziale, dotato di esistenza depotenziata, è mera manifestazione particolare della totalità. Nel contesto classicista si inquadra perfettamente anche SCHILLER , che elabora il concetto di anima bella , riprendendo un atteggiamento grecizzante verso la morale. Noi siamo abituati all’idea che un’anima possa essere buona o cattiva, ma Schiller asserisce che può anche essere bella. Questa sua presa di posizione è riconducibile ad un una netta contestazione della morale kantiana all’epoca imperante, secondo la quale non poteva essere moralmente valutata la bontà naturale. Una persona a cui venga spontaneo essere buono, secondo Kant, non è moralmente valutabile, dal momento che non risponde alla legge morale ma all’istinto. Nell’ottica kantiana è invece passibile di giudizio morale chi, in contrasto alla propria natura di essere fisico che tende alle passioni, si rivolge alla parte di sè razionale e in base a ciò sceglie, magari contrapponendosi alla propria natura. Schiller non è affatto d’accordo e, proprio per questo, introduce il concetto di anima bella, alludendo a quelle anime che aderiscono spontaneamente al dovere morale, senza doversi sforzare. E’ un’anima ‘bella’ nel senso che, nella terminologia kantiana, presenta un’armonia spontanea, priva di costrizioni. Da qui scaturisce la convinzione schilleriana che per creare un’anima bella sia indispensabile un’educazione di tipo estetico: l’etica, cioè, viene vissuta secondo un’interpretazione estetica e in un tale ambito trova un suo spazio anche il gioco, peraltro già rivalutato da Rousseau nell’ Emilio . La valenza educativa del gioco, spiega Schiller, risiede nel fatto che in esso si manifesta la spontaneità, caratteristica peculiare dell’anima bella, e si abbattono i dualismi, secondo la migliore tradizione romantica, dal momento che nel gioco la spontaneità naturale è completamente fusa con la dimensione intellettuale: intelletto e sensibilità, proprio come nell’arte, fanno nel gioco un tutt’uno. Schiller contrappone poi, anticipando il Leopardi, la poesia ingenua alla poesia sentimentale : sarà ingenua quella poesia che fa appello alla natura, sentimentale quella che si richiama alla cultura. La poesia antica (Omero) era ingenua, mentre quella moderna è sentimentale: è tipicamente romantica l’idea che in ogni aspetto vi sia sempre una prima fase spontanea e immediata e che essa ad un certo punto vada irrimidiabilmente e necessariamente perduta. Per quanto ci si sforzi di recuperarla, il recupero non sarà più immediato, bensì sarà mediato, non vi sarà cioè più quella situazione originaria ma ve ne sarà una nuova. Ciononostante il recupero è necessario perchè non potrebbe non avvenire ed è anche positivo perchè, sebbene certo Romanticismo esalti la spontaneità e l’intuizione, vi sono anche Romantici convinti che lo smmarrimento e la mediazione siano fattori positivi, in quanto si instaura un processo di arricchimento che porta ad avere di più di quanto si avesse all’inizio. La storia stessa, come abbiamo visto, è per i Romantici di stampo finalistico: tutte le epoche hanno la loro dignità, anche se il pieno sviluppo del valore è nell’età adulta. Allo stesso modo, il recupero del punto di partenza assume più valore rispetto al punto di partenza stesso perchè arricchisce . Non a caso, in ambito musicale, le sinfonie dell’età romantica cominciano spesso con un motivo appena accennato, che viene poi perso per alcuni movimenti per poi ricomparire sul finale, arricchito rispetto all’inizio: è una riproduzione della filosofia romantico-hegeliana, secondo la quale vi è una dimensione originaria che viene smarrita (il mondo classico) per poi venire riacquisita a seguito di un processo di recupero che l’ha perfino arricchita. Secondo la prospettiva di noi moderni, un vaso rotto e reincollato è peggiore rispetto a prima che si rompesse; secondo molti Romantici (Hegel compreso), invece, è migliore perchè arricchito. Vi saranno Romantici ottimisti che diranno che il mondo classico è perfetto e deve e può essere imitato; ci saranno Romantici pessimisti che, pur riconoscendo la grandezza del mondo classico e la necessità di imitarlo, sosterranno che sia impossibile farlo. Infine, vi sarà chi dirà che il mondo classico è andato perduto e deve essere recuperato e tale recupero lo arricchirà perfino. Del resto secondo i Romantici vale più la virtù dell’innocenza: quest’ultima, infatti, altro non è se non l’ingenuità primordiale, il non aver ancora avuto l’opportunità di sbagliare e, non a caso, il suo rappresentante è Adamo che, non appena ne avrà l’occasione, sbaglierà. La virtù, invece, permette di recuperare l’innocenza, ma è anche stata intaccata dall’esperienza negativa: si tratta dunque di un recupero mediato del punto di partenza partendo però non dall’ingenuità primordiale, ma da esperienze negative che si trasformano in positive ( ogni negativo è anche positivo ). E lo stesso vale per il recupero del mondo classico. A cavallo tra Romanticismo e classicismo, tra poesia e filosofia troviamo la personalità di HÖLDERLIN . Tipicamente romantica è la sua concezione del poeta come vate , nata dalla convinzione che più il poeta del filosofo possa cogliere a fondo l’intima essenza della realtà, il panteismo e, soprattutto, la tragicità della realtà, nella convinzione che il positivo possa nascere solo dallo smarrimento totale: è nei momenti più tragici, afferma Hölderlin, che può nascere una speranza di redenzione. Un concetto romantico che si afferma sempre più è quello dell’ ironia , della dissimulazione, l’autodimnuirsi come faceva Socrate di fronte ai suoi interlocutori (ironia socratica): l’ironia è il tipico atteggiamento dell’uomo romantico che, presa coscienza del carattere non infinito delle cose in cui vive e che lui stesso crea, si accorge della propria limitatezza. Più poeta che filosofo, come Hölderlin, è anche NOVALIS , panteista ed estimatore del Medioevo. Uno dei suoi contributi più rilevanti sul versante della filosofia romantica è senz’altro il cosiddetto idealismo magico , secondo il quale il soggetto produce l’oggetto ma non in modo inconscio (come sosteneva Fichte), bensì in modo conscio. Novalis, e in questo si capisce come sia più poeta che filosofo, non si fa alcuno scrupolo ad affermare che il mondo è una produzione conscia del soggetto, in particolare del poeta, inteso quindi come produttore di mondi. Inquadrato nel contesto romantico è pure SCHLEIERMACHER , che vede la religione come sentimento di dipendenza verso l’infinito da parte del finito (l’uomo). La definisce anche sentimento trascendentale , a sottolineare che si tratta di un sentimento costitutivo della natura umana, un sentimento che si manifesta in tutti gli uomini. Egli elabora, inoltre, il concetto di ermeneutica, ovvero la teoria generale della comprensione: nel tradurre i testi di Platone, infatti, elaborò una chiave interpretativa (che resse per 150 anni circa) secondo la quale si doveva interpretare Platone basandosi esclusivamente sugli scritti (secondo il motto luterano del sola scriptura ), sebbene il filosofo greco avesse dato maggior peso alla parte orale. E fu proprio dall’interpretazione di Platone che a Schleiermacher balenò l’idea dell’ermeneutica, già peraltro attuata dai Padri della Chiesa nell’interpretazione dei Testi Sacri: essi tenevano infatti conto del fatto che la Bibbia, nel suo complesso, è data dalla sommatoria dei significati dei singoli libri e che, al tempo stesso, si devono leggere i singoli libri guardando al tutto, con la conseguenza che, se si esamina la questione in termini meccanicistici, ci si trova di fronte ad un apparente circolo vizioso. In realtà, quando esamino una parte della Bibbia, un senso generale ce l’ho già e leggendo i singoli libri non faccio altro che approfondire lo studio del tutto. L’ermeneutica è applicabile, oltre che all’interpretazione dei testi, anche all’interpretazione della realtà, poichè mi permette di comprendere meglio le singole parti conoscendo in termini generali il tutto e, al tempo stesso, mi consente di approfondire lo studio del tutto esaminando le singole parti. E’ un processo di forte sapore romantico, che rientra a tutti gli effetti nell’organicismo in quanto, in fin dei conti, a contare non sono le singole parti, ma il tutto.
POSTHEGELISMO
L’OTTOCENTO POST-HEGELIANO
INTRODUZIONE GENERALE
Con la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, si apre una questione di gran rilievo per la storia del pensiero: il sistema hegeliano, organico ed estremamente compatto, trova nel fatto stesso di essere un sistema un punto di forza ma anche di debolezza. Infatti, non appena ne “crolla” una parte, anche il resto entra inevitabilmente in crisi. Ed è proprio quel che avviene negli anni Trenta dell’Ottocento; sorge dunque, presso il “popolo degli intellettuali”, l’assillante quesito: “come comportarsi nei confronti del sistema hegeliano?”. L’Hegelismo si manifesta pertanto, dopo la scomparsa del filosofo che l’aveva elaborato, in differenti forme e correnti, di cui se ne possono individuare essenzialmente tre. La prima corrente è quella che si muove, sia pur criticamente, nell’ambito dell’hegelismo, rimanendo fedele ad esso. Questa corrente seguace del sistema hegeliano si dividerà, a sua volta, in Destra e Sinistra hegeliana. Il motivo di tale scissione tra i sostenitori del sistema hegeliano sarà essenzialmente dato dal fatto che in Hegel convivono tranquillamente la sfera rivoluzionaria ( ciò che è razionale è reale ), secondo la quale tutto ciò che è giusto deve essere realizzato, e la sfera conservatrice ( ciò che è reale è razionale ), secondo la quale le cose così come sono vanno bene, in quanto manifestazioni di una razionalità profonda. La Sinistra coglierà nella filosofia di Hegel il continuo cambiamento dialettico della realtà, leggendo in chiave progressista e spesso rivoluzionaria il motto ‘tutto ciò che è razionale è reale’. La Destra, invece, guarderà con maggior simpatia al motto ‘tutto ciò che è reale è razionale’, dandone una lettura fortemente stagnante e conservatrice, ostile a cambiamenti di ogni sorta. E’ però opportuno ricordare che la scissione tra Destra e Sinistra nacque, ancor prima che sul versante politico, su quello religioso: la Destra, legata ai valori della religione e della Chiesa, tenterà di fondare una scolastica hegeliana, ovvero un tentativo di apologizzare la religione cristiana attraverso i concetti dell’hegelismo. Hegel aveva, infatti, insistito sul fatto che i contenuti della sua filosofia e quelli della religione cristiana coincidessero; e, tuttavia, aveva anche sottolineato la superiorità della filosofia sulla religione, sostenendo che la filosofia esprime gli stessi contenuti della religione cristiana, ma ad un livello incommensurabilmente superiore. Ed è su questo che si basa la Sinistra hegeliana, convinta che ormai la religione fosse stata definitivamente superata dalla filosofia. Abbracceranno la causa della Sinistra hegeliana pensatori del calibro di Feuerbach, Engels e Marx, sicchè non è sbagliato affermare che il marxismo è una sorta di “eresia” dell’hegelismo. Ma, accanto a questa corrente (divisa in Destra e Sinistra) che segue criticamente gli insegnamenti di Hegel, vi è anche un nutrito gruppo di pensatori che si ribella al panlogismo hegeliano, alla sua esasperata ricerca della razionalità, rivendicando la natura irrazionale della realtà: aderiranno a questa corrente di pensiero Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche. Sul versante opposto, vi è poi un anti-hegelismo di stampo razionalistico: in sostanza, questa terza corrente di pensatori rinfaccia ad Hegel di aver elaborato una filosofia razionale in cui però la ragione in questione non è quella della scienza di tipo illuministico, ma è quella dialettica, in grado di dimostrare solo e soltanto che ” il vero è l’intero ” o che ” il negativo è insieme anche positivo “. Questo terzo filone costituirà quella corrente di pensiero passata alla storia con il nome di Positivismo: tesi portante di questa corrente è l’identificazione totale della ragione e, in generale, di ogni conoscenza, con la scienza (a cui Hegel non aveva dato molto peso), come se ciò che esula dalla scienza non potesse costituire in alcun modo la conoscenza. Ricapitolando, le tre correnti che si affacciano sulla scena filosofica successiva ad Hegel possono essere così riassunte:
-
prosecutori dell’hegelismo, seppur criticamente: Destra e Sinistra.
-
anti-hegeliani sostenitori della superiorità della scienza in ogni ambito: Positivismo.
anti-hegeliani avversi ad ogni forma di razionalità: Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche.
E’ curioso che, proprio quando Hegel riteneva di aver chiuso definitivamente la storia del pensiero ( la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo ) sostenendo che con l’autotrasparenza della realtà attuata nella sua filosofia terminasse la filosofia stessa e cominciasse la sofia, fioriscano ben tre correnti diverse che riaprono da capo il discorso che Hegel riteneva chiuso. Karl Löwith, nell’opera ” Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo ” ha scorto nella filosofia che da Hegel giunge fino a Nietzsche e alla fine dell’Ottocento un processo rivoluzionario e di “rottura”; tuttavia, dice Löwith, se è vero che dalla filosofia di Hegel muoveranno i loro passi filosofi che prenderanno le distanze dal “maestro” ed elaboreranno pensieri tra loro opposti, è anche vero che in questo processo di frattura rivoluzionaria vi è un filone unitario, che accomuna i vari pensatori. Il fatto stesso che per tutti questi filosofi Hegel resti il punto di riferimento avvalora la tesi di Löwith: infatti, per i Positivisti e per gli “irrazionalisti” Hegel costituisce (per motivi opposti) un bersaglio contro cui scoccare i propri dardi velenosi, mentre per gli hegeliani alla Marx, il filosofo del Sistema resta un maestro a cui ispirarsi, un maestro di cui si può magari anche compiere il parricidio, come aveva fatto Platone con Parmenide, ma non è questo ciò che conta. Affiora bene, in sostanza, come Hegel resti al centro della riflessione filosofica a lui successiva: anche per chi lo rifiuta e lo disprezza cordialmente, egli resta pur sempre l’idolo negativo combattendo il quale si costruisce la propria filosofia. Si può poi ravvisare un elemento di unitarietà, oltre che nel fatto che Hegel resti il punto costante di riferimento, anche nel senso della concretezza che pervade le filosofie tra loro opposte di questi pensatori. Se nella terminologia hegeliana, per “concretezza” si doveva intendere il privilegiamento per il saper cogliere le cose nelle loro relazioni reciproche, cosicchè il pensiero era più concreto della materia, la ragione più dell’intelletto, ora tale termine si colora di un nuovo significato, al quale anche noi siamo abituati: e così, paradossalmente, tutti i pensatori successivi ad Hegel possono accusarlo di “astrattezza”, quasi come se leggendo Hegel si avesse l’impressione che egli non stesse parlando di cose reali. Il termine “astratto” passa cioè a designare ciò che è sganciato dalla realtà, ciò che non è “concreto”. E’ quasi come se si attuasse un capovolgimento dialettico dei termini, per cui l’accusa infamante di “astrattismo” che Hegel muoveva all’Illuminismo, ora si ritorce contro di lui, seppur in una nuova accezione. Per citare degli esempi, in Marx “concretezza” vorrà dire che, pur accettando egli la dialettica hegeliana, la criticherà per il fatti di poggiare ” sulla testa “, cioè sulle idee: si tratta pertanto, dice Marx, di mantenerla valida così come è, rigirandola però in modo tale che poggi non sulla testa, ma sui piedi, ovvero sulle condizioni materiali ed economiche; ne scaturirà un processo dialettico che non si realizzerà astrattamente sulle pagine dei libri, come l’aveva inteso Hegel, ma, al contrario, si svolgerà concretamente e in modo rivoluzionario sulle piazze. Discorso simile sul versante positivistico, dove si esalta la concretezza del sapere scientifico e del dato di fatto ( ecco perchè “Positivismo”: dal latino positum , “ciò che è posto”, ovvero il dato di fatto); si tratta di una contrapposizione netta al pensiero di Hegel, il quale, nella Fenomenologia dello spirito , aveva posto il dato di fatto ( da lui definito certezza sensibile ) al gradino più basso. Anche tra gli irrazionalisti serpeggia l’aspirazione alla concretezza e, per addurre un esempio, Schopenhauer insiste sul fatto che l’uomo non è ” una pura testa alata d’angelo “, cioè non è puro spirito disincarnato, ma è essenzialmente un corpo e la natura di tale corpo consiste, soprattutto, nella volontà, nei desideri, negli istinti e nelle passioni, quelle cose, cioè, che Freud avrebbe più tardi definito come “pulsioni”; da notare che la rivendicazione che Schopenhauer fa della concretezza è in antitesi all’astrattezza hegeliana, come pure alla ragione, tanto cara ai Positivisti. Anche Feuerbach rivendica la matrice materiale e “concreta” dell’uomo, arrivando a sostenere che ” l’uomo è ciò che mangia “, facendosi latore di un materialismo di rottura, per alcuni versi molto provocatorio. Nel caso di Kierkegaard (che rimprovera a se stesso la sua breve adesione iniziale alla filosofia di Hegel dicendo ” Io, stupido hegeliano! “), poi, la ricerca esasperata della concretezza tenderà a manifestarsi come rivendicazione dell’esistenza singola: in Hegel si ha sempre l’impressione che, anche quando parla dell’uomo, in realtà non stia parlando di noi, sostiene Kierkegaard; da qui emerge il suo interesse per l’io come singolo, ovvero per l’io concreto, sganciato dalla nebulosa astrattezza in cui l’aveva avvolto Hegel. Del resto, osserva Kierkegaard, checchè ne pensi Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come umanità e spirito. Ed è con queste riflessioni maturate in Kierkegaard che comincia ad affiorare, seppur timidamente, il netto contrasto tra la concretezza dell’esistenza (l’io singolo) e l’astrattezza dell’essenza (l’umanità, lo spirito), contrasto già prospettato da Pascal e destinato a diventare centrale nella filosofia del Novecento con l’Esistenzialismo. Si può poi fare un breve cenno a Nietzsche, il quale in gioventù aderì alle tesi di Schopenhauer e, anche quando se ne distaccò, mantenne con esse un forte legame: infatti, il perno della sua filosofia è la volontà (concetto tipicamente schopenhaueriano) abbinata alla vitalità, contrapposte duramente al pensiero e, più in generale, alla ragione. Sempre Nietzsche rivendica anche quell’individualità già sostenuta da Kierkegaard: ed è per questo che Nietzsche è l’ultimo anello della catena che sancisce la frattura col pensiero di Hegel e, al tempo stesso, la sintesi delle concezioni più disparate emerse nel periodo post-hegeliano. Egli, da un lato, critica l’astratto in favore del concreto, salutando con entusiasmo la vitalità e la volontà di Schopenhauer (da lui cambiata nell’essenza e ribattezzata “volontà di potenza”), dall’altro lato pone l’accento sul problema dell’individuo sollevato da Kierkegaard, portandolo alle estreme conseguenze ed elaborando il mito del superuomo (con una bislacca commistione di elementi darwiniani). Tutte le riflessioni dei pensatori a lui precedenti, convivono in Nietzsche (spesso dando ibridi esplosivi quali il superuomo o la volontà di potenza) sotto un unico denominatore: la vitalità, il ” ritorno alla terra” che egli caldeggia così spesso nei suoi scritti, contrapponendosi bruscamente all’astrattismo hegeliano. Tuttavia, oltre agli aspetti che in qualche modo legano tra loro questi pensatori post-hegeliani, bisogna saper anche cogliere le numerose differenze che li separano: per dirne una, se Kierkegaard rivendica la concretezza come individualità, Marx, invece, molto più hegelianamente, la rivendica come umanità, come classe sociale. Sarebbe pertanto sbagliato ritenere che questi pensatori abbiano concezioni del tutto uguali tra loro; come sarebbe anche sbagliato illudersi che le loro filosofie maturino tutte dopo la morte di Hegel. In realtà, alcuni di questi filosofi cominciano ad elaborare le loro filosofie mentre Hegel è ancora in vita. La prova lampante di ciò è data da Scopenhauer, il quale compone la sua opera più famosa ( Il mondo come volontà e rappresentazione ) nel 1819, in un clima di pieno trionfo dell’hegelismo: ed è sintomatico il fatto che le idee di Schopenhauer hanno fatto breccia presso il pubblico solo dopo la morte di Hegel, tant’è che la prima edizione de Il mondo (composta quando Hegel era ancora in vita) andò al macero. Si può, tra l’altro, ricordare come Schopenhauer desiderasse tenere le sue lezioni universitarie in contemporanea ad Hegel, ma tuttavia non potè farlo per il semplice motivo che non aveva studenti: tutti, infatti, andavano ad ascoltare con entusiasmo Hegel, non tenendo in alcuna considerazione Schopenhauer.
DESTRA E SINISTRA HEGELIANE
Come abbiamo accennato poc’anzi, la Destra e la Sinistra hegeliane nascono all’indomani della scomparsa del filosofo: un esponente dell’hegelismo, Strauss, definirà le due correnti opposte nate nell’ambito dell’hegelismo come “Destra” e “Sinistra” richiamandosi esplicitamente al parlamento francese. La Destra hegeliana, detta anche dei “vecchi” per il carattere marcatamente conservatore che la contraddistinse, si opponeva alla “Sinistra”, detta anche dei “giovani” hegeliani in virtù del fatto che a comporla erano per lo più giovani progressisti: il primo motivo che portò le due “fazioni” a scontrarsi fu di materia religiosa. Hegel aveva, infatti, sostenuto che la filosofia e la religione esprimessero gli stessi concetti, ma aveva anche aggiunto che la filosofia li esprime in maniera decisamente migliore. Dall’ambiguità del discorso hegeliano, nasce la spaccatura tra Destra e Sinistra: la prima, tende a sottolineare l’identità di contenuti della filosofia e della religione, avvalorando in questo modo la religione; la Sinistra, dal canto suo, sottolinea come la filosofia sia per natura superiore alla religione, poichè quest’ultima, come aveva detto Hegel, può solo esprimersi attraverso narrazioni mitologiche. In altri termini, la Destra approva la religione poichè ne sottolinea l’identità di contenuti con la filosofia; la Sinistra, invece, è contraria alla religione poichè ne sottolinea l’inferiorità della forma rispetto alla filosofia. Ne consegue inevitabilmente che i seguaci della Sinistra si dedicheranno assiduamente all’indagine filosofica, mentre invece gli esponenti della Destra arriveranno ad anteporre la religione alla filosofia, cosicchè i loro contributi alla storia del pensiero sono pressochè irrilevanti. Ma la questione religiosa non è la sola a creare disaccordi tra gli hegeliani: se in Hegel convivevano ambiguamente la superiorità della filosofia rispetto alla religione in ambito formale e l’uguaglianza tra le due in ambito contenutistico, è anche vero che nel filosofo trovavano il loro spazio anche due concezioni della realtà contrapposte; da una parte, infatti, egli diceva che tutto ciò che è giusto perchè razionale deve essere realizzato, dando così una veste progressista al suo pensiero; dall’altra parte, invece, sosteneva che la realtà, così come è, è razionale e, in ultima istanza, giusta, dando così una colorazione conservatrice alla sua filosofia. Ora, come per quel che riguarda la religione, anche qui si crea una spaccatura: la Destra sostiene che tutto ciò che esiste è razionale e, pertanto, non deve essere cambiato; la Sinistra, invece, è del parere che tutto ciò che è razionale debba essere fatto diventare anche reale, in una prospettiva progressista e, talvolta, rivoluzionaria. Ricapitolando, i due punti di “disaccordo” tra Destra e Sinistra sono:
il rapporto religione-filosofia
il rapporto tra razionale e reale
Sul versante religioso, merita di essere ricordato DAVID FRIEDRICH STRAUSS (1808-1874), convinto sostenitore della Sinistra, il quale dà del cristianesimo e della figura di Gesù un’interpretazione molto particolare: nell’opera Vita di Gesù (1835), recante lo stesso titolo di quella pubblicata a suo tempo da Hegel, egli sostiene, in netto contrasto con la tradizione, che la figura di Gesù sia il frutto dell’elaborazione mitologica dei cristiani. Strauss non mette in dubbio l’esistenza di Gesù, ma ciononostante è convinto che, paradossalmente, sia Gesù come elaborazione mitologica a derivare dal cristianesimo e non viceversa, come invece aveva sempre sostenuto concordemente la tradizione. Con queste riflessioni, Strauss può a pieno titolo rientrare nella sfera della Sinistra hegeliana, rivelando, tra l’altro, una certa tendenza (che sarà meglio espressa da Feuerbach) a naturalizzare il concetto di spirito, a riportarlo ad una dimensione immediata e calata concretamente nell’umanità. Altro grande esponente della Sinistra, fu BRUNO BAUER (1809-1882), curiosamente partito da posizioni proprie della Destra: nonostante le posizioni iniziali, egli si “converte” alla Sinistra ed espone la sua concezione della religione in La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo (1841). Con quest’opera, pubblicata anonimamente, egli attua una finzione letteraria, presentandosi come pensatore iper-conservatore e religioso e polemizzando aspramente con Hegel, accusato di essere ateo e anticristo. Con questo gioco intellettuale, Bauer vuole mettere in luce le tesi della Sinistra, facendo notare come se si vuole essere hegeliani non si può essere religiosi, poichè ciò che dice Hegel è inaccettabile per la religione: è dunque impossibile essere al contempo hegeliani e religiosi, come invece fanno gli uomini della Destra, ed è per questo che Bauer si dichiara apertamente ateo. Del problema politico si occupano soprattutto Ruge e Heine, i quali sottolineano (riprendendo concezioni illuministiche) come la Sinistra privilegi l’idea di una razionalità che deve a tutti i costi diventare reale: in quest’ottica, viene anche recuperato Fichte (molto più rivoluzionario di Hegel) e la sua concezione dinamica della realtà come tensione costante. Il succo del discorso di Ruge e di Heine è che se la Germania ha già fatto una rivoluzione sul piano intellettuale con il percorso che da Kant giunge fino ad Hegel, ora non resta che fare la rivoluzione sul piano politico ed è per questo che i pensatori della Sinistra guardano con particolare simpatia al liberalismo e alla democrazia, in un periodo particolarmente oppressivo e conservatore (siamo all’incirca nei foschi anni che di poco precedono il rivoluzionario 1848). Ed è curioso ricordare che, quasi sempre, gli esponenti della Sinistra furono emarginati dalle università, poichè il mondo accademico tedesco restava saldamente nelle mani degli hegeliani di Destra: non potendo esporre il loro pensiero nelle università, i filosofi della Sinistra si scatenarono (Ruge in prima persona) nella pubblicazione di riviste e giornali, per coinvolgere in modo democratico la società; ed è in questo contesto che muove i suoi primi passi il giovane Marx. La più serrata critica alla religione e uno dei più sentiti inviti ad abbracciare la causa democratico-rivoluzionaria in questi anni provengono da FEUERBACH (1804-1872), convinto sostenitore della Sinistra. Il punto da cui egli muove è la filosofia hegeliana e, soprattutto, il momento della “coscienza infelice” (Fenomenologia), dell’uomo medioevale che si sente radicalmente contrapposto a Dio e ne soffre. Feuerbach estende quest’infelicità all’intera religione (e non solo a quella medioevale), criticandola aspramente. Verso Hegel stesso egli è critico, poichè non può in alcun modo accettare che con Hegel termini la storia della filosofia: si propone pertanto di presentare una “filosofia dell’avvenire”, ponendosi come superamento dialettico di Hegel stesso. Con queste considerazioni sullo sfondo, Feuerbach scrive la sua opera più importante, L’essenza del cristianesimo (1841): Schleiermacher aveva ragione, egli dice, a considerare la religione come sentimento di dipendenza dell’uomo nei confronti dell’Assoluto; ma tale Assoluto altro non è se non l’umanità stessa alienata. Infatti, non è vero (come invece afferma il cristianesimo) che Dio crea l’uomo a propria immagine e somiglianza; al contrario, è l’uomo che crea Dio a propria immagine e somiglianza, il che vuol dire (essendo Dio una “produzione” dell’uomo) che la teologia, cioè la scienza di Dio, è un’antropologia, ovvero una scienza dell’uomo. E perchè l’uomo “produce” un Dio a propria immagine e somiglianza? Feuerbach dice espressamente che l’uomo è dotato di qualità quali la potenza (il poter amare, agire, conoscere) e sente l’esigenza di prenderne coscienza; ma l’uomo di cui parla Feuerbach non è il singolo, ma è, molto hegelianamente, l’umanità, poichè l’uomo è davvero tale solamente in rapporto con gli altri, quasi come se, restando solo, egli non fosse davvero “uomo”. Quelle facoltà che riferite ad un uomo erano finite, se estese all’intera umanità si moltiplicano all’infinito, cosicchè l’umanità, volendo prendere coscienza di sè e delle proprie infinite facoltà, si deve oggettivare, deve cioè proiettare fuori di sè le proprie caratteristiche per poterle così osservare come oggetto. Ed è con questo processo di oggettivazione (per molti versi simile al confronto tra autocoscienze tratteggiato da Hegel) che l’uomo crea Dio. Dunque, Agostino sbagliava a dire che nell’uomo si possono trovare tre nature poichè in Dio vi sono tre nature; al contrario, è corretto affermare che in Dio ci sono tre nature poichè nell’uomo vi sono tre nature: in altri termini, la somiglianza tra Dio e uomo si spiega nel fatto che l’uomo crea Dio. Ma la religione, nota Feuerbach, è stato un momento necessario nella storia dell’uomo e, proprio in quanto necessario, è stato giusto, anche perchè ha permesso all’uomo di prendere coscienza di sè. Tuttavia, il lato negativo di tutto ciò risiede nel fatto che l’oggettivazione è anche alienazione, vale a dire che l’uomo, creando Dio, è come se si fosse privato delle proprie facoltà, poichè ciò che viene dato a Dio viene inevitabilmente tolto all’uomo. Il problema che il pensiero moderno deve dunque affrontare consiste nel recupero della dimensione antropologica della religione, partendo dall’alienazione originaria con cui si è creato Dio. Una tendenza in questo senso, Feuerbach la scorge a partire dalla Riforma Protestante: con Lutero, infatti, Dio cessa di essere importante in sè, e diviene importante per ciò che è per l’uomo. La storia di riappropriazione della dimensione antropologica, avviatasi con Lutero, prosegue e culmina in Hegel, che però non è stato in grado di riconoscere l’autentica natura dell’umanità, bensì si è limitato a parlare di spirito o, tutt’al più, di umanità in termini troppo astratti. Feuerbach, invece, è ostile ad ogni astrattismo e quando parla di umanità, si riferisce non all’umanità spiritualizzata di Hegel, bensì a quella caratterizzata dall’esistere concretamente, quella cioè da cui siamo circondati e con cui abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana. Ed è per questo che Feuerbach può affermare in modo provocatorio che ” l’uomo è ciò che mangia “, come recita il titolo di un suo scritto: bisogna recuperare l’uomo materiale e sensibile, non alienato in Dio, e la sensibilità stessa assume un valore gnoseologico profondo, poichè attraverso il corpo e il contatto con esso, dice Feuerbach, si penetra nell’essenza delle cose e delle persone. Il bisogno di rapportarsi materialmente con gli altri è naturale a tal punto che la dimensione sensibile diventa sensoriale, come se coi sensi si potesse conoscere profondamente la realtà, cosicchè nel rapporto “io-tu” che si instaura materialmente per recuperare l’umanità smarrita in Dio, il contatto fisico gioca un ruolo fondamentale e l’amore fisico diventa anch’esso una forma di conoscenza. Si potrebbe obiettare a Feuerbach il fatto che egli si sforzi di cercare la concretezza per poi fermarsi all’umanità, senza pervenire ai singoli individui (come faranno Kierkegaard o Stirner); la risposta a questa possibile obiezione è molto semplice: se Feuerbach avesse concentrato la sua attenzione sui singoli e non sull’umanità (che comunque egli intende nel più concreto dei modi possibili), non avrebbe potuto spiegare l’oggettivazione dell’uomo in Dio. Infatti, perchè vi sia un’oggettivazione in qualcosa di infinito (Dio), è necessario che ad oggettivarsi sia qualcosa di infinito, come è appunto la somma infinita delle facoltà dell’umanità, facoltà che se considerate finitamente nel singolo non potranno mai oggettivarsi in qualcosa di infinito. Non c’è poi da stupirsi se un acceso rivale della religione come è Feuerbach, finirà per dare una veste religiosa alle proprie idee: infatti, l’oggetto della sua religiosità resta sempre e comunque l’umanità concreta (mai Dio), immanente nella realtà, quasi come se l’oggetto della teologia diventasse l’umanità nel suo complesso. Le considerazioni religiose di Feuerbach si intrecciano con quelle politiche: egli sottolinea, infatti, il carattere pericolosamente conservatore della religione; in essa, l’uomo tende a diventare schiavo, a sentirsi dipendente da un’entità superiore, e uno schiavo incatenato nel “mondo delle idee” diventa inevitabilmente anche schiavo nella realtà materiale, quasi come se oltre ad essere schiavo di Dio diventasse anche schiavo di un padrone materiale. Ne consegue che la liberazione politica dell’uomo dovrà passare per l’eliminazione della religione: infatti, solo dopo la scomparsa della religione l’uomo cesserà di essere schiavo di Dio e, successivamente, dei padroni materiali. Diametralmente opposta sarà la concezione di Marx, secondo la quale ” la religione è l’oppio del popolo ” : secondo Marx, infatti, l’uomo ricorre alla religione perchè materialmente insoddisfatto e trova in essa, quasi come in una droga (“oppio”), una condizione artificiale per poter meglio sopportare la situazione materiale in cui vive. Per Marx, dunque, non è la religione che fa sì che si attui lo sfruttamento sul piano materiale (come invece crede Feuerbach), ma, al contrario, è lo sfruttamento capitalistico sul piano materiale che fa sì che l’uomo si crei, nella religione, una dimensione materiale migliore, nella quale poter continuare a vivere e a sperare. Ne consegue che se per Feuerbach per far sì che cessi l’oppressione materiale occorre abolire la religione, per Marx, invece, una volta eliminata l’oppressione, crollerà anche la religione, poichè l’uomo non avrà più bisogno di “drogarsi” per far fronte ad una situazione materiale invivibile. Si può anche fare un cenno al rapporto che intercorre tra Hegel, la Sinistra hegeliana e Marx: se Hegel vedeva i processi meramente a livello ideale, con la Sinistra hegeliana si afferma la convinzione che le idee servono per trasformare la realtà, nella convinzione che il razionale debba diventare reale; in altri termini, con la Sinistra la rivoluzione ideale diventa premessa per la rivoluzione materiale. Marx, invece, sostiene che si debba dialetticamente cambiare non il mondo delle idee (poichè, cambiate le idee, le condizioni materiali non cambiano), bensì bisogna cambiare il mondo materiale e, cambiandolo, cambieranno anche le idee. Marx non è d’accordo con quella che definisce “ideologia tedesca” (cioè con quel mondo che parte da Hegel e giunge fino alla Sinistra), poichè secondo lui le idee, di per sè, non sono in grado di cambiare le cose: al contrario, bisogna prima cambiare le cose, e poi cambieranno pure le idee; e il primo atto filosofico per costruire una “filosofia dell’avvenire” consiste nel mutare il mondo con la rivoluzione a mano armata, grazie alla quale spariranno le vecchie idee (tra cui la religione) e ne nasceranno di nuove. Ecco perchè Marx può dire che ” fino ad oggi i filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo, si tratta ora di cambiarlo ” e che ” bisogna sostituire alle armi della critica la critica delle armi “, nella convinzione che l’unica vera critica la si fa con le armi sulle piazze. Al di là delle posizioni appena tratteggiate, troviamo anche chi scorge nell’individuo la massima espressione della concretezza ed arriva a sostenere posizioni anarchiche: in questa prospettiva, troviamo le figure di MAX STIRNER (1806-1856) e MICHAIL BAKUNIN (1814-1876), accomunati dal concetto di “individualismo”; entrambi respingono tanto l’astratto spiritualismo hegeliano, quanto l’umanità di Feuerbach e la classe di Marx, ritenute anch’esse troppo astratte. Nelle filosofie di Bakunin e Stirner aleggia la convinzione che, in fin dei conti, a contare e ad aver diritti sia solo il singolo, per cui non ha senso parlare di “Stato etico” superiore ai singoli (come aveva fatto Hegel) o di “umanità” (come fa Feuerbach). Al contrario, solo il singolo individuo ha diritti ed è degno di essere indagato filosoficamente: se Bakunin si qualificò sempre come anarchico e partecipò perfino alla Prima Internazionale, Stirner, invece, non si è mai occupato di politica in senso stretto, anche se la sua filosofia ha ispirato maggiormente le ali di estrema destra per via delle posizioni accesamente individualistiche da lui propugnate. L’anarchia può infatti essere appannaggio tanto delle sinistre quanto delle destre ed è per questo che se la Sinistra, ispirandosi a Bakunin, mira all’individualismo come estrema libertà, la Destra, invece, (ispirandosi a Stirner) tende all’individualismo come superiorità del singolo sulle masse. In L’unico e la sua proprietà (1844), Stirner arriva a sostenere che ad esistere è solo l’individuo e ciò che per lui conta è, paradossalmente, solo lui stesso; tutto il resto (le cose, gli animali e perfino gli altri uomini) è solo uno strumento per l’affermazione di sè. Il mondo stesso viene concepito come strumento volto ad attuare la realizzazione del singolo. Sull’altro versante, Bakunin elabora anch’egli un anarchismo individualista, ma rimane nell’alveo dell’anarchismo di ispirazione socialista (proponendo, ad esempio, l’autorganizzazione), ma rispetto a Marx nutre molti sospetti verso la dittatura del proletariato, temendo che essa possa trasformarsi in stato autoritario. Infatti, Bakunin sostiene che bisogna abolire, anche violentemente, lo Stato, in quanto sinonimo di dominio coercitivo e di disuguaglianza; tutto ciò, portava Bakunin a privilegiare il sotto-proletariato, del tutto disorganizzato e per ciò in grado di agire spontaneamente in chiave rivoluzionaria e di rovesciare lo Stato. Marx, che nutriva profonda antipatia per Bakunin (peraltro cordialmente ricambiata), non esitò a definire utopistico tale progetto, contrapponendo ad esso il proprio, incentrato sulla dittatura del proletariato. Ma Bakunin ebbe ragione a temere una degenerazione autoritaria della dittatura del proletariato: la dittatura staliniana ne fu la conferma.
L’EVOLUZIONISMO
Il grande impulso ricevuto dallo sviluppo delle scienze tra Sette e Ottocento non interessò soltanto le scienze esatte, come la matematica, la fisica, l’astronomia e la chimica, ma anche l’ambito delle scienze della vita: a questo sviluppo delle scienze naturali è strettamente connesso uno dei dibattiti scientifici che maggiormente influirono sulla cultura filosofica ottocentesca: la discussione sulla trasformazione della specie, ovvero il dibattito sull’evoluzionismo. E quando si parla di evoluzionismo, salta subito alla mente quello formulato da Darwin, ma in realtà si tratta di un qualcosa di più generale che investe anche la politica e la sociologia: infatti, l’idea dell’evoluzione delle cose nel tempo, per cui sopravvive solo ciò che è più adatto, ha molto influito sulle concezioni politiche del tempo, soprattutto in senso moderatore, poiché emerge la tesi secondo la quale anche nella società, così come nel mondo animale, vi sia una gradualità evolutiva che permette di giustificare il riformismo socialista. Ed è però anche vero che l’idea della selezione del più adatto ha molto inciso anche sulle concezioni politiche di colore opposto: soprattutto l’estrema Destra ha finito per cogliere nelle tesi evoluzionistiche una sorta di legge del diritto del più forte, per cui ha diritto a vivere solo chi si dimostra superiore agli altri. Dalla bislacca commistione delle tesi evoluzionistiche con quelle nietzscheane del superuomo, poi, nascerà un ibrido esplosivo che porterà molti pensatori schierati sull’estrema Destra a celebrare la guerra come strumento in grado di selezionare i “superuomini”. Sul versante comunista, invece, vi sarà chi vedrà evoluzionisticamente la classe operaia come la più adatta a sopravvivere e scorgerà nella rivoluzione il solo mezzo per realizzare la selezione. Ma che cosa si intende per “evoluzionismo”? Tale concetto si basa sulla convinzione che le specie viventi non siano immobili, ma in continua trasformazione nel tempo; opposta a questa teoria troviamo il “ fissismo ” , basato invece sulla convinzione che le specie siano sempre state così come oggi le vediamo. Sostenitore di questa tesi fu Aristotele, il quale concepì le specie animali come forme costitutive della realtà metafisica che, proprio perché strutture della realtà metafisica, non possono cambiare nel tempo. Oltre al fissismo, si contrappose all’evoluzionismo pure il “ creazionismo ”: esso si distingue dal fissismo poiché, a differenza di esso, non concepisce il mondo e le specie che lo animano come eterne; viceversa, i creazionisti credono, seguendo il verbo delle Sacre scritture, che Dio abbia creato il mondo (e che dunque esso non possa essere eterno) e le specie che lo abitano, le quali, diventando strutture della realtà, restano fisse. E nel corso della storia hanno nettamente dominato la tesi fissista (la tradizione aristotelica) e quella creazionista (il cristianesimo): solo in pochi hanno timidamente avanzato tesi evoluzionistiche e tra questi merita senz’altro di essere menzionato l’antico Anassimandro. Con la nuova temperie culturale, nell’Ottocento, il fissismo e il creazionismo entrano in crisi e si fa sempre più sentire l’ipotesi evoluzionistica: già Schelling aveva messo in luce l’esistenza di una sorta di gradualità della natura, la quale si articola secondo diversi livelli e gradini. In particolare, notava Schelling, vi è una sorta di scala per cui si procede dalle forme più semplici, meramente materiali, e ci si innalza sempre più verso forme gradualmente complesse e spirituali, fino ad arrivare all’uomo. Tuttavia, questo processo restava per Schelling puramente logico e atemporale. Un altro padre del tutto involontario dell’evoluzionismo è Linneo (1707-1778), che nel Settecento ha inventato la “tassonomia” ossia la tecnica di classificazione delle classi viventi, prospettando una parentela fra le specie. Pur essendo rigorosamente fissista, egli riteneva che le specie fossero in qualche modo imparentate fra loro, a tal punto da poter ipotizzare un gigantesco clan familiare delle specie: comincia ad affiorare, seppur implicitamente, l’idea che ci debba essere un antenato comune a tutte le specie. Fu poi il francese Buffon a prospettare apertamente l’evoluzionismo. E’ poi bene ricordare l’accesa disputa sull’embriologia divampata tra coloro che sostenevano la preformazione e coloro che invece difendevano l’epigenesi: i primi erano del parere che l’embrione fosse già, in sostanza, come l’animale sviluppato, anche se infinitamente più piccolo; a loro avviso, l’embrione del cavallo altro non era se non un cavallo minuscolo che si sarebbe poi ingrandito. Secondo i sostenitori dell’epigenesi, invece, nel corso dello sviluppo embrionale si passa da un tipo di forma ad un altro, cosicchè è scorretto affermare che l’embrione del cavallo è un cavallo minuscolo; viceversa, esso non è ancora un cavallo, è un’altra forma. La tesi epigenetica, risultata vera, non è di per sé evoluzionistica, ma tuttavia innesta nello studio della biologia un’idea di trasformazione, anche se all’interno dell’individuo singolo e non delle specie. Negli anni a venire si scoprì che l’ontogenesi ricalca la filogenesi, ovvero che il processo di formazione embrionale (ontogenesi) riproduce, per sommi capi, la generazione della specie (filogenesi): il che significa esattamente che esistono fasi in cui ciascuno di noi, in embrione, è più vicino ad un pesce che non ad un uomo, quasi come se stesse ripercorrendo in sé le grandi tappe dell’evoluzione della specie. Sempre in quegli anni si sviluppò un vivace dibattito inerente alla geologia: se si ipotizza l’evoluzione delle specie, si è costretti ad ammettere che essa avvenga in tempi molto lunghi, poiché la storia umana (dal paleolitico fino ad oggi) non attesta esempi di evoluzione. Infatti, da 2500 anni, per quanto ci è testimoniato, non abbiamo notizia di cambiamento alcuno e pertanto si deve ammettere che l’evoluzione avvenga in tempi estremamente lunghi. Ciò, tuttavia, era in contrasto con i Testi Sacri, secondo cui il mondo sarebbe stato creato da Dio 4004 anni prima della nascita di Cristo: l’evoluzione sembrava dunque impossibile, a meno che non si fosse messa in dubbio la veridicità dei Testi Sacri. Anche di fronte alla scoperta dei fossili nascevano comportamenti e interpretazioni ambigue: c’era chi, sulle orme di Aristotele, concepiva le conchiglie fossilizzate come errore di riproduzione dei pesci e non come esseri viventi rimasti intrappolati; vi era poi anche chi, pur riconoscendo che si trattasse di forme animali, sosteneva che fossero animali non ancora scoperti e un’ancora di salvezza era rappresentata dal diluvio universale, che permetteva di dire che, nonostante Dio avesse creato tutte le specie animali, molte di esse non eran riuscite a salire sull’arca di Noè e per questo eran sparite. Relativamente alla questione dei fossili, è molto interessante il dibattito intrapreso tra i trasformisti e i catastrofisti nel tentativo di spiegare la conformazione geologica della terra: secondo la tesi catastrofica, le imponenti modifiche che hanno coinvolto il nostro pianeta sono dovute a catastrofi naturali avvenute in un lasso di tempo assai ristretto; il che permette di spiegare il verificarsi delle trasformazioni in piena sintonia con i tempi riconosciuti dai Testi Sacri. L’ipotesi trasformista, invece, sostiene che la terra si è trasformata gradualmente e non concepisce le montagne come frutto di una catastrofe momentanea (come fa invece l’ipotesi catastrofica), ma come il risultato di un lento processo avvenuto, in condizioni tranquille, nel corso di millenni. Sempre i trasformisti settecenteschi (tra cui ricordiamo Buffon, Maupertuis, La Mettrie, Holbach, Diderot) erano del parere che gli esseri viventi avessero subito un processo di progressiva modificazione. Le posizioni dei trasformisti offrirono un notevole supporto alle tesi evoluzionistiche, come del resto lo offrì pure la nascita dell’anatomia comparata. Essa cominciava a scoprire che anche animali diversissimi tra loro presentano analogie ragguardevoli: mettendo a confronto un uomo ed un uccello, si può notare come, pur essendo radicalmente differente la struttura anatomica, esistano strutture di fondo analoghe come, per esempio, le braccia e le ali. Si intuisce facilmente come l’anatomia comparata abbia aperto spiragli verso l’evoluzionismo: in particolare, essa è una riproposizione della teoria di Goethe secondo la quale esisterebbe un essere comune di cui tutti gli altri sono derivati. Con tutte queste considerazioni sulle spalle, il primo a dare una formulazione organica dell’evoluzionismo fu Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), autore di una “Filosofia zoologica” (1809). Ciò che distingue l’evoluzionismo lamarckiano da quello darwiniano sono, essenzialmente, i diversi meccanismi secondo cui esso avverrebbe secondo i due pensatori: in particolare, Lamarck basa la propria teoria sui concetti di uso e non-uso. A suo avviso, le giraffe si sarebbero evolute da animali a loro simili ma aventi il collo normale; in altri termini, un tempo le giraffe non avrebbero avuto il collo lungo, ma poi, in virtù di una modificazione ambientale, gli alberi sarebbero diventati più alti e per potersi cibare delle foglie le giraffe dovevano sforzarsi allungando il collo: esso sarebbe stato sottoposto ad un graduale allungamento dovuto all’uso e tale trasformazione si sarebbe trasferita, per via ereditaria, di generazione in generazione. Secondo la teoria lamarckiana, sono gli animali a doversi adattare all’ambiente compiendo sforzi immani: tuttavia il punto debole del ragionamento di Lamarck consiste nel fatto che l’esperienza insegna che i caratteri acquisiti (come l’allungamento del collo) non si possono trasmettere ereditariamente, per cui se la giraffa, a furia di sforzare il collo, lo allunga, ciononostante i suoi figli nasceranno col collo normale, proprio come un uomo che abbia acquisito una massa muscolare ingente non potrà trasmetterla ereditariamente al figlio. E’ curioso notare come nell’Unione Sovietica fu adottata una forma di neo-lamarckismo e venne respinto il darwinismo: l’idea dello sforzo per adattarsi all’ambiente suggeriva una maggiore dignità dell’individuo che si deve adattare all’ambiente senza viverlo passivamente. L’evoluzionismo di Charles Darwin (1809-1882) infatti, pur identico nella sostanza, si differenzia da quello lamarckiano nelle modalità in cui avviene: non vi è assolutamente lo sforzo (ipotizzato da Lamarck) per adattarsi all’ambiente. Darwin ebbe un’intensa esperienza di naturalista girando per il mondo e potè notare come certi uccelli molto simili fra loro avevano sviluppato caratteristiche molto diverse (ad esempio, il becco adatto per nutrirsi di determinati insetti presenti nell’ambiente in cui vivevano) a seconda dei contesti ambientali in cui vivevano. Sul piano teorico, poi, egli sapeva che molti allevatori riescono ad ottenere, attraverso un processo di selezione, delle razze nuove; inoltre, aveva sotto gli occhi le teorie elaborate da Malthus secondo cui le risorse ambientali sono limitate e per ciò nasce una lotta per la sopravvivenza che dà la meglio ai più adatti. E grazie a queste tre considerazioni (selezione, lotta, uccelli con modificazioni funzionali al loro modo di vivere) diede la sua celebre formulazione dell’evoluzionismo, sostenendo che le specie evolvono non per adattamento all’ambiente (non è cioè l’ambiente che le stimola ad adattarsi, come credeva Lamarck), ma per selezione: l’ambiente seleziona gli individui più adatti ed elimina quelli inadatti; così la giraffa col collo corto, inadatta a cibarsi delle foglie poste in alto, e la gazzella lenta, facile preda del leone, non ce la fanno a sopravvivere e hanno la meglio le giraffe col collo lungo e le gazzelle veloci. Non è che, in virtù dell’uso, il collo della giraffa si allunga o le gambe della gazzella diventano veloci e nasceranno gazzelle più veloci e giraffe col collo più lungo; viceversa, per errori casuali di copiatura del DNA nascono giraffe con il collo più lungo delle altre e si rivelano più adatte per la sopravvivenza, per cui si riproducono e nascono nuove giraffe col collo lungo, mentre quelle dal collo corto tendono ad essere spazzate via dalla selezione. Naturalmente Darwin non aveva ancora queste nozioni di genetica e si limitava perciò a parlare “errori” per via dei quali gli individui non nascono del tutto identici ai genitori: questi “errori”, che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono dannosi, talvolta possono anche rivelarsi utili, come nel caso del collo lungo delle giraffe. Se lo slancio ipotizzato da Lamarck per adattarsi all’ambiente era di forte sapore romantico, il discorso di Darwin si inserisce pienamente nel quadro positivistico e materialista: infatti, nell’evoluzione darwiniana non vi è nulla di finalistico e, a rigore, non si dovrebbe nemmeno parlare di “evoluzionismo”, giacchè tale nozione presuppone che gli individui cambino in meglio, come se dovessero realizzare un fine. Al contrario, secondo Darwin, si tratta di una forma di selezione assolutamente necessaria e meccanica, indipendente da ogni forma di intelligenza della natura: se nel caso degli allevatori, la selezione avveniva in base alla volontà degli allevatori stessi, nel caso della natura, invece, non si muove verso fini prestabiliti ma secondo una meccanicità rigorosa. Darwin riprende le tesi di Malthus, ma non si sbilancia sul terreno sociale: si limita a parlare di evoluzione biologica, di animali e dell’uomo come animale, tant’è che fu messo alla berlina dalla Chiesa perché faceva derivare l’uomo dalla scimmia (“ nella sua arroganza l’uomo attribuisce la propria origine a un piano divino;io credo più umile e verosimile vederci creati dagli animali ” egli disse). Quando poi il darwinismo sarà impiegato come chiave di lettura della società darà vita al darwinismo sociale, anche grazie alla mediazione di Spencer, il quale arriverà ad estendere il discorso di Darwin all’intera realtà. A cavallo tra Ottocento e Novecento un cattolico, Teilhard de Chardin, interpretò la prospettiva evoluzionistica come processo governato da Dio, dando vita ad una specie di “evoluzionismo finalistico” che però non fu accettato dalla Chiesa (che anzi lo condannò severamente). Sarà invece Bergson ad accettare (con il concetto di “evoluzione creatrice”) l’evoluzionismo e a depurarlo dagli elementi di meccanicismo e anche da quelli finalistici. Una domanda curiosa che sorge spontanea è se l’evoluzionismo sia una dottrina scientifica: nel Novecento c’è stato chi ha detto che una teoria, per essere scientifica, deve essere verificabile e chi, come Popper, ha invece sostenuto che deve essere falsificabile; ma la cosa curiosa è che l’evoluzionismo non è così facilmente verificabile o falsificabile (ed è su questo che fanno ancora oggi leva i suoi oppositori) come possono esserlo le leggi individuate da Galileo. La paleontologia dovrebbe gettar luce in merito, ma nella maggior parte dei casi non ci riesce per via dell’incredibile difficoltà che implica la ricostruzione dell’albero genealogico. E poi vi è un aspetto teorico imprescindibile: oltre all’evoluzione per cui la giraffa si trova oggi ad avere il collo lungo, vi è anche un evoluzionismo più complesso, detto “macroevoluzionismo”, con il quale un organo che aveva una determinata funzione è passato, nel tempo, a svolgere mansioni di tutt’altro genere. Classico esempio di macroevoluzionismo è il passaggio da pesci ad esseri dotati di polmoni: i polmoni non derivano dalle branchie e perchè mai, del resto, una mutazione di tal genere dovrebbe essere selezionata? E’ forse utile? Le possibili risposte sono due: o si riconosce che le mutazioni non avvengono così gradualmente come sempre si è pensato, ma, viceversa, sono piuttosto rapide; oppure si ammette il finalismo e si riconosce che le fasi intermedie dell’evoluzionismo possano anche essere dannose, ma comunque in vista del risultato finale a cui si mira.
POSITIVISMO
IL POSITIVISMO
Affermatosi già nella prima metà dell’Ottocento, ma sviluppatosi irresistibilmente soprattutto nella seconda, il Positivismo è un movimento culturale che, nato presso un gruppo elitario di intellettuali, tende sempre più a prendere piede presso la borghesia, a tal punto da caratterizzarsi come corrente di pensiero “di massa”; ma proprio quando comincerà a diventare un modo di pensare comune presso gli strati sociali più bassi, il popolo degli intellettuali l’avrà già abbandonato, preferendogli l’irrazionalismo e il decadentismo. Il paradosso di questa ambiguità culturale per cui le masse pensano in modo positivistico e gli intellettuali prediligono l’irrazionalismo verrà a galla nel concetto di razza, affermatosi prepotentemente nella seconda metà dell’Ottocento: si tenterà infatti di spiegare in modo assolutamente razionale (ricorrendo alla biologia) un qualcosa come la “razza” che, in realtà, sfugge ad ogni sorta di razionalità, e anzi si oppone ad essa. I tre eroi del pensiero positivistico sono il francese Auguste Comte (1798-1857) e gli inglesi John Stuart Mill (1806-1873) e Herbert Spencer (1820-1903): i Paesi d’origine sono particolarmente significativi se teniamo conto che l’uno è all’avanguardia sul piano industriale (l’Inghilterra) e l’altro sul piano dello sviluppo scientifico (la Francia) e il Positivismo altro non è se non la filosofia della rivoluzione industriale e della scienza. In particolare, nella Francia napoleonica era fiorita la scuola politecnica, caratterizzata da un orientamento spiccatamente tecnico-scientifico: in sostituzione alla Sorbona, che aveva il suo asse portante nell’insegnamento di teologia, era stata fondata l’Ecole normale e, in un secondo tempo, fu istituita l’Ecole politechnique, concernente le discipline fisiche. A testimonianza dei grandi successi ottenuti dalle scienze, si possono addurre parecchi esempi: il piemontese Joseph-Louis Lagrange (1736-1818) si era servito (in Meccanica analitica , del 1811) del calcolo infinitesimale per attuare una compiuta matematizzazione della meccanica, riformulando i concetti di velocità, accelerazione, forza e via discorrendo nei termini di derivate e integrali di funzioni; grandi conquiste furono anche realizzate da Joseph Fourier (1768-1830), il quale diede una formulazione matematica, attraverso equazioni e funzioni di coordinate spaziali e temporali, della propagazione del calore attraverso i corpi e il vuoto. La termodinamica, come calcolo della quantità di lavoro ottenibile da determinate quantità di calore, ricevette una sua prima formulazione da parte di Sadi Carnot (1796-1832), il quale individuò il presupposto del cosiddetto “primo principio della termodinamica”, ovvero il fatto che la trasformazione del calore in energia meccanica comporta una dispersione termica. Sul concetto di corrente elettrica come quantità misurabile, André-Marie Ampère (1775-1836) pose i fondamenti dell’elettrodinamica con la sua Teoria dei fenomeni elettrodinamici (1828). Particolarmente interessante e significativa, poi, è la figura di Pierre Simon de Laplace (1749-1827), il quale (in Esposizione del sistema del mondo , del 1796) elaborò, parallelamente a Kant, l’ipotesi dell’origine del sistema solare a partire da una nebulosa primitiva; alla base della sua cosmologia, basata sulla non-necessità di ricorrere all’ipotesi di un Dio che intervenga nel mondo, vi è una concezione rigidamente meccanicistica, secondo la quale ogni stato o evento dell’universo è conseguenza di stati ed eventi precedenti e, a sua volta, causa di quelli successivi; sicchè se si conoscesse lo stato di materia nell’universo in un dato momento, si potrebbero ricostruire meccanicamente tutti i momenti successivi e precedenti della materia. Ma Laplace è anche stato il fondatore moderno del calcolo probabilistico, il che sembrerebbe una contraddizione: come è possibile che, dopo aver sostenuto che tutto procede secondo il più rigido meccanicismo, egli ripieghi (in Teoria analitica delle probabilità , del 1812) su un calcolo basato non sulla certezza ma sulla probabilità? Tutto si spiega se teniamo presente che il meccanicismo e la conoscenza impeccabile che ne dovrebbe derivare funzionerebbe solo se fossimo dotati di una mente super-potente in grado di raccogliere e contenere tutti i dati possibili sullo stato della materia; ed è in assenza di questo strumento che bisogna accontentarsi non di verità inconfutabili, ma di probabilità. In altri termini, la necessità di formulare previsioni probabili dipende esclusivamente dall’ignoranza dei dati necessari per una previsione certa. Molto diverso sarà l’atteggiamento che assumerà su queste questioni il fisico novecentesco Heisenberg, il quale elaborò il “principio di indeterminazione”: esso prescrive che non si può calcolare contemporaneamente con precisione sia la posizione sia lo stato di movimento di una data particella. Ne consegue che se per Laplace tutto avviene in maniera rigorosamente meccanicistica ma si deve ricorrere al calcolo probabilistico perché non si hanno a disposizione strumenti adatti, per Heisenberg, invece, è assolutamente impossibile determinare insieme i due stati (posizione e movimento), indipendentemente dalle nostre facoltà. E Laplace, con la sua esasperata fiducia nel determinismo e nella scienza, rappresenta il modello positivistico e la formulazione più compiuta del meccanicismo come forma di conoscenza certa; è da queste considerazioni di carattere scientifico che muove i suoi passi il Positivismo, così battezzato da Comte (anche se il termine fu per la prima volta impiegato da Saint-Simon nel Catechismo degli industriali , del 1822). Il termine “Positivismo” viene con Comte a rivestire diversi significati, il che però non esclude la loro sostanziale convergenza: la polisemia del termine “positivo” non esprime altro che le differenti valenze, miranti tuttavia ad un unico scopo, del pensiero positivistico. In Discorso sullo spirito positivo (1844) Comte scrive che, nella sua accezione più antica e comune, “ la parola positivo designa il reale, in opposizione al chimerico ” , con la certezza (e per molti versi quasi l’illusione) che vi siano dati immediati assolutamente certi forniti dall’esperienza. Non a caso, il termine “positivo” deriva dal latino “ positum ”, participio passato del verbo porre e pertanto fa riferimento ai dati sensibili immediati, quelli contro i quali, nella Fenomenologia dello spirito , Hegel ci aveva messo in guardia, facendo notare come la certezza sensibile, ovvero il dato di fatto, se scavato un po’ più in profondità, è tutt’altro che una certezza. Quando percepisco una cosa, la mente non ha ancora cominciato a lavorarci sopra (e quindi non mi ha ancora potuto ingannare) e dunque parrebbe essere una vera e propria certezza. Tuttavia, fa notare Hegel, quando percepisco qualcosa, non posso ancora dire che percepisco una penna o una matita, ad esempio, ma devo limitarmi a dire che percepisco “un questo”, ovvero una singola cosa non meglio identificata: dire che percepisco una penna significa fare un passo avanti, significa inquadrare con l’intelletto quel qualcosa in una categoria. Potrò dire, per restare nella certezza sensibile, che percepisco “un questo” e nulla più: se ne evince che la conoscenza che in apparenza era la più solida ricca, si rivela invece, se meglio analizzata, esattamente il contrario, una vuota percezione. Ma i positivisti non sono affatto d’accordo con Hegel, e anzi vogliono porsi come recupero della scienza intellettuale illuministica, e non accettano la “banale” razionalità hegeliana. Nell’ambiente positivistico aleggia la convinzione che l’unico sapere valido sia quello scientifico e la scienza in questione è quella di matrice galileiana e newtoniana. Galileo stesso, del resto, aveva sottolineato come ci si dovesse occupare degli oggetti indagabili con certezza, rinunciando all’indagine di quegli aspetti della realtà non investigabili con altrettanto rigore: e i Positivisti, seguendo alla lettera l’insegnamento galileiano, dirigono le loro indagini sull’unico sapere certo possibile: la scienza, basata sui dati di fatto. Pertanto nel Positivismo è costante la fede (respinta da Hegel) nel dato di fatto, e proprio in virtù di questa fede si caratterizza per essere, in qualche misura, una filosofia un po’ ingenua e pronta ad accettare acriticamente il sapere scientifico. Ma il termine “positivo”, precisa Comte, designa anche il contrasto tra utile ed inutile: la filosofia positivistica, egli dice, deve essere volta “ al miglioramento continuo della nostra vera condizione, individuale o collettiva, invece che alla vana soddisfazione di una sterile curiosità ” . Con queste considerazioni, Comte riprende l’idea baconiana secondo cui “sapere è potere”, ovvero è del parere che un sapere, per essere degno di tale nome, debba dare certezze e che le uniche certezze conquistabili siano quelle della scienza (in questo, Comte rivela una certa adesione alle tesi cartesiane). Positivo, dunque, sarà anche ciò che è preciso e non vago: si dovranno pertanto rifiutare in modo sistematico tutti i concetti vaghi, che significano tutto e il contrario di tutto; ed era stato proprio Bacone stesso a mettere in luce come uno dei maggiori rischi per la conoscenza umana sia la vaghezza di certi termini del linguaggio comune. Infine, in una quinta accezione, il termine “positivo” viene da Comte contrapposto a quello “negativo”, facendo riferimento ad una forte valenza sociale: il compito fondamentale della filosofia, secondo il filosofo francese, è quello di organizzare la società e non di distruggerla, come credono altre correnti filosofiche. Anche in questo si può scorgere una netta antitesi rispetto all’hegelismo dilagante in quegli anni: se alcuni pensatori (Marx ed Engels) avevano reagito alle eccessive astrazioni di Hegel riducendo la dialettica ad un ambito meramente materiale, e altri (Schopenhauer in primo luogo) si erano opposti al panlogismo arrivando paradossalmente a negare ogni valore conoscitivo alla scienza, i Positivisti, dal canto loro, rivendicano il primato della scienza; il loro atteggiamento tende addirittura a sfumare nello “ scientismo ”, ossia nella convinzione che la scienza sia l’unico sapere valido. Naturalmente, non si tratta dell’atteggiamento scientifico di chi riconosce la fondamentale importanza della scienza, pur ammettendo altre forme di sapere: per i Positivisti l’unica forma di sapere è inequivocabilmente la scienza. Proprio in questo risiede l’opposizione positivistica a tutte le filosofie romantiche maturate in quegli anni e la forte simpatia per l’Illuminismo e per il suo interessamento per le conoscenze utili e precise. Tuttavia, vi è una differenza nettissima: sia l’Illuminismo sia il Positivismo sono espressioni filosofiche di quella borghesia tutta affaccendata nella produzione industriale e scientifica ( L’Enciclopedia degli illuministi si configurava, per molti aspetti, come una raccolta di dati tecini), tuttavia dal 5° significato (Positivo = organizzazione della società) del termine “Positivo” scaturisce l’inconciliabilità dei due movimenti. L’Illuminismo, infatti, era una filosofia radicalmente critica e rivoluzionaria, sempre pronta a mettere in discussione la società presente (e la Rivoluzione Francese ne è l’esempio lampante); viceversa, il Positivismo è funzionale alla società cui è contemporaneo, non vuole criticarla per guardare al futuro. Ecco perché Comte è, contemporaneamente, conservatore in politica e progressista sul piano scientifico: egli è il portavoce della borghesia del suo tempo, che dopo aver realizzato la sua rivoluzione, si era cristallizzata nel conservatorismo e nulla desiderava più del mantenimento delle forme politiche in vigore. In altri termini, tutte e due sono filosofie della borghesia, ma la borghesia del Settecento è, marxianamente, rivoluzionaria e interessata a spodestare l’aristocrazia, mentre la borghesia dell’Ottocento, realizzata quella rivoluzione tanto agognata e salita al potere, ha perso ogni spinta rivoluzionaria. E la condizione materiale della borghesia si riflette sulle filosofie che ne esprimono i valori: l’Illuminismo è rivoluzionario, il Positivismo è un illuminismo conservatore, che accetta acriticamente la società esistente (questo vale soprattutto per Comte). Merita di essere meglio analizzato il rapporto con le filosofie romantiche: quando Comte asserisce che il Positivismo è affermazione del reale in opposizione al chimerico, il chimerico in questione è proprio quello delle filosofie romantiche; tuttavia, nonostante l’accesa intenzione di distaccarserne, il Positivismo è pur sempre un figlio dell’era romantica e lo si può evincere dalla fede costante nell’Assoluto, inteso non come l’avevano inteso (in modo metafisico) Fichte, Schelling e Hegel; al contrario, l’Assoluto a cui aspirano i Positivisti è la scienza, che, non a caso, viene da loro assolutizzata e tende a scivolare nello scientismo che, come la religione, finisce per essere una fede. Resta da chiedersi quale posto occupi per i Positivisti la filosofia: avendo vivamente sostenuto che all’infuori della scienza non vi è vera conoscenza, pare che essi siano costretti dal loro stesso pensiero a sancire il rifiuto della filosofia in quanto sapere non scientifico. Il Positivismo in generale, sotto questo profilo, è una filosofia, per così dire, suicida, giacchè, nel proclamare la scienza unica forma di sapere, non fa altro che delegittimare il sapere filosofico. In realtà, quasi tutti i Positivisti, chi più e chi meno, riconoscono qualche campo di indagine alla disciplina filosofica (campo che varia da pensatore a pensatore), anche se, generalmente, si tratta di un margine piuttosto ristretto e subordinato alla scienza, di cui finisce per essere un completamento. Gli atteggiamenti adottati in merito dai Positivisti, sebbene piuttosto variegati, possono essere considerati tre. Il primo è quello proposto da Comte, secondo cui la filosofia altro non è se non una classificazione e una storia della scienza (ed è proprio ciò che egli fa nei suoi scritti), con l’inevitabile conseguenza che la filosofia si riduce ad epistemologia (studio della scienza e riflessione su di essa). E’ una concezione piuttosto riduttiva della filosofia, ma tuttavia si mantiene nell’alveo della tradizione platonico-aristotelica: ad esempio, se la matematica lavora coi numeri, spetta alla filosofia indagare sulla loro essenza. Del secondo atteggiamento è vessillifero John Stuart Mill: si tratta di un atteggiamento abbastanza simile a quello di Comte, ma comunque caratterizzato da una maggiore attenzione per i problemi logico-metodologici: la filosofia viene cioè ridotta a pura logica e metodologia, ovvero è tenuta a riflettere sui metodi e sulla logica dell’opera scientifica (e non è un caso che la principale opera di Mill si intitoli Logica ). Il terzo ed ultimo atteggiamento, proposto da Spencer, è quello che più di tutti dà peso alla filosofia, ma che tende anche di più a ridurla a scienza: in definitiva, per Spencer e per gli altri Positivisti che la pensano come lui, la filosofia è una specie di super-scienza; ciascuno di noi, infatti, ha le sue esperienze quotidiane e tende a generalizzarle per trarne delle regole di comportamento (e la scienza fa la stessa cosa, in maniera sistematica, per quel che riguarda la natura), ma poi, al di là delle leggi relativamente generali, è possibile individuare leggi generalissime che non valgono per un campo della realtà piuttosto che per un altro, ma, viceversa, valgono per tutta quanta la realtà. Proprio di queste leggi generalissime, valide per l’intera realtà, si occupa la filosofia. E proprio in virtù di questa concezione, Spencer e quelli del suo seguito tendono ad essere riduzionisti, ovvero a nutrire la convinzione che tutte le scienze siano riconducibile ad una sola scienza, la filosofia. Sono riduzionisti, in altre parole, perchè nutrono la convinzione che vi siano leggi generalissime valide per ogni realtà di cui le leggi studiate dalla scienza sono derivazioni particolari, come se, in ultima istanza, tutte le scienze fossero derivazioni particolari della super-scienza filosofia. La filosofia come la intendono questi pensatori , pertanto, svetta tra tutti i saperi, ma, qualitativamente, non è diversa dalle altre scienze. Con Spencer, poi, affiora l’elemento che forse più contraddistingue il Positivismo rispetto al razionalismo seicentesco e settecentesco: se è vero che in comune hanno il marcato interesse per le scienze (a tal punto da arrivare a considerarle spesso come unico sapere valido), tuttavia è diverso il tipo di scienza a cui fanno appello. Infatti, quando la filosofia prende come modello di indagine la scienza, tende sempre a scegliere quella più in voga al momento, cosicchè se ai suoi tempi Platone si era servito della scienza medica di matrice ippocratea, i filosofi del Seicento e del settecento, invece, avevano preferito la fisica matematizzata di stampo galileiano e newtoniano, e il “Discorso sul metodo” di Cartesio ne è una prova lampante, poichè il pensatore francese afferma esplicitamente di aver ravvisato nella matematica il vero modello conoscitivo. Spencer e i Positivisti, dal canto loro, vivono in un’epoca in cui sulla fisica newtoniana è prevalsa la biologia, maggiormente in sintonia con gli slanci vitalistici tipici dell’età romantica: ecco perchè, a differenza dell’Illuminismo e del razionalismo, il Positivismo sceglie la biologia e, in particolare, Spencer estende l’evoluzionismo biologico all’intera realtà. Finora abbiamo concentrato la nostra attenzione sul panorama positivistico francese; ma, come accennato, anche al di là della Manica la nuova corrente di pensiero andava sempre più affermandosi, tuttavia con un’enorme differenza: in Inghilterra il passaggio da Illuminismo a Positivismo è, più che da ogni altra parte, diretto. Certo, anche lì si era assistito al sorgere del movimento romantico, ma non in modo così radicale come sul continente: in tutta l’Europa continentale, infatti, il Romanticismo era nato come reazione all’illuminismo e al suo culto della ragione e, a sua volta, il Positivismo si era, hegelianamente, presentato come “negazione della negazione”, ossia come ripristino dell’Illuminismo ad un livello superiore (benchè, in realtà, l’Illuminismo fosse per molti aspetti, poc’anzi illustrati, superiore al Positivismo). Tutto ciò in Inghilterra è vero solo in parte, dove è come se dall’Illuminismo si saltasse direttamente al Positivismo, bruciando la tappa romantica. Questa continuità di pensiero che in Inghilterra lega le due età, quella dei lumi della ragione con quella dello scientismo, può anche essere scorta nelle vicende familiari di John Stuart Mill: suo padre, James Mill (1773-1836), vive a cavallo tra il Settecento e l’Ottoccento ed elabora una teoria della conoscenza come associazione di idee che inciderà in modo determinante sul pensiero del figlio. Un altro grande pensatore di quegli anni, Jeremy Bentham (1748-1832), dà una piena formulazione di quello che sarà uno dei capisaldi del Positivismo: l’ utilitarismo . Esso altro non è se non quella tesi etico-politica basata sull’idea che il fondamentale valore etico da perseguire sia la ricerca della felicità, intesa come somma dei piaceri; per raggiungerla, occorre effettuare, in una maniera che evoca l’antico epicureismo, un calcolo dei piaceri. Ma l’utilitarismo non implica puramente la ricerca del piacere immediato (ed è in questo che si distingue dall’edonismo), bensì sostiene la ricerca del piacere differito e, soprattutto, la felicità come somma di piaceri non viene intesa su un piano esclusivamente individuale, ma, al contrario, come felicità collettiva, destinata al maggior numero possibile di persone (quest’idea era vivissima anche nell’Illuminismo di Beccaria, ad esempio). In altre parole, si deve cercare di agire in maniera tale da promuovere la felicità massima per il maggior numero possibile di uomini ed è per questo che i sostenitori dell’utilitarismo si rifanno, oltrechè all’Illuminismo, al liberalismo. Si tratta però di un liberalismo concepito in maniera diversa da autore ad autore: il pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834), dopo aver sostenuto, a seguito di una lucida analisi, il crescente divario in atto tra la crescita demografica e quella delle risorse per la sussistenza, si faceva portavoce di un liberalismo radicale e sfrenato, secondo cui ogni singolo individuo è e deve essere libero e privo di assistenza e solidarietà, in modo tale che a prevalere siano i più forti, a soccombere i più deboli. Negli stessi anni di Malthus, un altro celebre pensatore, David Ricardo (1772-1823), era in disaccordo con l’estremismo del pastore anglicano e metteva in forse le teorie eccessivamente liberiste di Adam Smith: “sarà poi vero che esiste quella mano invisibile (ipotizzata da Smith) che, anche se ciascuno persegue legittimamente i propri interessi personali, alla fine aiuta tutti?” sembra chiedersi Ricardo. Da ultimo, John Stuart Mill presenta il liberalismo sotto una luce più progressista (e più umana), pur senza accostarsi al socialismo (che anzi criticherà aspramente): Mill nutre, infatti, la convinzione che si debbano orientare il mercato e la società in una direzione che possa realizzare la maggiore felicità possibile per il maggior numero di uomini (e le tesi di Malthus non spingono certo in tale direzione). In altre parole, l’economia, secondo i dettami del liberismo più genuino, va lasciata al suo corso affinchè produca il più possibile; ma poi, in ambito politico, bisogna invece intervenire per realizzare una più equa distribuzione delle ricchezze.
NOVECENTO
INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DEL NOVECENTO
LO SPIRITUALISMO FRANCESE
Lo “spiritualismo” francese è una filosofia maturata a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento che tende a dare grande importanza alla vita spirituale dell’uomo, cercando di sottolinearne la specificità rispetto a quella materiale; ci sarà perfino chi, come Bergson (nell’ Evoluzione creatrice ), negherà ogni autonomia alla sfera materiale, riconducendola interamente a manifestazione di quella spirituale, sulla scia di quanto aveva già fatto Leibniz secoli prima. Lo spiritualismo nasce e si sviluppa soprattutto in Francia perché si tratta di una filosofia di derivazione essenzialmente cartesiana: proprio Cartesio, infatti, aveva prospettato con l’idea del “ cogito ” la ricerca della verità nell’interiorità spirituale, riducendo la materia ( “ res extensa ”) a pura e semplice estensione nello spazio priva di ogni forma di spiritualismo e vitalità. La contraddizione del pensiero cartesiano, come senz’altro si ricorderà, scaturiva dal fatto che, in definitiva, il pensatore francese non era stato in grado di spiegare in maniera convincente il rapporto tra lo spirito ( “res cogitans”) e la materia (“res extensa”), tra l’anima e il corpo, con l’inevitabile conseguenza che tutti i pensatori a lui successivi si erano sbizzarriti nel tentativo di risolvere il problema in modo migliore: c’era chi, come La Mettrie, si era sbarazzato dell’ingombrante idea di anima e dalla concezione cartesiano dell’ “animale-macchina” era direttamente passato a quello dell’ “uomo-macchina”, e chi, invece, aveva esasperato la sfera spirituale e l’indagine interiore del “cogito”. Proprio dall’attenzione per le istanze spirituali muove i suoi passi lo spiritualismo francese, che si colloca pertanto in modo critico nei confronti del meccanicismo e si inserisce bene nel contesto di quelle filosofie vitalistiche (prima fra tutte quella nietzscheana) che si opponevano al Positivismo e al suo culto acritico della ragione. Tra i numerosi pensatori che hanno aderito al nuovo movimento francese merita senz’altro di essere ricordato Émile Boutroux, che con la sua filosofia ha inciso in modo rilevante sul pensiero di Bergson: alla teoria da lui elaborata egli stesso dà il nome di “contingentismo”; alla base di essa vi è il riconoscimento di una certa contingenza all’interno dei fenomeni che avvengono nel mondo e, come sarà senz’altro noto, una cosa è contingente quando c’è ma potrebbe tranquillamente non esserci. Il nucleo dell’argomentazione di Boutroux è piuttosto semplice e fa perno su quel concetto che da sempre sta alla base del determinismo: il principio di causalità. Esso prescrive che ogni fatto sia causato in modo necessario da un altro fatto, ma Boutroux riesce a scoprire una specie di indeterminazione nella causalità: accettando il concetto di causa, infatti, siamo costretti a riconoscere causa ed effetto non siano la stessa cosa, il che vuol dire, detto in maniera molto schematica, che l’effetto non è tutto già contenuto nella causa, ma presenta qualcosa di nuovo e di differente rispetto ad essa. Il risultato di questo ragionamento è prevedibile: nel mondo, dice Boutroux, devono per forza esistere elementi di contingenza per cui gli effetti han sempre qualcosa di nuovo, che non c’era nella causa. E se Comte diceva che le leggi di una disciplina (ad esempio, la fisica) non sono riconducibili in tutto e per tutto a quelle di un’altra (ad esempio, la matematica), Boutroux ci spiega il perché, facendo notare, appunto, come l’effetto non derivi in maniera così necessaria dalla causa, ma come anzi presenti un qualcosa di contingente. Così, se è vero che diciamo che 2+3 è uguale a 5, quasi come se lo causasse in modo del tutto necessario, non ci sogneremmo mai di dire che lo sfregamento del fiammifero sia uguale all’accensione della fiamma, sebbene in effetti la fiamma venga accesa dallo sfregamento del fiammifero: questo perché l’effetto non si identifica pienamente con la causa, checchè ne pensasse Schopenhauer nella “Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”. Non è un caso che negli anni in cui Boutroux sviluppa il suo pensiero, Heisenberg elabori il principio di indeterminazione, secondo cui è impossibile determinare con rigore al tempo stesso il moto e la posizione di una particella: né Heisenberg né Boutroux mettono in dubbio l’esistenza di regolarità nel mondo e, per questo motivo, continuano a ritenere valido il principio di causalità, ma avanzano l’ipotesi che sia scorretto ridurre ogni cosa al meccanicismo, facendo considerazioni piuttosto simili, nella sostanza, a quelle fatte duemila anni prima, circa, da Epicuro con la sua teoria del “clinamen”. E del resto il rifiuto di Boutroux e di Bergson e, più in generale, degli spiritualisti francesi, non nasce da una loro ignoranza delle problematiche scientifiche, ma anzi da un’ottima conoscenza di esse, di cui colgono i limiti e le contraddizioni: si tratta, potremmo dire, di un superamento della scienza da parte di chi la conosce a fondo. Il poeta italiano Eugenio Montale si dichiarerà apertamente sostenitore della filosofia di Boutroux e, non a caso, la sua poetica cerca qua e là delle vie di fuga dall’ordine oppressivo della realtà e può essere ben rappresentata dall’immagine, tipicamente montaliana, del muro coperto da cocci di vetro (che rappresenta il limite che impedisce di attingere l’essenza più intima della realtà) che presenta qualche fessura, ovvero qualche tenue possibilità di cogliere l’essenza della realtà; in Montale è, infatti, costante l’idea di una “ maglia che non tiene ”, del muro dalle cui fessure si può sbirciare e cogliere, in modo extra-meccanicistico, la realtà più profonda, anche nei momenti più banali (quando, ad esempio, si sente l’odore dei limoni, dice Montale), che possono rivelarsi invece momenti di fuga dall’ordine soffocante.
LA FENOMENOLOGIA
La “fenomenologia” costituisce una delle principali fonti dell’esistenzialismo, tant’è che molti dei grandi pensatori esistenzialisti (Sarte e Heidegger, ad esempio) sono prima stati fenomenologici: in particolare, Heidegger è stato discepolo dell’eroe della fenomenologia, Edmund Husserl. La tesi fenomenologica formulata da Husserl parte dal recupero di alcune nozioni della tarda-scolastica, prima fra tutti l’ “intenzione”: per Ockham l’intenzione era l’atto con cui la mente si riferisce a qualcosa, per cui se penso ad un oggetto, l’atto con cui la mente si riferisce ad esso è un’intenzione, proprio come un segnale stradale si riferisce a quella precauzione che suggerisce con un’intenzione. Inoltre Husserl riprende la tradizione cartesiana (nel 1931 scrive un’opera intitolata “Meditazioni cartesiane”): fondamentalmente egli mutua dal filosofo francese l’esigenza di arrivare a costruire un sapere assolutamente certo, una filosofia come scienza. E, sotto questo profilo, Husserl ha la pretesa di costruire una filosofia che non si limiti a concetti elaborati in passato, ma che parta dai dati della realtà così come essi si manifestano e proprio per questo motivo la sua filosofia prende il nome di “fenomenologia” ( fainomenon indica appunto il manifestarsi). In questa ricerca di un’assoluta certezza, Husserl si domanda, cartesianamente, se quando ho in mano un oggetto, supponiamo una penna, vi sia qualcosa di certo. E finisce per dire che del fatto che esiste un mondo a me esterno non posso averne certezza e per questo motivo decide di sospendere il giudizio sul mondo ricorrendo al concetto di epoch , elaborato dagli antichi Scettici, che significa appunto “sospensione di giudizio”: con tale atto, Husserl, com’egli stesso afferma, mette il mondo “ tra parentesi ” perché problematico, in quanto non certo. C’è una cosa, però, dice Husserl, di cui ho certezza ed è il fatto di pensare e di avere percezioni (tattili, visive, ecc) di quel mondo messo tra parentesi, sicchè posso costruire una scienza di idee che metta fra parentesi la corrispondenza tra le idee presenti in me e il presunto mondo a me esterno. E, in un certo senso, Husserl vuole ricollocare tutta la filosofia all’interno della coscienza perché ciò gli permette di attribuire alla filosofia stessa una veste di assoluta certezza. Ma questo non toglie che nell’ambito della coscienza sussista un rapporto di intenzionalità: il soggetto percepisce idee, ma che ad esse corrisponda qualcosa in un mondo esterno viene messo tra parentesi; ma, compiuta quest’operazione e quindi escluso l’oggetto come esistente fuori di me, si crea un rapporto soggetto/oggetto nella coscienza. Infatti, quando percepisco il nero, sto percependo, in qualità di soggetto, un oggetto e non è vero, dice Husserl, che i princìpi logici e matematici sono il riflesso del funzionamento della nostra mente, come sosteneva lo “psicologismo”, secondo il quale 2 + 2 = 4 solo perché la nostra testa funziona così: non è possibile, in altri termini, che le leggi logiche e matematiche siano fondate dalla psiche umana. Un po’ come era per Platone, anche per Husserl 2 + 2 = 4 è un oggetto del pensiero ma, a differenza di Platone, per Husserl non è un oggetto esistente in modo indipendente: viceversa, l’esistenza della verità 2 + 2 = 4 risiede nel fatto che all’interno della coscienza esiste un rapporto di intenzionalità per cui quando dico 2 + 2 = 4 non mi sto muovendo fuori dall’alveo della coscienza, ma è un gioco tutto interno alla mia mente. Ma anche se tutto avviene nella mia mente, ciononostante, distinguo tra atto del pensare ( noesiV ) qualcosa dall’idea che viene pensata (noema ), nel nostro caso2+2=4. In altri termini, nel pensare sono sempre compresenti e distinti l’atto del pensare e l’oggetto di tale atto: l’uno si riferisce all’altro con un rapporto intenzionale.
L’ESISTENZIALISMO
Quando l’esistenzialismo nasce, nel Novecento, è un atteggiamento culturale a tal punto di ampia portata da investire, proprio in quanto filosofia dell’esistenza, ogni ambito della cultura del tempo e tende spesso a sfuggire alla trattazione filosofica e, talvolta, ad assumere l’aspetto di una moda letteraria. Senz’altro la fonte principale dell’esistenzialismo è il pensiero di Kierkegaard e il suo interesse per l’io come singolo, ovvero per l’io concreto, sganciato dalla nebulosa astrattezza in cui l’aveva avvolto Hegel. Del resto, osservava molto acutamente Kierkegaard, checchè ne pensi Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come umanità e spirito. L’indagine esistenzialista, pertanto, viene proiettata sull’esistenza dell’io come singolo e sul significato della vita e non è un caso che spesso tenda a slittare verso forme che esulano dal pensiero filosofico, quali la filosofia o la letteratura: del resto già Aristotele aveva fatto notare che la scienza è, per definizione, sempre scienza dell’universale, cosicchè lo studio del singolo uomo e della sua esistenza non è rigorosamente definibile, ma anzi sfugge ad ogni inquadramento intellettuale, con la conseguenza che per indagare l’esistenza del singolo occorre percorrere strade alternative. E così l’esistenzialismo di Kierkegaard, di Lutero e di Pascal provava la via religiosa, mentre quello del Novecento prova, con Sartre e Camus, quella del teatro e della letteratura, poiché il teatro, la letteratura e la religione consentono di presentare situazioni concrete ed individuali. La categoria fondamentale è, dunque, l’esistenza e non l’essenza, sicchè a contare non è ciò che l’uomo è in sé, ma ciò che l’uomo può fare di sé progettando il proprio destino: non vi è nell’uomo un’essenza che determini deterministicamente ciò che egli sarà; viceversa, l’esistenza è una navigazione nel vuoto: si è gettati nel mondo e si deve cercare di dare un senso ad un’esistenza che, priva di senso, ne è sprovvista. Altri grandi esistenzialisti del passato erano stati Pascal e Lutero, i quali si erano interessati non tanto se Dio esistesse, quanto piuttosto che senso avesse per l’esistenza dell’uomo credere in Dio. Nel Novecento, accanto agli esistenzialisti credenti e a quelli difficili da catalogare, come Heidegger (Vattimo dà di lui un’interpretazione non-religiosa), vi saranno anche esistenzialisti atei che riprenderanno le riflessioni di Kierkegaard, rimproverando però al filosofo danese e, in generale, all’esistenzialismo religioso di aver tradito l’istanza esistenzialistica originaria ricorrendo a Dio: infatti, l’esistenzialismo è tutto incentrato sulla possibilità ed essa, per essere tale, non può agganciarsi a Dio, perchè così facendo si approda al porto sicuro della fede e si tappa l’enorme falla del nulla, tipica della ricerca esistenzialista. Camus, ad esempio, insisterà vivamente sul concetto di assurdo e sull’accettazione da parte dell’uomo dell’assurdità dell’esistenza; l’uomo di Camus saprà dunque vivere fino in fondo la condizione di ineliminabile assurdità dell’esistenza, paragonata ad un’inutile fatica di Sisifo. Tuttavia, contro la critica mossa dall’esistenzialismo ateo, si può spezzare una lancia in favore di Kierkegaard, facendo notare come per lui la fede non rinneghi la matrice esistenzialista: infatti, egli non la concepisce in modo tranquillo e sereno, come un porto in cui trovar riparo; al contrario, la vive in modo drammatico e problematico (l’immagine della fede è per lui Abramo), come l’avevano vissuta Tertulliano, san Paolo, Lutero e Pascal, non in modo tranquillo e sereno come Erasmo e Tommaso. Il pensiero kierkegaardiano e, con esso, l’esistenzialismo rinasce, dopo più di mezzo secolo di oblìo, negli anni della prima guerra mondiale e non è un caso che abbia i suoi momenti d’oro subito dopo le due guerre mondiali, quando gli eventi bellici, con tutta la loro drammaticità, tendono a far nascere un vivissimo senso dell’insensatezza dell’esistenza (già peraltro sottolineato dal Dadaismo in campo artistico). Le due guerre mondiali, però, hanno lasciato un senso diverso nella coscienza della gente: la fine della prima guerra mondiale suggerisce l’idea di un crollo dei sistemi tradizionali tanto nei Paesi vincitori quanto in quelli vinti (atteggiamento che traspare benissimo da “Il tramonto dell’Occidente” di Splenger); con il secondo conflitto mondiale, invece, si assiste a genocidi sconvolgenti, mai verificatisi in passato, ma ciononostante si aprono maggiori spiragli di speranza poiché, se la prima guerra mondiale aveva chiuso tragicamente un’epoca in fin dei conti felice (la “bella époque”), con la seconda è crollato un mondo, ma il mondo in questione è quello dominato dai nazisti. All’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, alberga la speranza e la voglia di rivivere nell’animo di tutti e la stessa Resistenza, che aveva valorosamente saputo opporsi alle dittature, non aspirava solo a liberare il mondo dai fascismi, ma anche a creare una società nuova e più vivibile. E così si può dire che tra l’esistenzialismo fiorito all’indomani della prima guerra mondiale e quello sviluppatosi dopo la seconda intercorre una differenza accostabile a quella prospettata da Nietzsche tra nichilismo passivo e nichilismo attivo: come abbiam detto, l’esistenzialismo prevede la mancanza di un’essenza rigorosamente determinata nell’uomo e questo rievoca, per molti versi, l’assenza di essere prospettata da Nietzsche; dallo sgomento che nasce dal sentirsi mancare la terra sotto i piedi si origina un nichilismo passivo, che fa sì che si provi nostalgia per il passato, in cui vi erano valori saldi a cui far riferimento. Al nichilismo passivo, però, subentra quello attivo: cessato lo sgomento scaturito dall’assenza di punti di riferimento, ci si accorge che non resta che crearne di nuovi. Qualcosa di analogo vale anche per l’esistenzialismo novecentesco: è come se nel primo nichilismo, che va dalla prima guerra mondiale alla seconda, prevalesse il nichilismo passivo e pessimista, che intende l’esistenza come smarrimento dell’uomo, come “ amhcania ” ineliminabile; l’uomo è, leopardianamente, gettato nel mondo a condurre un’esistenza priva di senso e la libertà di cui egli gode è vista più come una condanna che non come un privilegio: Sartre dice, a tal proposito, che “ l’uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa” , sottolineando come si sia liberi di tutto fuorchè di scegliere se venire al mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, invece, l’esistenzialismo si colora di ottimismo e tende sempre più a leggere la possibilità come facoltà di progettare liberamente il proprio futuro. A tal proposito può essere interessante l’itinerario filosofico di Sartre fra le due guerre mondiali: negli anni successivi alla prima guerra mondiale egli scrive (nel 1938) il celebre romanzo “La nausea”, con cui esprime quel senso di disagio quasi fisico nei confronti del mondo e della sua insensatezza: in uno dei passaggi forse più famosi del libro, il protagonista, seduto in una panchina nel parco, osserva le radici contorte di un albero che si spingono nella terra senza senso alcuno e ciò gli fa cogliere tutto d’un colpo l’insensatezza dell’esistenza e gli provoca un forte senso di nausea; in un’altra parte del libro, ha un incubo ad occhi aperti: immagina delle trasformazioni anatomiche stravolgenti (un terzo occhio o la lingua che si trasforma in un insetto ripugnante). Con ciò, Sartre vuole sottolineare come siamo tutti abituati a vedere l’uomo in una sola maniera, perché ha una sua essenza che determina ciò che è; ma nel momento in cui perdiamo il senso delle cose, tutto diventa possibile e in questo periodo Sartre legge la possibilità come altamente negativa, quasi come una condanna che implica l’insensatezza del mondo: come a dire che il mondo, quando può diventare ciò che vuole, diventa una mostruosità. Negli anni della seconda guerra mondiale, più precisamente nel 1943, Sartre pubblica invece “L’essere e il nulla”, un trattato filosofico in cui compare un’immagine che chiarisce il nuovo atteggiamento sartreano nei confronti dell’insensatezza dell’esistenza: egli afferma come in un mondo e in un’esistenza privi di senso sia l’uomo a poter conferire un significato ad essi; proprio come parliamo, convenzionalmente, di “mezza luna” ma potremmo tranquillamente definirla “luna” e chiamare invece “doppia luna” quella che abitualmente chiamiamo “luna”, così possiamo dare un significato a tutte le cose del mondo, visto che esse, di per sé, non ce l’hanno. Se Sartre negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, sull’onda dei drammi bellici, non guardava con simpatia alla libertà di dare un senso al mondo, ora che la guerra sta del tutto volgendo al termine dà una svolta ottimistica al suo pensiero. A guerra ultimata, nel 1946, compone un opuscolo (al quale risponderà lo stesso Heidegger) intitolato “L’esistenzialismo è un umanismo”, con cui guarda in modo attivo alla filosofia dell’esistenza: se il mondo è caratterizzato dall’assenza di un significato e di un’essenza predeterminata, allora mi trovo a scegliere liberamente cosa diventare e quando scelgo, nota Sartre, scelgo anche per coloro che verranno al mondo dopo di me, dal momento che si sceglie sempre facendo riferimento a valori consolidati da secoli e da una miriade di persone. Ne consegue che sono quel che decido di essere, ovvero attraverso l’esistenza determino l’essenza mia, ma anche degli altri. Ecco perché se l’umanesimo ha messo, nel Cinquecento, al centro del mondo l’uomo, inteso, secondo la felice espressione sallustiana, “faber fortunae suae”, l’esistenzialismo ora rappresenta il culmine della tradizione umanistica, in quanto è l’uomo a dare un senso alla propria esistenza e al mondo stesso. Naturalmente questa nuova prospettiva sartreana è altamente ottimista, in quanto il filosofo francese è alimentato dalla speranza, tipica del dopoguerra, di ricostruire un nuovo mondo e non a caso questo è il periodo in cui Sartre è impegnatissimo politicamente nel Partito Comunista: affiora nella sua filosofia il concetto di “impegno” esistenziale e politico, che farà sì che Sartre tenti un’ibridazione tra il marxismo e l’esistenzialismo, in virtù del fatto che l’esistenzialismo, in quanto filosofia dell’esistenza, può essere innestato un po’ ovunque. Nel 1947 Heidegger pubblica la “Lettera sull’umanismo”, con la quale capovolge la prospettiva sartreana emersa in “L’esistenzialismo è un umanismo” e interpreta il compito del pensiero come impegno non per l’uomo, ma per l’essere. In questo modo, il pensatore tedesco prende le distanze dall’esistenzialismo, a cui rinfaccia di assegnare il primato a quell’ente che è l’uomo, dimenticandosi dell’essere. Ma l’uomo, dice Heidegger, è solo il “ pastore dell’essere ”, colui al quale è affidato il compito di salvaguardare e custodire nel pensiero la verità dell’essere. L’esistenzialismo risente, come abbiamo visto, dell’influenza della filosofia fenomenologica: in particolare, in Heidegger resta l’idea husserliana che la coscienza sia sempre costitutivamente intenzionale; la coscienza, in altri termini, si riferisce sempre a qualcos’altro, qualsiasi atto umano è un riferirsi a qualcosa, cosicchè pensiamo, facciamo, vogliamo sempre qualcosa. L’atteggiamento di Husserl, però, è iperclassico, porta all’esasperazione la tendenza teoretica riservata da Aristotele alla filosofia, quasi sganciandosi dal mondo (che non a caso veniva da Husserl messo tra parentesi). L’esistenzialismo, però, si trova agli antipodi rispetto alla concezione aristotelica e husserliana della filosofia come “sapere per il sapere”: infatti, la sua indagine verte sull’esistenza e quest’ultima implica l’essere immersi in quel mondo sul quale Husserl sospendeva il giudizio. Dunque Heidegger eredità la nozione husserliana di “intenzionalità”, ma respinge nettamente l’ipotesi che essa resti interna solo all’orizzonte della coscienza: ne consegue che per Heidegger il carattere intenzionale non implica tanto il tendere alle idee, quanto il tendere e il riferirsi al mondo; questo atteggiamento, proprio di Heidegger, rispecchia in realtà buona parte delle posizioni esistenzialistiche, che per lo più vedono come marginale l’aspetto teoretico, tanto caro ad Husserl, perché l’esistenza è, in primo luogo, essere nel mondo.
IL CIRCOLO DI VIENNA E IL NEOPOSITIVISMO
Il Circolo di Vienna (in tedesco “Wiener Kreis”) si propose come obiettivo l’elaborazione di una concezione scientifica del mondo: il primo nucleo del circolo si costituì a partire dal 1923, dopo l’arrivo di Moritz Schlick a Vienna in veste di professore universitario; tra i suoi membri princioali vanno ricordati Herbert Feigl, Friedrich Waismann e vari scienziati, come il matematico Hans Hahn, il fisico Philip Frank, il sociologo Otto Neurath. Nuovo impulso alla vita del Circolo fu poi dato dall’arrivo a Vienna di Rudolf Carnap e dall’iniziativa di discutere insieme il “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, che partecipò qualche volta ad alcune sedute del Circolo. Nel 1928 esso assunse il nome di “Associazione Ernst Mach”, mentre nello stesso anno veniva fondata a Berlino una parallela “Società per la filosofia scientifica”, di cui erano membri Hans Reichenbach, Richard von Mises, Carl Gustav Hempel e Hilbert. Tra i due gruppi vebnnero intrecciate relazioni che culminarono nell’organizzazione di una serie di congressi, nella fondazione della rivista “Erkenntnis” (Conoscenza), pubblicata dal 1930 al 1938 sotto la direzione congiunta di Carnap e Reichenbach, e di una collana di volumi, in cui uscirono anche opere di Carnap e di Popper. Le riunioni del Circolo a Vienna continuarono fino al 1936 e ad esse presero parte anche visitatori stranieri come Ayer (da Oxford) e Quine (dagli USA), ma fra il 1932 e il 1938, anno dell’annessione dell’Austria da parte di Hitler, quasi tutti i suoi membri emigrarono all’estero, in Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti. Qui entrarono in rapporto con filosofi americani, tra i quali Dewey e Charles W. Morris, e insieme diedero vita al progetto di una “Enciclopedia della scienza unificata”. La posizione filosofica di quanti parteciparono alle iniziative del Circolo è influenzata dalla tradizione empiristica, da Mach e dal “Tractatus” di Wittgenstein ed è stata variamente denominata: “neopositivismo” o “positivismo logico” o anche “empirismo critico” o “empirismo critico”. I caratteri generali di essa emergono nel manifesto del Circolo, che fu pubblicato nel 1929 con il titolo “La concezione scientifica del mondo”, dedicato a Schlick e sottoscritto da Hahn, Carnap e Neurath, ma redatto essenzialmente da Neurath. L’obiettivo è reagire contro la svalutazione del sapere scientifico, mostrando che la nuova immagine del mondo, costruita dalla scienza, è in grado di fornire una migliore spiegazione dei dati forniti dall’esperienza. A ciò è possibile provvedere coordinando i risultati raggiunti dalle varie scienze in modo da elaborare la scienza unificata , attraverso la ricerca di un linguaggio quotidiano. Il presupposto è che la scienza è un linguaggio ed è l’unico linguaggio dotato propriamente di significato dal punto di vista della conoscenza. In sintonia con il primo Wittgenstein, le proposizioni scientifiche sono distinte in tautologiche, proprie della matematica e della logica, e in enunciati empirici: questi ultimi sono significanti, soltanto se sono riducibili ad asserzioni elementari riguardanti i dati immediati della sensazione. Le teorie scientifiche si fondano quindi su una base empirica e vengono costruite mediante l’elaborazione di questo materiale grazie agli strumenti forniti dalla logica matematica, che per i neopositivisti è sostanzialmente quella dei “Principia mathematica” di Russell e Whitehead. Il significato di una proposizione consiste, secondo una formula introdotta da Waismann, nel metodo della sua verificazione : Schlick dice che “ la gioia di conoscere è la gioia della verificazione, l’entusiasmo di aver colto nel segno ”. Sul senso da attribuire a questa nozione di verificazione si aprirà un dibattito, soprattutto sulla rivista “Erkenntnis”, che vedrà differenziarsi le varie posizione, mentre rimarrà sostanzialmente uniforme l’accettazione di una delle conseguenze di questa impostazione generale, ovvero la dimostrazione dell’ insignificanza della metafisica tradizionale, mediante l’analisi logica delle sue proposizioni. Questa analisi, infatti, mette in luce l’inverificabilità delle proposizioni della metafisica, le quali pretendono di parlare di entità che vanno al di là di ogni esperienza possibile: tali proposizioni sono dunque prive di significato. Sotto questo profilo, dice Carnap, il linguaggio della metafisica appare soltanto come un’espressione di sentimenti e i metafisici vengono da lui paragonati a “ musicisti senza talento ”.
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
Nel febbraio del 1923 viene aperto ufficialmente a Francoforte, grazie ad una donazione privata, l’ “Institut für Sozialforschung” (Istituto per la ricerca sociale), sotto la direzione dello storico marxista Karl Grünberg. Di esso fece parte anche Max Horkheimer (Stoccarda 1895 – Norimberga 1973), che nel 1931 ne diventa a sua volta direttore. Nato nei pressi di Stoccarda da ricca famiglia ebrea, dopo aver lavorato presso l’impresa paterna, si laurea con una tesi su Kant nel 1922 a Francoforte, dove nel 1929 diventa professore di Filosofia sociale. Nel 1932 iniziano le pubblicazioni della rivista dell’Istituto, la “Zeitschrift für Sozialforschung”, alla quale collaborano anche altri filosofi del calibro di Adorno, Fromm, Marcuse e sulla quale Horkheimer pubblica diversi articoli, che saranno successivamente raccolti dopo la guerra sotto il titolo di “Teoria critica” (1968). Nel 1933, con l’avvento del nazismo, Horkheimer è espulso dall’università, l’Istituto viene chiuso e trasferisce la propria sede in Svizzera e poi, nel 1934, a New York, mentre la rivista continua le sue pubblicazioni a Parigi, fino al 1940, e successivamente negli Stati Uniti. Horkheimer stesso si trasferisce a New York e dal 1941 in California, acquistando la cittadinanza americana. Durante il soggiorno statunitense, egli pubblica in inglese l’ “Eclisse della ragione” (1947) e in tedesco la “Dialettica dell’illuminismo”, composta in collaborazione con Adorno. Nel 1950 escono, sempre negli Stati Uniti, i risultati di una ricerca collettiva dell’Istituto, sotto il titolo “Studi sulla personalità autoritaria”, ma nel frattempo Horkheimer torna in Germania per insegnare Sociologia e Filosofia all’università di Francoforte, anche se conserva la cittadinanza americana; con lui torna anche l’Istituto, soprannominato dagli studenti “Caffè Max”. Nel 1951 è nominato rettore dell’università e nel 1954 si stabilisce sul lago di Lugano, dove conclude la propria esistenza nel 1973. In primo luogo, l’Istituto si propone il ripristino del marxismo , ma tenendo conto dei profondi mutamenti della situazione storico-sociale: soprattutto, dopo la grande crisi economica divampata nel 1929, il capitalismo sembra assumere un nuovo aspetto e trasformarsi, sia nelle democrazie occidentali, sia nelle dittature di Destra, sia nell’Unione Sovietica, in capitalismo di Stato. Ciò implica che non è più possibile parlare di una struttura economica autonoma rispetto alla politica: contrariamente alla teoria di Marx, lo Stato sembra riassumere il primato rispetto alla società civile e impedire, col suo intervento diretto nella sfera economica, l’impoverimento crescente del proletariato. In questa situazione, si assiste ad una graduale perdita di impulso rivoluzionario nella classe operaia, con la conseguente sfiducia, comune agli autori della Scuola di Francoforte, nel fatto che essa possa ancora essere il motore di una trasformazione radicale della società. Ostili alla socialdemocrazia, poiché traditrice degli obiettivi rivoluzionari, ma anche alla burocratizzazione e alla bancarotta, verificatasi anche sul piano teorico, del comunismo sovietico, essi si tengono per lo più lontani dall’attività politica diretta: l’organizzazione totale della società, comune ai paesi occidentali come a quelli orientali, non è spiegabile solo attraverso la coercizione materiale a cui sarebbero sottoposti gli individui. Si tratta, invece, di individuare anche le mediazioni psicologiche e culturali che rendono possibile la costituzione del dominio sociale e, dall’altra, l’accettazione passiva di esso. A questo scopo sono dedicate le ricerche collettive dell’Istituto sul problema dell’autorità. Non scorgendo più all’orizzonte un agente sociale della rivoluzione e ritenendo ormai impossibile su questa base una previsione scientifica del crollo del capitalismo, i pensatori della Scuola di Francoforte ritornano, in qualche modo, ad un’impostazione simile a quella della sinistra hegeliana dopo la scomparsa di Hegel: infatti, essi riconoscono la discrepanza tra la realtà storica e la razionalità e, quindi, il carattere irrazionale della società esistente, rispetto alla quale il compito primario da esercitare è la critica; si tratta pertanto, attraverso un lavoro di critica, di far diventare reale ciò che è razionale. Ecco perché i pensatori della Scuola di Francoforte vogliono elaborare una teoria critica della società , in cui occupa una posizione assolutamente centrale la dialettica , concepita (sulla scia del primo Lukàcs) come metodo per la trasformazione della realtà. A differenza di Lukàcs, però, la teoria critica non viene intesa come semplice espressione della coscienza di classe, senza per questo scivolare nell’illusione opposta che l’intellettuale sia al di sopra della mischia e della lotta di classe. L’intellettuale critico non è un ripetitore delle tendenze conformistiche del proletariato e la dialettica, di cui egli si serve, è orientata ad accertare le contraddizioni esistenti, ma senza la certezza di un superamento di esse in una sintesi finale. E poi, se Marx considerava la scienza, acquisibile mediante il metodo dialettico, diversa sia dall’ideologia, sia dall’utopia, per i pensatori della Scuola di Francoforte la scienza e la tecnica sono anch’esse causa ed espressione, al tempo stesso, del dominio totale della società e quindi forme di ideologia, non nel senso di essere semplici riflessi di interessi di classe, ma in quanto esprimono le contraddizioni della società. In questa prospettiva torna dunque ad aprirsi un nuovo spazio per l’ utopia , la quale però consiste, più che nella delineazione di un programma dai contenuti positivi da perseguire e nella definizione dei caratteri della società libera del futuro, nella denuncia di ciò che è falso nel presente e nel rifiuto di esso: e così nel pensiero dialettico assume grandissimo rilievo il momento della negazione.
IL NEO-CRITICISMO TEDESCO
Già nella seconda metà dell’Ottocento si andò sviluppando negli ambienti culturali tedeschi un ritorno a Kant in funzione antipositivistica. A cavallo tra Ottocento e Novecento si andò formando un movimento d’ispirazione kantiana, definito Neocriticismo, rappresentato principalmente dalla Scuola di Marburgo, e dai grandi nomi di Cohen, Natorp, Cassirer. Contemporaneamente al Neocriticismo, e sempre ispirandosi alla filosofia di Kant, fiorì lo Storicismo tedesco, ad opera di Windelband e Rickert, massimi esponenti della Scuola di Baden. Riconducibile tanto alla Scuola di Baden, per l’attenzione alla problema ermeneutico della Storia, quanto alla Scuola di Marburgo, per l’interesse rivolto alla teoria dei valori di marca kantiana, è la filosofia di Dilthey, che, proprio per il progetto di creare una metodica delle “Scienze dello Spirito”, rappresenta un passo avanti verso la nascita del pensiero ermeneutico novecentesco, oltre ad essere importante in sé, come modello di riferimento d’ogni matura metodologia delle scienze umane e sociali che non voglia rinunciare alla mediazione filosofica. Il pensiero filosofico tra Ottocento e Novecento è caratterizzato (soprattutto in Germania, ma anche in Francia) da una serrata polemica antipositivistica, portata avanti soprattutto da due correnti filosofiche abbastanza diverse tra loro: lo spiritualismo di Lotze, Eucken, Spir, Hartmann, che adotta il metodo della riflessione interiore e non quello della costruzione dialettica, approdando verso forme di misticismo religioso, pessimismo cosmico, irrazionalismo inconscio; l’altra corrente è il neo-criticismo delle due scuole di Marburgo (Cohen, Natorp e soprattutto Cassirer) e del Baden, nelle due Università di Heidelberg e Friburgo (Windelband e Rickert). In entrambe le correnti il tentativo era quello di recuperare quei valori spirituali trascurati dal positivismo e di ribadire l’esigenza di attribuire alla filosofia un compito diverso da quello di una semplice coordinazione unitaria del sapere scientifico ammessa dal positivismo. Ma delle due correnti quella che diede i risultati più fecondi fu la seconda. Il neo-criticismo rappresenta la sistematica ripresa della filosofia kantiana, nel senso di una riflessione sui fondamenti, metodi e limiti della scienza (in seguito gli ambiti si amplieranno a storia, morale, arte, religione, linguaggio). Mentre per i positivisti l’oggettivo sono i fatti e l’apriori è sinonimo di soggettività/arbitrarietà, per i neo-criticisti l’apriori è il fondamento dell’oggettività scientifica . La scienza, cioè, non sarebbe progredita tramite l’accumulazione pura e semplice dei fatti, ma piuttosto con l’unificazione di questi fatti in ipotesi, leggi, teorie (gli elementi apriori). Compito della filosofia è appunto quello di studiare criticamente gli elementi apriori (filosofia=logica/metodologia scientifica). Il neo-criticismo non è solo contrario all’affermazione del carattere assoluto o metafisico della verità scientifica, ma è anche contrario a ogni tipo di metafisica o di integrazione metafisico-religiosa del sapere scientifico , secondo l’indirizzo dell’idealismo e dello spiritualismo. Il neo-criticismo contesta sia la metafisica della materia (positivismo e naturalismo) sia quello dello spirito (idealismo e spiritualismo). Per i neo-criticisti, Kant si è proposto anzitutto di criticare il sistema scientifico newtoniano (questo viene detto per superare l’interpretazione psicologistica allora dominante del pensiero kantiano). La filosofia critica vuole diventare la scienza delle determinazioni necessarie e universali di valore (della verità, del bene, del bello). La preoccupazione di questi neo-kantiani è quella di ridimensionare l’assoluta oggettività di ogni scienza o filosofia, valorizzando l’apporto dell’individuo concreto (storicamente determinato) alla conoscenza complessiva delle cose (della cui validità teoretica vanno poste le fondamenta gnoseologiche). In due punti il neo-criticismo di Marburgo ha corretto l’impostazione kantiana: ha eliminato il riferimento al noumeno (che lo sviluppo delle scienze esatte aveva reso obsoleto) e ha eliminato la distinzione tra sensibilità (facoltà passiva) e intelletto (facoltà attiva) . L’oggetto dell’attività scientifica è frutto dell’attività produttiva del pensiero (ad esempio, nel calcolo infinitesimale si fa nascere un ente geometrico senza alcun riferimento a dati intuitivi, ma solo attraverso operazioni logiche). Tuttavia, l’oggetto di studio della filosofia (il pensiero) non è l’attività pensante soggettiva, ma il pensato (non è possibile cogliere l’attività della coscienza, tanto è vero che i marburghesi metteranno la psicologia tra le scienze “generalizzanti”, al pari della fisica, chimica, biologia…). Il processo conoscitivo non è più l’analisi di un dato iniziale, ma l’analisi del passaggio da un oggetto indeterminato (per esempio un colore) a uno più determinato (per esempio l’onda luminosa di cui parla la fisica), attraverso un processo di sintesi che non giunge mai a compimento. Il processo/metodo è tutto, mentre l’oggetto/fatto è solo in fieri. In pratica, il neo-criticismo accetta le esigenze del positivismo di eliminare un noumeno pensabile ma non conoscibile, rifiutandone nel contempo la pretesa di determinare l’essenza delle cose mediante la scienza: l’essenza sta nel rapporto che le collega. Il neo-criticismo della Scuola di Marburgo cade però nel limite del funzionalismo o relativismo nei nessi relazionali che collegano le cose. Qualunque organizzazione sociale o qualunque enunciato teorico può essere giustificato se se ne trovano i nessi logico-coerenti. Il neo-criticismo si preoccupa soltanto di fissare i criteri di legittimità di una teoria, ma l’unico vero criterio che pone è il rifiuto di considerare possibile la conoscenza vera, esatta, sostanziale della realtà in sé (naturalmente a livello di approssimazioni sempre più vicine alla verità assoluta). Esso ammette unicamente la conoscenza della realtà che ci appare, cioè di quella che in ultima istanza siamo noi stessi a costruire. In tal modo, viene meno la possibilità di contraddire in modo assoluto una determinata teoria sulla base dei fatti. Le teorie per il neo-criticismo si contraddicono da sole quando assolutizzano i fatti, mentre restano coerenti quando mantengono i fatti nella loro relatività (rispetto ad altri fatti). La contraddizione non diventa mai per il neo-criticismo così oggettiva da determinare un ripensamento dei criteri generali di organizzazione della società o della conoscenza. Cassirer dice che “l’uomo non può sottrarsi alle condizioni di esistenza che lui stesso si è creato”, cioè l’esistenza può solo essere accettata, non può essere trasformata. “I contrari non si escludono a vicenda ma dipendono l’uno dall’altro”. L’uomo insomma, per il neo-criticismo, non può più tornare ad essere un ente di natura, che vive rapporti umani naturali, perché è costretto a pagare il prezzo della sua pretesa manipolativa del reale. L’uomo non può più comprendere la verità delle cose, perché ha di fronte a sé solo le proprie verità. “La” verità non esiste, esistono solo “le” molte verità che l’uomo si dà. Cassirer dice che l’uomo si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi a tal punto da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione. Il rapporto colla natura quindi si è irrimediabilmente perso in questa mediazione culturale artificiale creata dall’uomo. Cassirer esclude categoricamente che da una trasformazione della mediazione culturale si possa tornare a un rapporto più equilibrato dell’uomo con la natura. Gli esponenti più significativi della Scuola del Baden sono Windelband e Rickert. Ciò che accomuna le due scuole è sia il rifiuto della concezione positivistica della conoscenza come “riproduzione della realtà”, sia l’esigenza kantiana di considerare la validità della conoscenza indipendentemente dalle condizioni soggettive/psicologiche in cui la conoscenza si verifica. Tuttavia, diversamente dai marburghesi, l’attenzione di questi neo-kantiani non è volta all’indagine/formulazione di un “metodo” che spieghi l’origine del processo conoscitivo e la funzione logica del pensiero in ogni sua espressione, ma alla ricerca di una “norma/criterio” che determini la verità/falsità di un oggetto conoscitivo. Tale criterio è visto nel “valore” (donde “filosofia dei valori”), considerato indipendente dal soggetto che lo formula (Windelband p.es. è stato il primo a trattare la storia della filosofia per problemi, considerando i problemi stessi nel loro sviluppo come relativamente indipendenti dai filosofi che li pongono). WINDELBAND si pone come obiettivo quello di creare una “filosofia critica” che sia scienza delle determinazioni “necessarie e universali” del valore della “verità”, del “bene” e del “bello”. La filosofia cioè non ha per oggetto dei “giudizi di fatto” -come le scienze naturali- ma dei “giudizi di valore”, che hanno validità normativa. Come la legge naturale non è mai un principio di valutazione, così la norma non è mai un principio di spiegazione. Windelband parte da Kant, sottolineando di questi la scoperta che i principi a priori garantiscono la validità della conoscenza, il che ha distrutto definitivamente la concezione greca che credeva esterna all’uomo la realtà che permette di determinare la verità delle cose. Le categorie kantiane -dice Windelband, chiamandole col termine “valori”- sono valori necessari e universali, aventi carattere normativo indipendente dalla loro effettiva realizzazione. A differenza però dai marburghesi, Windelband e Rickert cercano di applicare questa scoperta kantiana (Kant aveva parlato di valore solo nei confronti del “bene”) non solo alla gnoseologia o al sapere fisico-matematico, ma anche all’estetica e all’etica, ovvero a tutto il mondo storico, senza contraddizione tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”, che Windelband chiama, rispettivamente, “scienze generalizzanti” o “nomotetiche” (cioè legate alle leggi, e sono la biologia, la fisica, la chimica, la matematica, ecc.) e “scienze individualizzanti” o “idiografiche” (cioè legate alla singolarità, come la filosofia e la storia). Windelband e Rickert propongono una spiegazione della storia a partire dall’interpretazione del fatto singolo e individuale, che abbia naturalmente un valore universale. Il valore quindi si configura come un a-priori, un “dover essere” (la rappresentazione “vera” come quella che deve essere pensata, l’azione “buona” come quella che deve essere compiuta, la cosa “bella” come quella che deve piacere), indipendente dall’oggetto, in relazione al soggetto, in grado di determinare la validità di qualsiasi tipo di giudizio e che la filosofia deve portare alla coscienza del soggetto. In polemica con Dilthey, Windelband e Rickert affermano l’unità del sapere umano, ovvero il rifiuto di distinguere (se non a livello metodologico) le scienze della natura da quelle della cultura/spirito. La realtà indagabile è sempre la stessa, anche se cambia il punto di vista (scientifico o storico) dal quale viene considerata. Rickert accentua però la differenza “oggettiva” dei due tipi di scienza, facendo del valore un’entità trascendente, come un essere per sé, trascendente l’attività umana. Il neo-criticismo si è diffuso in tutti i paesi, ma le manifestazioni più significative le ha trovate in Francia e soprattutto in Germania. In Italia l’esponente più importante è stato Antonio Banfi (1886-1957), che ha elaborato il “razionalismo critico”. HERMANN COHEN (1842-1918), nel suo “Sistema di filosofia”, sviluppò i presupposti metafisici del criticismo kantiano, soprattutto il concetto del noumeno, o “cosa in sé”, che avanzava una frattura tra ciò che è in se stesso e ciò che si conosce. Inoltre, la dicotomia tra “estetica” e “analitica”, che postulava una distanza non di minore momento tra ciò che si conosce mediante l’intuizione e ciò che si conosce attraverso l’intelletto, limitando successivamente l’oggetto d’intuizione a substrato materiale della conoscenza intellettiva. Nell’interpretazione di Cohen, il pensiero e l’essere sono due concetti coincidenti, tuttavia non nella maniera idealistica, che li unifica nell’Io, ma in quanto essi costituiscono l’oggettività pensabile. Strettamente collegate a quella che Cohen ha definito “logica della conoscenza pura” sono altre due scienze filosofiche teorizzate dal filosofo neokantiano: un’etica della volontà pura e un’ estetica del sentimento puro . Dal punto di vista etico, Cohen riprende il kantiano “dover essere” aggiungendo che senza “dover essere” c’è solo desiderio, negatore di ogni volontà autentica. Da Kant egli desume anche il principio etico di scorgere nell’umanità, in sé e negli altri, un fine e non un mezzo, concezione che per Cohen trova un corrispettivo filosofico-politico all’interno della “Weltanschauung” socialista. Nel Socialismo, asserisce il filosofo tedesco, l’uomo è un fine in sé, per cui è un dovere morale rispettarne la libertà personale e la dignità sociale. Tale principio egli vede a fondamento della concezione socialista: per il socialismo, egli dice, l’uomo è fine in sé, e pertanto bisogna rispettarne la libertà e la dignità. Tuttavia Cohen non accetta il socialismo d’ispirazione marxista, in quanto in contraddizione con il kantiano “regno dei fini”, cioè verso un valore etico a cui sembra tendere il mondo moderno nella sua evoluzione storica. L’esplicitazione etica del socialismo fu poi delineata ed approfondita anche da Paul Natorp (1854-1924), tra l’altro noto come esperto della filosofia di Platone e dei suoi sviluppi. Tuttavia, se la critica dei valori di Cohen e Natorp rischia di apparire anacronistica nel momento in cui rimane ancorata alla tavola di categorie etico-sociali di stretta ortodossia kantiana, ha una sua importanza decisiva se si considerano gli sviluppi di Cassirer, che fa una brillante ed originale ripresa dell’a priori del filosofo di Köenigsberg, nel senso di una presa di coscienza sull’importanza della realtà simbolica ai fini della gnoseologia, o teoria psichica della conoscenza umana. ERNST CASSIRER (1874-1945), noto come uno dei più importanti storici delle idee, va annoverato tra i principali filosofi del Novecento soprattutto grazie alle brillanti intuizioni esposte in due opere: “Concetto di sostanza e concetto di funzione” e in “Filosofia delle forme simboliche”. La scienza, dice il grande filosofo tedesco, non è capace di mostrarci l’immagine di oggettive entità di natura. Le strutture che sottostanno ai contenuti della conoscenza sono “funzioni”. In questa filosofia il linguaggio assume una sua peculiare “funzione costitutiva” degli enti della conoscenza. La dimensione linguistica non rappresenta solo una modalità di approccio comunicativo, ma organizza l’esperienza tipicamente umana della conoscenza, è anzi la stessa organizzazione del pensiero a dover fare continuamente i conti con l’attivo uso del linguaggio e delle sue dinamiche. È la dimensione linguistica che fa da tramite tra le nostre impressioni dettate dal momento e il livello dell’oggettività razionale. Questa operazione è mediata dal simbolo che svolge un suo ruolo specifico come un mezzo necessario e imprescindibile del pensiero per realizzarsi come tale. Non è un semplice agente formale che permette di veicolare, comunicandolo, un contenuto di pensiero preformato nella nostra mente, ma è lo strumento che rende possibile determinare concettualmente lo stesso contenuto. Per Cassirer l’atto di determinare concettualmente un contenuto di pensiero va di pari passo con l’atto del suo riconnotarsi in un non meglio precisato simbolo caratteristico. Dal momento che spetta al simbolo di costituire i concetti, esso determina anche l'”oggetto” della realtà spirituale. Quando con Aristotele si afferma che “l’uomo è un animale razionale”, si è certamente nel giusto. Ma l’aggettivo “razionale” richiama il sostantivo corrispondente, “ragione”, che a Cassirer sembra una parola inadeguata. L’uomo, infatti, si realizza in moltissime forme nella sua vita spirituale, nella sua cultura. La cultura non dà vita soltanto al mondo scientifico, informa di sé una civiltà multiforme, poliedrica e complessa, che crea arti, religioni, istituzioni, etc. Parimenti alla dimensione conoscitiva umana, anche qualsiasi altra forma della sua creazione spirituale è una “forma simbolica”. Per il filosofo tedesco l’uomo andrebbe a ragione definito “animale simbolico”, in tal modo correggendo l’impostazione filosofica tradizionale, sia di marca empiristica che razionalistica, che poneva principalmente l’accento sulla razionalità umana, almeno da Socrate e Platone in poi. Da questo principio si ricava che la comprensione della storia umana non può essere se non ermeneutica dei simboli, quei simboli che rendono possibile la realizzazione e l’oggettivazione della vita culturale, che costituisce una parte essenziale della più ampia vita umana. La filosofia di Cassirer, che rivaluta il simbolo anche in senso linguistico come garanzia della conoscenza, sembra anticipare il cognitivismo e la filosofia della mente che, in corrispondenza analogia con l’indagine sui sistemi informatici, viene a determinare i processi conoscitivi della mente umana tramite l’uso inconscio dei codici simbolici, in questo riconoscendo una qualche corrispondenza tra la mente e il computer, il cui funzionamento richiede un linguaggio peculiare fondato su una rete di simboli alfanumerici. L’interesse per la teoria della conoscenza, d’altra parte, si lega in Cassirer ad un forte interesse per la storia delle idee e dei fatti umani, che, se non concorre direttamente alla costruzione di una propria filosofia della storia, si intreccia con altre coeve teorie della storia, con due filosofi importanti anche per gli sviluppi successivi che ne daranno gli ermeneuti successivi: Windelband e Rickert.
LA LOTTA TRA LE PASSIONI E LA RAGIONE
ANTICHITA’
I problemi di filosofia morale, dall’antichità ad oggi, sono andati incontro a notevoli sviluppi ed evoluzioni: morale deriva dal latino mos, che significa “costume”, sicchè la filosofia morale avrà a che fare con la domanda “come devo comportarmi?”, a sua volta connessa ad un’altra questione: “che cosa è il bene? Per me? E per gli altri? E la relazione tra il bene per me e quello per gli altri?” Risulta fin da ora evidente come, per poter capire che cosa sia il bene per me, io debba preliminarmente capire chi sono io e, di conseguenza, che cosa sono gli uomini. Ne consegue che non possiamo interrogarci sulla morale se non partendo dalla filosofia in generale, soprattutto quella greca, che ha lucidamente formulato tutte le domande possibili. Ci imbattiamo subito in una radicale differenza tra la storia come magistra vitae (maestra di vita) e la filosofia come meditatio mortis, secondo l’interpretazione che dà Platone nel Fedone (60 d, e seguenti): prendendo alla lettera queste due massime, sembrerebbe che alla storia spetti il compito indubbiamente più gratificante di guida nella vita, di narrazione di ciò che è avvenuto, mentre alla filosofia toccherebbe l’ufficio più opprimente di riflettere sulla morte. Tutto ciò può essere facilmente smentito se teniamo presente la scarsa attenzione e la poca importanza riservata dagli antichi alla storia: già Aristotele – nella “Poetica” – opera una distinzione tra storici e poeti, mettendo in luce come i primi si limitino alla cronaca degli accadimenti, registrati nel loro singolare e contingente succedersi, mentre i secondi (alla pari dei filosofi) si occupano dell’universale, non di cosa accadde ad Alcibiade, ma di cosa potrebbe accadere ad uno come Alcibiade, cogliendo in tal modo i tratti eterni dell’universale umanità dell’uomo : narrano cioè le cose oia an genoito, “quali potrebbero avvenire”. Anche il filosofo si occupa dell’universale, in quanto si sforza di conoscere ciò che accomuna determinate cose, costituendone – al di là delle loro accidentali differenze individuali – il vero essere che le identifica per quelle che sono. In questa prospettiva, l’arte e la filosofia si pongono al di sopra del sapere proprio dello storico, confinato al particolare e alla banale catalogazione degli aventi. Un’analoga svalutazione della storia – forse anche più accentuata che in Aristotele – troviamo in Schopenhauer, il quale dice che gli oggetti della storia sono gli uomini e le loro imprese nel loro contesto storico, ricostruito dalla storia su un piano illustrativo; secondo il filosofo tedesco – in sintonia con Aristotele – se poesia e filosofia conoscono l’uomo in quanto tale, il filosofo coglie l’in sé di quelle cose che lo storico si limita ad elencare. Tutte queste considerazioni ci inducono a rivedere le due massime da cui siamo partiti: la storia è maestra di vita nel senso che, esibendoci il comportamento degli uomini, ci introduce alle innumerevoli difficoltà del vivere nel tempo, ma non è in grado di fornirci spiegazioni di più vasta portata. E’, in altri termini, maestra di vita nella misura in cui illustra il disagio esistenziale: dal canto suo, la filosofia è meditazione sulla morte nel senso che ha a che fare con questioni ultime e di ordine generale, tanto più che il filosofo stesso implica una morte. Infatti, questa superiorità della filosofia sulla storia e, più in generale, sul punto di vista comune è segnalata dalle grandi difficoltà che l’accesso al punto di vista filosofico implica. Questo passaggio – dal punto di vista comune a quello filosofico – comporta un autentico trauma, paragonabile a quello della conversione religiosa o del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, sicchè non è sbagliato dire che si tratta di una morte e di una rinascita: muore il vecchio (il punto di vista comune, o – per restare alla metafora della religione – il profano) e nasce il nuovo (il punto di vista filosofico, o il religioso). Il processo è pertanto accompagnato sia dai dolori della morte del vecchio sia da quelli del parto con cui viene al mondo il nuovo: questo passaggio lo troviamo per la prima volta esposto nei dialoghi platonici, il cui protagonista – Socrate – è l’ostetrico del filosofare, colui che ha assistito e coadiuvato la nascita del punto di vista filosofico, e ciò implica che egli inevitabilmente sia il becchino del punto di vista comune. Seguendo Platone, assistiamo al nascere e al crescere del filosofare, all’individuarsi e al distinguersi dei diversi punti di vista in virtù di una curiosità radicale e insoddisfatta di ciò che via via si trova a sapere. Viene in tal modo a delinearsi una netta separazione tra le opinioni (doxai) – proprie del punto di vista comune – e la scienza (episthmh) – propria del sapere filosofico: le prime sono suscettibili di essere vere o false, mentre la seconda è solidamente radicata nel vero. Nel Teeteto (180 e) Socrate si domanda: “chiami tu pensare quel che chiamo io? Un discorso che fra sé e sé l’anima tiene su ciò che esamina […]. Altro non è l’anima se non un discorrere”. Ciascuno di noi, secondo Platone, quando pensa è come se dialogasse tra sé e sé: ed è per questa ragione che il filosofo ateniese ravvisa nel dialogo la forma più adatta per fare filosofia, preferendola di gran lunga alla trattatistica. Le opinioni, ad avviso di Platone, sono acritiche, infondate e passivamente subite, mentre la scienza è costantemente critica e frutto della ragione, giudica e mette in krisiV un’opinione, mette in crisi ogni sapere dubbio, ogni pregiudizio (“si dice”, “si crede”, ecc): così si spiega come, se la filosofia è dialogo, l’opinione è invece monologo, assolutamente priva di confronti e aperture. In questo senso, l’Oriente non greco monologa, e infatti non scrive dialoghi ma libri sapienziali, mentre sono i Greci a scoprire la filosofia, intesa come messa in discussione di tutto, smascherando le opinioni, qualunque sia l’autorità di cui esse si ammantano. Si tratta, naturalmente, di un passaggio doloroso, giacchè si abbandona il certo per l’incerto, il noto per l’ignoto: e non è un caso che la filosofia nasca con l’assassinio del suo ostetrico Socrate; mentre l’innocenza è immediata e, perciò, più fragile, la virtù non è immediata e dunque è meno fragile, poiché è stata messa alla prova. Il sapere filosofico, dai Greci ad oggi, è andato sviluppandosi lungo due direttrici: da un lato, dopo aver attraversato il fondamentale momento della critica delle opinioni, si articola in una visione onnicomprensiva e metafisica del mondo (Leibniz, Kant, Hegel, Marx); dall’altro, si è sviluppato un sapere in cui la riflessione critica della ragione non costituisce solo un momento imprescindibile, bensì costituisce essa stessa l’aspetto fondamentale di un filosofare in cui permangono dubbi e difficoltà di conoscenza: si tratta di un sapere lontano dalle pretese onnicomprensive e metafisiche, un sapere che procede con circospezione, che formula congetture più che teoremi. Tra i suoi esponenti – antichi, moderni e contemporanei (giacchè questa forma di pensiero è tipica dell’età moderna e contemporanea) – possiamo ricordare i Sofisti, gli Scettici, i Cinici, i Cirenaici, i Megarici, Machiavelli, Hobbes, Montaigne, Erasmo, Vattimo. Assodata la diversità tra punto di vista comune e punto di vista filosofico, si può anche vivere senza filosofare, cosicchè la filosofia sarebbe qualcosa di accessorio e di cui si potrebbe benissimo fare a meno (anche se contro questa tesi si schiera apertamente Aristotele nel Protreptico). Del resto, che la filosofia sia un lusso pare tramandato dalla massima primum vivere, deinde philosophari, con la quale si mette in luce come la vita venga prima della filosofia e come quest’ultima sia ad essa subordinata: ma – chiediamoci – se è vero che si può vivere senza fare filosofia, è anche vero che si può vivere bene senza fare filosofia? In particolare, sia Aristotele sia Bergosn distinguono tra “vivere” e “vivere bene”, domandandosi entrambi se il vivere non-bene possa dirsi vivere. Anche il filosofo deve soddisfare i suoi bisogni primari (la sete, la fame, ecc), altrimenti non sarebbe un essere umano ma un Dio: ciò non toglie, però, che nella misura in cui filosofa, egli si dedica ad un’attività divina, ingrediente della vita felice. Tuttavia, se considerati separatamente, sia il sapere critico sia quello metafisico sono insufficienti: anche se, a prima vista, sembrerebbe che i risultati del primo siano evidenti (quelli del secondo appaiono infinitamente meno soddisfacenti). In quanto conoscenza del vero bene, la ragione è confutazione delle passioni, sicchè queste nulla più possono contro di essa: la ragione sa anche che cosa ogni cosa deve essere, che cosa è giusto che ogni cosa sia. Attribuendo a ciascuno il suo, la ragione fa il giusto. Ma nel corso della storia è anche andato spostandosi il punto di vista verso Dio: se Tommaso è convinto che il teologo possa anticipare la scienza di Dio, la filosofia è per Hegel “la domenica della vita“, nel senso che è il compimento più alto e l’ornamento più squisito della vita umana. Tutt’altra concezione della ragione (e di Dio) è quella propria dei filosofi “critici”, per i quali – date le interminabili dispute che contrappongono tra loro i vari pensatori – è impossibile raggiungere una verità ultima; addirittura, agli occhi di costoro la metafisica , oltrechè inutile, appare nociva, poiché distrae dal sapere coerente dei propri limiti intrinseci di essere umano che procede per congetture e ipotesi, non per verità assolute. Questi pensatori tendono a concepire il bene come l’utile collettivo che la ragione di volta in volta individua e calcola: già Montaigne nota come basti spostarsi sull’altra sponda del fiume per accorgersi che tutte le leggi e le usanze cambiano, cosicchè ciò che di qua era lecito, di là non lo è. Emerge chiaramente, allora, come la giustizia altro non sia se non il frutto di un accordo mirante al bene della collettività, senza voler per questo arrivare alle note conclusioni di Trasimaco (nella Repubblica di Platone) secondo cui “il giusto altro non è che l’utile del più forte“. E’ una ragione rinunciataria, che rinuncia alla verità assoluta e si accontenta di piccole certezze acquisite un po’ alla volta. Una prospettiva rinunciataria, sì, ma con funzione strumentale, non ornamentale: mira infatti a promuovere un miglioramento della vita umana sulla terra anche attraverso lo sviluppo di quella scienza sempre troppo poco considerata dalla metafisica. Ecco perché la filosofia trasforma la vita vegetale in esercizio critico e mosso da sincera curiosità, contraddistinguendoci da tutti gli altri animali: per i metafisici, però, si tratta sempre della contemplazione della verità assoluta, ma, sotto questo profilo, è la prospettiva critica (sofistica e scettica) – tendente ad organizzare il nostro sapere terreno – a poter effettivamente migliorare le nostre condizioni di vita terrene, ed è per questo che oggigiorno tende a prevalere tale posizione. Ma dove va a finire la metafisica? Possono gli uomini eticamente fare a meno dell’ornamento? Non è un caso che nel Novecento l’architettura sia stata caratterizzata dall’abolizione di ogni abbellimento, promuovendo esclusivamente il funzionalismo e la completa oggettività. C’è anche stato chi ha detto che “l’ornamento è un delitto”, una sorta di reazione al culto del bello nella architettura liberty di inizio ‘900. Ma possiamo abbandonare il superfluo? Può il sapere rimanere chiuso e fare a meno di ogni forma di trascendenza? Forse la questione può essere, se non risolta, almeno chiarita in analogia con il ruolo che Kant assegna alla metafisica, da lui smascherata come un errore della mente umana, incline a spingersi erroneamente al di là del sensibile e del finito: secondo Kant, la metafisica è sì un errore, ma non per questo può essere debellata; così come quando in riva al mare vediamo l’orizzonte più in alto e, pur sapendo che si tratta di un’illusione, non per questo riusciamo a vederlo allo stesso livello del mare. Così come la metafisica viene da Kant, in qualche maniera, relegata all’ambito dell’ornamentale, impossibilitata ad una completa assolutizzazione, similmente possiamo capire come, da una parte, il superfluo non vada mai abbandonato e, dall’altra, come la metafisica rientri in tale superfluo/ornamentale. Dicevamo che è con Platone e con i suoi dialoghi che vede la luce la filosofia: ma il vero ostetrico del sapere filosofico è la figura di Socrate, colui che distingue la scienza dalle opinioni, cerca spiegazioni razionali, cerca di darsi ragione delle norme della propria condotta e del proprio sapere vagliando criticamente le opinioni e distruggendole quando – come spesso accade – si rivelano fasulle. Egli è armato dell’ironia e della maieutica: la prima è la figura retorica con la quale si farebbe intendere il contrario di ciò che si dice (cfr. Encyclopedie di Diderot; De oratore, III, di Cicerone; Quintiliano). Ma il tono della voce segnala una discrepanza tra il detto e il significato: se prendiamo il verbo greco eironeuomai notiamo come esso significhi “dissimulare”, “nascondersi parlando”, ma anche “canzonare”, “prendere in giro”; o eirwn , poi, vuol dire “colui che si spaccia per”. L’ironia può essere dunque definita come un espediente tecnico impiegato da avvocati e da oratori: Quintiliano la tratteggia come un modo di relazionarsi con gli altri improntato sulla comunicazione, un modo non soltanto indiretto, ma addirittura complicato e articolato. Non sorprende, pertanto, che l’ “ironista” sia più preparato rispetto al suo uditorio: il che si verifica soprattutto in due casi, quando cioè l’interlocutore è ignorante (ma si crede colto), o anche quando è intellettualmente debole, cosicchè gli si può dar ragione fino a che non vengano alla luce tutte le contraddizioni derivanti dall’ammissione delle sue tesi. Chi si avvale dell’ironia ne fa, in certo senso, un uso narcisistico, quasi umiliante nei riguardi del proprio interlocutore, cosicchè non è sbagliato dire che l’ironista esercita una forma di crudeltà verso gli altri, una sorta di sadismo, un irresistibile gusto che si prova ad essere superiori. Così il commediografo Aristofane fa del termine “ironista” un vero e proprio insulto con cui zittire chi asseconda falsamente i propri interlocutori, fingendo furbescamente di approvare le loro tesi; lo stesso Platone (Repubblica, I) mette in bocca agli interlocutori di Socrate parole piuttosto aspre verso la sua ironia canagliesca. Così, con Trasimaco finge di ignorare che cosa sia la giustizia, sfugge alle domande che gli vengon poste appellandosi alla propria ignoranza e spazientendo i propri interlocutori: si può allora dire che la difficoltà della ricerca sia ironia? Platone libera il maestro Socrate dal luogo comune mettendo in evidenza come l’ironia, propriamente, sia una relazione – indiretta – con la verità e per questo motivo dotata di valenze pedagogiche, poiché innalza l’interlocutore ad un sapere certo; così si ha l’impressione che Socrate si faccia beffe di Trasimaco e degli altri protagonisti della Repubblica, ma in realtà li incalza, li sprona come fa la mosca coi cavalli e li fa uscire dal vicolo cieco dell’opinione verso la retta via della scienza. In questo caso, la dissimulazione si configura quasi come una benevola conquista, non come un gesto di mera superiorità dettata da uno sprezzante orgoglio, poiché è finalizzata a portar fuori dal circolo della limitatezza: l’interlocutore non è più schernito e deriso, ma soccorso, l’ironia sacrifica il proprio sapere per redimere gli altri dall’ignoranza, è un abbassamento (khnosiV), un farsi piccoli per salvare gli altri. Ma – attenzione – ad abbassarsi è Socrate, non il sapere in quanto tale, altrimenti l’ironia si trasformerebbe in divulgazione. Il concetto greco di khnosiV come “svuotamento” (in greco kenon significa “vuoto”) lo ritroviamo nella teologia cristiana quando si parla dell’incarnazione di Dio e della sua liberazione dal peccato: e, in parallelo, c’è stato chi ha guardato in analogia alla figura di Socrate e di Cristo (Hegel stesso lo fa), poiché sia con l’uno sia con l’altro si ha un’autentica liberazione, ci si maschera per smascherare, si mistifica per demistificare ciò che pare certo ma che, in realtà, non lo è affatto. In questo senso, l’ironistica porta la guerra laddove c’è una pace illusoria, getta scompiglio, spiazza, è – in altri termini – pars destruens ma, in certo senso, anche pars costruens. Infatti, distrugge, sì, le opinioni, ma per partire da zero e fondare un sapere certo, che oltrepassi il limite e lo riconosca come ormai sorpassato, per rendere partecipi di ciò anche gli altri uomini: per far riferimento al celebre “mito della caverna” di Platone, è l’uomo che, liberatosi dalle catene che lo tenevano prigioniero sul fondo della caverna, sale in superficie, scopre la verità e ritorna dai suoi compagni per trasmetterla anche a loro. L’ironia socratica può allora essere definita come impegno totale per il Bene, uno slancio verso l’esistenza autentica e contro il lasciarsi vivere passivamente in cui molti incappano. Un tale sapere dovrà necessariamente essere di tipo concettuale, e del concetto Socrate stesso può dirsi inventore: esso è una definizione della cosa in questione (il bene, il bello, il giusto, ecc), una definizione che prende le mosse dalla domanda “che cosa è (ti esti) quella cosa?” e a cui si dà una risposta scientifica, esulante dall’opinione. In questo modo, tale aspirazione a spingersi al di là del dato si traduce in scienza dell’essere, come la metafisica (che è scienza dell’essere in quanto tale): e così la figura di Socrate va incontro ad un enigmatico sdoppiamento, per cui ci troviamo di fronte ad un Socrate platonico/metafisico e ad un Socrate empirico/cirenaico, uno speculativo, l’altro esistenziale (basato sull’ammissione della propria ignoranza e nella massima delfica del “conosci te stesso“). Ma il gnwqi sauton può dare adito a due diverse interpretazioni, una metafisica, l’altra esistenziale: al “conosci che cosa sei in quanto essere umano”, ossia “conosci che cosa è l’uomo” (scienza di sé), si contrappone il “conosci te stesso come singolo” (coscienza di sé), cercando di vivere la tensione al bene come tua propria esclusiva. Così Platone interpreta l’ignoranza come iniziale critica dell’opinione, mentre le scuole socratiche la concepiscono diversamente, come direttiva di vita più che di sapere, con la conseguenza che il vivere da filosofo vorrà dire comportarsi contro convenzioni e vivendo in pura naturalezza. Non si tratta pertanto – secondo le scuole socratiche – di cercare che cosa sia l’uomo, ma, piuttosto, di cercare degli autentici uomini, ossia coscienze adatte a ricercare il vero bene, coscienze che siano realmente se stesse senza cadere in convenzioni culturali, sistematiche e, in definitiva, conformistiche. Da questo atteggiamento (congiunto ad una valenza fortemente critica della ragione) deriva una forte autarchia (autarkeia), un esistere autonomamente senza farsi toccare dagli accadimenti esterni. Il problema dell’ignoranza era posto sul tappeto da Platone a proposito dell’immortalità dell’anima: nell’Apologia, invece, era lasciato aperto uno spiraglio di scetticismo, anche se poi – con la voce della metafisica – il filosofo ateniese avrebbe debellato del tutto l’ignoranza, arrivando ad ammettere la certezza di una vita ultraterrena e dell’immortalità dell’anima. L’ignoranza viene dunque bandita? Con Platone, Socrate arriva a verità iperuraniche e assolute, mentre con le scuole socratiche egli resta avvolto da un alone di ignoranza, di una “dotta ignoranza” (per usare le parole di Cusano), consapevole dei propri limiti intrinseci ma, non per questo, disposta a rinunciare al sapere. Se in Socrate sussiste un perfetto equilibrio tra i due atteggiamenti, in Aristotele e in Platone prevale decisamente l’indirizzo metafisico, mentre nella successiva età ellenistica trionfa quello scettico/critico: dal VI al XII secolo c’è poi una parentesi non filosofica ma teologica, dove l’attenzione per Dio e i problemi di fede prendono il posto in precedenza occupato dall’indagine filosofica, ora detronizzata. Dal XIII al XVI secolo torna invece a dominare l’indirizzo metafisico, ma da Machiavelli fino all’età illuministica (e così sarà anche nel Novecento post-marxista) trionfa l’atteggiamento critico/scettico. All’atteggiamento metafisico corrisponde un’etica saldamente basata sulla virtù, mentre a quello critico/scettico un’etica che fa dell’utile il suo parametro: ad esse sono sottese due differenti concezioni della ragione e del suo rapporto con l’etica. I pensatori dell’uno e dell’altro indirizzo si trovano d’accordo nell’individuare nell’uomo un’entità dotata di ragione e di passioni, ma quando si tratta di dire che cosa sia la ragione già nascono le prime divergenze di prospettiva. Per individuare i due tipi di etica, dovremo pertanto capire che cosa effettivamente siano le passioni e poi la ragione metafisicamente e critico/scetticamente concepita. Il termine greco che traduce “passioni” è paqoV, che letteralmente significa “quel che si prova”, dal verbo pascw; significa anche subire la presenza di qualcuno o di qualcosa, sicchè passione è il contrario di azione e il termine coincide con “affezione”, che vuol dire subire un’azione essendone influenzato e modificato: passione è dunque, in primo luogo, qualsiasi modificazione dell’anima. Tali sono anzitutto le sensazioni che ci giungono dal mondo esterno e dalle quali l’anima è affetta, ma tali sono anche le passioni in senso stretto, ossia le modificazioni di natura affettiva, dalle quali l’anima è mossa. L’anima (sia che sia sconvolta da passioni interne sia che lo sia da esterne) è mossa, è paziente, subisce un’azione, patisce sia le sensazioni provenienti dall’esterno sia le passioni producentesi all’interno (stati d’animo, emozioni, pulsioni: l’ira, l’odio, la paura, ecc), proprio come il paziente patisce la malattia e la cura somministratagli dal medico. L’anima è passione perché si ritrova ad essere preda di tali passioni, stati e pulsioni di volta in volta occasionate da certe circostanze, inerenti all’anima in quanto tale, latenti in essa e risvegliate dalle circostanze: le passioni sono – secondo Platone e Aristotele – una sfera dell’anima, l’anima sensitiva, che sta a monte della ragione. Esse invadono e tendono a dominare l’anima determinando il comportamento dell’individuo che ne è preda; un tale individuo è tutt’uno con la passione, è mero patire: esse sono necessarie, nel senso che si trovano naturalmente ad essere quel che sono, sicchè l’operare delle passioni è, a ben vedere, un operare subìto e patito, il passionale non sa perché opera a quel modo né ha deliberato di operare così, ma subisce passivamente quell’operare delle passioni in lui (come si dice: la passione è cieca). Sorprendono e catturano l’individuo che ne è vittima ignara: se l’uomo fosse solo passioni, ignorerebbe di esserlo. Ma finchè sono passioni, il mio agire resta un patire, un essere necessitato. Il linguaggio comune dice giustamente che si è spinti dalla passione, dall’odio, dalla paura, ecc; si è cioè spinti ad operare alla cieca, non discernendo e perciò non deliberando. Ma l’anima non è solo passioni: c’è anche, al suo interno, la ragione, la facoltà del pensiero discorsivo che guida l’uomo. Il problema della morale resta, in questo senso, il rapporto tra ragione e passioni: quale è il rapporto? Quale concetto di ragione fanno valere i diversi orientamenti filosofici? La ragione è dialogo (nell’accezione greca di dia + logoV), ossia un trascorrere da un concetto all’altro organizzandoli ed articolandoli in un sapere che risulti organico. Il concetto è così il risultato della definizione, dice che cosa una cosa è, ne coglie cioè l’essenza, costituendone l’essere che la identifica per quella che è, individuando ciò in forza di cui essa è se stessa, ciò che essa deve essere per essere se stessa. In altri termini, il concetto individua e coglie ciò che ritroviamo permanente e accomunante in tutte le cose che in virtù di quel qualcosa di permanente e accomunante formano una specie. Ma tale essere permanente e accomunante è per i metafisici l’essenza universale e comune, colta dalla definizione e fissata nel concetto. La domanda “che cosa sono Tizio, Caio e Sempronio?” rimanda a quella “quale è l’essenza universale che li costituisce?” Essi sono corpo e discorso, ovvero sono animali razionali: questo è il concetto che li identifica nella loro essenza, cogliendo il genere prossimo (sono animali, come molti altri esseri) e la differenza specifica (sono uomini); alla base di ciò stanno il principio di identità (A è A e deve essere A) e quello di non contraddizione (A è non uguale a non-A). Il termine “essere”, che abbiamo più volte trovato dispiegato nelle definizione, è però fortemente ambiguo: servendoci del linguaggio degli Scolastici, possiamo dire che si tratta di un termine non univoco, ma equivoco, ossia dotato di più significati. Soprattutto due: ha un significato essenzialistico e un significato esistenzialistico. Di un soggetto, infatti, possiamo predicare il verbo “essere” in due modi diversi, a seconda che si risponda a due diverse domande: “quid est?” e “an est?“. Nel primo caso, mi chiedo che cosa una cosa è, mentre nel secondo mi interrogo se essa c’è, ossia se esiste: così domandarsi “che cosa è ” Socrate è differente da chiedersi “c’è Socrate?”. Nel primo caso, voglio sapere in che cosa consista il suo essere, nel secondo caso, invece, mi interrogo intorno alla sua anitas, mi domando cioè se esiste oppure no. A questa seconda domanda, rispondo di volta in volta con una constatazione: se Socrate c’è, risponderò con “c’è”; se invece non c’è dirò “non c’è”. Alla prima, invece, rispondo allorchè vengo alla definizione della cosa, “Socrate è animale razionale”; posso rispondere solo se conosco la definizione. Se poi esperisco anche l’esistenza, potrò dire che effettivamente esiste un uomo di nome Socrate. Definendolo, siamo venuti a determinare il suo essere, ne abbiamo definito l’essenza, ossia ciò che ne costituisce la permanente ed irrinunciabile peculiarità del suo essere, tolta la quale cesserebbe di essere quel che è. Quando i metafisici parlano di essere, usano sempre l’accezione essenzialistica: l’ultimo grande metafisico – Plotino – dice che l’essere deve essere un questo (todh ti) e quindi alcunchè di delimitato, tant’è che l’ ousia stessa è un todh ti. All’essere non compete, secondo Plotino, il librarsi qua e là nell’indeterminatezza, bensì di essere consolidato da determinazioni e da forma, da delimitazioni, da stabilità e la stabilità è delimitazione e forma: l’essere è, anzi, sempre forma, un qualcosa di determinato, un essere conformato, il determinato esser qualcosa proprio di un certo ente, coglibile dal pensiero che lo coglie definendolo. Si scopre un’intenzionalità tra pensiero ed essere: il pensiero è fatto per l’essere che è forma, e l’essere in quanto è forma è definibile dall’esser ridotto al pensiero intelligibile, fatto per il pensiero stesso. E’ questo l’ottimismo razionalistico greco, che vede nella ragione l’arma appositamente data per conoscere il mondo. Sempre Plotino dice che occorre che il pensante afferri qualcosa di in sé distinto e il pensato, colto dal pensiero, deve essere alcunchè di indifferenziato, altrimenti non se ne dà pensiero, ma solo uno sfiorare – senza toccarlo – il concetto. In questo senso, Plotino sta introducendo la teologia: tutto ciò che è informe non può essere conosciuto, al massimo può essere alluso: tale è l’Uno, che è situato al di là dell’essere, è ineffabile, è nome al di sopra di ogni altro nome. Per il greco, l’informe è perciò stesso impensabile. La domanda “che cosa è?” prende di mira un esser qualcosa che ritorna in molti enti diversi, ma nei molti in cui lo riconosciamo appare sì diverso, ma è sempre lo stesso. Socrate è, in questo modo, identico e diverso dagli altri uomini: sono tutti ugualmente uomini, ma ciascuno lo è in maniera diversa. I tanti uomini si trovano accomunati da una stessa quidditas (l’esser uomo) che tutti sono, ma ciascuno a suo modo. L’esser qualcosa che li identifica e li accomuna è l’universale che li mostra come membri di una stessa specie. Oggetto del sapere filosofico è la quidditas delle cose esistenti nello spazio e nel tempo e che in quanto permanente e comune è coglibile dal pensiero e fissabile nel concetto: la scienza del sapere filosofico per oggetto ha l’universale e il necessario, mentre il mutevole e l’accidentale può essere raccontato ma non saputo nel senso più forte del termine. Così il sapere storico – ritornando al punto di partenza – è inferiore rispetto a quello filosofico. Non c’è infatti sapere stabile di Tizio o di Caio, ma dell’uomo che Tizio e Caio sempre e comunque sono: alla ragione filosofica compete pertanto un punto di vista peculiare, che non solo ha per oggetto l’universale, ma che proprio perché ha un tale oggetto deve esso stesso essere universale, vale a dire un punto di vista che trascende quello dei singoli individui empirici, variamente determinato dalle diverse impressioni sensibili, dalla mutevolezza della facoltà immaginativa, dall’influsso delle passioni. E’ il punto di vista della ragione stessa presente in tutti gli uomini. E il filosofo è colui che, riflettendo e ragionando, si converte dal punto di vista empirico (dove la ragione latita o dorme, e l’anima è ridotta a sensitiva) in cui trionfano le opinioni a quello superiore, in cui si è solo ragione, l’identica e oggettiva ragione presente in ogni uomo a prescindere da pulsioni, impulsi, fantasie: si tratta di un punto di vista super partes, in cui vige la pura e disinteressata conoscenza contemplativa del che cosa le cose sono, al di là degli accidenti, una pura e disinteressata contemplazione dell’essere, di cui la metafisica è scienza (secondo la definizione di Aristotele). Sia Platone sia Aristotele sono concordi nel concepire la filosofia come conoscenza degli universali, ma differiscono nell’intendere gli universali stessi, da Platone chiamati “idee” e intesi come ante rem, in re e post rem; da Aristotele (che li chiama “forme”) intesi solo in re e post rem. Dal diverso modo di intenderli, il differente tipo di conoscenza prospettato dai due filosofi: per Platone si tratta di anamnesi, per Aristotele di astrazione. Ma che cosa è l’idea (eidoV) per Platone? A partire da Cartesio, “idea” designa cumulativamente ogni genere di nostra percezione, è una rappresentazione mentale (l’immagine mentale che ho del rosso, del cane o di Dio). Ma per Platone non è così: essa coincide con la morfh, ossia con la forma, e allude ad un contorno racchiudente qualcosa, altro non è se non un essere qualcosa. L’esser uomo è una modificazione nel tempo e nello spazio dello stesso essere uomo che sussiste nell’eternità, immutabile, come pienezza di quel certo essere qualcosa, sussiste come complicazione di tutti i possibili modi di essere quella certa cosa. L’eterna, infinita pienezza dell’essere un certo qualcosa altro non è se non il mondo delle idee presupposto e principio di questo temporale mondo di singoli enti empirici, ciascuno dei quali è una modificazione delle idee a cui fa capo. E’ un particolar modo di essere quella o quelle infinite idee. Tizio e Caio sono diversi modi di essere dell’idea uomo e animale. A produrre queste modificazioni che sono le cose empiriche sono le idee stesse, che non cessano di essere quelle che sono (eterna pienezza d’essere) ma si modificano divenendo nel tempo e nello spazio i singoli enti che ad esse fanno capo, ai quali partecipano. Conoscere il vero essere delle cose sarà conoscere le idee. La ragione ridestata dalle sensazioni risale dal mondo sensibile (che sulle prime le appare come l’unica realtà) a quello iperuranico, di cui il nostro è copia sbiadita: la ragione si è destata e ad essa sola il filosofo si è ridotto, avendo trasceso i sensi da cui aveva preso le mosse. Che cosa sono gli enti? Esistono in virtù di se stessi o di un’altra realtà? Secondo Platone, essi esistono in virtù dell’esistenza di un’altra realtà, le idee, che ne sono il presupposto e il principio; le idee sono siffatte che esistono necessariamente come tali, la loro perfezione ontologica non può mancare di esistenza (prova ontologica). Universali sono per Platone le idee, perfette perché costituenti l’infinita pienezza d’essere: l’idea di cavallo, cioè, è la perfetta attuazione di tutti i possibili cavalli. Il che significa che l’idea di cavallo non è un enorme cavallo in cui stanno tutti i cavalli sensibili: l’idea è secondo Platone qualcosa di immateriale, fuori dal tempo e dallo spazio (altrimenti sarebbe finita e non infinita). La conoscenze delle idee sarà razionale, mera intuizione intellettiva, il che segnala che la ragione è tutt’altra dalla sensazione e dalle passioni, è completamente autonoma. Il motivo per cui Platone ipotizza il mondo delle idee può almeno in parte essere compreso se facciamo riferimento al nostro mondo: come può esso spiegarsi se non facendo riferimento ad un altro mondo di cui il nostro sarebbe copia? Che cosa può spiegarmi l’essere identico e diverso che accomuna le differenti famiglie di enti empirici, per cui vedo gli uomini uguali e diversi fra loro? Si tratta, naturalmente, di fare riferimento al mondo delle idee, per capire come l’esser cavallo (o, se preferiamo, l’idea di cavallo) sia presente nei diversi cavalli sensibili, che di essa partecipano. Gli enti sono appunto classificabili in forza di un’identità che li accomuna, ma un tale principio in grado di render conto del mondo quale a noi appare non è rintracciabile nel mondo sensibile, poiché tutti gli enti che in esso ci appaiono di volta in volta sono se stessi, determinati, e perciò non possono fungere da princìpi dell’esser uomo di Caio e di Tizio. Ciascun ente empirico, cioè, non può render conto della sterminata molteplicità di enti finiti, cosicchè essi si spiegano a partire da altro: proprio qui sta la differenza riconosciuta dagli Scolastici tra l’ “ens a se” (l’ente che sussiste di per sé) e l’ “ens ab alio” (l’ente che esiste nella misura in cui dipende da qualcos’altro). Il nostro mondo empirico non è “a se“, secondo Platone, ma “ab alio“, dipende cioè da qualcos’altro, e quel qualcos’altro è appunto il mondo eterno delle idee: l’essere quel che sono gli enti lo devono per l’appunto alle idee di tale mondo intelligibile, che, diventandoli, li fanno essere quel che effettivamente sono. E così il mondo esiste in virtù del parteciparsi delle idee, le quali continuano ad essere quel che sono e diventano la molteplicità degli enti finiti che ad esse fanno capo. Tuttavia né Platone né nessun altro neoplatonico ha mai azzardato a spiegare come ciò possa avvenire, come le idee si modifichino, poiché tale processo si sottrae al nostro sapere, il quale abbraccia solo la conoscenza del fatto che tale partecipazione è la sola cosa in grado di render conto dell’esistenza del mondo empirico (e che la ragione può conoscere le idee). Un’altra questione non irrilevante lasciata in sospeso da Platone è perché il mondo delle idee “crei” questo mondo: ricorrendo ad un’immagine che sarà propria dei Neoplatonici, potremmo dire che è come se Dio, nella sua esuberanza di essere, traboccasse perché “diffuisivus sui“, dandosi in maniera discendente, per cui il mondo è assolutamente inferiore rispetto alle idee. Nel mondo, dunque, non c’è nulla di veramente nuovo, l’unica relativa novità è che si tratta di un mondo deficiente rispetto a quello delle idee, che ne è modello. La conseguenza che ne deriva per quel che concerne la concezione della ragione è che conoscere empiricamente l’idea di cavallo significherebbe conoscere concretamente tutti i singoli cavalli esistiti nel presente, nel passato e nel futuro, senza trascurare alcun esemplare; e, del resto, noi possiamo predicare la cavallinità di questo o di quel cavallo empirico perché abbiamo già insita nella nostra testa, in qualche modo, l’idea di cavallo, alla quale raffrontiamo i cavalli sensibili quando diciamo che sono cavalli (riconoscendo in essi la cavallinità in noi presente a livello concettuale). Ciò significa che abbiamo già dentro la nostra mente, fin dalla nascita, l’idea di cavallo ed è in virtù di essa che possiamo riconoscere i singoli cavalli empirici dinanzi a cui ci troviamo: sono anzi tali cavalli sensibili a risvegliare in noi l’idea latente di cavallo. Si deve pertanto trattare, è evidente, di un’intuizione sovrasensibile, non ottenibile a posteriori, ma a priori, ossia è già sempre presente in noi, fin dalla nascita: come potremo allora dire che Tizio è più perfettamente uomo rispetto a Caio? Ciò avviene – risponde Platone – perché conosciamo il criterio, il modello, l’idea di uomo, con la quale confrontiamo Tizio e Caio, analizzando quale dei due meglio la imiti: in tale confronto si ha l’anamnesi, ovvero il ricordo di quell’idea di uomo già conosciuta (perché da sempre insita in noi) che ora, stimolata dall’esperienza sensibile (vedo Tizio e Caio) riaffiora alla memoria. Sicchè possiamo dire che la conoscenza sensibile è occasione perché nella ragione si sviluppi un’anamnesi che permetta di contemplare le idee: conoscere l’essere non sarà, quindi, un apprendere ex novo. Aristotele, dal canto suo, rifiuta la dottrina platonica delle idee, giudicandola una superflua complicazione il cui risultato è, tra l’altro, una ingenua svalutazione di questo mondo, che è secondo lo Stagirita l’unico e che per Platone era invece una pallida copia di quello iperuranico. Platone si avvaleva della dottrina delle idee, da lui elaborata, per una congerie di motivi, tra i quali merita di essere ricordato quello di sapore religioso: la dottrina delle idee permetteva al pensatore ateniese quell’anelito infinito verso l’assoluto che tanto gli stava a cuore, e l’intero suo sistema era pervaso da una profonda nostalgia per l’assoluto stesso, una nostalgia sconosciuta ad Aristotele; proprio tale nostalgia l’aveva indotto ad immaginare quello che Nietzsche definisce come il “retromondo” platonico, ossia quel mondo dietro il mondo che è l’Iperuranio. Questo mondo – dice Aristotele – si spiega benissimo da se stesso, senza far ricorso alle idee: le “forme”, infatti, sono atti d’essere un certo qualcosa, è un certo esser qualcosa in atto che ha in se stesso, nel suo esser atto, il proprio principio e la propria ragion d’essere. Naturalmente, nessuno di questi atti sussiste, in questo mondo, perfettamente attuato: mentre Platone parla di perfezione come infinita pienezza d’essere qualcosa (le idee), Aristotele la intende invece come piena attuazione d’un finito atto d’esser qualcosa. Nessuno degli atti d’esser qualcosa è perfettamente attuato, però, e ciò avviene perché ciascuno è legato a una parziale porzione di materia; così ogni anima razionale e sensitiva è sempre congiunta ad un corpo che limita quell’anima facendone l’umanità relativamente attuata di Tizio, di Caio e di Sempronio; similmente, l’anima vegetativa è sempre unita ad una porzione di materia che ne fa quella certa pianta. La visione del mondo che ha Aristotele è quella di un mondo eterno che sussiste in forza dei suoi princìpi costitutivi – le forme e la materia (sempre unite): l’essenza di una cosa, allora, è l’atto di quel certo esser quella cosa che la fa essere quella che è, ma è più o meno attuata a seconda del corpo che la natura le ha assegnato. In Aristotele, dunque, le forme sono causa e fine di se stesse: causa in quanto sono ciò in virtù di cui gli enti esistono; fine nel senso che sono ciò a cui essi tendono, sono la tensione verso la propria attuazione, una tensione ostacolata dalla materia e che riesce nella misura in cui la resistenza da essa opposta viene superata. Così l’uomo è tanto più uomo quanto più è filosofo, ovvero quanto maggiormente esercita lo strumento di cui egli solo è equipaggiato: la ragione. Come è facile capire, nella prospettiva aristotelica non c’è alcun bisogno di rimandare ad un mondo ulteriore ed ultraterreno: basta e avanza il mondo terreno, un mondo increato, eterno, in cui Dio – pensiero che pensa se stesso – è una sorta di magnete che mette in moto ogni singolo ente che tenta di emularlo nella sua immobile perfezione. In quest’accezione, il senso della vita risiederà in questo, nella realizzazione – meglio o peggio riuscita – del proprio essere. Anche Aristotele ritiene di poter spiegare l’identità/differenza aggirata da Platone grazie al ricorso al fantomatico mondo delle idee: gli enti empirici sono le sostanze, unioni di forma e di materia, e a spiegare l’identità/differenza sarà il fatto che in ciascuna sostanza di una specie è presente virtualmente lo stesso identico atto d’esser uomo, virtualmente identico ma variamente attuato nella materia. Così tutti gli uomini sono identici perché dotati dell’anima razionale, ma sono diversi per via della materia, che li distingue gli uni dagli altri. L’universale sarà allora conoscibile per astrazione, ovvero astraendo dall’oggetto sensibile la forma, pervenendo, attraverso il particolare, all’universale (per induzione): così da una miriade di singoli uomini, operando un’astrazione, ricaverò la forma uomo, come forma presente “in re” in tutti gli uomini singoli. Ma l’induzione non è il solo ragionamento, altrimenti avrebbe ragione Platone ad ammettere il mondo delle idee quale modello da cui il nostro enigmaticamente deriva: secondo Aristotele, l’induzione comincia, sì, come ragionamento, che paragona e raffronta, ma poi cessa di essere tale e culmina in un’intuizione dell’essenza, un’intuizione che giunge alla definizione dell’essenza stessa attraverso un salto in qualche misura extra-razionale. La ragione, in questo senso, approda intuitivamente a due diversi ordini di verità: le definizioni (ossia la conoscenza degli universali) a cui si giunge per induzione, e i princìpi primi (principio di non contraddizione e derivati) a cui si perviene invece per intuizione, poiché essi appaiono immediatamente evidenti alla ragione in quanto tali. A questo punto, il sapere è puramente razionale e da induttivo diventa deduttivo, cioè trae le conseguenze dalle definizioni e dai princìpi deducendo sillogisticamente. Sicchè definire l’uomo come animale razionale comporterà conseguenze morali e politiche che la ragione coglie per deduzione: il punto di vista della ragione è altro rispetto a quello delle passioni, questo è il nucleo centrale cui pervengono – per vie diverse – Platone e Aristotele (nonché tutti gli altri pensatori); l’etica della metafisica classica greca può essere condensata, a tal proposito, in tre punti fondamentali: 1) l’alterità della ragione rispetto alle passioni; 2) la superiorità della ragione sulle passioni; 3) l’immancabile vittoria della ragione sulle passioni. La superiorità della ragione risiede nel fatto che, conoscendo essa l’essere e quindi il bene e, di conseguenza, il vero e il giusto, è in grado di confutare le passioni e gli pseudo-beni che esse propongono all’uomo. Conoscere l’essere di una cosa significa conoscerne la verità, ma anche conoscerne il bene, giacchè esso è l’affezione del suo essere, e il bene è anche la giustezza della cosa (infatti una cosa è giusta quando effettivamente è se stessa): giusto, per un ente, sarà tutto ciò che inerisce al suo essere, anzitutto il diritto di essere se stesso. E’ giusto che l’uomo, dotato di ragione (la quale è attitudine al comando), sia libero, ed è giusto che chi della ragione è privo non sia libero: è un buon esempio (anche se rischioso, per le conseguenze a cui può portare) di deduzione. La ragione ci indirizza al bene confutando le passioni e in ciò possiamo già leggere la sua immancabile vittoria su di esse; dove si attua la vittoria, là primeggia ciò che è superiore, al quale l’inferiore non può in alcun modo resistere. La ragione è il superiore e si sa come tale e, in virtù di ciò, sconfigge le passioni, che non possono distoglierla dalla sua strada allettandola coi loro pseudo-beni effimeri; essa è inattaccabile dalle passioni, poiché rivela come quelli da esse proposti non sono veri beni; in questo senso, la ragione è eterna confutazione delle passioni: chi ne è preda lo è o perché in lui la ragione dorme o perché del tutto privo di essa. Le passioni magari non saranno cieche, ma senz’altro sono assai miopi, soprattutto se confrontate con l’occhiuta ragione: esse non si accompagnano, in realtà, ad un’assenza assoluta di pensiero; pullulano quando però manca la retta ragione e dominano la fantasia e l’immaginazione, producenti immagini mentali (i fantasmata di Aristotele), ossia immagini a metà strada tra il pensiero e il sensibile. Infatti, una cosa è il concetto di uomo, altra cosa è l’immagine di uomo: nel secondo caso, ce lo si rappresenta in quel determinato modo perché lo si è effettivamente visto in carne ed ossa: le conclusioni che poggiano su tali immagini, nate dal sensibile, non possono che essere (al pari del sensibile) fluttuanti, ondeggianti, instabili: così dirò, padroneggiato dalle passioni, che “mi piace, lo voglio” o “non mi piace, lo fuggo”. Si tratta, evidentemente, di un pensiero frutto delle inclinazioni sensibili, un pensiero configurantesi come elementare calcolo (cosa è che mi diletta di più?), dominato dalle passioni, strumento dell’appetito sensibile, gratificazioni empiriche mal fondate. Si tratta di pseudo-beni proposti come fini dell’ambizione, della volontà, del piacere: insomma, è un pensiero che finisce per opinare che il benessere fisico sia il bene supremo. Come possono, tuttavia, le passioni controbattere alle argomentazioni dispiegate dalla ragione scatenatasi contro di esse? Questa è appunto la loro insopperibile impotenza: non sanno argomentare. In secondo luogo, poi, l’intellettualismo greco (che abbiamo già visto in atto nella concezione dell’essere e del pensiero come fatti l’uno per l’altro) dà una clamorosa smentita delle passioni: la volontà è, per i Greci, una funzione della ragione, cosicchè è la stessa ragione che, conosciuto il vero e il bene, lo vuole a tutti i costi, senza soluzione di continuità. L’anima sensibile è, sotto questo profilo, conoscenza (perché sensazione e fantasia) e volontà (in quanto appetente), mentre l’anima razionale è conoscenza razionale e volizione razionale (cioè deliberativa): la ragione è sempre le due cose – pensiero e volontà – giacchè conosce il bene e, dopo di che, lo vuole adempiere a tutti i costi; si può a ragion veduta affermare che dove c’è la ragione c’è anche la volontà di raggiungere il bene conosciuto. Marsilio Ficino, in età umanistica, ha perfettamente colto quest’aspetto dell’intellettualismo greco: “come l’appetito irrazionale segue i sensi, così la volontà, che è avidità della ragione, segue ciò che l’intelletto conosce“, altro non essendo la volontà se non “un’inclinazione della mente al bene“. Del resto, la ragione è da sempre anche desiderio, desiderio di conoscere e di conseguire il bene che conosce, il che vuol dire che la volontà non è una dimensione ulteriore rispetto alla ragione: così Kierkegaard dirà che una cosa è sapere cosa sia il bene, un’altra volerlo. La ragione è, in questo senso, un Giano bifronte: nell’atto in cui conosce il bene, lo vuole; ed è per questo motivo che trionfa sulle passioni. Per il mondo greco, dunque, la volontà è, in certo senso, la ragione stessa in un’altra sua veste: ma, in età moderna, si opporranno a tale prospettiva Kant e molti altri, ad avviso dei quali la volontà è cosa diversa, e anzi opposta, alla ragione. Dove la ragione vige, essa è già sempre essa stessa oltre gli appetiti sensibili, risulta l’imprendibile per essi, il che è stato formulato brillantemente dal detto scolastico “voluntati naturale est quae bona iudicata sunt velle” (“per la volontà è naturale volere ciò ch’è stato giudicato buono”): ciò vuol dire che la volizione è il frutto necessario di una conclusione logica (con cui si individuano il bene e il giusto), sicchè nell’atto con cui conosce delibera coerentemente. La vittoria della ragione sulle passioni si configura in modi diversi in Platone e in Aristotele: in Platone, la ragione si separa dai sensi e dal sensibile diventando pura contemplatrice del mondo delle idee, a tal punto che l’anamnesi platonica è appunto quest’ascesa dell’io empirico spazio/temporale del filosofo al vero io che è la ragione eterna contemplatrice delle idee, di una dimensione divina (tema, questo, che verrà approfondito da Plotino e dai suoi seguaci, per i quali la ragione ridestata corre dall’empirico all’intelligibile). L’anima si fa secondo Platone mera anima razionale, e se la reminiscenza è recupero dell’io autentico, è allora evidente che l’anamnesi platonica ha una dimensione specificamente ontologica, cioè implica una trasmutazione ontologica del soggetto e non ha nulla a che fare con una presunta reminiscenza psicologica (come è invece quella ammessa da Proust). Tale ascesa platonica comporta, sul versante etico, una fuga (fugh dice Plotino) dai vizi dell’individualità empirica e sensibile, giacchè è un’evasione dal sensibile (pensiamo al mito platonico della caverna), è un andare oltre le deficienze dell’io empirico, che invece tenderebbe ad assolutizzare il livello sensibile. La virtù platonica per eccellenza sarà, in quest’ottica, la sapienza, poiché è conseguendo questa che l’io raggiunge la propria autenticità, rirecupera la “plenitudo essendi” della ragione contemplante e tale sapienza implica la giustizia e la capacità di esercitarla. Per Platone, dunque, la dimensione etica si configura nei termini di una vera conversione radicale (di metabolh si parla nella Repubblica) che presenta le caratteristiche di una fuga da questo mondo. Diversa è, invece, la posizione sostenuta da Aristotele, il quale – come sappiamo – tiene ben saldi i piedi per terra: anche quando è filosofo, l’uomo resta, secondo lo Stagirita, indissolubilmente legato al corpo e il conoscere stesso muove pur sempre dalla conoscenza sensibile (la quale non è pertanto un mero trampolino di lancio, come in Platone); ma anche per Aristotele la ragione, in ultima analisi, si colloca su un punto extra-razionale, puro e disinteressato, un livello di mera contemplazione delle forme che costituiscono l’in sé delle cose e, di conseguenza, l’ordine del cosmo, astraendo del tutto dal sensibile, ma non per questo distaccandosi dal corpo e dalle sue esigenze. Non potersi completamente distaccare dal corpo equivale a dire che si può filosofare solo ad intermittenza, ossia solo dopo aver soddisfatto i propri bisogni fisici, di fronte al cui ritornare bisognerà nuovamente sospendere l’attività filosofica per poterli soddisfare. E’ nell’ Etica nicomachea di Aristotele che troviamo, in nuce, l’etica del mondo classico: al cuore di questo scritto sta la distinzione tra “virtù etiche” (cioè pratiche) e “virtù dianoetiche” (cioè proprie della speculazione). Le virtù etiche sono degli atti della ragione, delle volizioni secondo ragione e questi atti – a furia di ripetersi – si consolidano, ma non in abitudini (ovvero in azioni di natura meccanica), bensì in abiti, che sono il frutto di successive e sempre rinnovantesi deliberazioni: il ripetersi di una deliberazione consolida la tendenza della ragione a comportarsi in un dato modo. La virtù, quindi, è quell’atto della ragione consolidatosi in abito, cioè nella disposizione ad agire secondo ragione: così la ragione subordina e limita le inclinazioni passionali che le si parano dinanzi. Temerità e viltà – dice Aristotele – sono due passioni contro ragione, mentre il coraggio è una forma di virtù razionale: ma chi è coraggioso? Colui che è permanentemente disposto ad osare o a temere secondo ragione, e questo può essere acquisito solo con la ripetizione dei singoli atti di coraggio che instaurano l’abito stesso del coraggio, atti che sono sempre consapevoli e razionalmente deliberati. La ragione, allora, modifica le passioni subordinandole a sé: gli impulsi a osare o a temere, se abbandonati a sé, si trasformano nelle mostruose passioni della temerità e della viltà, ma è la ragione a trasformarle in coraggio: non le elimina, ma le modifica, deliberando di avvalersene come essa stabilisce. In questa maniera, compio un atto coraggioso quando, di volta in volta, temo e oso secondo ragione: in presenza delle inclinazioni a osare o a temere, la ragione delibera di osare e di temere quando e quanto sente che è giusto e, così facendo, si esercita nel coraggio, trasformando le disposizioni passionali nel coraggio (che è appunto una virtù etica). In questo senso, da passioni subite diventano azioni deliberate, novità prodotte dalla ragione che doma e soggioga le aberranti passioni, impedendo che nasca la viltà e la temerità. Ben si capisce come per Aristotele (e in ciò concorda l’etica greca tutta) non sia la ragione ad essere al servizio delle passioni, ma viceversa: è essa a deliberare autonomamente il comportamento virtuoso a cui uniformarsi. Aristotele dice apertamente che la superiorità della ragione si manifesta nella suprema virtù etica: la giustizia. Essa è la virtù suprema perché ad essa sono subordinate le altre, che essa comprende ed organizza; è infatti solamente grazie alla giustizia che le altre virtù sono quello che sono. Esse, infatti, sono il giusto mezzo tra due inclinazioni opposte: così il coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerità, la liberalità è il giusto mezzo tra la prodigalità e l’avarizia. Ma Aristotele intende qui la giustizia sensu lato: ha infatti in mente la “giustizia politica” (o “universale”), quella cioè che ha per oggetto ciò che è giusto per natura e che costituisce il bene comune. La giustizia politica concerne l’universalmente e il naturalmente giusto, che altro non è se non l’universale ordine dell’essere, ovvero l’ordine del mondo e umano. E la giustizia è, appunto, quella virtù che è disposizione permanente a riconoscere, conservare, promuovere ed eventualmente restaurare tale ordine; ciò significa che un uomo è giusto nella misura in cui riconosce l’ordine, nel duplice senso che lo conosce (ragione speculativa) e lo promuove (ragione pratica), affinchè esso si preservi e prosperi e nel tutto sopravviva la parte, intesa come parte contestualizzata nel posto che le compete nell’economia del tutto. E l’uomo giusto si deve adoperare anche attraverso giuste limitazioni e rinunce, anche attraverso la rinuncia a volere tutto e immediatamente. Allora potremo dire che giustizia è favorire e promuovere il tutto, il giusto ordine delle cose: ma tale ordine va anzitutto conosciuto ed è conoscibile solo da una ragione che prescinda dai punti di vista particolari e che sia collocata da un punto di vista universale, come disinteressata contemplatrice della verità delle cose, verità che coincide con la giustezza stessa delle cose (esse sono giuste nella misura in cui sono se stesse). Ma questo è il sapere metafisico, possibile solamente in quanto sviluppantesi da un punto di vista universale e disinteressato: tale giustizia coincide col bene comune, dove ciascuna cosa attua coerentemente il proprio essere. E questo bene comune è naturale, tutt’uno con la natura delle cose, altro non essendo questa se non la loro essenzialità. Si tratta, dunque, di un bene colto da una ragione attenta, giacchè in grado di trascendere quello che Machiavelli chiama “il particulare“. Soltanto chi ha una simile visione del giusto ordine potrà sempre sapere come agire giustamente, sarà ad esempio in grado di agire quando è giusto e con il giusto coraggio, evitando oculatamente sia la viltà sia la temerarietà. Solo chi ha una simile visione e agisce sempre di nuovo deliberando acquista l’abito della giustizia, virtù delle virtù. Egli sarà giusto in tutto ciò che fa, e sarà colui che realizza pienamente se stesso, attuando in pieno la propria razionalità di uomo, ossia la propria struttura metafisico-etico-politica; sa, conosce e agisce di conseguenza all’interno della poliV, in cui si trova a posto con se stesso perché è al suo giusto posto. Vive interamente secondo ragione, conosce la giustizia ed è ad essa che mira (nella duplice accezione che la contempla e ad essa aspira), esercita la “giustizia distributiva”, consistente nel dare a ciascuno il suo (“dare cuique suum“), ossia recapitandogli ciò che naturalmente gli spetta. Ma il vero filosofo – oltrechè col dare a ciascuno il suo – esercita la giustizia anche correggendo le disuguaglianze, ripristinando la giustizia venuta meno: in questo modo, egli esercita la “giustizia correttiva” (o “commutativa”). E’ facile capire come, nella prospettiva aristotelica, sapienza e giustizia siano le due facce della stessa medaglia, poiché il sapiente è il giusto e il giusto è il sapiente, in cui la retta ragione non incontra ostacoli nel suo dispiegarsi. In questo senso, si può dire che le virtù sono attitudini prodotte dalla ragione e, perciò, inesistenti prima di essa: se le passioni sono subite, le virtù sono attivamente agite (in quanto deliberate). Questo vale per quel che riguarda le virtù: ma Aristotele si riferisce spesso anche alla virtù in senso lato, come atto della mente umana; egli dice che la ragione conoscente e agente, se funziona correttamente, realizza le sue possibilità ed è in ciò che consiste l’areth, il perfetto compimento della natura umana, compimento che corrisponde del resto alla felicità. Sicchè l’uomo potrà dirsi felice quando e nella misura in cui si sente realizzato, e per realizzarsi dovrà attuare metafisicamente la propria natura, esercitando quell’elemento che più di ogni altro lo rende uomo: la ragione. Non è, dunque, il lavoro a realizzare l’uomo, come credeva Anassagora e come crederà Marx, bensì il pensiero. Tale areth è realizzabile entro i confini della poliV (perciò è politica), è la condizione del sussistere del soggetto umano, il quale – se vivesse al di fuori della città e, quindi, isolato – non sarebbe altro che una bestia. Anche l’esercizio della ragione si realizza al meglio nella vita di relazione, solo in tale contesto è dato praticare le virtù etiche: è solo nella poliV, infatti, che si realizza la vera filosofia platonicamente intesa in forma dialogica, come scambio reciproco di idee che si attua nella relazione interpersonale. Ed è solo nella poliV che può svilupparsi l’amicizia, da Aristotele distinta in amicizia fondata sui bisogni (un’amicizia di mutuo soccorso, che nasce dalla necessità di soddisfare reciproche esigenze) ed amicizia disinteressata (solo questa autentica e duratura, poggiante sulla reciproca attuazione della propria razionalità). L’animale razionale è, secondo lo Stagirita, tale in quanto è animale politico, cosicchè la poliV può essere etichettata come naturale approdo della ragione umana. Questo significa che il consenso politico è quello naturale e implicito di tutti gli uomini, dei veri uomini liberi, ossia di tutte le rette ragioni, è – in altri termini – il consenso a cui naturalmente la ragione perviene. Allora alla base dello Stato non vi è il patto sociale, cioè l’opzione soggettiva di una molteplicità di individui che si accordano a tavolino e convengono su cosa è il bene comune, ma, al contrario, c’è l’esigenza oggettiva dell’universale natura umana, ossia dell’uomo concepito come animale razionale/politico. Dove c’è una molteplicità di individui dotati di retta ragione, lì si produce lo Stato, come insieme spontaneo di individui governati dalla loro ragione. Naturalmente, in una concezione del genere pare serpeggiare un esasperato ottimismo antropologico, che sarà deriso dagli uomini rinascimentali. Tuttavia, onde evitare di scivolare in facili fraintendimenti, è bene domandarsi cosa dobbiamo intendere per “uomo” quando sentiamo Platone e Aristotele parlarne: chi è uomo? Chi ha la ragione e la esercita rettamente, cosicchè uomini in senso pieno sono i soli filosofi, ossia una esigua minoranza. L’ottimismo di partenza già scricchiola. La posizione stoica, poi, pare sotto questo profilo significativa: gli Stoici, infatti, dicono che il vero saggio (l’unico essere degno di essere detto “uomo”) non è mai esistito né mai esisterà, sicchè di uomo non ce n’è mai stato (né mai ce ne sarà) neanche uno. Senza arrivare agli estremismi stoici, ma restando a Platone e ad Aristotele, all’ambito dell’umano vengono da loro sottratti molti individui che noi, abitualmente, riteniamo uomini in senso pieno: così già Platone – nella Repubblica – nota come gli esseri umani siano stati plasmati con tre diversi metalli, con la conseguenza che ci sono uomini superiori e uomini inferiori dalla nascita, senza possibilità di cambiare status; l’educazione stessa, più che trasformare l’essenza di ciascuno, porta a svilupparsi ciò che ciascuno è potenzialmente fin dalla nascita. La posizione di Aristotele è più drastica: a suo avviso, non sono propriamente esseri umani tutti coloro che non possono esercitare rettamente la ragione: restano così esclusi dalla cittadinanza umana schiavi, ragazzi e donne. Solo i Sofisti – gli illuministi del mondo greco – avevano affermato a gran voce che la schiavitù esiste solo convenzionalmente e che, alla nascita, gli uomini sono tutti uguali: tesi, questa, abbracciata, seppur con sfumature diverse e piuttosto variegate, da Ippia, Antifonte e Alcidamante. Già Platone, invece, sosteneva che solo i Barbari potevano essere fatti schiavi, mentre ciò era impossibile con individui di origine greca. Ma è legittimo domandarsi quale sia la differenza (ammesso che ci sia) tra uomini liberi e schiavi: Platone la individua nel fatto che gli schiavi sono sprovvisti di logoV e dotati esclusivamente della doxa, possono cioè opinare senza però formulare ragionamenti, con la conseguenza che lo schiavo è un mero esecutore incapace di autodeterminarsi e in tutto e per tutto dipendente dal padrone. Questa distinzione la troviamo in Aristotele (Politica, I 13), il quale opera una diversificazione tra individui dotati di ragione (e perciò capaci di pensare e di prevedere) ed individui sprovvisti di essa e tenuti solo a faticare col proprio corpo; questi ultimi sono puri e semplici strumenti nelle mani del padrone, alla pari del bue e dell’aratro. “Differiscono quanto alle capacità di deliberare derivata dalla riflessione razionale: tutti hanno le parti dell’anima, ma in maniera diversa. Lo schiavo non possiede in tutta la sua pienezza la parte deliberativa; la donna la possiede ma senza autorità; il ragazzo la possiede ma non ancora sviluppata“. E – aggiunge Aristotele – si è degni di stare dentro o fuori le mura della poliV a seconda che si possegga o meno il boulhtikon, la capacità di deliberare. Lo schiavo può apprendere la ragione dal padrone, poiché la sua è una razionalità riflessa, che imita ed emula quella del padrone appunto. La donna, invece, la possiede ma senza autorità: ella ragiona poco, non al punto da persuadere, cosicchè, quando si trova a discutere col filosofo, ella si trova costantemente in uno stato di minoranza. Solo il maschio adulto (e per questo il ragazzo risulta escluso) ha piene facoltà razionali: esso solo è uomo nel vero senso della parola (animale razionale e politico). E non è un caso che lo Stagirita distingua l’adrapodon (l’essere dai piedi umani) dal tetrapodon (l’essere a quattro zampe, ovvero la fiera), identificando il primo con l’uomo, il secondo con lo schiavo. Secondo Aristotele, la schiavitù è giusnaturalisticamente costituita, giacchè esistono esseri dotati di ragione e per questo destinati al comando, ed esseri che sembrano essere uomini ma che in realtà non lo sono e, in virtù di ciò, mancano degli stessi diritti del cittadino, il quale è secondo lo Stagirita un greco, maschio, adulto, ozioso, urbano e libero, cosicchè – contrariamente alle tesi sofistiche – la schiavitù è naturale e legittima. Altra cosa, invece, sono gli schiavi per legge, ossia quegli uomini che perdono in guerra, poiché vinti, la loro libertà: una schiavitù di questo tipo è giusta solamente se i vinti fatti schiavi sono tali già per natura, altrimenti, se ci troviamo dinanzi a uomini un tempo liberi e ora privati della loro libertà e ridotti in catene, trattasi di una schiavitù illegittima. A corollario di quanto detto, ricordiamo la dottrina aristotelica del dispotismo e la distinzione ch’egli opera con la tirannia: il despota è per natura il padrone della casa (oikoV), e il dispotismo da lui esercitato è il potere arbitrario del padrone sugli schiavi e su quanti (donne e bambini) non sono propriamente uomini, sebbene Aristotele si renda perfettamente conto che la relazione intrattenuta dal “pater familias“/despota con la moglie non si configuri come un dispotismo, ed è per questo che lo Stagirita tende a parlare di un’aristocrazia all’interno della casa, dove a governare sono il marito e la moglie congiuntamente; in questo modo, viene reintrodotto il potere femminile, precedente negato. In sostanza, il dispotismo è il legittimo rapporto di potere che si instaura tra chi possiede il bouleutikon e chi ne è sprovvisto, un rapporto che è esercitato non nei confronti di cittadini, ma verso strumenti quali sono per Aristotele lo schiavo e il bambino. Al contrario, la tirannia è un sopruso esercitato nei confronti dei cittadini e per questo motivo è del tutto illegittimo, e reso ulteriormente illegittimo dal fatto che se il despota è il cittadino razionale e virtuoso per eccellenza, il tiranno invece è colui che meno possiede la ragione, e che anzi è preda delle proprie passioni, sicchè l’illegittimità del suo potere è fondata dal suo padroneggiare sui cittadini e sulla tipica incapacità di comandare propria di chi è in balia delle nocive passioni. In questi termini, il dispiegato ottimismo del popolo greco trova una sua clamorosa smentita: l’uomo, che così spesso troviamo tratteggiato nelle pagine dei filosofi, è in realtà un personaggio meno frequente del previsto, anche se non è mai possibile fugare completamente l’ambiguità di fondo, quell’ambiguità che ci assale puntualmente ogni qual volta ci imbattiamo nel termine “uomo”, così ricorrente negli scritti di Platone e di Aristotele. Alla diffusione di tale ambiguità ha contribuito il massimo divulgatore del pensiero greco, Marco Tullio Cicerone, troppo spesso presentato semplicemente come un avvocato capzioso e verboso, e non come una delle più lucide menti filosofiche dell’antichità, quale effettivamente fu. Il suo De officiis è la quint’essenza dell’etica antica: vi troviamo un costante elogio reiterato dell’uomo raziocinante, virtuoso, instancabile cultore del bene, interamente dedito all’esercizio della ragione, e, presi dal magnifico periodare ciceroniano, finiamo per dimenticare che quello da lui descritto è un animale rarissimo, quasi inesistente.
IL MEDIOEVO
Tentata un’ardita sintesi, proveremo ora a delineare succintamente il mutamento intervenuto in ambito filosofico grazie al cristianesimo, tra il VI e il XII secolo d.C. La grande e fondamentale novità che l’avvento del cristianesimo ha introdotto è il ridimensionamento netto della ragione antica, la cui celebrazione greca deve fare ora i conti con l’instaurarsi del principio di autorità e con il dogma della destinazione divina dell’uomo, nonché della beatitudine eterna e, ad essa correlato, il peccato originale. Nel mondo antico, la ragione era la sola, suprema autorità, a tal punto che si potrebbe parlare di sovranità della ragione: nessuna autorità le contendeva il primato di autorevolezza teorica ed etica, il saper dire “che cosa fare” e “come agire”. Un tale agonismo tra la ragione e un’autorità da essa distinta interviene con il cristianesimo, che ha caratteristiche diversissime dalla religione degli antichi Greci e che lo conducono inevitabilmente ad un conflitto con la ragione, una belligeranza lunghissima e dapprima risolta (in età medioevale) con la subordinazione totale della ragione alla Rivelazione; tale subordinazione si attua in due momenti distinti: in un primo momento, nella fase patristica; in un secondo, in quella scolastica. Il momento patristico (che si protrae fino al XII secolo) ha la sua sistemazione in Agostino di Ippona e informa di sé la cultura teologica e monastica che domina fino al XII secolo a.C, quando subentreranno novità che porteranno ad una riformulazione – la “scolastica” – del rapporto intercorrente tra rivelazione e ragione, soprattutto grazie all’opera di Tommaso d’Aquino. Grazie all’Aquinate, verrà restituito, almeno parzialmente, alla ragione qualcuno dei diritti di cui era stata spogliata dalla patristica. Ma – chiediamoci – perché la religione antica non si era opposta alla ragione (come invece accade in età cristiana)? Le fonti su cui poggiava la religione antica, in special modo quella greca, erano due: la mitologia e gli oracoli, e, per di più, la mitologia di marca greco/romana non si configura come una rivelazione divina, ma come un’affabulazione umana, come interpretazione del mondo, e ne sono portavoce i poeti (Omero ed Esiodo), i quali scoprono, immaginano e inventano gli dei, le loro reciproche relazioni e quelle con gli uomini; si tratta, dunque, di un’affabulazione anteriore e parallela rispetto alla riflessione razionale, ma – al pari di questa – è pur sempre umana e, perciò, risolvibile nella speculazione filosofica, secondo un passaggio dal muqoV al logoV, passaggio che si concretizza nella cultura antica, quando cioè i filosofi hanno fatto propri i miti e ne hanno dato formulazioni razionali. Così hanno agito Platone, gli Stoici e i Neoplatonici, rielaborando in chiave razionale i miti; anche Epicurei e Scettici si sono mossi in un contesto non del tutto differente, demistificando la mitologia come cumulo immane di fandonie liquidate dalla ragione: da tutto ciò si evince come, nel mondo antico, ragione e mitologia non siano mai, propriamente, entrati in conflitto. Sull’altro versante, l’oracolo è parola divina comunicata agli uomini in luoghi precisi (i templi) attraverso una persona consacrata alla divinità venerata in quel determinato luogo: un tale verbo divino ha, tendenzialmente, contenuto di pronostici, di oroscopi, di divinazioni, ed è rivolto ai singoli che di volta in volta interrogano l’oracolo. Ciò segnala che alla religione antica ineriva una funzione eminentemente profetica, e il profetismo era risolto in una precisa casistica, il Dio si esprimeva attraverso il medium umano (la Pizia, la Sibilla, ecc), che rispondeva di volta in volta a puntuali e circoscritte domande, quali “che cosa fare nei momenti di ansia e di paura?” Le risposte, quindi, erano altrettanto puntuali rispetto alle domande, cosicchè la parola oracolare del Dio non si organizza mai in un configurarsi di rivelazioni, ossia in una visione complessiva, totalizzante e veritiera del reale; al contrario, il verbo divino non concerne la verità, e d’altro canto quando tende ad articolarsi in verità si presenta sempre come affabulazione poetica, che può essere rielaborata dai filosofi. Non è un caso che, in tale prospettiva, agli antichi greci fosse sconosciuta una Bibbia rivelante la verità, una Chiesa intorno alla quale raccogliersi, poiché questa si costituisce solamente in seguito ad una rivelazione, di cui è l’unica autentica interprete. Non sussiste nel mondo antico alcun problema di fede e ragione come due possibili e diversi accessi alla verità: il problema, invece, si pone con le “religioni del libro”, con il cristianesimo, l’ebraismo e l’islamismo, dove ci si imbatte in una rivelazione divina che si scontra con la ragione, ai cui occhi tale rivelazione appare come una folle stranezza, in quanto non solo predica cose nuove e non pronunciate dalla ragione, ma addirittura incomprensibili e opposte alla ragione stessa e ai suoi dettami (tale è il caso della Trinità, che si oppone al principio di identità). E per di più tali stranezza vengono dalla Rivelazione sentenziate con una veste di autorità sovrannaturale, come verbo divino. Con il mondo cristiano, ci si trova dinanzi a due distinti fonti della Verità immediatamente contrastanti e guerreggianti, cosicchè diventa inevitabile interrogarsi sul loro rapporto: per i non cristiani, la Rivelazione è mera invenzione umana e, come tale, viene prontamente liquidata. Ma, con l’erezione del cristianesimo a religione dell’impero avvenuta sotto Costantino, si ha l’insediamento del principio di autorità, e questo perché la natura divina della Rivelazione del libro è imposta e riconosciuta dal potere politico, spesso – se necessario – con la forza. In quanto parola divina, essa è l’assoluta verità cui la ragione umana è chiamata a sottomettersi, con la conseguenza che la “pagina sacra” e la dottrina che i suoi legittimati interpreti ne traggono è la Verità stessa, cui deve piegarsi ogni pretesa verità puramente umana. Ne sorge una società in cui la cultura non potrà essere se non cultura del “Libro sacro”, cultura cioè di un solo libro, e configurantesi precipuamente come sua lettura e, rispetto a ciò che il testo detta, l’atteggiamento della ragione non potrà che essere ricettivo e strumentale, un passivo ascolto e una mera fornitura dei mezzi volti alla comprensione quel dettato dell’auctoritas: ed è appunto questo che si compie nei monasteri fino al secolo XI (lectio divina). Ma, accanto alla novità dell’autorità, è introdotta l’innovazione della mutata immagine dell’uomo: creato da Dio e destinato a godere di beatitudine eterna, anche se parzialmente compromessa dal peccato originale, ma recuperabile col soccorso della grazia divina, l’uomo non può contare soltanto sulla propria ragione. L’obiettivo centrale e imprescindibile della vita umana diviene lo sforzo di meritarsi la beatitudine eterna e, dunque, il tentativo di conseguire con le buone opere la giustizia divina occorrente per acquisire tale beatitudine, una giustizia che è però radicalmente diversa da ogni altra. Si tratta tuttavia di un obiettivo irraggiungibile in questa vita, stante quel peccato originale che ha corrotto la ragione e ha tarpato le ali alla volontà di ottenere la beatitudine; è però in virtù della Grazia che tale impegno viene finalmente premiato, e la vita acquista senso in riferimento al suo tendere alla santità. L’uomo che si sforzi di vivere rettamente (secondo la legge divina, non quella umana) è destinato allo scacco qualora pretenda di raggiungere tale fine esclusivamente con le sue forze, poiché – come nota Agostino – si trova ineluttabilmente vinto dal peccato se non fa riferimento alla Grazia divina liberatrice. In quest’ottica, le morali elaborate dagli antichi sbagliano nel proporre fini puramente umani e terreni, che alla luce della Grazia si rivelano come illusori ed effimeri, lungi dall’autentico Bene. E il raggiungimento di quel bene terreno e umano – vuoi l’areth aristotelica, vuoi l’ascesa razionale platonica – richiede l’esercizio di virtù che sono tali solo per chi ignora la natura di Dio e dell’Amore (agaph) che Egli pretende dalle sue creature, quell’amore disinteressato per il prossimo che è sconosciuto all’etica antica; il falso eudaimonismo dei Greci poggia, secondo i cristiani, sull’ignoranza di quale sia la natura divina, giacchè tutto ciò che concerne la relazione intercorrente tra uomo e Dio (e dunque la Grazia, il peccato originale, la perfezione dell’Amore, ecc) esula dalle capacità conoscitive della ragione resa incapace dal peccato originale. Allora la relazione con questo Dio rivelatosi diventa l’essenziale, e così l’uomo in quanto ragione mira a conoscerLo e in quanto volontà tesa a compiere quella divina è rimandato continuamente a tale Rivelazione, alla quale deve in tutto e per tutto sottomettersi, piegandosi anche alla Grazia che si sviluppa in un nuovo agire reso possibile dal concorrere della Rivelazione e dalla Grazia: è, questo, l’unico vero sapere e l’unico vero agire, l’unico a contare davvero per la salvezza, frutto della Grazia agente sulla ragione e sulla volontà, secondo quanto stabilito da Dio. Con la “patristica” assistiamo ad una radicale delegittimazione di ogni punto di vista che non sia quello imposto dalla fede, e pertanto il sapere viene concepito e praticato unicamente come teologia, ovvero come LogoV intorno a QeoV, come scienza di Dio: si tratta di un genitivo sia soggettivo sia oggettivo, in quanto Dio è l’oggetto di tale scienza, ma è al contempo Dio stesso il soggetto che sa, è la Grazia divina che con la Rivelazione informa il fedele circa Dio. La delegittimazione di ogni altro sapere finisce per investire anche la filosofia e viene scandita secondo due modalità: in primo luogo, il filosofare umano è congedato come errore frutto dell’ignoranza di che cosa sia la natura divina; in secondo luogo, qualora non venga così brutalmente messo alla porta, viene etichettato come una vana curiosità intorno a cose di poco conto se raffrontate all’unica cosa che davvero conta: la salvezza umana; tutto ciò che non ha ad essa attinenza è vana curiositas e, come tale, va rigettato, si abbandona il sapere umano e si abbraccia la fede, viatico alla beatitudine eterna, una fede che è un assenso e una fiducia in ciò che viene rivelato, ma è altresì notizia di ciò che è rivelato, ossia è nozione di ciò in cui si ripone la fiducia. La fede, pertanto, incrementando questa sua spinta conoscitiva, si sviluppa in intelligenza di sé e dà così vita ad un sapere in cui è al contempo oggetto e soggetto; tale sapere è intellectus fidei, l’intellezione della fede, l’intellezione che ha ciò in cui crede. Agostino dice che vi è un primo momento di “fede semplice”, e un secondo in cui si è fatta intellectus fidei. Nello stato di fede semplice, la ragione aderisce strettamente alla parola scritturale, la tiene per vera e si riduce ad essa, si ha cioè una ragione come mera ricezione del Verbo. In un secondo momento, in forza dell’illuminazione proveniente da quella parola, l’intelletto muove dalla parola mirando ad una più ampia comprensione della parola stessa e, quindi, dirigendosi ad essa: la parola è principio della fede, e la fede illuminata tende ad una più profonda comprensione della parola. Sempre muovendosi entro l’orizzonte della parola, la fede da semplice diventa teologia, anche se tale passaggio non si verifica in tutti i fedeli (nella stragrande maggioranza resta fede semplice), ma solo in pochi eletti. Agostino nota come nello sforzo di articolazione della fede da semplice a complessa, accada al teologo di ricorrere alle dottrine di alcuni filosofi che lo hanno preceduto e che lo sorprendono per la loro straordinaria somiglianza con quel che la Rivelazione dice: tali sono, secondo Agostino, i Platonici e i Neoplatonici. Ma non per questo il teologo abbandona i suoi panni per indossare il mantello del filosofo: non si rinuncia al proprio punto di vista, poiché le dottrine filosofiche accostabili a quelle dettate dalla Rivelazione altro non sono se non un plagio o il frutto di una Rivelazione parallela; Platone stesso non è altro che un “Mosè atticizzato“. Come Mosè ha ricondotto il popolo dall’Egitto alla terra promessa, così Platone ha fatto il suo viaggio in Egitto e ha trovato le tracce della Rivelazione ebraica e se ne è impadronito per riformularle come propria filosofia. Ne deriva che il platonismo è un plagio. La seconda teoria (formulata da Clemente Alessandrino) è quella della “Rivelazione parallela”: stando ad essa, bisogna riconoscere che se ci sono (e, di fatto, ci sono) analogie tra alcune ragioni cristiane e alcune filosofiche, ciò dipende dal fatto che, accanto alla Rivelazione vera e propria, Dio ne ha prodotta un’altra – in senso lato -, ed essa corrisponde ad un certo filone della filosofia greca; e del resto la ragione di cui si son serviti nel loro incedere i filosofi antichi non è forse anch’essa il frutto della creazione divina? Sicchè il teologo che si impadronisce di certe dottrine filosofiche non fa altro che recuperare ciò che per natura è suo, formula cioè la stessa verità nello stesso modo in cui l’avrebbe prima o poi formulata, anche senza incontrare quelle dottrine filosofiche, poiché si tratta della medesima fonte di Verità. Fino a Bonaventura (XIII secolo d.C.), passando per Bernardo di Chiaravalle, domina questa prospettiva teologica che vuole la ragione interamente guidata dalla fede, e ciò non solo in sede teoretica, ma anche in campo etico, dove le improbabili virtù della sola ragione vengono surclassate dallo sforzo verso la santità supportato dalla Grazia, con la conseguenza che il vero comportamento è quello del monaco asceta e della sua assidua lotta contro il peccato, ch’egli conduce vivendo fino in fondo, nel suo cuore, la distinzione – soprattutto agostiniana – tra città divina e città terrena. Quando alla sovranità della ragione socraticamente intesa come curiosa di tutto si sostituisce l’autorità di un solo punto di vista imposto dalla fede, sovrarazionale e perciò inattaccabile dalla ragione, il dialogo cede il passo al monologo, la cultura da vivace che era diventa statica e stagnante, con un unico orizzonte entro il quale la ragione è mero strumento passivo, illuminato dalla Grazia: non vi è altro da sapere se non la vita eterna che si vivrà, e il nostro mondo perde in tal modo di rilevanza, quasi diventa favola, il monaco il monastero assurgono a simboli di una fuga dal mondo e dalla vita terrena, con l’apparentemente irrisolvibile paradosso che in quei monasteri in cui ci si vuole sottrarre dal mondo e dall’esercizio della ragione abbondano i copisti, che – attraverso il loro strenuo lavoro di copiaggio – trasmettono ai posteri un sapere puramente umano. In realtà, è un paradosso solo apparente, giacchè tali copisti, che ricopiavano per intero le opere dei grandi filosofi dell’antichità, facevano ciò solo per penitenza, per guadagnarsi il paradiso, senza nemmeno leggere quel che copiavano (sarà poi il mondo umanista che tornerà a leggere con rinnovato interesse i testi tramandatici dall’antichità). In tutte queste componenti del mondo medievale troviamo conferma della tremenda depressione culturale in cui è immersa quest’epoca: ma, a partire dalla metà del XII secolo d.C., si assiste al ritorno di Aristotele e del suo bagaglio di scritti, che irrompono portati dagli Arabi (soprattutto Avicenna e Averroè), e l’ingresso dello Stagirita in Occidente è uno shock culturale, in quanto ci si ritrova dinanzi ad una sistematica visione del mondo (precisamente: di questo mondo) che è così articolata, complessa e diffusamente argomentata – e perciò istruttiva – che non sembra più possibile sbarazzarsene come di un blocco fatto passare per menzogna o vana curiosità. E’ un sapere così autonomo che non sembra neppure possibile farlo rientrare in qualche modo nell’alveo della Rivelazione, poiché si tratta di un sapere improntato sull’esercizio non della fede, ma della ragione: con Aristotele, torna in Occidente – con rinnovato vigore – il sapere filosofico, dopo un esilio durato qualche secolo, con un effetto assolutamente dirompente, dal momento che costringe i teologi ad ammettere una forma di sapere altrettanto legittima rispetto alla loro, e li induce ad elaborare una nuova teologia che tenga conto di questa realtà poggiante su di un positivo sapere umano impostosi inconfutabilmente. Così, Bonaventura avrebbe preferito che Aristotele non fosse mai “risorto”, ma, di fronte al monumentale corpus aristotelico, non può non riconoscergli lo statuto di un sapere razionale valido, diverso sì da quello del teologo, ma non per questo da rigettarsi. Per questa via, la filosofia (opus rationis) e la teologia (intellectus fidei) si configurano come due ordini distinti, caratterizzati ciascuno da un proprio statuto, cosicchè alla teologia si impone di trasformarsi per poter intrattenere con la risorta filosofia un rapporto che le consenta di esserle superiore: prima che Aristotele facesse irruzione nell’Occidente medievale, la superiorità della teologia era scontata e aproblematica; ora, invece, la si deve riformare per far sì ch’essa sia in contatto con la ragione filosofica, ma restando ad essa superiore. Ed è in questa prospettiva che si orienta Tommaso, il quale fa nascere la teologia scolastica, ribadendo l’egemonia della teologia, pur non respingendo la ragione. Compie questo in due mosse congiunte: fa all’interno dell’economia della salvezza maggior spazio al puramente umano di quanto non venisse ad esso riservato dalla tradizione agostiniana. Prima del ritorno in Occidente di Aristotele, la ragione era del tutto appiattita sulla fede (“intellectus fidei“) e il sapere era meramente teologico: la ragione poteva sì conoscere qualcosa, ma unicamente in forza dell’illuminazione della Rivelazione. Con l’irruzione di Aristotele, anche i teologi più renitenti (quale fu Bonaventura) sono ora costretti a riconoscere, accanto a quello teologico, un sapere filosofico non scevro di una sua dignità, e il teologo deve quindi riaffermare la supremazia della teologia sulla filosofia, senza potersi sbarazzare tout court di quest’ultima: Tommaso non si esime da questo compito strategico con – come abbiamo già detto – una duplice mossa. Viene dall’Aquinate aperto maggior spazio di quanto non ne venisse lasciato da Agostino alla capacità razionale e alla volontà dell’uomo, poiché, se per Agostino il peccato originale ha fatto tabula rasa demandando l’uomo all’intervento salvifico della Grazia, secondo Tommaso tale peccato ha solo tangenzialmente ferito la natura umana, l’ha vulnerata di ferite non tali da impedire all’uomo l’esercizio delle sue naturali facoltà, ed è così (equipaggiato di efficaci doti conoscitive) che lo descrive Aristotele e, sulle sue orme, Tommaso. La ragione crea proficui processi argomentativi, ma risulta altresì in grado di innalzarsi, elaborando una teologia naturale (meramente razionale), ossia una vera – seppur parziale – conoscenza di Dio, razionalmente inteso come principio del mondo. Ed è a questo punto che subentra la seconda mossa di Tommaso: non solo il retto uso della ragione è possibile e dà buoni risultati, ma è il solo che, producendo una veritiera conoscenza del mondo e di Dio, non solo non è contrario alla fede, ma anzi prelude e introduce ad essa. Sicchè il percorso razionale è meritorio e degno d’esser praticato, e questo perché i due ordini (della ragione e della fede) provengono dallo stesso ed unico Dio, cosicchè la retta ragione non può contraddire la fede: la verità della fede e quella della ragione non si elidono vicendevolmente. Ciò vuol dire che una filosofia contraria alla fede è un errore della ragione che la ragione stessa è in grado di individuare e di correggere: la filosofia corretta è l’aristotelismo che culmina nella teologia razionale tomistica, quel tale aristotelismo sviluppato appunto da Tommaso nei suoi scritti; devono invece essere rigettate come errate tutte quelle interpretazioni dell’aristotelismo che hanno esiti diversi, prima fra tutte quella espressa da Averroè (contro i cui seguaci l’Aquinate si schiera soprattutto nel De unitate intellectus contra Averroistas), la cui rielaborazione dell’aristotelismo finiva per predicare l’eternità del mondo. La sola ragione può qualcosa da sé, se correttamente esercitata, e configura il filosofare come introduzione alla fede, giacchè un tal corretto filosofeggiare culmina naturalmente nella conoscenza di Dio. Ma la filosofia non si riduce a questo: il suo esercizio prosegue dopo l’incontro della ragione con la Rivelazione, la quale non fa altro che potenziarla; illuminata, la ragione è ora in grado di dare alla fede l’intelligenza di sé e la propria comprensione, cui è la fede stessa ad aspirare. Ne nasce il sapere teologico propriamente detto, sicchè il teologo è colui che anticipa la beatitudine conoscitiva propria degli eletti. In questo modo Tommaso, nell’atto stesso in cui riconosce la bontà e la legittimità del filosofare (se direzionato dalla fede), pone la filosofia sotto la tutela della teologia, ribadendo così l’incontrastata preminenza di quest’ultima. E’ sì legittimo filosofeggiare, ma tale attività – se corretta – è preludio alla fede: la filosofia è in tal modo ridotta al rango di ancilla theologiae. Non vi è contraddizione e neanche soluzione di continuità, giacchè il sapere filosofico si prolunga nella teologia positiva, cosicchè si tratta di un unico sapere frutto dapprima della sola ragione, poi anche della fede, il tutto sotto l’egida della Rivelazione e della fede stessa, il cui primato è costantemente messo in evidenza. Da una parte c’è la ragione senza fede ed è preambolo alla fede, ossia le cammina davanti; e, successivamente, abbiamo il sapere ottenuto dalla ragione congiunta alla fede, ci troviamo cioè di fronte all’inveramento di quel preambolo costituito dal solo procedere della ragione. Tra le due – ragione e fede – vige una nuova relazione anche sul versante etico/pratico: la stessa continuità che sussiste sul piano teoretico (culminante in teologia rivelata) regna anche sul piano pratico tra etica filosofica ed etica rivelata. A tal proposito, Tommaso parla di lex divina, di lex naturalis e di lex humana: quella divina è rivelata da Dio nella Scrittura, quella naturale è scoperta dall’investigare della ragione ed è anch’essa di natura divina, poiché insita nelle cose prodotte dal Creatore; infine, quella umana è deliberata e messa in atto dall’uomo, legittima solo in quanto derivata da quella naturale. In quanto dotato di ragione, l’uomo conosce la legge naturale, il cui nocciolo – apparentemente tautologico – è così esprimibile: fai il bene ed evita il male. Ora, il bene a cui fa qui riferimento Tommaso è il bene a noi noto nel significato aristotelico e colto, appunto, dalla ragione: si tratta, cioè, del bene come piena attuazione dell’essere proprio di ogni ente; tale processo si scandisce in fasi diverse: la conservazione di sé, la procreazione, la crescita della prole, la vita in società, la conoscenza della verità, l’agire secondo ragione. Ed è in ciò che consiste anche il raggiungimento della perfezione umana e della felicità terrena: ma questa, che per Aristotele era la massima felicità, per il cristiano Tommaso risulta invece una felicità imperfetta e depotenziata, terrena e perciò mutila. Occorre notare, a tal proposito, che in questo discorso di etica filosofica ritroviamo invariate tutte le caratteristiche del filosofare etico/aristotelico, ivi compreso l’intellettualismo, in particolare là dove esso asserisce che la volontà è funzione della ragione: non a caso Tommaso dice che “si ratio recta, et voluntas recta“, ad indicare che dove la ragione procede bene, lì anche la volontà – che ad essa è indisgiungibilmente connessa – funziona bene. Ma tutto ciò vale esclusivamente nell’ambito dell’etica naturale, cioè nell’adempimento della legge di natura: c’è però – come sappiamo – anche una legge divina, che la ragione non può conoscere né la volontà può adempiere, bensì necessita della Rivelazione per essere conosciuta e della Grazia per essere osservata. Essa prescrive all’uomo la iustitia divina, ossia il puro e disinteressato Amore divino, conosciuto con la Rivelazione e praticato con la Grazia: è solo tale morale a fornire la vera felicità, mentre l’etica naturale funge da preambolo ad essa proprio come la filosofia è preambolo al sapere teologico, nel senso che predispone l’uomo – distogliendolo dagli istinti passionali – ad ascoltare la volontà divina. Ugualmente, l’etica filosofica prepara l’uomo all’etica cristiana, è una prima tappa di raccoglimento in vista del conseguimento dell’eterna beatitudine. Siamo tuttavia in presenza di un evidente duplice ottimismo: da un lato, la ragione conosce le virtù (il che le era dalla patristica precluso) e, dall’altro, pur non soddisfando l’esigenza divina di giustizia, prepara ad essa, ottenibile solo in virtù del soccorso della Grazia; così la ragione, rinforzata dalla Grazia stessa, riesce per un po’ a perseguire la santità. Infine, la legge umana è quella stabilita dal potere politico amministrato dagli uomini: essa è legittima nella misura in cui è trasposizione fedele della legge naturale, e se la contraddice non è legge, così come quando la filosofia contravviene alla fede non è filosofia, ma erramento. Sicchè è lecito affermare che la legge è tale solo e nella misura in cui è giusta, altrimenti va respinta: ed è per questo che Tommaso riconosce la liceità politica della ribellione e della lotta contro il tiranno (con il conseguente abbattimento del medesimo). E tuttavia, nella legge umana, traduzione di quella naturale e divina, tale legge esprime parallelamente all’etica la medesima funzione propedeutica, poiché, costringendo a non fare il male e a non delinquere – anche solo per il timore di essere puniti – indirizza verso il bene, cosicchè c’è da aspettarsi che quanti costretti dalla legge non fanno il male solo per paura delle pene derivanti (ed è questa la tesi proposta nella Repubblica platonica attraverso il mito di Gige) si abituino a non farlo e a fare volontariamente ciò che prima facevano sotto costrizione. Da tutto questo discorso si evince come le novità apportate da Tommaso non siano poche e di scarso valore: prima fra tutte, la legittimazione del filosofare in quanto tale, seppur subordinato alla teologia e nonostante il persistere della subordinazione del terreno al divino; similmente, beatitudine eterna e santità restano lo scopo ultimo a cui tendere e per cui impegnare le proprie energie. Il tomismo restituisce alla sfera umana un respiro che per secoli era stato abolito: legittimare il sapere filosofico significa rilegittimare la conoscenza di questo mondo, e nelle università urbane fiorite ai tempi di Tommaso nel loro massimo splendore si insegna e si studia la filosofia come una conoscenza squisitamente razionale, soffermandosi sull’aristotelismo presentato in tutte le sue molteplici forme, anche le più radicali (l’averroismo). Anche se nella metà del 1200 si terrà a Parigi il processo intentato a Sigieri di Brabante e agli altri pensatori che, sulla sua scorta, ponevano la filosofia in antitesi con la fede, ciononostante la filosofia continuerà ad essere costantemente insegnata, godendo di grande fortuna. Ciò non toglie, però, che nella cultura dell’età medievale la relativizzazione della vita terrena e mondana resti dominante e sancita, e l’esigenza della santità rimanga discriminante; l’uomo deve sì raggiungere le virtù, ma non fermarsi ad esse, giacchè al di là vi è la santità. In questo panorama, la figura del monaco, ovvero di colui che impegna tutto se stesso nel raggiungimento di suddetta santità, resta un modello imprescindibile per tutti, di contro a cui la vita civile e mondana si rivela periferica e imperfetta. Del resto, non è un caso che ancora il Concilio di Trento minaccerà l’anatema a chi azzardi sostenere la superiorità del matrimonio sulla castità monacale: ciò testimonia come la vita nel mondo terreno resti per lungo tempo soggetta al sospetto e alla diffidenza, e come, nonostante le innovazioni e le aperture apportate da Tommaso e da altri pensatori illuminati, la modernità resti ancora all’orizzonte. La riscoperta di Aristotele impressiona fortemente l’Aquinate, ma viene spontaneo domandarsi perché non sortisca effetti altrettanto profondi su Agostino e sulla cultura del suo tempo, che aveva liquiditato lo Stagirita (inserito nel tutto della cultura antica) come errore e vana curiositas. Come è possibile che Tommaso resti affascinato dal pensiero greco espresso da Aristotele, mentre Agostino lo congeda come se fosse una bagatella? Una possibile risposta a tale interrogativo potrebbe essere quella che invoca la categoria hegeliana di “Spirito del tempo”, ossia la tendenza peculiare e irresistibile di una certa epoca storica e della sua cultura: la tendenza trionfante in una determinata epoca è, in definitiva, una manifestazione dello “Spirito del tempo”, e in effetti la categoria hegeliana è più complessa di quanto si possa pensare sulle prime, giacchè lo “Spirito del tempo” risulta composto da innumerevoli e imperscrutabili fattori che, variamente combinandosi, determinano i mutamenti epocali (ad esempio la fine del mondo antico e l’avvio di quello medievale). Tali fattori sono così numerosi (pressochè infiniti) da richiedere un’analisi quasi interminabile: ci troviamo pertanto di fronte ad una categoria vaga, perché in ultima istanza lo “Spirito del tempo” hegeliano sfugge alla presa della ragione discorsiva, è un certo nonsochè di sfumato, che non può essere colto dal pascaliano “esprit de geometrie“, ma dall’opposto “esprit de finesse“. Ed è in quest’ottica che dinanzi ad Aristotele si reagisce in maniere diverse, per svariati e non precisi motivi legati allo “Spirito del tempo”, forse perché ai tempi di Agostino la ragione era in declino e la fede rappresentava una novità sollecitante, mentre ai tempi di Tommaso, viceversa, si cominciava a nutrire un rinato interesse per le facoltà razionali così a lungo sepolte. In maniera del tutto analoga alla reazione di fronte ad Aristotele, capita che una stessa città, se vista nel cuore della notte, quando vi si giunge stanchi, appaia orribile; ma, al contrario, se osservata alla luce del sole, da riposati, risulti meravigliosa, pur essendo sempre la stessa.
LA MODERNITA’
A partire dal XIII secolo d.C. si instaura un processo di progressiva rivendicazione di affermazione di sé da parte della ragione umana, e questo ridestarsi della ragione dopo il lungo letargo medievale sfocia nell’Umanesimo, da alcuni concepito come l’alba della modernità. Cronologicamente, per modernità si è propensi ad intendere il periodo che va dalla seconda metà del XV secolo fino ai giorni nostri; in termini generalissimi, stando alla definizione che ne dà Hegel, tale modernità è la “conversione dal cielo alla terra“: non più l’al di là, bensì l’al di qua, non la beatitudine eterna, ma la felicità mondana, non la vita futura ma la presente, costituiscono il centro dell’interesse dell’uomo umanistico, per il quale tanto il cielo religioso quanto quello metafisico delle immutabili idee platoniche e delle forme aristoteliche si scostano per cedere il posto alla finita vita terrena. In realtà, questo processo prende le mosse in pieno XIII secolo e dura per parecchio tempo, raggiungendo l’apice nel XVIII secolo con l’illuminismo, e passando per due grandi momenti emancipativi: emancipazione dal principio di autorità e la rinascita della curiosità. Sgombrare il campo dal principio di autorità significa far rinascere l’autonomia della ragione, incensurata e non sottoposta al comando di alcuna entità; la modernità risiede anzi soprattutto nel libero esercizio della ragione, il che vuol dire che essa ridiventa socraticamente curiosa, e – per dirla con Kant – cessa di essere impigrita dal dominio del Libro. I “moderni” hanno legittimato la rinata curiosità in tre fondamentali momenti: il primo di essi è segnato dall’Ulisse nell’Inferno di Dante, che col suo ardore “a divenir del mondo esperto” si spinge fin oltre le Colonne d’Ercole, imbattendosi infine nella morte; il secondo trova invece espressione in un passo di Giordano Bruno (De gli eroici furori, dialogo 5), in cui il Nolano scrive: “O curiosi ingegni, / […] Per largo e per profondo / Peregrinate il mondo, / Cercate tutti i numerosi regni“, con una chiara allusione alle grandi scoperte geografiche di quei tempi. Infine, il terzo e ultimo momento è scandito da una lettera di Cartesio inviata il 9 febbraio 1639 a padre Mercenne: “io studio per la mia utilità e per la mia curiosità“; particolarmente interessante è il riferimento cartesiano alla categoria dell’utile, che da quel momento in poi assumerà un ruolo fondamentale in sede filosofica. Da queste tre tappe appare evidente come siamo incommensurabilmente distanti dalla dannazione monastica della curiosità (quale era stata sancita da Pier Damiani e da Bernardo), la quale è conditio sine qua non per sbarazzarsi del principio di autorità: è sì una condizione necessaria, ma ciononostante non sufficiente, poiché – affinchè il principio di autorità venga scalzato – è altresì necessario che la ragione diventi anche critica, quale era presso gli antichi. Essa torna appunto tale nell’Umanesimo, un termine, questo, che troviamo solo a fine Settecento e inizio Ottocento: l’Umanista è chi ha accesso a una cultura superiore, è chi si umanizza studiando i testi tramandati dagli antichi, presi a modello di umanità in quanto paradigmi del libero esercizio della ragione, non più ancella della teologia, ma libera e disincantata padrona del mondo. Questo era già, sostanzialmente, il significato della humanitas presso gli antichi, e tale viene compendiato da Aulo Gellio nelle sue Notti attiche (libro XIII, cap. 17): “chi parlava una volta bene latino, designava col termine humanitas quello che i Greci denominavano paideia […]. Sono dotati di humanitas quanti mostrano per le arti una passione sincera e perciò meritano di esser detti i più umani tra gli uomini“. Nell’età umanistica, in sintonia con la nozione antica di humanitas, si diffondono con incredibile rapidità espressioni del tipo humanae litterae, humanitas o studia humanitatis, che ben rispecchiano il clima di profonda attenzione per la produzione degli antichi (che in età medioevale era stata letta in maniera strumentale alla fede) che si respirava in quel periodo. Scriverà Giambattista Vico: “gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura“; con questa celebre riflessione, egli mette in luce come gli uomini in un primo momento siano ancora dei bruti, mera sensazione inconsapevole; poi accedono ad una consapevolezza perturbata dall’emozione e, infine, pervengono alla pura ragione discorrente e ragionante (il che corrisponde appunto all’età antica di Aristotele e Platone e al ritorno di quell’epoca nel mondo umanistico), impadronendosi della “bilancia dello spirito critico“, che – aristotelicamente – non può essere posseduta né dai primitivi né dai fanciulli e che nasce con l’Umanesimo. Non è casuale che in età umanistica torni in auge il dialogo, che soppianta il monologare del principio di autorità dell’età medievale: si attua in tal maniera una straordinaria moltiplicazione dei punti di vista e delle prospettive, perché le più disparate concezioni vengono riscoperte e riproposte. Non domina più quel tutt’uno onnisciente che è la dottrina cristiana, ma pullulano tantissime filosofie nella loro individualità, anche scuole di pensiero espunte o tralasciate dai Medievali (l’epicureismo, lo scetticismo e lo stoicismo). Sicchè la tradizione, a partire dall’età umanistica, è messa in krisiV, cioè sottoposta a giudizio e ricomposta nelle sue differenti componenti – spesso inconciliabili – e questa è la condizione imprescindibile affinchè possa farsi strada la tolleranza, ovvero la pacifica convivenza di punti di vista diversi e, spesso, contrari. Il primo importante manifestarsi della rinascente coscienza critica è la filologia umanista, che non può essere ridotta ad un arido grammaticalismo, ma va piuttosto intesa come tensione a reinterpretare nella sua complessità la cultura antica quale ci è pervenuta. Insomma, non si tratta di una mera restaurazione linguistica (non è, cioè, un banale ritorno al latino di Cicerone, come lo intenderà certo umanismo, quale quello di Ermolao Barbaro), ma è piuttosto l’esercizio critico della ragione; tale è, per l’appunto, la critica filologica condotta da Lorenzo Valla contro la “Donazione di Costantino”, da lui smascherata – col solo utilizzo di mezzi filologici – come un falso posteriore, redatto da un monaco ignorante. Siamo in altri termini di fronte ad una riappropriazione critica della tradizione antica, considerata in sé come un valore smarrito nella buia età medievale. Risulta a questo punto opportuno indagare – seppur sinteticamente – su che cosa sia accaduto alla ragione nei cosiddetti “secoli bui” dell’età medievale: dal prevalere egemonico della consuetudine sulla ragione, nasce una cultura nella quale si assiste al sopravvento di un unico punto di vista (quello cristiano), spesso imposto con la violenza, un punto di vista che non è il frutto del libero investigare del raziocinio, ma, piuttosto, è un qualcosa che viene tramandato consuetudinariamente di padre in figlio, ed è in tale condizione che si palesano gli effetti deleteri giocati dal cristianesimo sulla ragione umana. Quanto più la consuetudine prende il sopravvento, tanto più viene stimolata la pigrizia del filosofare, imponendo la comoda facilità del risaputo, con l’inevitabile conseguenza che la capacità di giudizio propria della ragione si ottunde ed essa subisce un precoce ed artificioso invecchiamento che ne atrofizza le funzioni riducendola a mero portavoce e a pura cassa di risonanza della prospettiva cristiana. Un simile esempio di sclerotizzazione di un’intera civiltà – quale si è avuto nel Medioevo – ci è fornito anche dalla Cina, così come essa si è sviluppata fino al XIX secolo d.C., in un incredibile immobilismo che Hegel ha rintracciato nella produzione artistica, tristemente rimasta invariata nelle sue forme, a tal punto da essere nel XVIII secolo ancora ridotta a riprodurre prototipi del tutto uguali a quelli dei secoli precedenti, in una repititività assoluta, peraltro presente anche nelle istituzioni politiche di quell’immenso Paese. Ora, qualcosa di affine al caso cinese avviene in Occidente nell’età medievale: prova ne è che se ci chiediamo in che cosa si differenzi l’Ottocento dal Novecento o dal Mille, ci troviamo alquanto in imbarazzo nel fornire risposte soddisfacenti, proprio come non riusciamo a rispondere se interrogati su quali siano le distinzioni tra la Cina del XIX secolo e quella del XII. Lo shock culturale prodotto dal rientro in Europa di Aristotele ha, in tal prospettiva, l’effetto di una vera e propria scarica di adrenalina; e, del resto, l’intellettualismo greco, così profondamente venato di ottimismo, da cos’altro trae origine se non dallo stupore continuo che sorprende la ragione che scopre se stessa? I dialoghi platonici non sono forse un incessante stupore della ragione che disvela le sue virtù? Ora, la modernità non esita a condannare il Medioevo e il suo rifiuto della ragione come faro della vita umana: e, bandito il principio di autorità e ripristinata la curiosità di marca socratica, i moderni procedono con una terza importantissima via emancipativa con la quale convertirsi dal cielo alla terra, e quella via è una diretta conseguenza del ripudio del principio d’autorità. Scrive Hegel in merito all’età medievale, epoca della “coscienza infelice” che vede in Dio tutto e nell’uomo nulla – e al suo trapasso in modernità: “gli uomini avevano un cielo ornato con ricca abbondanza di pensieri e di immagini […]. Anziché sostare in questo pensiero, che invece sorvolava, lo sguardo si innalzava al cielo, ad un essere divino, ad un presente – se così si può dire – al di là. Si rese così necessario, in età moderna, costringere l’occhio dello Spirito sulle cose di questa terra e trattenerlo“. Il cielo della religione cristiana, delle idee platoniche e delle essenze aristoteliche viene dai moderni abbandonato: anche le essenze aristoteliche – è bene notarlo – fanno parte del cielo e non della terra, poiché esse sono contemplabili da parte della ragione solo attraverso un’astrazione che le svincoli dall’empirico e, di conseguenza, dalla vita. In età moderna, è la ragione, ridestatasi dal lungo letargo medievale, che – critica e polemica ad un tempo – costringe l’occhio alla terra, svuotando i cieli allestiti dalla religione e dalla metafisica, le quali appaiono alla ragione stessa come vane fantasticherie o fumose congetture, ossia come mondi fantasmagorici o, quanto meno, incerti, privi cioè di salde prove e perciò immeritevoli di convogliare su di sé tutta l’attenzione e la sollecitudine dell’uomo. La pretesa di fare di questi cieli il fine ultimo dell’uomo appare agli occhi vigili della ragione critica non solo infondata, ma anche nociva, giacchè distoglie l’uomo stesso dall’occuparsi di quegli obiettivi in larga misura certi e tangibili: le cose ch’egli potrebbe compiere quaggiù, finirà per trascurarle completamente se si ostina a perder tempo in questi fantomatici e sedicenti cieli; la ragione nella sua veste critica, dunque, distoglie da essi, mentre quella nella sua veste critica e operatrice trattiene a terra lo sguardo, mettendo mano ad una ben calcolata (cioè scientifica) trasformazione della terra, volta a trarre la massima utilità e il massimo profitto possibili per l’uomo. Ecco allora che l’emancipazione dal cielo si articola in una prima riappropriazione della terra grazie alla ragione calcolatrice che sfocia in una prospettiva eudemonistica e utilitaristica tipica della modernità, sfocia in un filantropismo che culminerà nell’illuminismo. E allora ciò che la risvegliata ragione sortisce è un allontanamento dal miraggio d’una lontana e dubbia beatitudine celeste (distacco anche dalle forme aristoteliche e dalle idee platoniche), avviandosi all’indubbia e prossima felicità terrena, frutto di un corretto impiego della ragione, il quale è sì un impiego critico e polemico, ma non più metafisico (come quello antico), la ragione non si interessa cioè più di speculare, ma concentra la sua attenzione sul calcolare e sull’operare. In piena età illuministica, Voltaire e Diderot affermano concordi che “la felicità è l’unico dovere dell’uomo“, ma non si tratta della felicità platonicamente ed aristotelicamente intesa, culminante nella sapienza speculativa; al contrario, è la felicità di chi riesce a rendere questo mondo più comodo e agevole, in un significato piuttosto vicino a quello che odiernamente attribuiamo al “benessere”. Ne segue che l’emancipazione dal cielo comporta la riappropriazione della terra, ma anche una seconda riacquisizione: affinchè l’uomo si riappropri della terra trasformandola a proprio vantaggio, è necessario che egli sia presente hic et nunc a se stesso, edotto e consapevole delle proprie caratteristiche e qualità, fiducioso nei propri mezzi e padrone di far di essi l’uso più consono. Occorre cioè la riappropriazione di sé da parte dell’uomo, il che significa che i moderni elaborano una nuova e diversa immagine dell’uomo stesso, rispetto a quella affiorata in età medievale. Una lunga tradizione storiografica che parte da La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) di Jacob Burckhardt e arriva fino a Giovanni Gentile scorge i prodromi di questa rinnovata immagine dell’uomo nei trattati umanistici sulla dignità e sull’eccellenza dell’uomo, nei quali si tesse un elogio del genere umano e se ne segnalano la superiorità e l’egemonia su tutti gli altri esseri. Ma sono veramente questi i testi in cui emerge l’immagine dell’uomo nuovo? Sono per davvero gli incunaboli di un genere umano dal volto rinnovato? O non sono piuttosto altri? Scendendo nello specifico, notiamo come i trattati umanistici a cui fan riferimento Burckhardt e Gentile siano suddivisibili in due diversi filoni – uno platonico e l’altro aristotelico – , nessuno dei quali tuttavia delinea veramente la nuova immagine dell’uomo moderno. Il più noto esponente del filone platonico è indubbiamente Pico della Mirandola e la sua Oratio de hominis dignitate, nella quale sostiene che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio e, perciò, come un microcosmo, in maniera tale da riprodurre entro di sé l’infinita pienezza di Dio (la pienezza delle idee platoniche si configura per Pico come pienezza dell’essere divino, infinito perché racchiude in sé l’infinita totalità delle idee). Il mondo stesso è, del resto, un’immagine (deficiente) di Dio e l’uomo rappresenta un mondo in miniatura, in quanto egli è virtualmente ogni forma possibile di vita: vegetale (poiché possiede l’anima vegetativa), animale (perché dotato di anima sensitiva e, quindi, di istinti e passioni), umana (in quanto equipaggiato di ragione e pensiero), angelica (nel caso raggiunga la pura intuizione intellettuale). Ben si capisce come l’uomo compendi entro di sé l’intero cosmo, perfino la vita divina. E tale microcosmicità fonda la libertà dell’uomo, chiamato a scegliere quali seguire tra queste vite virtualmente presenti in lui: con un libero slancio di volontà, può decidere se restare pianta, animale, uomo, o se innalzarsi alla natura angelica e magari anche a quella divina. Tale libertà è la prima ragione della particolare eccellenza e dignità da Pico riconosciuta al nostro genere, strettamente imparentato con Dio stesso: è solo l’uomo, infatti, a poter scegliere liberamente se rimanere pianta o innalzarsi a Dio, mentre tutti gli altri enti (le piante, gli animali, e gli angeli stessi) sono destinati a rimanere quali sono, fissati nella loro determinatezza. Certo, non si tratta di una libertà assoluta, ma relativa, in quanto non costituisce i valori tra i quali scegliere, ma li trova già costituiti: ma è comunque tale da consentirci una nostra dignità eccellente. E Pico – qui in sintonia con Ficino e con il suo De immortalitate animorum – sviluppa un’attenta riflessione sul “desiderio naturale”, che è un desiderio congenito alla natura di un certo ente; ora, esso è presente in tutti gli enti e in tutti ha per oggetto un bene che è – aristotelicamente – il proprio bene, ossia la perfezione dell’essere di quel dato ente, sicchè ogni cosa appare come in cammino verso la propria piena realizzazione. Anche nell’uomo trova spazio tale desiderio naturale, ma con la prerogativa di non potersi appagare di un simile perfezione: al contrario, mira alla perfezione dell’essere in quanto tale, e perciò a quella dell’essere divino. Sotto le spoglie del desiderio naturale divino di cui parla Pico non è difficile riconoscere l’eros socratico/platonico, quell’anelito all’infinito che tornerà ancora nella cultura romantica: tale sforzo verso l’infinito alimenta la nostra anima per tutta la sua esistenza, poiché nessuno dei beni che conquista è in grado di estinguere la sua sete; da ciò deriva che l’esistenza dell’anima, tendente all’infinito e per questo motivo mai appagata pienamente, dovrà essere infinita, cosicchè essa sarà immortale. E’ una contraddizione solo apparente quella in cui ci imbattiamo quando Pico parla dell’uomo come ente finito e del suo desiderio naturale come mirante all’infinito: l’uomo, infatti, è atto al fine soprannaturale ed è in ciò soccorso dalla Grazia, secondo quel celebre motto medievale “Gratia perfecit naturam“; è pertanto concesso all’uomo di raggiungere l’infinito, grazie all’intervento della Grazia: ciò avviene nell’estasi mistica, il che vuol dire che in questa suprema possibilità di unirsi a Dio Pico ravvisa la superiorità umana su tutto il creato, giacchè solo l’uomo (e non l’angelo) può indiarsi. Gli è permesso di innalzarsi fino alle sfere celesti o di abbassarsi fino ai bruti: che l’uomo si trovi in qualche misura in una posizione privilegiata rispetto agli angeli è anche provato dalla tradizione biblica, che vuole che, caduti sia gli uomini sia gli angeli (Lucifero), Dio si prenda cura esclusivamente dei primi, concedendo loro la possibilità di redimersi. Questo discorso di Pico rileva la centralità dell’uomo nell’economia del cosmo, di cui l’uomo appunto è il massimo prodotto: “o somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile felicità dell’uomo! Al quale è dato avere ciò che desidera, essere ciò che vuole. […] I quali [uomini] cresceranno in colui che li avrà coltivati e in lui daranno i loro frutti. Se saranno vegetali, diventerà pianta; se sensibili abbrutirà. Se razionali, riuscirà animale celeste. Se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. E se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte primeggerà” (Oratio de hominis dignitate). L’uomo così inteso è faber fortunae suae: eppure la prospettiva di Pico (condivisa in gran parte da Ficino e da Landino) può davvero dirsi moderna in senso pieno? Getta davvero le basi del nuovo uomo? Sia Pico sia Ficino mantengono il cielo come mèta ultima (platonica e cristiana), restando lontanissimi dall’affermazione hegeliana secondo cui il moderno sarebbe un passaggio dal cielo alla terra. Se ci spostiamo sul filone aristotelico, ci imbattiamo in tre grandi pensatori: Manetti (autore del De dignitate et excellentia hominis), Alberti (di indirizzo stoico) e Bracciolini. Essi si occupano della nobiltà dell’uomo, rinvenuta nell’esercizio delle virtù etiche e politiche (per questo motivo questi tr
LA FILOSOFIA DELL’ORIENTE
In molti hanno insistito su come la filosofia sia un prodotto squisitamente greco e unicamente occidentale, quasi come se l’Oriente non avesse mai pensato e – per dirla con una terminologia aristotelica – gli Orientali non fossero uomini in senso pieno. In questo senso, il motto di Quintiliano “satura tota nostra est” parrebbe trasformarsi in “philosophia tota nostra est“, e su questo punto concorda una lunga tradizione che da Aristotele giunge fino a Hegel; questi – nelle sue “Lezioni sulla storia della filosofia” – nota come si tenda a provare un misto di fascino e di ammirazione per il pensiero orientale, e ciò dipende unicamente dal fatto che non lo si conosce, se non superficialmente, poichè – nota Hegel – se si scava in profondità si scopre che una filosofia orientale sensu stricto non esiste. Ma negli stessi anni in cui Hegel condannava il mondo orientale quale inferiore a quello occidentale, Schopenhauer andava scoprendo che anche l’Oriente aveva saputo (e sapeva ancora) pensare, sapeva sollevare quelle stesse problematiche sulle quali si affaticavano gli Occidentali e ad esse fornivano risposte altrettanto ingegnose. Ed è per questo che Schopenhauer tentò di coniugare, con pari dignità, il sapere maturato nell’Occidente con quello germogliato nell’Oriente, consapevole che non esistono un uomo occidentale e un uno orientale, bensì esiste l’uomo in quanto tale, uguale in tutto il mondo e capace di porsi le stesse domande indistintamente dal luogo in cui si è trovato a nascere. Più che di un antagonismo conflittuale tra civiltà, si dovrebbe allora parlare – e tentare di attuarla – una cooperazione degli uomini in quanto tali per discutere di tutti quei problemi che, appunto, non riguardano l’uomo occidentale o l’uomo orientale, ma l’intero genere umano.
LA FILOSOFIA EBRAICA
A cura di Ernesto Riva
Introduzione
Quando appaiono in Grecia i primi filosofi, verso il 500 a.C., si è, si può dire, alla fine della grande fioritura di scrittori, storici, profeti e sapienti ebrei. Se studiamo questa biblioteca costituitasi a poco a poco, costatiamo di essere davanti ad un pensiero assolutamente originale se la si confronta con altri tipi di pensiero, per esempio quello che si sviluppò dal X secolo a.C., almeno, in India, o ancora quello che si sviluppò in Cina, soprattutto a partire dal VII secolo a.C., o ancora il pensiero greco, dalle sue origini note, intorno al VI secolo a.C. In Israele l’umanità ha operato una conversione morale decisiva come anche una conversione mentale. Il rifiuto dell’idolatria, il rifiuto di adorare le cose di questo mondo come se fossero l’Assoluto, il rifiuto di considerare come divini il sole, la luna, le stelle, le forze della natura, le sorgenti, gli alberi, gli animali, i pezzi di legno, i blocchi di terra o di metallo; questo rifiuto attesta che in questo momento l’umanità ha raggiunto la razionalità. È ancora contro l’animismo cosmico e biologico che i profeti di tutta la tradizione d’Israele si sono levati. In Grecia, presso alcuni Presocratici, come in Palestina, uno sforzo di razionalità emerge…ma in Israele trionfa, mentre nella Grecia antica la critica dei razionalisti sarà sommersa dal riflusso delle mistiche cosmiche che vedono nell’universo un dio e negli astri sostanze divine. Il piccolo popolo ebraico ha totalmente desacralizzato la natura (questo è molto originale perché i popoli dell’antico Oriente e i Greci professavano il contrario, la divinità dell’universo, della natura, degli astri, delle forze naturali e persino di certi uomini. Si può quindi sostenere senza paradosso che è all’origine del razionalismo moderno, poiché le scienze sperimentali dell’universo e della natura poggiano sul principio che niente nella nostra esperienza è divino. Se ora consideriamo l’apporto del pensiero biblico nel suo insieme, se tentiamo un bilancio, bisogna constatare che la concezione del mondo trasmessaci dagli Ebrei è razionale, se per razionale si vuole intendere quello che è conforme all’esperienza scientificamente esplorata. Gli Ebrei hanno demistificato la concezione del mondo antica; hanno desacralizzato l’universo; hanno respinto il mito dell’eterno ritorno, hanno rigettato il mito della preesistenza dell’anima e la dottrina della reincarnazione (anche se in alcune correnti mistiche l’idea sembra ritornare).
Una certa idea dell’uomo è apparsa nel mondo, è nata e ancor oggi guida quello che c’è di meglio nell’umanismo odierno. Maurras e Nietzsche hanno ragione di dire che lo spirito rivoluzionario, lo spirito di sovversione, il senso della giustizia hanno origine ebraica. Questo popolo ha respinto l’idolatria sotto tutte le sue forme, ha rigettato la pratica dei sacrifici umani, rifiuta di praticare la divinizzazione, di consultare astrologi e chiromanti, è il popolo che insegna la giustizia a favore dei poveri e degli oppressi, delle vedove, degli orfani e degli stranieri. Questo costituisce veramente una nuova umanità, un nuovo tipo d’umanità. Da quando è stato messo per scritto, dal IX o VIII secolo a. C., questo popolo ha la certezza che il mondo intero si volterà verso il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.
Dio
Come si caratterizza dunque il pensiero ebraico? Innanzitutto con una certa dottrina dell’essere, del mondo e dei suoi rapporti con l’essere che la tradizione ebraica considera come l’essere assoluto, l’essere primo, colui che non ha inizio e non avrà fine e che chiama Dio, Elohim in ebraico, oppure il tetragramma YHWH che è verosimilmente la terza persona del verbo essere e quindi si potrebbe tradurre con: Egli è, a condizione di ricordarsi che nel sistema linguistico ebraico, la forma detta “inadempiuta” indica un’azione incompiuta che si può situare nel passato, nel presente o nel futuro. Egli è, in ebraico, bisogna tradurlo quindi con: Egli era, Egli è, Egli sarà, colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente. Si ricordi, en passant, che dopo la distruzione del santuario di Gerusalemme, nel 70, la vera pronuncia del tetragramma – che il sommo sacerdote pronunciava una volta l’anno – è andata perduta, senza possibilità che sia ritrovata con certezza. In Israele il tetragramma è letto e vocalizzato Adonai, Signore; la lettura del nome come Yahvé è una ipotesi critica purtroppo non verificabile (anche se in alleluja si intravede ja), mentre è del tutto infondata la lettura Geova, ottenuta dalla presunta sovrapposizione delle vocali di Adonai alle consonanti di YHWH.
La storia come il pensiero di Israele hanno questo di particolare, che si concepiscono come caratterizzati da una scoperta, da una conoscenza: quella dell’Assoluto come essere personale, creatore e che intrattiene con Israele relazioni di tipo personale. Con Israele un fenomeno nuovo si produce: se si crede ai libri di Israele, l’Assoluto stesso si indirizza all’uomo e viene a cercare l’uomo. Una relazione di dialogo si stabilisce tra l’Assoluto e l’uomo. Costantemente dalle origini di Israele, la loro analisi della situazione storica passata, presente e futura, si fonda sulla coscienza di una relazione tra Israele e l’Assoluto. Israele ha coscienza di essere stato creato in modo speciale dal Dio vivente per una missione universale.
Questi saggi di Israele, cosa ci insegnano dell’Assoluto? Ci insegnano innanzitutto che l’Assoluto è altro dal mondo, altro da tutto il mondo sensibile, visibile e tutto quello che contiene. La relazione tra Dio e il mondo è una relazione di creazione. Questa relazione di creazione è espressa in ebraico con il verbo barà, che è riservato in tutta la Bibbia all’azione creatrice di Dio. Non solo. Tutto l’Antico Testamento ha pensato Dio, il creatore del cielo e della terra come amante. L’Antico Testamento, in verità, non fa che esprimere questo amore di Dio, amore paterno, materno, amore dell’amante, questo amore che è espresso attraverso tutte le forme dell’amore umano. Questo amore non è sentimentale. È un amore creatore, un amore infinito, un amore esigente. Dio non ha creato l’uomo perché sia un bel pupazzetto (è un’espressione di Platone nelle Leggi) né un animale soddisfatto. Dio ha creato l’uomo perché sia a sua immagine e somiglianza. Che cosa significa questo, che cosa implica, cosa esige? Se Dio è creatore, anche l’uomo deve diventarlo. Occorrerà che l’uomo si appropri di questo dono di Dio che è la creazione, l’esistenza, in modo da farla sua. In altri termini, bisognerà che consenta alla sua propria creazione acconsentendo alla vita di Dio in lui, acconsentendo a una trasformazione che farà di lui, anima vivente, un essere spirituale.
Questa esigenza creatrice non tollera che l’uomo scenda al di sotto della propria vocazione. È ciò che vuol dire la Bibbia, quando ci dice che Dio è un Dio geloso, un fuoco che divora. Dio è geloso per noi di questa vocazione, che è la nostra e non vuole che ci accontentiamo delle piccole briciole di un destino di larva. Non tollera che ci buttiamo nel nulla dell’idolatria, non tollera la vanità, l’ingiustizia, il crimine dell’uomo contro l’uomo e contro se stesso. Si noti che la conoscenza di Dio nella problematica dell’Antico Testamento non è puramente mentale, speculativa. È l’uomo intero che conosce e non solamente la “sua ragione”, intesa come una funzione separata. La conoscenza di Dio nell’Antico testamento ha un contenuto etico. La conoscenza di Dio non è possibile senza un’adesione della libertà umana. La conoscenza di Dio non esiste fuori dalla giustizia, la giustizia è conoscenza di Dio. D’altra parte, la razionalità non si raggiunge senza la conversione morale, quella che la Bibbia chiama il rinnovamento del cuore, cioè della libertà e dell’intelligenza congiunte.
Creazione
Il concetto di creazione sembra proprio che sia originario dell’ebraismo. Sembra che l’idea della creazione quale dono, per generosità, sia assente dal pensiero umano conosciuto, salvo in questo punto: nella zona ebraica o ceppo ebraico. Nessun’altra cultura antica sembra averlo partorito. È nel testo che si trova all’inizio delle nostre Bibbie (nella Genesi), nel documento che gli studiosi chiamano Codice sacerdotale, che la metafisica della creazione è espressa nella maniera più sistematica. Questa creazione è pensata ed espressa come un atto libero sovrano. La creazione è dunque pensata come un dono, come manifestazione e come espressione di bellezza e di eccellenza. L’uomo è eminentemente manifestazione dell’Assoluto, perché unico, fra tutte le creature, è creato “ad immagine e somiglianza” dell’Assoluto. La ragione della creazione (poiché ciò non è né una mancanza, né un bisogno, né un divenire della divinità), la ragione della creazione è quello che in greco si chiama l’agape di Dio. Il pensiero ebraico distingue con cura tra l’essere assoluto e il mondo fisico, afferma la realtà del mondo fisico e la realtà dell’essere assoluto, distinto dal mondo fisico. Bisogna dunque distinguere nettamente due specie di esseri: l’essere increato e l’essere creato. È l’idea di creazione. Che cosa significa in particolare?
Significa, in primo luogo, che il mondo fisico, con tutto quello che contiene, esiste obiettivamente. È proprio reale. Non è un sogno, né un’apparenza, né un’illusione (a differenza di quello che pensa molta parte del pensiero orientale, come vedremo). L’idea della creazione del mondo e degli esseri ha senso solamente se il mondo esiste realmente, esso e tutti gli esseri che racchiude. Se non sono che un’apparenza o un’illusione, la questione sparisce con loro.
In secondo luogo, significa che l’universo fisico non è l’essere assoluto e non è autosufficiente. L’universo fisico in questa tradizione è de-divinizzato, desacralizzato. Esso è, ma non è l’essere assoluto. Non è sufficiente a se stesso e per esistere ha bisogno di ricevere l’essere da Colui che, solo, può darglielo: lo stesso essere assoluto, che gli Ebrei chiamano Dio.
In terzo luogo, l’idea della creazione, nella tradizione biblica, significa che Dio, per dare l’essere al mondo, non è partito da una materia preesistente, né da un caos originario. Questo mito del caos originario, i teologi ebrei lo conoscevano molto bene e l’hanno espressamente e totalmente respinto. Notiamo che l’espressione tohou wa bohou, dal secondo versetto del primo capitolo della Genesi, non significa per niente caos originario ma semplicemente: quando Dio ha creato il cielo e la terra (cioè l’universo intero), la terra, prima che egli la coprisse di piante e di animali, non aveva nulla, era deserta, era vuota. Tohou e bohou significano appunto il deserto e il vuoto e non il caos originario delle antiche mitologie egiziane e assiro-babilonesi.
L’idea della creazione significa che l’universo non è originato dalla sostanza divina. Non è fatto con la sostanza divina. Gli esseri del mondo iniziano ad esistere, assolutamente, perché sono stati creati. L’idea di creazione implica dunque un inizio dell’essere in maniera assoluta, senza nessuna preesistenza. Inoltre la creazione del mondo e degli esseri che lo popolano non determina, non implica nessuna trasformazione in Dio né implica alcuna modificazione in Dio.
L’idea della creazione significa ancora che gli esseri che costituiscono il mondo sono creati quale dono benevolo di Dio, per un atto di generosità, di liberalità, in modo che Dio, il creatore, potrà essere chiamato “padre”, poiché egli dà la vita liberamente e per bontà. Il mondo è stato creato non per una necessità e nemmeno per una successione di tragedie. Il Dio degli Ebrei è invece pace in sé, shalom. Per questa ragione nella tradizione ebraica, la creazione fisica è sempre considerata eccellente, stupenda, meravigliosa. Al contrario nelle metafisiche dell’oriente e della Grecia antica l’accento è in genere messo sul carattere illusorio e desolante del mondo, la liberazione è vista come fuga dal mondo sensibile, la stessa esistenza sensibile è considerata come cattiva, colpevole, penosa. Nella tradizione ebraica, al contrario, l’esistenza cosmica, fisica, biologica, è considerata come giubilo. Tutti gli esseri creati esultano a causa della loro esistenza e lodano l’unico Creatore. L’esistenza è sempre considerata un bene e la non esistenza un male. L’esistenza è amata, approvata e non disprezzata. Ed è amata perché il Creatore stesso la ama e la vuole. L’esistenza degli esseri è dichiarata a più riprese molto bella e molto buona: tov in ebraico significa contemporaneamente bello e buono.
Autori come Nietzsche e altri hanno diffuso l’idea che il sentimento di colpevolezza verso il mondo sensibile e l’esistenza fisica ci vengano dalla tradizione giudeo-cristiana. Ebbene, questo è un completo controsenso. È vero proprio il contrario. Se da qualche parte nella storia del pensiero umano sono apparsi l’idea della radicale eccellenza dell’esistenza fisica, cosmica, sensibile, materiale e il giubilo dell’esistenza creata, se da qualche parte l’ottimismo fondamentale è apparso nel pensiero umano, lo è presso gli Ebrei. Confrontate con quello che insegnano l’India o l’antica Grecia e potrete constatarlo.
Un’ultima osservazione legata alla creazione. Parlando di creazione non si può non parlare del tempo. Ebbene, il pensiero ebraico biblico intende la temporalità come irreversibile. Essa rifiuta l’idea del ciclo cosmico continuo ed eterno, tipico di molte altre culture orientali. Sono gli ebrei che hanno inventato, se così può dirsi, l’idea a noi familiare del tempo suddiviso nelle tre dimensioni di passato, presente e futuro. La creazione è irreversibile e lo è, quindi, anche il tempo poiché il tempo è solo una nozione astratta per indicare il progresso della creazione, irreversibile e diretta verso un termine definitivo.
L’antropologia
La concezione dell’uomo non è meno originale della cosmologia ebraica, rispetto allo stato del pensiero umano conosciuto nell’antico oriente e anche altrove. Per gli Ebrei l’anima umana, nefesh, non è un frammento della sostanza divina perché essa è stata creata. Su questo punto il pensiero biblico si oppone ai temi, largamente diffusi in India e nella tradizione religiosa detta orfica, secondo i quali l’animo umano è una parte o una particella della divinità, particella esiliata, alienata, discesa nei corpi, nella materia. L’anima umana non è divina per natura, né per origine, non è eterna nel passato, non preesisteva nel passato, incomincia ad essere, è creata.
Nelle tradizioni orientali vi è il problema della individuazione: per quale ragione le anime, che erano l’essere assoluto, sono diventate anime singolari, particolari, individuali? La risposta è: si sono staccate dall’essere assoluto; è stata una sorta di caduta, e l’individuazione si è effettuata per ensomatosi, cioè l’anima è discesa in un corpo particolare. Invece nel pensiero biblico il problema dell’individuazione non esiste nel senso che le anime individuali sono create appunto individuali e singole: incominciano nel modo più assoluto ad esistere, nella loro singolarità, senza alcuna preesistenza. Gli esseri particolari sono creati e voluti individualmente e singolarmente, per loro stessi. Ogni essere, per quanto infimo sia, è a sé. “Dio non conta mai oltre l’uno” dice uno scrittore francese, André Frossard.
Nella tradizione ebraica, poiché esiste la distinzione ontologica tra l’essere assoluto increato e noi, esseri molteplici creati, esiste anche una relazione di possibile dialogo e una relazione d’amore che va dal Creatore increato all’essere creato e dall’essere creato al Creatore increato. Così una metafisica dell’amore non è possibile che sulla base di una metafisica della creazione, la quale riconosce la realtà dell’esistenza molteplice degli esseri creati; la considera positiva, voluta per lei stessa. Da tutto ciò derivano delle conseguenze etiche. Se l’esistenza individuale non è che un’illusione o una disgrazia, da cui è meglio liberarsi al più presto, sforzandosi di evitare il triste ciclo delle reincarnazioni, allora l’assassinio dell’uomo concreto e individuale, dell’uomo vivo, non ha molta importanza. Nessuno uccide e nessuno è ucciso. Il punto di vista ebraico è opposto. L’esistenza non è un’illusione, né una disgrazia, né il risultato di una caduta, ma una creazione positiva, come già ribadito più volte. Di conseguenza uccidere un uomo significa andare contro la creazione, nella direzione opposta alla creazione, ed è proprio questo il male, secondo gli Ebrei: la distruzione dell’essere. Per questa ragione uno dei primi comandamenti dell’etica ebraica è di non uccidere. Il rispetto dell’uomo vivo, singolare, concreto, esistente è la base dell’etica biblica.
Il problema dell’immortalità dell’anima
L’antico problema dei rapporti tra anima e corpo per l’ebraismo non ha propriamente senso perché il corpo, il corpo vivo (non ne esiste altro, perché il cadavere non è un corpo) è l’anima che informa una materia. Un corpo vivo è un’anima che posso toccare. Il corpo è una funzione dell’anima, non è un essere diverso dall’anima. Esiste in ebraico una parola, nefesh, che viene tradotta in greco psyché e in latino anima. Nella tradizione ebraica, l’anima umana è creata e non è per natura consustanziale alla divinità. L’anima, dunque, non essendo divina, alla morte non ritorna propriamente alla divinità perché non ne è mai uscita. È stata creata, è ontologicamente diversa dalla sostanza della divinità. In secondo luogo, l’anima umana non preesiste al corpo. Il pensiero ebraico non ha alcuna idea del mito orfico della preesistenza delle anime, della loro caduta nei corpi, della loro trasmigrazione di corpo in corpo. L’idea che l’esistenza dell’anima nel corpo sia una disgrazia, una catastrofe o la conseguenza di una colpa, le è totalmente estranea. L’esistenza corporea e fisica, nella tradizione ebraica, non è mai sentita come colpevole né vergognosa né impura. L’ebraismo non ha alcuna idea di un dualismo sostanziale tra anima e corpo. In ebraico non vi è neppure una parola per designare il corpo nel senso di Platone e Cartesio, come sostanza distinta dall’anima. C’è invece la parola per designare il cadavere, che non è un corpo. Questa mancanza d’un termine è significativa. Per l’ebraismo un corpo senz’anima non solo non esiste, ma non ha alcun senso. È soltanto il frutto di un errore di analisi. Quando non c’è più anima non c’è neppure corpo. C’è solo un cadavere, cioè un mucchio di polvere che si decompone.
È del tutto normale che il popolo ebreo, composto da contadini, artigiani e pastori, uomini che lavorano la materia concreta e i suoi elementi, non abbia concepito un termine per designare ciò che non esiste, cioè un corpo senz’anima. Essi avevano un termine per designare il principio della vita, nefesh, poi un termine per designare il cadavere, ma nessuno per designare il corpo distinto dall’anima. C’è però in ebraico un altro termine, basar, che è stato tradotto in greco sarx e in latino caro (carne). Si badi: non corrisponde a ciò che intendiamo noi per carne. In modo più o meno confuso noi identifichiamo carne con corpo, per noi sono la stessa cosa. Invece per l’ebreo, giustamente, non è così; basar non è affatto il corpo distinto dall’anima. Basar è la totalità umana, la totalità psicofisiologica o psicosomatica. È il biologico e lo psicologico insieme. L’ebraico basar corrisponde quindi a ciò che noi chiamiamo il vivente tutto intero.
Ciò che l’ebreo chiama “carne” corrisponde all’uomo o agli uomini. In ebraico le funzioni o le passioni che in una antropologia dualistica vengono attribuite al corpo, sono invece attribuite a nefesh, all’anima: “Acqua fresca all’anima che arde di sete” (Proverbi, 25,25); “Se la tua anima avrà voglia di mangiare…”(Deuteronomio, 12,20). Al contrario, le funzioni o le passioni che in un’antropologia dualista sono attribuite ordinariamente all’anima, allo psichismo, nell’antropologia ebraica sono attribuite agli organi dl corpo. “Le mie viscere trasalgono di gioia”(Proverbi, 23,16); “I miei reni esultano”(Proverbi, 23,16). “Anche durante la notte i miei reni mi ammoniscono”(Salmi, 16,7).
Come si vede, l’uomo, in ebraico, è inteso come unità psicosomatica indissolubile. Sotto questo aspetto, l’antropologia ebraica, nella sua concezione concreta, si unisce all’analisi aristotelica del De anima. Non deve perciò destare meraviglia se, in definitiva, l’antropologia cristiana posteriore, quella di San Tommaso d’Aquino ad esempio, ha preferito l’analisi aristotelica a quella platonica, per esprimere il composto umano.
L’antropologia ebraica conosce inoltre una dimensione originale che sembra assente dalla filosofia greca (salvo forse qualche testo di Aristotele sul nous). Questa dimensione è la dimensione soprannaturale, la quale appartiene alla sfera della divinità ed è radicalmente diversa da qualunque cosa creata. Essa è indicata dal termine ruach, tradotto in greco con pneuma e in latino con spiritus (la parola ruach in ebraico designa tanto lo spirito di Dio quanto lo spirito dell’uomo). Lo spirito, nel linguaggio biblico, è ciò grazie al quale possiamo entrare in relazione con Dio, creatore del mondo e delle anime. Si può ricordare, a questo riguardo, che l’opposizione paolina tra carne e spirito è appunto tra l’uomo nella sua dimensione biopsicologica e l’uomo nella sua dimensione soprannaturale. Così pure, la celebre affermazione all’inizio del Vangelo di Giovanni, “o logos sarx egéneto” (Gv 1,1-14) vuol dire che la Parola creatrice di Dio è diventata uomo. Insomma, l’anima e il corpo sono la carne in senso biblico.
L’immortalità dell’anima, nella prospettiva ebraica (e anche cristiana) non è pacifica. Le cose sono assai più complesse. Se infatti l’anima umana non è divina per natura, non è increata, se cominciò ad esistere venti, trenta, cinquant’anni fa, come possiamo sapere se continuerà ad esistere quando avrà finito d’informare una materia per costituire il corpo che io sono? In tal caso, se l’esistenza è per se stessa un dono, come sapere se continuerà allorché avremo cessato d’informare la materia che costituisce il corpo? In altri termini, se l’anima è creata, essa non è la propria esistenza, riceve perciò la vita. È ontologicamente dipendente. Dunque come potrebbe sopravvivere alla morte? La risposta ebraica è: l’immortalità non è né un diritto né una proprietà naturale per l’anima; essa è e sarà un dono.
L’uomo è un’anima vivente: nefesh haiia. È basar, carne, cioè totalità psicosomatica. Sono due parole per designare l’uomo. La speranza giudaica, nel suo ramo farisaico, è che l’uomo vivrà dopo la morte. Il giudaismo farisaico, per quanto lo conosciamo dai testi dell’epoca, insegnava una resurrezione alla fine dei tempi, cioè i morti dovevano aspettare la resurrezione.
L’aldilà
L’Equità divina si esprime nell’intolleranza al male e nella punizione del peccato. Conformemente, la Torà fornisce un sistema di punizioni che varia secondo la gravità e l’intenzione dell’offesa. Non si parla in particolare di ricompense o di punizioni dopo la morte. È chiaro, tuttavia, che la pena del kareth (esclusione) minacciata per le offese alla religione implica un concetto di “esclusione” dalla presenza di Dio nell’aldilà (cfr. Levitico, 20, 2-3): e il concetto implica l’idea di una ricompensa all’obbedienza. La Scrittura, nondimeno, ritiene necessario gettare un velo su tutto il problema della sopravvivenza nell’oltretomba, per distogliere il popolo dal culto idolatra dei morti con il quale a quei tempi tale credenza si associava. Il giudaismo insegna comunque che esistono una gehenna, l’abisso di fuoco menzionato nella Bibbia (Isaia,30,33), e una dimora di beatitudine, il Gan Eden (il giardino di delizia), e non va oltre. I malvagi trascorreranno nella gehenna, salvo casi eccezionali, dodici mesi: dopo entreranno nel Gan Eden per godere in compagnia del giusto, secondo l’espressione rabbinica, “lo splendore della Shekinà” (Presenza divina) e la vita eterna. Il Gan Eden, d’altro canto, non è riservato esclusivamente a Israele. L’insegnamento giudaico fa dipendere la salvezza dalla retta condotta, di conseguenza tutte le nazioni sono ammesse alla beatitudine della vita futura.
Il Regno di Dio, nell’avvento messianico e nell’adempimento terreno, è solo la preparazione per il compimento del Regno nel mondo sopra-storico e soprannaturale di là da venire, un mondo che, nel linguaggio rabbinico, “mai orecchio aveva udito, né occhio aveva veduto” (cfr. Isaia, 64, 34). Ad esso si associano le dottrine della resurrezione dei morti e del Giudizio universale, quando si paleserà la meta delle vie del Signore e quando il Suo fine si sarà adempiuto. La fede in tale adempimento è condivisa da altre religioni; ma ciò che distingue il giudaismo è l’insistere sul fatto che l’adempimento nell’Aldilà è condizionato dall’adempimento del fine divino nel contesto storico e sociale della vita quotidiana.
Significato della storia
Dio pone la liberazione in condizioni tali che umanamente parlando è disperata. Questo metodo di Dio di vincere con la debolezza, affinché Dio sia conosciuto nella sua forza, è costante in tutta la storia sacra. Questo paradosso del trionfo di ciò che è debole nel mondo da parte di un pugno di ebrei nomadi contro tutte le potenze del mondo, è per gli ebrei la dimostrazione sperimentale che Dio interviene nella storia. Il libro sacro di Israele è la raccolta degli atti e degli archivi che riferiscono un’esperienza storica operata in pieno giorno, a cielo aperto, alla faccia del mondo. Israele nasce attraverso la chiamata indirizzata ad un uomo, Abramo. Israele ha coscienza di essere stato creato specificatamente per realizzare un compito nel disegno creatore del Dio vivente e ha coscienza di vivere una storia che non si dissocia più da questo compito, da questa missione. La storia di Israele è come una lunga conoscenza sperimentale di Dio. È a questa intelligenza dell’avvenimento che ci invitano i profeti: alla lettura spirituale dell’avvenimento.
Israele non è un popolo tra altri popoli, è il germe, il disegno, l’inizio di una umanità radicalmente nuova, una seconda creazione, la creazione di una umanità capace di intendere la parola di Dio, di rispondere e di entrare in relazione personale con il Dio vivente, capace di ricevere il suo Spirito e di essere trasformata radicalmente da questo Spirito.
Etica
L’etica ebraica nasce dai Dieci Comandamenti che la tradizione vuole siano stati assegnati da Dio a Mosè sul Sinai. Dio desidera fare di Israele la nazione santa. Israele è stato scelto per rivelare l’amore che Dio porta a tutta l’umanità. L’aggettivo riferito specificamente a Dio, kadosh, santo, (gli ebrei dicono sovente Ha Kadosh, Baruch Hu cioè “il Santo, benedetto Egli sia”) indica, nei confronti dell’uomo, una separazione da tutto ciò che contrasta col volere di Dio e nello stesso tempo una consacrazione al suo servizio.
Per quanto riguarda la morale, la santità richiede negativamente che si resista a tutti quegli impulsi che fanno dell’egoismo l’essenza della natura umana, e positivamente che si obbedisca ad un’etica incentrata sul servizio del prossimo. Mentre i precetti positivi servono a coltivare la virtù e a sviluppare le più elevate qualità umane, i precetti negativi sono intesi a combattere il vizio e a reprimere tendenze ed istinti malvagi che ostacolano gli sforzi dell’uomo per conquistare la santità. In questo senso le prescrizioni hanno una carica di dinamismo morale capace di trasformare l’individuo e, per suo tramite, la società di cui egli è parte.
A fondamento della morale troviamo l’equità e la giustizia. Nella vita quotidiana, l’equità comporta il riconoscimento di sei diritti fondamentali: il diritto di vivere, di possedere, di lavorare, di vestirsi, il diritto di asilo e infine il diritto dell’individuo (che comprende il diritto al riposo e alla libertà, come pure il divieto di odiare, vendicarsi e di serbare rancore). La giustizia deve estrinsecarsi nell’accettazione dei doveri, specialmente nei riguardi del povero, del debole, del derelitto, amico o nemico che fosse. E deve anche manifestarsi nella maniera di concepire i beni terreni e anche animali, il cui possesso deve considerarsi non come un diritto naturale ma come un debito con Dio. In contrasto con tutti i codici dell’antichità, come quello di Hammurabi e degli Ittiti che si basavano sulla difesa della proprietà, motivo ispiratore della Torà ebraica è la protezione della personalità. I limiti imposti al potere dimostrano quanto fortemente fossero sentiti i diritti della persona. Al padrone è proibito sfruttare gli operai (Levitico,19,13).; al creditore è proibito offendere la dignità del debitore(Deuteronomio,24.10-11); perfino lo schiavo conserva i suoi diritti di persona (Esodo,21,26-27). La Torà rifiuta ogni distinzione tra re e nobile, cittadino e schiavo, indigeno o straniero (“Ama lo straniero come te stesso”,Levitico, 19,34), essendo tutti uguali di fronte alla legge di Dio! Nel giudaismo infatti le distinzioni tra ebrei e non-ebrei sono solo di ordine religioso, mentre non esistono distinzioni sociali o politiche. La legge è uguale per tutti . E’ Dio che dà allo straniero il diritto di usufruire pienamente delle leggi locali.
Alla base di tutta l’etica giudaica, è bene ribadirlo, sta il concetto della santità individuale. Essa richiede autocontrollo: esso va esercitato non solo per evitare le cattive azioni ma anche i desideri cattivi, i quali, tendendo – quando non sono repressi – a trasformarsi in vizio, possono dar luogo a conseguenze peggiori delle cattive azioni stesse. Pericolosissimi vizi sono l’invidia, la cupidigia e l’orgoglio. Il controllo delle passioni non va però confuso con l’ascetismo. Gli ideali di un ascetismo fine a se stesso sono estranei allo spirito del giudaismo. Essenzialmente ottimista, l’ebraismo non vede nel mondo il male e non crede che la vita sia gravata da una maledizione. Questa vita è anzi bellissima e Dio vuole che l’uomo gioisca di tutte le cose belle di cui la terra è piena (“E Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono-bello”, Genesi, 1,37). Né l’ebraismo ha mai considerato il corpo come cosa impura o gli appetiti umani come radicati nel male (anche per quanto riguarda il sesso, sta scritto ad esempio :”L’uomo farà lieta la moglie che ha sposato”,Deuteronomio,24,5, e questo brano viene interpretato come dovere dell’uomo di soddisfare la moglie nei piaceri della carne, al punto che la moglie può ripudiare il marito se non è soddisfatta sessualmente!). Il corpo umano è il sacro vaso in cui si cela una scintilla divina, l’anima, e come tale bisogna conservarlo in buona salute, in buone condizioni e pulito. Trascurare il corpo e i bisogni fisici significa offendere Dio, e lavarsi ogni giorno è un dovere religioso. Non solo : si badi che astenersi da quelle cose che non sono condannate dalla legge è peccato! Una massima del Talmud dice: “L’uomo deve rendere conto nell’aldilà di tutti i piaceri leciti dai quali si sarà astenuto”(Talmud di Gerusalemme, trattato Kiddushin, 4,12). L’autocontrollo, anche se estirpa il vizio, non basta. Bisogna dunque coltivare quelle qualità positive che dando all’uomo il senso di ciò che egli deve fare e non solo di ciò che non deve fare. La prima di queste virtù consiste nell’accontentarsi, nell’essere in pace con se stessi. La contentezza scaturisce però da una consapevole fede nel divino ordinamento della vita umana, provvidenziale e benefico. Ne derivano una calma e una serenità che assumono il colore più intenso della gioia, la “gioia in Dio”. La fede in Dio comporta anche che l’uomo riconosca di dipendere da Dio e di essere insufficiente e debole senza di Lui. Ciò conduce all’umiltà, che impedisce all’uomo di inorgoglirsi per i valori e le conquiste materiali. L’amore per Dio conduce poi alla “santificazione del Nome”(Kiddush Ha Shem), che consiste in ogni atto di abnegazione, di rinuncia, di sacrificio fatto per amore di Dio e degli uomini.
Nell’ebraismo l’essere primo è un essere personale, almeno tanto personale quanto lo siamo noi. La storia della creazione è dunque quella della formazione, della genesi, del consolidamento e del compimento degli esseri personali. Si va dalla Persona alle persone. Il senso della creazione è la costituzione di persone create, capaci di prender parte alla vita dell’essere assoluto che è personale. Comune a tutta l’umanità è l’obbligo di osservare i “Sette precetti dei figli di Noè”. Tali precetti sono l’astensione da 1)l’idolatria, 2)la bestemmia, 3)l’incesto, 4)l’assassinio, 5)il furto, 6)il mangiare un arto strappato a un animale vivo, e 7)il comandamento di praticare la giustizia. Ma per il figlio di Israele il contributo deve avere più ampia portata e carattere più elevato. Da qui il rispetto dei 613 precetti, l’obbedienza alla Torà ecc.
Da creatura noi siamo invitati a diventare creatori. Dipende da noi acconsentire alla trasformazione necessaria. La nostra libertà è la sola cosa che Dio non può costringere. La libertà è il principio e il pegno del nostro destino divino. Si tratta di consentire a divenire dei e a partecipare alla vita personale ed eterna di Dio.
MAIMONIDE (Cordova, 1135-Il Cairo, 1204)
Tra i tanti filosofi ebrei del Medioevo, citerò solamente Maimonide, perché è forse il più rappresentativo. L’opera fondamentale di Mosè ben Maimoun, detto Maimonide, è la Guida dei perplessi, in cui egli cercò di conciliare rivelazione e ragione, Bibbia e filosofia. Egli inizia dimostrando l’esistenza di Dio e i suoi attributi. Dio è l’essere necessario, il quale conosce tutto, anche le cose particolari (mentre Averroè aveva sostenuto che Dio conosce solo se cose universali e necessarie), e le conosce con un unico ed immutabile atto di conoscenza. Dio ha creato il mondo con un atto di libertà creatrice e quindi il mondo non è eterno bensì ha avuto un inizio nel tempo.
Come la metafisica di Maimonide voleva salvaguardare la libertà divina, così l’antropologia cerca di salvaguardare la libertà dell’uomo. Predeterminazione divina e libertà umana sono conciliabili per quanto in un modo che ci sfugge; la provvidenza divina si esercita tenendo conto della libertà, della ragione e dei meriti dell’uomo, così da non imporre all’uomo il peso di un ordine precostituito che gli tolga la libertà. A seconda del grado di preparazione della sua anima razionale, l’uomo riceve in misura più o meno grande l’azione dell’Intelletto attivo e si solleva più o meno alla perfezione. Chi riceve l’emanazione dell’Intelletto attivo nell’anima razionale è un sapiente, che si dedica alla speculazione; chi la riceve, oltre che nell’anima razionale, anche nella facoltà immaginativa, è un profeta. La profezia rappresenta per Maimonide la perfezione più alta per l’uomo. L’immortalità, secondo Maimonide, non spetta a tutti gli uomini ma solo agli eletti. Ma non si tratta di un’immortalità singola. L’uomo non è immortale come uomo, ma solo come parte dell’Intelletto attivo; e la misura della sua immortalità è data dalla misura della sua partecipazione a tale intelletto, cioè della sua elevazione spirituale.
IL TALMUD
Il termine in ebraico significa insegnamento. Esso designa la raccolta delle discussioni degli antichi rabbini (sec. IV e V) sui testi della Mishnà. (E la Mishnà è il codice compilato da rabbi Giuda han-Nasi, alla fine del 2° sec. d. C., nel quale sono raccolte e organizzate le norme giuridiche, rituali e morali tradizionali del popolo ebraico o fissate dai rabbini in base ai testi biblici o a considerazioni di altro genere). In pratica il Talmud è quindi la Mishnà col suo commento (Ghemarà), ed in primo luogo la Mishnà di rabbi Giuda con il relativo commento. Vi sono due forme di Talmud, quello babilonese e quello di Gerusalemme. Il più noto è quello babilonese che è considerato in genere il Talmud per antonomasia.
Il pensiero talmudico ha due aspetti principali: l’esegesi giuridica (halakica), che scruta la Torà per fondare il diritto; e l’esegesi morale (haggadica) che si sforza di scoprire il suo senso spirituale, religioso o mistico. L’esegesi talmudica tuttavia non deve inventare nulla ma deve trarre tutto dalla tradizione: un ragionamento, per quanto giusto, non può mai fondare una nuova legge né abrogarne una antica. Ciò permette da un lato un rispetto quasi fanatico della lettera rivelata, ma dall’altro una stupefacente libertà di fronte al testo biblico, da cui derivano le mille sottigliezze e interpretazioni di cui hanno dato prova i vari rabbini.
LA CABBALA’
Cabbalà, che significa tradizione, è termine generale per indicare un insegnamento religioso in origine tramandato oralmente da generazione a generazione. Più in particolare, venne in uso dopo l’XI secolo ad indicare quel tipo di pensiero mistico giudaico che si diceva trasmesso dal lontano passato e fu dapprima affidato come dottrina segreta a pochi privilegiati per diventare poi, dal XIV secolo, uno studio al quale si dedicarono apertamente molti.
Caratteristico del misticismo giudaico è l’orientamento messianico. Per esso tutta la creazione è travagliata da una lotta universale per la redenzione dal male, insinuatosi in qualche modo nel mondo, e per la restaurazione di quell’armonia in cui il tutto troverà salvezza nell’avveramento del regno universale di Dio, con l’avvento messianico. In sostanza, il perno del misticismo giudaico è la concezione secondo cui l’uomo è stato creato per collaborare con Dio ed è stato dotato perciò delle capacità e dei mezzi necessari per controllare e ridurre le cose ai propri fini e a quelli della creazione. Nella misura in cui l’uomo collabora con in piano divino e contribuisce alla restaurazione dell’unità, l’anima viene ricompensata o punita nell’aldilà. Quando un giusto muore, le tre parti dell’anima si dividono: la neshamah riceve il bacio d’amore da Dio ed entra subito nell’eternità di gioia; la ruach entra nell’Eden dove si riveste del corpo che fu suo nel mondo; la nefesh rimane nella tomba dove trova finalmente riposo e pace sulla terra. Ben altra sorte è riservata al malvagio: chi non ha raggiunto la perfezione deve sperimentare l’incarnazione in un altro corpo e ripetere l’esperienza finché non hanno assolto il loro compito sulla terra. Sembra che vi sia dunque nella Cabbalà una accettazione della dottrina della metempsicosi, cioè della trasmigrazione delle anime, che era stata rifiutata nell’ebraismo tradizionale.
Nella letteratura talmudica ci sono abbondanti tracce di temi mistici. Queste dottrine erano gelosamente custodite; era proibito diffonderle nel timore di esporle ad erronee interpretazioni che potevano disseminare scetticismo ed eresia.
Una famosissima opera mistica, attribuita addirittura ad Abramo, è il Sefer Yetzirah (Libro della creazione), databile forse ai primi tempi gaonici in Babilonia. Il tema fondamentale è annunciato dall’affermazione con cui essa si apre: “Per mezzo di trentadue vie misteriose l’Eterno, il Signore degli eserciti, il Dio supremo di Israele (ecc….seguono altri attributi)… incise e stabilì il Suo nome e creò il Suo mondo”. Si spiega poi che le trentadue vie sono le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico più le cosiddette dieci Sefiroth.Il Talmud parlava già di “dieci agenti mediante i quali Dio creò il mondo, e cioè la saggezza, l’intelligenza, la conoscenza, la forza, la potenza, l’inesorabilità, la giustizia, l’equità, l’amore, la misericordia” (Talmud Hagigah, 12 a). Già nel Talmud si attribuiva importanza cosmica alle lettere. Comunque sia, il mondo fu chiamato ad esistere da una serie di dieci espressioni divine (Etica dei padri, 5,1), affermazione che a sua volta è solo espressione della frase del salmista: “I cieli furono fatti dalla parola del Signore e tutto il loro esercito dal soffio della sua bocca” (33,6). Secondo appunto il Sefer Yetzirath, le espressioni divine comprendevano tutte le lettere dell’alfabeto ebraico che, combinandosi variamente, formarono la lingua santa (l’ebraico), la lingua della creazione. Lingua e numeri, congiunti, sarebbero così gli strumenti con cui il cosmo nella sua infinita varietà di combinazioni e di manifestazioni fu chiamato a esistere da Dio.
Spogliato di tutto il suo simbolismo e delle sue formulazioni mistiche, la filosofia che è alla base del Sefer Yetzirah è la famosa teoria delle idee. Questa teoria è entrata nella storia della filosofia attraverso Platone, ma non nacque affatto con lui. Nel Sefer Yetzirah le idee sono considerate sia come modelli che come principi attivi. Le Sefiroth costituivano appunto queste idee, tanto nel senso di modelli quanto nel senso di princìpi. Inoltre, nell’esposizione dell’origine dell’universo, il Sefer Yetzirath ricorse sia al concetto di emanazione sia a quello di creazione. In tal modo tentò di armonizzare le dottrine dell’immanenza e della tracendenza divine. Più avanti nel tempo, le dieci Sefiroth furono concepite come attributi e agenti ipostatizzati della divinità.
Ad assicurare finalmente alla Cabbalà la sua posizione di preminenza nella vita religiosa giudaica fu la comparsa, avvenuta intorno al 1300, del libro dello Zohar (Splendore). L’opera, scritta in parte in aramaico e in parte in ebraico, è un’epitome (=compendio) del misticismo. Attribuita a Mosè de Leon di Granata (morto nel 1305) diventò ben presto il testo fondamentale della mistica ebraica e fu il libro che, dopo il Talmud, esercitò l’influenza più profonda sul giudaismo. Lo Zohar è scritto in forma di commento al Pentateuco, e si propone di rivelare i significati reconditi dei racconti della Bibbia e dei comandamenti divini. Le Sefiroth sono immaginate e raggruppate in modo da formare una figura umana, Adam Kadmon (uomo primordiale), in cui le qualità attive occupano la destra, e le passive la sinistra, mentre i prodotti dell’unione di ciascuna coppia di Sefiroth si situano lungo il meridiano centrale. A causa del peccato, che cominciò con l’atto di disobbedienza di Adamo, l’uomo si allontanò da Dio. Immediatamente, la perfetta unione si spezzò. La frattura significò l’apparizione del male nell’universo. Da allora la Shekinà (la presenza divina) è in esilio: invece di pervadere tutto l’universo, va ricercata qui e là, in questo o quell’individuo, in questa o quella comunità. Riunire allora la Shekinà all’En Sof, restaurare l’unità originaria: questo è il fine per cui è stato creato l’uomo. Ogni individuo è tenuto a parteciparvi mediante la comunione con Dio e la perfezione morale. Ma il più alto contributo lo reca la comunità di Israele. Questo è il compito assegnatole con la sua elezione. La Shekinà non ha mai abbandonato Israele: anche nei tempi più bui essa lo accompagna e alla fine dei tempi “il Signore sarà uno e uno sarà il suo nome” (III, 260b). Grazie a questi insegnamenti, gli ebrei hanno imparato a vedere nella loro tragedia un riflesso della tragedia cosmica in cui Dio stesso, per così dire, è coinvolto, ed hanno trovato in essi la forza per continuare ed assicurare salvezza e beatitudine a loro stessi e al mondo.
LURIA
ISACCO LURIA (1514-72), detto Ari (leone), elaborò le dottrine dello Zohar. Al centro del suo pensiero è la teoria dello Tzimtzum (contrazione), per cui la creazione sarebbe stata preceduta da una volontaria contrazione o autolimitazione dell’Infinito (En Sof) per far posto al mondo fenomenico. Nel buio vuoto che così si formò l’Infinito proiettò la Sua luce, provvedendo nello stesso tempo i “Vasi” che sarebbero serviti alle multiformi manifestazioni della creazione. Ma qualche vaso, incapace di sopportare l’empito della luce emanata dall’En Sof cedette e si ruppe. La rottura dei vasi (Shebirath hakelim) provocò un deterioramento nel mondo superiore e caos quaggiù. Invece di diffondersi uniformemente in tutto l’universo, la luce irradiata dall’Infinito si ruppe in faville che illuminarono solo alcune parti del creato, mentre altre restarono al buio, condizione che è in sé stessa un tipo di male negativo. Così luce e buio, bene e male, cominciarono a contendere per il dominio del mondo. La divina armonia era infranta e la Shekinà esiliata. Nello stesso tempo, le scintille di Luce divina attraversavano qua e là il buio, col risultato che bene e male si mescolarono talmente che non esiste male che non contenga un elemento di bene, come non esiste bene totalmente esente dal male. La confusione fu aggravata dai peccati del primo uomo. Secondo Luria, tutte le anime destinate all’umanità furono create insieme con Adamo. Quando Adamo peccò, tuttavia, furono tutte inquinate. Le varie categorie di anime si confusero; ma il turbamento non è destinato a durare: finirà con l’avvento del Messia che sarà inviato da Dio per ripristinare l’armonia originaria tra le anime dell’uomo e in tutto il cosmo. Tuttavia l’iniziativa della restaurazione dell’armonia originaria deve venire dall’uomo. Adottando la dottrina zoharica dell’emigrazione delle anime, Luria la sviluppò ulteriormente con la teoria dell’Ibbur (Impregnazione). Se un’anima, cioè, si dimostra troppo debole per il compito assegnatole sulla terra, può essere costretta a tornare alla vita terrena per impregnarsi nell’anima di un altro individuo e riceverne aiuto e compensare le sue deficienze. Inoltre, a volte un’anima più forte può essere inviata di nuovo sulla terra per aiutare un’anima più debole, nutrendola della propria sostanza come fa una madre col piccolo che porta nel ventre. Alla teoria dell’impregnazione si collega in Luria il concetto secondo cui la dispersione degli ebrei aveva lo scopo di salvare tutte le anime, perché le anime purificate degli Israeliti, unendosi con le anime degli uomini di altre razze, le liberassero dalle potenze del male.
IL MIDRASH
Il termine midrash, plurale midrashim, viene dalla radice DRS, che contiene i concetti di spiegare, interpretare, indagare, sviscerare, e infatti darshanim sono coloro che si servono del midrash per indagare il testo biblico. La Casa del midrash è poi la scuola dove si approfondisce lo studio dei testi sacri. Nell’accezione divenuta comune e diffusa, il termine midrash viene quindi ad indicare un’attività di studio e di ricerca del testo biblico, eseguita con la massima attenzione, che non si limita al senso immediato e letterale ma indaga e scruta ogni possibile significato implicito: midrash quindi indica essenzialmente un metodo rabbinico di esegesi. Il termine poi per estensione indica anche altre due cose: la singola interpretazione ottenuta applicando il metodo e la raccolta di più interpretazioni (raccolta molto diluita nel tempo, che va dal IV sec. a.C al 1550 ca.).
Vi sono due tipi di midrash: uno relativo alla halakà e uno relativo alla aggadà. Il primo si riferisce alla componente legale e giuridica della tradizione; con l’altro termine, si itende praticamente tutto ciò che non è strettamente halakà e quindi ogni forma di narrazione storica, mitica, leggendaria, le espressioni post-bibliche della letteratura sapienziale, la morale, in un certo senso anche la mistica. Ma per toccare subito con mano che cosa sia concretamente il midrash, ecco qui di seguito una serie di midrashim.
Perché il mondo fu creato con la lettera Beth? Per insegnarci: come la Beth è chiusa da tutti i suoi lati, e aperta solo in avanti, così tu non sei autorizzato a indagare ciò che è in alto, in basso, in avanti e indietro, ma solo dal giorno in cui fu creato il mondo in poi. (Bereshit Rabbà,1).
Disse Rabbi Berechia: mentre il Signore stava per creare il primo uomo, previde che da lui sarebbero derivati i giusti e i peccatori e pensò: se io creo l’uomo, ne verranno i peccatori; e se non lo creo, come sorgeranno i giusti? Allora il Santo, benedetto Egli sia, allontanò da sé il pensiero dei peccatori e, unitosi all’attributo della clemenza, creò l’uomo (Bereshit Rabbà, 8).
L’uomo fu creato solo (come progenitore del genere umano) perché da ciò si deducesse che chiunque distrugge una vita umana è come se distruggesse un mondo e viceversa chi salva una vita è come se salvasse il mondo intero (Sanedrin, 37).
“Così dirai alla casa di Giacobbe ed esporrai ai figli di Israele”(Esodo, 19,3). L’espressione casa di Giacobbe significa: le donne. Il Signore disse a Mosè: alle donne annuncia i principi fondamentali, quelli che esse sono in grado di comprendere. Esporrai ai figli di Israele si riferisce agli uomini. Agli uomini, disse il Signore, esporrai minutamente tutte quelle leggi che sono in grado di comprendere. Secondo un’altra interpretazione, la Torà doveva essere esposta alle donne prima che agli uomini perché le donne sono più sollecite nell’adempimento delle mitzvot o, secondo altri, affinché si mostrassero zelanti nell’avvicinare i loro figli allo studio della Torà (Shemot Rabbà 25).
ALCUNI PENSATORI MODERNI
SIMONE WEIL (1909-1943)
Nacque a Parigi da una famiglia ebrea non praticante. Studiò filosofia e per alcuni anni insegnò al liceo. Poi, spinta dalla sua passione per gli “altri”, si dimise e lavorò come operaia. Allo scoppio della guerra civile spagnola (1936) si unì ai militanti anti-franchisti ma, per un incidente, fu costretta a rientrare in Francia. Nel 1938 avvenne la sua conversione religiosa anche se, fino all’ultimo, non volle mai accettare il Battesimo. Morì nel sanatorio di Ashford in Inghilterra.
Nel saggio L’Iliade, poema della forza (1939), esalta il modo in cui l’uomo greco viveva la guerra e il suo terribile gioco senza infingimenti, accordando eguale rispetto al vinto e al vincitore, provando sgomento per la distruzione di una città. Quando gli uomini entravano nel gioco della guerra, diventavano pietre nelle mani degli dèi, ossia cose sotto il giogo della Forza. Alla fine vince solo la Guerra. La Guerra è una prova della miseria umana, dei limiti dell’essere umano, è l’emergere di una Forza che domina l’anima dell’uomo e la incatena al suo destino immodificabile. La visione greca dell’uomo si prolunga, per la W., fino al Vangelo. Ciò che unisce Omero agli Evangelisti è il senso del valore della miseria umana, una miseria vissuta dallo stesso Cristo sulla croce. Una miseria a cui i Greci opponevano la virtù e i Vangeli la Grazia .
Nello studio su Dio in Platone (1940), Platone viene da lei considerato il padre della mistica occidentale. In Platone alla virtù si affianca la possibilità della grazia, cioè della salvezza che viene da Dio. Dio è quindi attivo nei confronti dell’uomo, lo chiama, chiede di essere da lui riconosciuto. La W. reinterpreta la disputa di Platone contro i Sofisti come anticipazione dei temi e concetti che verranno poi utilizzati dal Cristianesimo. L’Eros in Platone non è solo impulso dell’uomo verso il divino ma è prerogativa del Dio stesso. Sono anticipazioni del concetto di amore legato alla divinità che è tipico del Cristianesimo. Il 1942 fu l’anno della sua più intensa meditazione sul tema religioso. Eppure W. precisò ulteriormente il suo proposito di voler restare al di fuori della Chiesa. Quella Chiesa che, secondo la W., si era fatta impero, inquisizione, persecuzione, interiorizzando la potenza e l’oppressione che sono anche tipici dei regimi totalitari del XX secolo. D’altra parte – diceva – “tante cose sono fuori dalla Chiesa, tante cose che io amo e non voglio abbandonare, tante cose che Dio ama”, e qui enumerava: i secoli prima di Cristo e le loro civiltà, i paesi abitati da razze di colore, la vita profana dei paesi di razza bianca, i Manichei, gli Albigesi, tutto ciò che è nato col Rinascimento”. Evidentemente, la sua strada verso il divino non era quella dell’adesione ad una delle confessioni storiche. La sua via fu quella della “croce” e della “sofferenza”: “Se non potrà essermi concesso di meritare di condividere un giorno la croce di Cristo, spero mi sia data almeno quella del buon ladrone”. Come dire: la croce è intesa da W. oltre la Chiesa, all’intersezione di più destini e di più culture. Nei pensieri raccolti sotto il titolo L’amore di Dio (scritti tra il 1940 e il 1942), W. svela il suo misticismo : “non tocca all’uomo cercare Dio e credere in lui : egli deve semplicemente rifiutarsi di amare quelle cose che non sono Dio. Un tale rifiuto non presuppone alcuna fede. Si basa semplicemente sulla constatazione di un fatto evidente: che tutti i beni della terra …sono finiti e limitati, radicalmente incapaci di soddisfare quel desiderio di un bene infinito e perfetto che brucia perpetuamente in noi”. “Perciò il problema della fede non si pone affatto. Finché un essere umano non è stato conquistato da Dio, non può avere fede, ma solo una semplice credenza; e che egli abbia o no una simile credenza, non ha nessuna importanza: infatti arriverà alla fede anche attraverso l’incredulità. La sola scelta che si pone all’uomo è quella di legare o meno il proprio amore alle cose di quaggiù”. “Sono convinta che l’infelicità per un verso e la gioia per l’altro verso, la gioia come adesione totale e pura alla bellezza perfetta, implicano entrambe la perdita dell’esistenza personale e sono quindi le due sole chiavi con cui si possa entrare nel paese puro, nel paese respirabile, nel paese del reale”(trad.it. Borla,Torino, 1968, pp. 111,112,157).
HANNAH ARENDT (1906-1975)
Nata ad Hannover da una famiglia ebrea, studiò filosofia con i più importanti filosofi tedeschi del tempo (Husserl, Heidegger, Jaspers). A causa delle persecuzioni antisemite si trasferì in Francia e qui collaborò col Movimento Sionista. Nel 1940 fu arrestata ma riuscì a fuggire ed emigrò negli Stati Uniti, dove rimase per tutto il resto della vita.
L’analisi del fenomeno del totalitarismo in tutte le sue forme è alla base del lavoro intellettuale della A. Ne Le origini del totalitarismo (1951) la A. vide nel totalitarismo di questo secolo un fenomeno nuovo, che rompe con qualsiasi altra tradizione precedente. Nei regimi totalitari gli individui sono come i granelli di sabbia indistinguibili gli uni dagli altri. Ognuno sta nel proprio isolamento. In tali regimi la violenza è gratuita: è il terrore per il terrore. A questo proposito la A. introduce l’idea del “male radicale”, cioè del male fine a se stesso, che non serve a nulla e non segue nessuna logica. Il libro venne molto discusso proprio perché sosteneva una trasformazione nella natura umana. Qualcosa che prima non s’era mai visto. L’uomo che si era così perfettamente inserito negli ingranaggi della macchina nazista dello sterminio era l’uomo massa, un uomo senza qualità né coscienza morale che era adattabile ad ogni evenienza, capace di uccidere come di portare a spasso il cane. Per questo il nazismo ha rappresentato l’apparizione del male assoluto nella storia: ci ha dimostrato che in certe circostanze l’uomo è un nulla, un agente passivo, è in grado di compiere qualsiasi atto in quanto nessun valore o principio aprioristico è in grado di indirizzare il suo comportamento.
Anni dopo, in un’altra opera intitolata Eichmann a Gerusalemme.La banalità del male (1963), la A. modifica la sua opinione dicendo che il male che ha fatto per esempio l’aguzzino Eichmann è spiegabile nel modo seguente: il male non è più qualcosa di eccezionale ma fa parte di noi e delle persone che ci sono vicine. Di fronte al giudice che lo accusava dello sterminio degli ebrei, Eichmann sostenne che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini. Ad Eichmann mancò quello che lei chiama “lo spazio pubblico”, cioè lo spazio per giudicare quello che avviene. Lo spazio pubblico non è un bene garantito per sempre. Non è un bene stabile e acquisito. Mancando di questo, tutta la vita di Eichmann è un esempio di impossibilità di esprimere un giudizio. E’ la singolarità, che si mostra come tale, che permette che vi sia uno spazio pubblico. Ora Eichmann è esattamente l’esempio di una vita che non ha mai raggiunto la singolarità. Ed infatti la sua è una esistenza impostata nell’obbedienza agli ingranaggi burocratici di potere, qualsiasi essi siano. Dunque il suo non è un vero agire, ma una ripetizione degli ordini ricevuti. La sua incapacità di arrivare ad una sua singolarità si manifesta anche nel linguaggio adoperato. E’ un linguaggio “burocratico”, intessuto di luoghi comuni, con frasi fatte. Sono queste le radici del male. Si tratta di un male molto quotidiano. Abituale quanto i nostri luoghi comuni. Le frasi fatte sono infatti dei modi di sottrarsi alla realtà, cioè al dire no agli avvenimenti. Il male è l’assenza, il rifiuto del pensiero. Pensare è infatti dialogare con se stessi, cioè porsi di fronte alla scelta fra il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto. Chi pensa, si dissocia, si allontana: anche senza far nulla, dissente e apre lo spazio al giudizio. Il pensiero è l’unico antidoto contro la massificazione e il conformismo che sono le forme moderne della barbarie.
Nel 1958 apparve La condizione umana (Vita activa in italiano), un’opera bellissima, sintesi più filosofica del suo pensiero. Il mondo d’oggi è il mondo della tecnica. Tale situazione non è altro che il compimento di un processo intrapreso dall’uomo occidentale dal XVI secolo. I Greci distinguevano la vita attiva fatta di lavoro, creazione artistica e azione politica, dalla vita contemplativa. Nella prima l’uomo plasmava le cose al fine di renderle utili, durevoli, di conquistarsi quella immortalità dell’operare che poteva renderlo presente ai mortali anche dopo la morte. Nella vita contemplativa l’uomo era messo di fronte all’eternità del divino, che lo portava all’ascesi e al misticismo. Con l’età moderna, la vita attiva e quella contemplativa perdevano la loro ragion d’essere. Il theoréin passava dal filosofo allo scienziato o meglio ai suoi strumenti, diventando così la più astratta delle attività pratiche. Il fare diventava un complemento della tecnica e il pensare si trovava ad avere, come suo unico oggetto, il mondo interiore per il tramite dell’introspezione. Una tale trasformazione influì anche sulla sfera sociale: la sfera dell’agire fu sottomessa a quella del fare e dell’utilità. Il risultato fu la “spoliticizzazione” del fare e il trasferimento del “gioco politico” nelle mani di pochi. La A. critica la società moderna perché ha privilegiato l’economico ed ha dimenticato il vero significato dell’agire. Ogni azione è un inizio. Quando un essere umano nasce è una singolarità assoluta, che apre un imprevisto nel mondo. E’ agendo che noi ci mostriamo. Nell’azione c’è anche rischio perché le conseguenze di ogni azione sono senza limiti e non dipendono da noi. Iniziare qualcosa è politico, perché è visto e rilanciato dagli altri. Presuppone dunque una pluralità di esseri umani in rapporto tra loro. Però non è sufficiente agire perché ci sia una vera e propria azione significativa. Occorre che quella azione venga raccontata. Bisogna che ci sia qualcuno che faccia conoscere quella azione a chi non era presente e la tramandi alle generazioni future. E solo così il tempo che viviamo non è semplicemente quello biologico della vita e della morte, ma ha un passato e un futuro significativi.
MARTIN BUBER (1878-1965)
Nacque a Vienna e studiò in diverse università. Nel 1923 pubblicò una delle opere più famose, Io e tu. Nello stesso anno cominciò ad insegnare a Francoforte. Nel 1925 incontrò Franz Rosenzweig, con cui tradurrà la Bibbia (impresa che porterà a termine nel 1962). Nel 1938 si trasferisce a Gerusalemme dove rimarrà per tutto il resto della vita.
Buber ha riproposto innanzitutto la questione dell’identità ebraica. Quali sono le caratteristiche dell’ebraismo? Una prima caratteristica è la coscienza della scissione e l’anelito all’unità; una seconda è la ricerca di una relazione tra morale e religione, intendendo la religiosità come azione e come spinta messianica verso il futuro. Questi principi – unità, azione e futuro – sono i principi validi anche per l’umanità: un autentico ritorno all’ebraismo coincide per lui ad un ritorno verso la vera umanità.
Anche in filosofia Buber ha incentrato il suo pensiero sul concetto di relazione. L’uomo si può porre nei confronti del mondo con due atteggiamenti base, una relazione di io-tu oppure una relazione di io-esso. Il primo è il mondo vero e proprio della relazione, il secondo è il mondo dell’esperienza. Fare esperienza di una cosa o di una persona è inteso da Buber in senso impersonale, strumentale, oggettivo, superficiale. Mentre io-tu è la relazione fondamentale perché non esiste, per Buber, un io da solo bensì solo e sempre il rapporto io-tu, nel senso che nessun uomo è autosufficiente (“All’inizio è la relazione”, scrive Buber). Quindi se la realtà o l’essere è basilare, la coppia io-tu precede la coppia io-esso: noi ci rapportiamo al mondo, come indica l’esperienza dei primitivi e dei bambini, secondo io-tu e solo secondariamente come io-esso, soggetto-oggetto. Per cui, se la realtà vera è relazione, essa è dialogo, mentre dove non c’è relazione, dove c’è egoismo, non c’è dialogo e non c’è nemmeno realtà. Solo impegnandosi nel mondo e solo assumendo le proprie responsabilità l’uomo giunge ad un vero rapporto con sé, con gli altri e con Dio stesso.
FRANZ ROSENZWEIG (1886-1929)
Nacque da una famiglia borghese di ebrei assimilati. Studiò filosofia e storia con Rickert e Meinecke. Pensò quindi di dedicarsi alla carriera accademica ma ebbe una profonda crisi spirituale che lo avvicinò al cristianesimo. Tuttavia, in seguito ad un ripensamento, decise di riconvertirsi all’ebraismo e ciò fu l’avvenimento decisivo per la sua vita. Il suo capolavoro è La stella della redenzione (1921).
L’opera si apre con una celebre tesi: la paura della morte è all’origine della filosofia (come già diceva ad es. Schopenhauer) ma la filosofia non fa che negare la realtà della morte. Da questo punto di vista la filosofia è idealistica. Ma allora egli propone un nuovo pensiero che sia fedele all’esperienza e al concreto e, nello stesso tempo, che non abbia paura di diventare una scienza che in certo modo unisca il pensiero e la fede. L’uomo, il mondo e Dio sono l’oggetto del nuovo pensiero. A questa triade se ne affianca un’altra di creazione, rivelazione, redenzione. La religione in questo contesto è vista da Rosenzweig in primo luogo come una sorta di struttura fondamentale che mette in relazione l’uomo, il mondo e Dio. Affinché sia possibile una redenzione, l’uomo deve però collocarsi all’interno di una comunità di fede. L’ebraismo è visto da lui come la vita eterna mentre il cristianesimo è definito come la via eterna. Ebraismo e cristianesimo sono i due modi in cui accade storicamente l’unità verità divina. Anzi, per lui non è la verità che è Dio, ma è Dio che è la verità, nel senso che Egli è più che la verità proprio in quanto origine e luce del vero. All’uomo e ai vari popoli della terra spetta il compito di inverare il vero, di vivere autenticamente la verità. Dunque il vero non è tanto un paradigma logico quanto piuttosto una conquista morale, che più che teorizzare si deve vivere. L’opera, che era cominciata parlando della morte, si conclude invece con un appello alla vita e all’amore. Quersta vuole essere l’ultima parola di Rosenzweig.
EMMANUEL LEVINAS (1905-1995)
Nacque in Lituania ed emigrò in Francia. Si laureò alla Sorbona dove poi insegnerà e sarà anche direttore della Scuola Normale Israelita. In Totalità ed infinito (1961), (uno dei suoi capolavori), Levinas sostiene che la filosofia occidentale ha teso sovente a soffocare ogni alterità e trascendenza. I filosofi hanno praticato la filosofia alla stregua di uno sforzo di ridurre ogni cosa a se stessi. Sono colpevoli di non riconoscere altra realtà o verità al di fuori di sé autori diversissimi tra loro, che vanno da Socrate a Hegel fino ad Heidegger. Configurandosi come una fagocitazione dell’altro e come una prevaricazione dell’essere nei confronti degli enti, l’ontologia fino ad Heidegger si configura, per Levinas, come una filosofia della potenza che porta, inevitabilmente, al dominio e alla sopraffazione del prossimo. Infatti alla violenza teorica dell’approccio ontologico corrisponde, sul piano pratico, la violenza sull’uomo e l’intolleranza verso il diverso, tant’è vero che per esempio Heidegger finirà di coniugarsi col nazismo. Si tratta allora di rompere con la totalità e il totalitarismo. Ma come fare? La rottura non può essere opera di puro pensiero ma dev’essere un’esperienza esistenziale che si realizza nell’incontro concreto con l’altro. E l’altro si manifesta a me nel volto; volto che è infinito, è linguaggio, è etica. In sintesi, se la totalità è l’essere immanente e tutto inglobante, l’infinito è quella realtà trascendente e non totalizzabile che è l’altro in quanto volto.
La direzione etica del pensiero di Levinas si accentua in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), in cui il soggetto è tale quando dice “eccomi”, quando si dona e fa qualcosa per l’altro. L’uomo nasce per Levinas responsabile prima ancora di essere libero: egli si trova originariamente assegnato all’alterità e alla responsabilità, prima di ogni eventuale accettazione o rifiuto. Questo peso della responsabilità è anche la mia suprema dignità. “Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me. Questa è la mia inalienabile identità di soggetto”(cfr. Etica e infinito, p. 115).
Il problema dei rapporti si complica quando all’io e al tu si aggiunge un terzo. Vi deve dunque essere il superamento dell’essere egoistico e conflittuale in direzione dell’alterità e della fraternità. Inoltre nell’incontro con l’altro posso incontrare l’Assoluto. O meglio ancora: se è vero che attraverso il prossimo incontriamo Dio, è altrettanto vero che è attraverso Dio che incontriamo il prossimo.
HANS JONAS (1903-1993)
Studiò filosofia e teologia con Husserl, Bultmann e Heidegger. Dopo l’avvento del nazismo, emigrò negli Stati Uniti e qui insegnò in diverse università americane. Il suo itinerario intellettuale, come egli stesso disse, può essere suddiviso in tre tappe: gli studi sullo gnosticismo, gli studi per una filosofia dell’organismo che incontra le scienze naturali, gli studi infine per una filosofia pratica che affronti i problemi posti dalla società odierna. Qui accennerò brevemente solo all’ultima fase del suo pensiero. Jonas parte dalla constatazione che oggi l’uomo ha messo in pericolo la natura che lo circonda e in cui vive. Quindi l’uomo ha bisogno di una nuova etica, un’etica della previsione e della responsabilità. L’etica tradizionale, secondo Jonas, era un’etica antropocentrica, che si fermava al qui ed ora e non si poneva il problema degli effetti futuri delle nostre azioni. Da qui l’esigenza di passare da un’etica puramente antropocentrica ad un’etica planetaria, e da un’etica della contemporaneità ad un’etica per la posterità. L’imperativo categorico di Jonas diventa quindi: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”. Ma perché si dovrebbe preferire l’essere al non-essere, la vita alla distruzione? Per rispondere, Jonas dice che bisogna trovare un fondamento della morale, e questo si trova nella constatazione che essere è meglio che non essere (anche perché come potrebbe il nulla difendere le proprie posizioni se non …essendo, cioè non essendo più nulla ma qualcosa?). Da ciò deriva che l’uomo ha il dovere di dire sì alla vita. Il diritto alla vita si trasforma nel principio responsabilità. L’uomo ha il dovere di essere responsabile nei confronti della natura e delle generazioni future. E per vivere realmente questa responsabilità, egli parla di una “euristica della paura”, nel senso che la responsabilità si deve fondare sia sulla speranza, fondamento per ogni azione, e sia sulla paura, che funge da stimolo per evitare di combinare troppi guai. Da questo punto di vista, Jonas è contrario alla manipolazione genetica mentre è favorevole all’eutanasia (il diritto di vivere include anche il diritto di morire). In ultimo, in un breve e famosissimo saggio intitolato Il concetto di Dio dopo Auschwitz, egli sostenne che Dio non è intervento ad Auschwitz perché…non ha potuto! Dio, per Jonas, non è onnipotente! Di fronte al dilemma di come un Dio buono abbia potuto permettere certe atrocità, la risposta di Jonas è: io faccio salva la bontà di Dio ma debbo negargli l’onnipotenza.
LA FILOSOFIA ARABA
I PENSATORI MUSULMANI: BREVE PANORAMICA
Il rientro di Aristotele nel mondo di lingua latina – dopo secoli di assenza – avviene soprattutto attraverso la mediazione della cultura araba. Anche la religione araba, come quella ebraica e quella cristiana, è una religione del libro e il suo libro sacro è il Corano, nel quale sono raccolte le visioni e le rivelazioni divine che Maometto (nato alla Mecca, in Arabia, nel 571 e morto nel 632) avrebbe ricevuto, tramite l’arcangelo Gabriele, a partire dal 612. Il termine “corano” significa testo da recitare: infatti, il libro, trasmesso dapprima oralmente e poi riordinato dai successori di Maometto, è composto di 114 capitoli, detti “sure”, ognuno formato da versetti in prosa ritmica. Maometto predica l’unità e l’onnipotenza di Dio, il cui nome è Allah, e l’Islam, ossia la sottomissione dei credenti e, in generale, di tutti gli esseri alla volontà di Dio, in cui il credente trova la vera pace. Musulmani sono coloro che sono sottomessi alla volontà divina, ma tutti, nel giudizio finale, credenti e infedeli, riceveranno da Dio premi e castighi. Maometto è l’ultimo profeta, dopo Mosè e Gesù: egli ripristina il monoteismo nella purezza e semplicità originaria, mentre i cristiani, introducendo i misteri della Trinità divina e dell’Incarnazione, hanno in qualche modo tradito la concezione monoteistica primigenia. La religione islamica permea con una serie di norme tutti gli aspetti della vita del mussulmano, anche nel suo svolgimento quotidiano: la preghiera cinque volte al giorno, il digiuno nel mese del Ramadàn, l’obbligo dell’elemosina, il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita, il divieto di bere alcolici e di mangiare carne di maiale, la liceità della poligamia e il ripudio della propria moglie. La religione islamica è in certo senso combattiva, mira alla conversione o alla sottomissione degli infedeli, in nome di Allah, e a chi muore nella “guerra santa” essa promette il paradiso: negli anni in cui i Cristiani intraprendevano la scellerata via delle Crociate, con le quali massacravano tutti i non-cristiani, gli Arabi, a seguito delle loro conquiste, si limitavano a convertire gli infedeli, senza massacrarli. In questo orizzonte di fede, non c’è distinzione tra potere religioso e civile: i successori di Maometto, detti califfi, sono al tempo stesso capi religiosi, politici e militari e guidano i fedeli alla conquista della Siria, della Palestina e dell’Egitto, giungendo in Oriente sino all’India e in Occidente nell’Africa settentrionale e in Spagna. In tal modo, l’originario nucleo arabo nel mondo musulmano si allarga e accanto alla lingua araba, che è quella del Corano e, dunque, la parola di Dio, diventano componenti importanti della cultura musulmana anche altre lingue, in particolare quella persiana. In questo mondo più ampio si vengono costituendo anche orientamenti religiosi diversi, talvolta in contrasto tra loro: i sunniti sono coloro che si attengono fedelmente alla sunnah, ossia all’insieme della tradizione riguardante la vita e l’insegnamento del profeta Maometto, mentre gli sciiti, pur riconoscendo la sunnah, ritengono che fonte del sapere teologico sia non soltanto l’accordo fra i dotti, ma anche il successore del profeta, detto “imam”, dotato d’infallibilità, capace d’interpretare allegoricamente il significato nascosto della Scrittura e di guidare la comunità dei musulmani. Le conquiste territoriali pongono i musulmani a contatto con la cultura del mondo greco, e ciò che di questa li interessa sono non tanto le espressioni artistiche e letterarie, quanto le scienze e la filosofia. Tutte le scienze rivelano l’unità della natura, poichè essa rimanda all’unità del principio divino di cui è, appunto immagine. Ciò a cui mira l’uomo di scienza, che raggiunge il culmine della sua attività nella contemplazione, è cogliere questa unità, realizzando così integralmente la sottomissione e l’abbandono a Dio. Questo spiega, da una parte, il peso centrale rivestito dall’esperienza mistica nella cultura islamica: il “sufi” (termine che probabilmente allude al saio da lui indossato) è colui che, per via di purificazione e ascesi abbandonandosi alla misericordia di Dio, allenta i legami col mondo, supera la propria individualità sino a raggiungere l’unità divina. Uno dei Sufi più famosi è al-Hallag nato in Persia, fautore di un’ascesa mistica incentrata sull’amore, che verrà perseguitato e poi decapitato nel 922. La tesi dell’unità assoluta di Dio è anche alla base dell’interesse nutrito dagli arabi per le scienze della natura e per la matematica, considerate come vie d’accesso all’unità della natura nella totalità dei suoi aspetti. Essi daranno, infatti, decisivi contributi all’astronomia e alla medicina, ma anche nell’ottica, grazie soprattutto a colui che i latini conosceranno come Alhazen, vissuto tra il X e l’XI secolo. Particolare impulso ricevette anche l’alchimia, intesa come tecnica in grado di trasformare le sostanze naturali, per esempio, i metalli in altre sostanze più nobili (come l’oro). Il presupposto di essa è l’antica concezione di una simpatia che legherebbe tra loro tutte le cose, sicchè l’azione esercitata su una di esse produce i suoi effetti anche su altre; inoltre, attraverso le operazioni alchemiche, l’ anima purificherebbe se stessa e ascenderebbe, quindi, verso l’unità divina. Già nell’ VIII secolo, con Gabir ibn Hayyan, l’alchimia ha un notevole sviluppo, come sarà poi, nel X sec., nel sud della Spagna ad opera di al-Magriti. Uno scritto, a lui erroneamente attribuito, dal titolo “Lo scopo del sapiente”, sarà tradotto in latino col titolo “Picatrix” e diventerà un testo classico dell’alchimia e della magia in Occidente. Agli Arabi si deve anche l’elaborazione dell’algebra, ignota agli antichi e “destinata all’estrazione di incognite numeriche e geometriche” secondo la definizione datane da uno dei maggiori autori di algebra, il poeta persiano Omar Khayyam, vissuto tra l’XI e il XII secolo. In questa direzione egli era stato preceduto da al-Khuwarizimi, già operante nella prima metà del IX secolo e dal cui nome deriva il termine “algoritmo” per indicare una particolare tecnica di calcolo. La matematica, inclusa l’algebra, appariva nel mondo arabo come una via privilegiata di accesso al mondo intelligibile, secondo l’antico insegnamento platonico. Il primo rilevante contatto degli arabi con i testi filosofici greci avviene nel IX secolo, in parte attraverso la meditazione della cultura siriaca. Già nella seconda metà del IV secolo, il cristianesimo si era diffuso in Siria e ad Odessa si era costituita una scuola dedita anche alla traduzione in siriaco di opere di Aristotele, considerato ben più di Platone, il vero filosofo. Aristotele, infatti, forniva gli strumenti logici e concettuali con i quali affrontare le dispute teologiche. Quest’opera di traduzione continuò anche dopo la conquista araba, avvenuta nel VII secolo. Giacomo e Giorgio di Odessa, morti nei primi decenni dell’VIII secolo, Traducono e commentano soprattutto opere logiche di Aristotele, mentre pressoché ignote rimangono le opere non logiche. Verso la metà dell’VIII secolo, la capitale del dominio arabo viene trasferita da Damasco a Bagdad. Qui, nell’815, è istituita dal califfo al-Ma’mun la Casa della Sapienza, con annessi una biblioteca e un osservatorio astronomico; in essa, viene avviato un intenso lavoro di traduzione di testi greci dal siriaco o direttamente dal greco. Propulsore di questa attività è un cristiano, Hunain ibn Isaaq (810-877), noto ai latini col nome di Joannitius. Il suo obiettivo, perseguito anche dal figlio e dal nipote, è la traduzione sistematica di quasi tutte le opere note di Aristotele, ma già nel X secolo, queste traduzioni erano divenute rare e se ne dovettero intraprendere altre. L’immagine di Aristotele che ne risultava era però intrisa di forti elementi di provenienza neoplatonica: infatti, ad Aristotele erano anche attribuite una teologia, che è in realtà un insieme di estratti dalle “Enneadi” di Plotino e da commentari diPorfirio, e un “Libro sul Puro Bene”, che sarà poi noto ai latini col titolo di “Liber de causis”, il cui contenuto deriva dagli “Elementi di teologia” di Proclo. Questi testi consentivano di porre a coronamento del pensiero aristotelico una teologia che concepisce Dio non soltanto come causa finale, bensì anche come sorgente dalla quale emana il tutto. L’interesse iniziale per la filosofia e la scienza greche deriva in gran parte dalle dispute che avevano luogo a Damasco o a Bagdad tra cristiani, ebrei e musulmani, nel corso delle quali, per evitare di avere la peggio, questi tentarono d’impadronirsi delle tecniche argomentative elaborate dai greci, in particolare da Aristotele. Il problema che nasceva da questo incontro con la filosofia greca, era che queste tecniche, ritenute valide, portavano a volte a conclusioni che potevano apparire incompatibili con i contenuti della religione rivelata nel Corano. In generale i filosofi arabi intesero non tanto mettere in discussione o addirittura abbandonare questi contenuti, quanto individuare connessioni possibili tra il piano dell’esperienza religiosa , comune a tutti i fedeli , e il piano della riflessione filosofica , destinato a pochi . Non si deve tuttavia pensare che quest’aspetto sia stato più rilevante nell’esperienza religiosa e nella riflessione teologica dell’Islam; i filosofi arabi inclini a ripercorrere le orme degli antichi, in particolare di Aristotele, furono una minoranza, che non riuscì, e forse soprattutto non mirò, a diffondere la propria riflessione in vaste cerchie. Tuttavia é proprio questa minoranza di filosofi che rivestì notevole importanza per gli sviluppi della ricerca filosofica nell’Occidente medioevale. Personaggi dal magnifico ingegno, quali Averroè, Avicenna e al-Gazali, segnano l’apice e, al contempo, l’ultimo stadio della cultura islamica: dopo che essi – grani ammiratori di Platone, di Aristotele e dell’intero mondo greco – (soprattutto Averroè) portarono la ragione umana alle stelle (per Averroè vale più la ragione che non il Corano), avviando una riflessione di altissimo livello (per alcuni aspetti anche superiore a quella che in contemporanea andava elaborando l’Occidente cristiano), ci fu un brusco declino, dovuto alla religione islamica, per sua natura oppressiva e avversa ai dettami della ragione. L’Islam tacitò ben presto la ragione, ripristinando l’indiscusso primato della fede e condannando duramente le teorie razionalistiche di Averroè (la cui fama – non è un caso – si diffuse più nell’Occidente cristiano che non nel mondo arabo): questo ripiegarsi sulla religione, mettendo al bando la ragione e le sue illuminanti trovate, costò caro al mondo arabo, che da allora precipitò in una chiusura soffocante, avviandosi ad essere definitivamente sopraffatto sul piano filosofico dal mondo occidentale, il quale – un po’ alla volta (l’Illuminismo segnerà il momento culminante) – riuscì a liberarsi da quell’orpello che era la religione cristiana, avversa anch’essa ai dettami della ragione e mirante a sottomettere l’uomo alla fede. Nell’Occidente la modernità si aprirà appunto con una netta separazione tra la fede e la ragione (separazione teorizzata filosoficamente da Guglielmo di Ockham), le quali procedono da quel momento autonomamente su binari paralleli; nel mondo islamico, invece, dopo una breve fioritura del pensiero filosofico (Averroè, Avicenna), la religione tornerà a dominare incontrastata, rendendo statica e poco vivace una società in cui Aristotele, Platone e gli altri filosofi greci sono scalzati dal monopolio del Corano, dove il pensiero è sottomesso all’autorità del verbo divino.
LA FILOSOFIA INDUISTA
A cura di Ernesto Riva
Caratteristiche generali del pensiero induista
Il pensiero filosofico indiano mostra una ricchezza, una sottigliezza e una varietà tali che non ha nulla da invidiare al pensiero occidentale. L’aspetto più importante del pensiero filosofico indiano è il suo carattere pratico. Fin dal primo inizio, 4000 anni prima di Cristo, le speculazioni dei saggi indiani erano rivolte alla risoluzione dei problemi fondamentali della vita. La loro filosofia nasce dai loro tentativi di rendere migliore la vita. Dalla vita pratica veniva l’esperienza delle forme di dolore e sofferenza più comuni – malattia, povertà, fame, morte. Agiva poi l’innata curiosità umana di comprensione e conoscenza. La comprensione e la conoscenza, frutto della curiosità speculativa, furono utilizzate nel tentativo di sconfiggere la sofferenza. In che modo? La risposta dell’India fu quella di mettere in primo piano il controllo dei desideri. Ne risulta che i filosofi indiani tendono ad insistere sull’auto-disciplina e sull’auto-controllo come pre-requisiti per raggiungere una vita felice. Questo bisogno di regolare e controllare i desideri annette un’importanza fondamentale alla conoscenza di sé. La stessa parola che indica la filosofia, è il termine darshana, che in realtà significa visione, nel senso di ciò che si riesce a vedere dopo che si è indagata la realtà suprema. Naturalmente è possibile che una visione contenga degli errori e le cose possono non essere viste come sono in effetti. Di conseguenza, il filosofo deve giustificare la sua visione fornendo le prove della sua veridicità. Ebbene, i filosofi indiani hanno sempre insistito che la pratica è la vera prova della verità. Le visioni filosofiche devono essere messe in pratica e e la vita deve essere vissuta in conformità con gli ideali di quella particolare concezione. La qualità della vita che è vissuta in conformità con questi ideali costituisce la prova finale di qualsiasi concezione. Migliore diventa la vita, più prossima alla verità totale è la visione. La visione che rende possibile una vita liberata dalla sofferenza, è giustamente chiamata una vera filosofia. Per cui non ha senso, nel pensiero indiano, dire ad es. “Buona in teoria,ma non in pratica”. Buona in teoria, significa, necessariamente, per il pensiero indiano, anche buona in pratica. Se una teoria non può essere messa in pratica in essa c’è qualcosa di sbagliato. L’identificazione della via verso la vita felice con la visione della vita felice stessa, in India, è il fattore di integrazione tra la filosofia e la religione. Filosofia e religione non sono considerate due attività separate. L’insistenza indiana sulla pratica come banco di prova della verità filosofica ebbe anche un altro effetto, quello di porre l’accento sull’approccio introspettivo. Per vincere la sofferenza il filosofo deve guardare dentro se stesso, nella propria vita, e valutare ciò che vi andava accadendo. Era necessario osservarne i cambiamenti e darne una valutazione affinché l’individuo potesse proseguire nella propria auto-analisi. In filosofia la verità dipende dal soggetto umano, e l’esperienza di un altro può essere conosciuta soltanto come un oggetto. Di conseguenza non si può rifiutare l’esperienza altrui come insoddisfacente o inadeguata. Il riconoscimento di ciò ha portato ad un atteggiamento tollerante e sintetico che viene comunemente espresso dicendo che, sebbene non ci possa essere una visione, in se stessa, assolutamente vera e completa, nondimeno ogni visione contiene almeno dei barlumi di verità, e tenendo conto dei punti di vista e dell’esperienza delle varie visioni, si arriva ad ottenere la verità assoluta ed una visione totale.
Oltre a questi aspetti che sono frutto del suo orientamento pratico, nel pensiero indiano c’è una diffusa tendenza a presupporre una giustizia morale universale. Il mondo è visto come una grande rappresentazione morale governata dalla giustizia. Qualsiasi cosa, buona o cattiva o indifferente, è guadagnata e meritata. L’effetto di questo atteggiamento è quello di rendere l’uomo stesso direttamente responsabile della sua condizione umana. In quanto individuo, è responsabile di ciò che è e di quello che diventa. Ne pensiero filosofico indiano c’è anche un consenso piuttosto esteso nei riguardi del non-attaccamento. La sofferenza proviene dall’attaccarsi a ciò che non si ha, o anche a ciò che non si può avere. Così il non-attaccamento è riconosciuto come il mezzo essenziale per la realizzazione della vita felice.
L’induismo in generale
Nell’Induismo l’intuizione fondamentale è che la realtà è Una. Il mondo, l’uomo, gli dèi, le cose che sono state, sono e saranno. Tutto questo è l’unica e medesima Realtà: “Tutto è Brahman” (Chandogya Upanisad). E quando la persona ha attinto una conoscenza illuminata, anche lei può dire: “Io sono Brahman” (Brhadaranyaka Upanisad).Il Brahman è l'”Uno, senza secondo” (Chandogya Upanisad).L’io profondo dell’uomo, l’Atman, è anch’esso identico al Brahman. “Questo Atman dentro il mio cuore è più piccolo di un grano di riso o di frumento, di un seme di senape o di un grano di miglio; e tuttavia questo Atman dentro il mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo…Questo Atman dentro il mio cuore è il Brahman stesso” (Chandogya Upanisad). E per quanto riguarda l’uomo, l’Induismo ripete da secoli la frase di Uddalaka a suo figlio Svetaketu: “Tu sei Quello” (Tat tvam asi) (cfr. Chandogya Upanisad). Viene così riconosciuto che il Brahman-Atman è l’unico Assoluto, la radice e il fondamento di tutto, il Signore che regge e sostiene ogni cosa, la guida interiore e il fine di ogni vivente. In questo senso, il mondo non è creato e non ha consistenza in se stesso. Sia che esso venga concepito come Maya (illusione) presso il saggio Sankara (788-820 d.C.), o venga piuttosto descritto come il gioco di Dio, lila, presso i Visnuiti, esso è l’eterna manifestazione dell’eterno esistente, il volto fenomenico dell’Eterna Persona, la dimora mutevole del Permanente Inabitante. Quando si parla di inizio o di fine, di creazione e di distruzione, le parole si riferiscono ai processi ciclici di apparizione e di sparizione delle cose, di uscita e di rientro delle medesime nella loro eterna Origine.
Tutto ciò che appare è lo stesso Brahman, che si manifesta attraverso ogni cosa. Egli è la Realtà vera di ogni manifestazione. Solo se si considera un fenomeno a sé stante, si può parlare di inizio e di fine, di nascita e di morte; ma il fenomeno stesso è sempre stato in seno al Brahman, e sarà in lui eternamente custodito. Allora l’uomo non muore con la sua morte fisica? Non solo l’uomo non muore, ma in realtà egli non è mai nato. La risposta che Krsna dà ad Arjuna nella Bhagavad Gita è la seguente: “Non ci fu mai un tempo in cui non ero, io, tu, e questi prìncipi tutti, né ci sarà mai un tempo in cui non saremo, noi tutti, dopo questa esistenza. A quel modo che in questo corpo il sé incorporato passa attraverso l’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, così, alla morte, egli assume un altro corpo. Il forte non è su ciò mai perplesso” (2,13-14). In altre parole, l’io profondo di ogni uomo, la verità della sua persona, è l’Atman, ed esso è identico al Brahman. “Egli non nasce e non muore mai, né, essendo stato, v’è tempo in cui non sarà ancora. Innato, eterno, permanente, antico, egli non muore, quando muore il corpo…A quel modo che un uomo abbandona i suoi vecchi vestimenti e ne prende di nuovi, così il suo sé abitante nel corpo abbandona i suoi vecchi corpi e ne prende di nuovi“(Bhagavad Gita, 2, 21-23).
Com’è possibile che un uomo assuma diversi corpi? Per rispondere dobbiamo ricordare che l’induista è un uomo di fede e perciò dà fiducia a quello che i Rsi (i saggi ispirati che hanno veduto gli inni vedici e conoscono la verità) gli hanno tramandato. In base a questo, il singolo uomo che viene al mondo, era in cammino fin dall’eternità, per quel giorno, e l’eternità è di nuovo il resto del cammino che deve percorrere. Egli è sempre stato e sempre sarà. E come egli è emerso dal seno del Brahman alla superficie della storia, così pure – a livelli più o meno elevati – egli ha sempre fluttuato tra le onde di quell’oceano, che è il fenomeno cosmico, e ancora fluttuerà, se la Grazia della Liberazione(Moksha o Mukti) non lo riporterà di nuovo in seno al Brahman. Come poi questo avvenga, che cosa significhi assumere diversi corpi, e come sia possibile per l’uomo conservare la propria identità attraverso tutto questo, è una risposta che richiede una conoscenza che non necessariamente coincide con quella che l’uomo ha ora. E qui l’Induismo da interrogato diventa interrogante e chiede: “tu che non ti ricordi neppure che cos’eri durante la tua infanzia, che non sai nulla di quello che eri nel seno di tua madre, che cosa puoi sapere di quello che eri prima di essere concepito, e di quello che sei in seno a Dio?”. Gettato nel mondo, l’uomo rimane in balia del ciclo delle nascite e delle rinascite (samsara). L’uomo non potrà uscire dal samsara finché non attingerà l’Assoluto. Questo è il problema della Liberazione. Per l’Induismo si tratta allora non di fuggire dal mondo quanto piuttosto di rientrare in seno al Brahman. Ciò che lega l’uomo al ciclo delle nascite e rinascite è il karma (azione). L’uomo è normalmente spinto all’azione dal desiderio (kama) dei suoi frutti, dei suoi esiti. Ora, il desiderio dell’uomo nasce dal contatto con la realtà fenomenica e rimane chiuso entro i suoi confini. Per cui l’azione umana piuttosto che essere un fattore di liberazione, è la causa che vincola l’uomo al ciclo delle nascite e rinascite. Anche se l’uomo osservasse perfettamente tutta la Legge (Dharma), potrà ottenere una rinascita nobile, ma mai la liberazione. La Bhagavad Gita dice chiaramente che l’uomo non può essere liberato grazie alle azioni compiute secondo la Legge, mentre la liberazione è il perfetto congiungimento con l’Origine ultima di tutte le cose. Questo presuppone che si faccia pieno spazio alla sua presenza e alla sua azione. Essa è opera del supremo Signore; a Lui l’uomo deve affidarsi. Krsna dirà ad Arjuna: “Abbandonando tutte le idee di Dharma, prendi rifugio in me soltanto. Io ti libererò da ogni peccato. Non ti addolorare” (Bhagavad Gita, 18,66).
Ma allora Dio è per l’Induismo è personale o impersonale? Il Brahman-Atman delle Upanisad è un Assoluto impersonale, mentre la Bhagavad Gita introduce una concezione personale di Dio. Egli è la Persona suprema, che salva il suo fedele. Tale concezione è fondamentale per capire il tipo di Yoga che la Bhagavad Gita presenta come strumento di liberazione.
Yoga significa anzitutto unione e, in riferimento al diverso modo di concepire il termine di questa unione ed i metodi per realizzarla, si danno diversi tipi di Yoga. Lo Yoga classico comprende un insieme di tecniche che mirano al completo possesso di sé. La Gita accetta le tecniche dello Yoga, ma sostiene che, dopo tutti gli sforzi umani, è comunque Dio che viene incontro al suo devoto, ed in questo incontro si realizza la liberazione. Vi è una triplice via per la liberazione (trimarga): l’azione (karma yoga), la conoscenza (jnana yoga) e la devozione (bhakti yoga).
la via dell’azione è la via di colui che, sapendo che è Dio che agisce in ogni cosa, affida a Lui ogni sua azione e la compie senza attaccamento ai frutti;
la via della conoscenza non è la conoscenza che tutto è Brahman, ma è piuttosto la Grazia di una Rivelazione, manifestazione della Forma suprema di Krsna;
la via della devozione è la vera e propria essenza dell’Induismo, quella che permette di raggiungere la liberazione, ed è opera solo del Signore stesso. “Non per Veda, per i sacrifici e gli studi, non per le elemosine, non per i riti, non per le dure penitenze, posso io esser visto in tale forma qui nel mondo degli uomini: a te soltanto io l’ho rivelata, o campione dei Kuru…ma per la devozione diretta a me solo, o Arjuna: per essa io posso essere così conosciuto, veduto secondo realtà e penetrato, o Arjuna. Colui le cui azioni sono fatte per me, il cui supremo bene son io, colui che è a me devoto, privo di attaccamento, privo di odio verso i vari esseri, costui entra in me, Arjuna” (Bhagavad Gita, 11, 53,59-60).
Dopo il superamento di ogni concezione politeistica, l’Induismo ha tranquillamente rimesso in luce figure di dèi del pantheon vedico, quali Vishnu, Shiva e le Shakti, sapendo perfettamente che questi non erano degli dèi, bensì aspetti manifestativi dell’unico Dio personale. Dobbiamo anche precisare qui, perché molto nota in Occidente, che la celebre Trimurti (Brahma come creatore, Visnu come conservatore e Shiva come distruttore) è una elaborazione teologica posteriore che non riproduce reali movimenti devozionali all’interno dell’Induismo. Non esistono movimenti devozionali rivolti alla Trimurti. Inoltre essa non ha nulla a che vedere con la Trinità cristiana: non sono tre distinte persone, ma è il triplice modo di manifestarsi dell’unica sostanza divina. Insomma, quando l’Induismo parla di dèi, è solo per esprimere, attraverso essi e alle relative mitologie, i vari aspetti dell’unico ed identico Dio. Fatta questa premessa, si può parlare degli dèi dell’Induismo, che sono molti. Shiva rappresenta l’aspetto paterno di Dio, ma è anche distruttore e ricreatore di tutte le cose. La sua shakti (l’energia eterna di Dio) è anche vista come Kali, dea della distruzione (ma poiché distrugge anche i demoni, è anche dea della protezione). Vishnu è l’immagine di Dio che ha forse il culto maggiore perché è legata alla sue numerose incarnazioni o discese (avatar), alcune delle quali, come Krsna e Rama, sono universalmente popolari. E poi vi è Ganesha, col corpo umano e la testa di elefante, figlio di Shiva, dio della conoscenza e della liberazione; Karttikeya, anche lui figlio di Shiva, dio del coraggio e della potenza; Hanuman, in forma di scimmia, personificazione della fedeltà, alleato di Rama; Agni, dio del fuoco, invocato nei sacrifici. Manasha, regina dei serpenti (naga) ecc.
I testi sacri. Sono divisi in due categorie: i testi uditi o della rivelazione (srti), e i testi appresi o testi della tradizione (smrti).Ai primi appartengono i Veda e le Upanishad, chiamate anche Vedanta, ovvero fine dei Veda. Le smrti più note sono invece le due epiche: il Mahabharata (o grande India), che contiene nel sesto libro la Bhagavad Gita; e il Ramayana, in cui appaiono rispettivamente le due più popolari incarnazioni di Visnu, e cioè Krsna (nella Bahagavad Gita) e appunto Rama.
Le cerimonie. Anche nell’Induismo moderno rimane il rito del sacrificio (Yajna), che consiste nell’offerta alla divinità di burro fuso, cereali, talvolta anche animali e del soma (liquore estratto da un vitigno, che è una sorta di bevanda dell’immortalità, offerta in libagione agli dèi; è anche sinonimo della Luna, per la somiglianza del colore; è estratto dalla asclepias acida). Normalmente queste offerte sono consumate nel fuoco e il sacerdote prega Agni di portarele offerte al cospetto divino. Il rito post-vedico più comune è la puja, la cerimonia di venerazione della divinità, durante la quale una statua del dio viene unta, vestita, ornata e profumata; vengono offerti cibo e bevande che però non sono consumati nel fuoco ma ridati ai fedeli; in particolari occasioni l’immagine del dio è portata in processione fuori del tempio. La forma normale della preghiera è la japa, che consiste nella recitazione e ripetizione di mantra, ossia parole e formule sacre. Il mantra più importante è la ripetizione del suono Om o Aum, che indica il Brahman. Ci sono poi ovviamente riti particolari per i diversi stadi della vita: nascita, ammissione ai doveri della propria casta, matrimonio, malati, defunti ecc.
Le feste. In primavera si celebra Holi: la festa coincide con la luna piena del mese di Phalguna (febbraio-marzo). È appunto celebrata con la holi, una mistura di acqua, calce e altro che i fedeli si spruzzano reciprocamente. Oggi è connessa con la venerazione soprattutto di Krsna. In autunno c’è la festa di Dashara, nei primi dieci giorni del mese di Ashvina (settembre-ottobre). In essa viene onorata la shakti di Shiva (cioè Durga o Kali), ed è cara ai Shivaiti. Ma al decimo giorno si uniscono anche i Visnuiti perché si celebra la vittoria di Rama sul demone Ravana e la liberazione di Sita, sposa di Rama. A Shiva è consacrato ogni 14° giorno del mese lunare, ed in particolare è celebrato il 14 del mese di Magha (gennaio-febbraio), detto la notte di Shiva.
L’etica induista in generale
Nell’Induismo in generale la morale mantiene il suo carattere distaccato di mezzo e di purificazione (non è, come vedremo, come quella buddhista, in cui conta anche la partecipazione, la compassione, l’amore). Propedeutica della vera conoscenza, trascura le esigenze della vita associata o non vi insiste; ha di mira non i rapporti dell’uomo con la comunità ma dell’uomo con l’assoluto, è pertanto ascetica piuttosto che morale. La morale si riduce ad un conflitto tra i desiderio, cioè il richiamo della vita, e la saggezza, cioè il superamento della vita. Quindi le proibizioni prevalgono sulle ingiunzioni; il peccato interessa più della virtù, e per peccato si intende il prevalere dell’istinto e dell’ignoranza. Nella Bhagavad Gita precetti morali e ingiunzioni religiose sono ancora congiunti.
La vita viene considerata dagli indiani duplice, come sotto una doppia luce. Da un punto di vista relativo, conmvenzionale, la società è divisa in caste e l’uomo è sottomesso a regole e doveri diversi a seconda dell’età. Ogni uomo passa per quattro momenti: la giovinezza, quando la continenza dei sensi è d’obbligo; l’età matura, quando col matrimonio e l’operosità attiva si assicura la continuità della famiglia e si assolve il dovere verso gli antenati; la rinuncia, quando giunge la vecchiaia; in ultimo lo stato di vanaprastha,il ritiro nella selva, in un completo distacco nell’attesa della morte.
Ma oltre questa vita, vi è l’altro piano, il piamo al di là del samsara, lo stato del Brahman, l’isolamento definitivo dell’anima da ogni contatto o suggestione dai vincoli della materia. Questo stato si consegue non con l’azione ma con la cessazione dell’azione. Ogni nostra attività deve quindi essere volta al supremo bene(naihsreyas), che coincide con l’arresto e il superamento del samsara. Perciò l’attenzione è tutta portata non tanto sui doveri umani quanto sulla ricerca della conoscenza che conduce all’arresto definitivo della vita. Il bene compiuto e io rispetto delle regole religiose sono certo preferibili al male, ma ci legano comunque all’esistenza, il loro frutto è perituro, limitato nel tempo. Non l’azione dunque, ma lo yoga, l’ascesi, agevolata e preparata dallo yoga, la gnosi, la conoscenza, il superamento del bene e del male. Ecco perché anche l’azione meritoria dev’essere disinteressata, non la deve accompagnare nessun pensiero di ricompensa futura.
Ma come si fa a predicare la rinuncia quando la vita stessa con le sue richieste implacabili ci getta in braccio al peccato? Non c’è dunque conflitto tra le ingiunzioni della religione e della mistica ed i doveri sociali? Fu il problema che si pose e cercò di risolvere il Bhagavad Gita. La risposta di Krna ad Arjuna è: l’atman che abita in fondo a ciascun uomo, amico o nemico che sia, è uguale in tutti. Colpendo i corpi, privando della vita i propri nemici, Arjuna non commette peccato perché egli è un guerriero e ciascuno deve assolvere i propri doveri, fissati dalla nascita. Peccherebbe invece non già uccidendo i nemici ma abbandonando il campo, perché questo sarebbe viltà e coprirebbe di vergogna sé e la sua famiglia. Ciò che occorre è compiere il proprio dovere. L’azione non si può evitare, visto che la vita stessa è incessante azione, ma bisogna stare attenti ad agire senza desiderio od odio, senza che le passioni ne siano il nascosto movente.
Scuole filosofiche classiche
GIAINISMO (o JAINISMO)
Il Giainismo deriva il nome dal suo fondatore, Mahavira (morto nel 476 a.C.), che fu chiamato Jina, (il vittorioso), con un appellativo che non è proprio solo di lui ma di tutti quelli che hanno superato il mondo e vinto le passioni, come ad es. Buddha.
La filosofia giainista è una sorta di pluralismo dualista. Da un lato c’è l’anima, dall’altro la materia. Le anime, le forze vitali (jiva) sono infinite e pervadono la materia ed i corpi. In noi è presente una tendenza innata alla perfezione, anche se è offuscata dalla materia. Per cui vi sono due tipi di anime: quelle legate al samsara, e quelle libere (kevalin), che sono diventate pura coscienza e pura luce.
LE SCUOLE MATERIALISTICHE
Le scuole materialistiche sono chiamate con vari nomi: Charvaka, Lokayatika, Nastika. Esse negano il karma, la responsabilità morale come causa della ricompensa o dell’espiazione in un’altra esistenza. Molti indirizzi erano arrivati alla conclusione che il karma non esiste, che l’azione buona o cattiva non porta frutto di cui poi l’uomo debba godere o soffrire. Alcuni affermavano che la vita è retta dal destino. Gli ajivika, per esempio, che riconoscevano come loro maestro Makhali Gosala, ammettevano l’esistenza dell’anima, ed erano dell’opinione che il ciclo del samsara si svolgesse per 84 milioni di eoni, dopo di che la liberazione poteva essere raggiunta indipendentemente dal karma, perché tutto ciò che avviene si svolge per opera del destino (niyati).
Altri affermavano che ogni avvenimento è dovuto all’impulso della natura propria delle cose in virtù di un automatismo del loro essere stesso o alla maturazione del tempo. Altri, infine, negavano l’esistenza del bene e del male, e non ammettevano che un cieco impulso vitale: alcune correnti si riducevano ad un semplice edonismo senza pretese speculative. Il che indica quanto complessi e vari fossero gli indirizzi della speculazione induista.
IL SANKHYA E LO YOGA
I due sistemi sono in genere considerati insieme perché hanno molte dottrine comuni, tranne il fatto che alcune correnti del Sankhya non ammettono l’esistenza di Dio mentre lo Yoga la postula. L’esposizione più antica del Sankhya è l’opera di Isvarakrsna intitolata Sankhyakarika(4°-5° secolo d.C.) in 72 versi. Invece la letteratura yoga si incentra intorno agli Yogasutra di Patanjali (2° sec. a.C.).
Sia il Sankhya che lo Yoga ammettono due sostanze opposte ma ugualmente eterne: da un lato le anime (purusha), che sono infinite e semplici, e dall’altro la prakrti,che sarebbe un po’ la nostra natura o materia, unica, dinamica, complessa. Il processo cosmico o, come diremmo noi, l’evoluzione della natura o della materia è ciclico (teoria accettata da tutte o quasi le scuole dell’India) e può avvenire ovviamente in due sensi: o dall’alto verso il basso, dalla natura evoluta alle sue forme più semplici, o dal basso verso l’alto, prendendo in considerazione le forme più semplici fino ad arrivare a quelle più evolute. Le anime sono luminose, pura intelligenza, ma inattive, impassibili, non soggette né a gioia né a dolore: sono all’incirca l’io della coscienza. Le anime devono conquistarsi la liberazione definitiva attraverso l’esperienza della vita: occorre che avvenga il contatto con la materia, e quindi la conquista della consapevolezza attraverso la sofferenza vissuta, perché sia per sempre rotto l’incanto e la materia non possa più avere presa sull’anima. Fino a quanto ciò non avviene, l’anima è incatenata al fascino del materiale. Il ciclo samsarico avrà fine quando nascerà nella psiche, attraverso la conoscenza data dal Sankhya e dallo Yoga, la consapevolezza della distinzione tra l’anima (purusha) e la psiche stessa (buddhi). Essendo così eliminata l’ignoranza, la psiche (buddhi) ritorna allo stato di purezza originaria.
Lo Yoga, a differenza del Sankhya, ammette l’esistenza di un Dio come supremo regolatore del moto della natura, la quale, non essendo intelligente, non potrebbe svolgersi con la necessaria regolarità intesa alla liberazione delle anime. Dio non è creatore ma è un’anima somma, che con la sua perfezione stimola l’uomo a liberarsi dai vincoli materiali. Il concetto di Dio è così passato per diversi stadi: dalla primitiva, indifferente presenza, Dio è diventato a poco a poco il Supremo signore onnipotente, Isvara. Altra differenza notevole tra Yoga e Sankhya è il fatto che la liberazione, per lo Yoga, non deriva soltanto dalla conoscenza, quanto dalla rigida disciplina ascetica. Deve cioè compiersi un progressivo svuotamento dell’individuo: astensione dall’offesa ad ogni creatura vivente, rispetto della verità, desistenza dal furto sia pensato che eseguito, rifiuto di possedere ogni cosa che non serva al puro sostentamento, purezza di spirito e di corpo, indifferenza a tutto ciò che può succedere, ascetismo, studio dei testi sacri e devozione verso Dio. Si prescrive quindi l’uso di posture convenienti alla meditazione, il controllo del respiro (pranayama),che è premessa essenziale per il controllo del pensiero e la sottrazione dei sensi da ogni influsso dei propri oggetti, in modo che la loro funzione sia ridotta a semplice percezione senza partecipazione dell’io (pratyahara). Alla fine vi sarà lo stato supremo in cui è raggiunto l’arresto delle funzioni mentali (nirodha-samadi o asamprajnata).
NYAYA E VAISESIKA
Anche questi due sistemi sono stati tradizionalmente abbinati, anche se hanno fondamenti diversi. Il Nyaya è, almeno alle origini, prevalentemente un sistema di logica che aiuta a motivare le proprie opinioni; solo in seguito diventerà un sistema metafisico. Il Vaisesika si occupa di classificare i dati dell’esperienza e di ridurli ad alcune categorie fondamentali, e quindi propone una teoria atomica che indaga la natura degli atomi, della loro combinazione e degli elementi che ne derivano. I testi canonici sono i Vaisesikasutra attribuiti ad un brahmano chiamato Kanada, redatti verso il 1° o 2° secolo d.C; i Nyayasutra, attribuiti ad Aksapada, nel 3° secolo.
Secondo il Vaisesika, tutto ciò che si percepisce è reale. Le cose esistono indipendentemente dal fatto che noi le percepiamo. Il mondo è eterno ed è il risultato di una combinazione di atomi in continuo movimento. Dio non è creatore ma è la causa efficiente dell’universo e il regolatore del karma. Quando avviene la liberazione, l’anima tornerà nella sua essenziale immobilità, inattività e inconsapevolezza, distaccata dal mutevole mondo terreno.
Lo scopo del Nyaya è la conoscenza della realtà conoscibile attraverso quattro mezzi appropriati: percezione, inferenza, analogia o comparazione, testimonianza autorevole. Per cui conoscenza vera è quella che non sarà mai soggetta a contraddizione o dubbio, che riproduce l’oggetto come realmente è, e ci presenta insomma in maniera fedele un oggetto qualunque. Questa soltanto è conoscenza, ed è da distinguere dal ricordo, dal dubbio, dal ragionamento puramente ipotetico.
LA MIMAMSA
Questo sistema si riallaccia ai Veda. I primi Mimansasutra sono stati redatti tra il 200 a.C. e il 200 d.C. Pensatori famosi di questa corrente furono Kumarila e Prabhakara (entrambi del 7°-8° sec. d.C.) e Khandanadevamisra( 16°-17° sec.). Il karma domina sovrano, inteso non solo come atto morale, ma soprattutto in senso rituale, come atto liturgico: l’universo e l’uomo sono retti dal sacrificio. Da ciascun momento del rito, quando esso sia compiuto secondo le regola, si sprigiona un risultato parziale, che sommandosi con gli altri risultati parziali dell’atto sacrificale, si trasforma in un risultato complessivo e globale. Il rito conduce al proprio fine in maniera puramente meccanica. Tale sistema non ammette nell’ordinamento dell’universo nessun intervento divino, per il fatto stesso che un Dio creatore e distruttore dell’universo non esiste. La Mimamsa accetta una concezione realistica dell’universo: le cose che cadono sotto i nostri sensi sono reali. Al di là della materia, esistono innumerevoli anime, che sono eterne, le quali trasmigrano di corpo in corpo per scontare i risultati delle azioni compiute, fino a quando l’atto sacrificale non abbia eliminato del tutto il residuo karmico. Rinuncia e devozione non servono a nulla: soltanto il rito cancella il karma e separa l’anima dal corpo, interrompendo il ciclo samsarico. La liberazione consiste nella interruzione del processo karmico volto sia al male che al bene, perché anche il bene fatto con la speranza di ricompense, in questa o nell’altra vita, mantiene sempre legati all’esistenza e al samsara. La Mimamsa resta dunque soprattutto una severa ed austera disciplina ed una teoria sacrificale precisa, minuta e cavillosa. Ma come si può essere certi che l’atto sacrificale abbia tanta infallibile efficacia? I mimansaka (seguaci del Mimansa) poggiano la loro certezza sui Veda, considerati come la massima inconfutabile autorità. I Veda sono eterni.
IL VEDANTA DI SHANKARA
Shankara (788-820) muove dall’assoluto e a quello contrappone lo stesso mondo dell’esperienza quotidiana come il non-essere illusione (maya), ignoranza (avidya). Nella rivelazione delle Upanishad, dice in sostanza Sankara, è contenuta intera la verità. La ragione non serve a scoprire la verità ma a dimostrare la legittimità di quella rivelazione e la coerenza logica delle sue osservazioni. Egli vuole così opporsi alle teorie del giainismo e del buddhismo.
Siccome l’io assoluto (Atman e Brahman) è l’unica realtà rivelata dalle Upanishad, tutto ciò che non è questo io è un non essere, è irreale. Il rapporto tra l’assoluto e l’apparenza è illustrato da Shankara con esempi: di notte vedo luccicare qualcosa e prendo per argento quella che è invece una semplice conchiglia. Così, in virtù della maya, l’Uno mi appare molteplice, riflesso in un numero infinito di io particolari; ma essi scompaiono quando si giunge alla consapevolezza dell’unico Io. La maya è dunque una libertà magica che è presente nel Brahman come il potere di bruciare è inerente al fuoco; in virtù della maya, il Brahman nasconde la propria essenza e si proietta in una molteplicità apparente che lo fa sembrare come diverso da quello che è, cioè come mondo o come io singolo.
Commisurate alle possibilità degli uomini, esistono due forme di verità: una assoluta, riservata a pochi eletti, e l’altra relativa. La maggior parte degli uomini è ottenebrata dall’ignoranza per cui vive nella convinzione della realtà del mondo fenomenico, retto da un Dio personale. Al contrario, per colui che è giunto alla percezione dell’unica autentica realtà né i riti, né le opere buone, né adorazione di una divinità particolare hanno più valore; però, questi atti, uniti all’osservanza dei precetti morali e sociali insegnati nei Veda, sono efficaci affinché coloro che sono ancora nell’errore possano risalire, nel corso delle esistenze, ad un grado tale di perfezione tale da raggiungere la verità assoluta e con essa la definitiva liberazione. Giustificando in tal modo da un lato le tradizioni antiche e ponendo dall’altro le basi per un misticismo religioso intellettualmente elevato, Shankara è stato in grado di soddisfare i bisogni religiosi tanto dell’uomo colto che dell’ignorante: di qui la straordinaria fortuna della sua dottrina e l’unanime stima goduta dalla sua persona.
RAMANUJA
Ramanuja (1017-1137, vissuto secondo la tradizione ben 120 anni), è il fondatore di un altro famoso indirizzo nella filosofia indiana, la scuola del Visistadvaita (monismo differenziato). Partendo anch’egli dalle Upanishad, elabora un sistema teistico: Dio ha creato il mondo lo crea traendolo da sé. Infatti in Lui c’è tutto, sia spirito che materia. Il mondo quindi è parte di Lui ed è dunque reale, non è solo un’apparenza (come diceva Shankara) e costituisce il corpo di Dio, il quale è immanente in tutto l’universo ma, nello stesso tempo, lo trascende. Tra Dio da una parte e le anime individuali ed il mondo dall’altra, c’è lo stesso rapporto che c’è tra l’anima e il corpo umano: come i difetti del corpo non sono i difetti dell’anima, così le nostre imperfezioni e quelle del mondo non sono le imperfezioni di Dio. La via che conduce alla liberazione è il bhakti-yoga, o via della devozione, che consiste nell’abbandono del fedele al Signore. Conseguendo la liberazione, l’anima del fedele si unisce a Dio (Vishnu), rimanendo però da Lui distinta e conservando la propria personalità.
Pensatori moderni
RADHAKRISHNAN (1888-1975)
Sarvepalli Radhakrishnan, che è stato anche presidente dell’India, è autore di moltissimi articoli e dozzine di libri di filosofia. IN primo luogo egli non ritiene contraddittorio che un filosofo partecipi attivamente agli affari politici e sociali, poiché questi sono apparenze del Brahman e sono quindi dei mezzi da utilizzarsi nello sforzo di raggiungere l’esperienza della realtà suprema. La filosofia di Radhakhrisnan è stata dunque un tentativo di elaborare una esauriente filosofia della religione. Il compito della filosofia della religione com’è intesa da lui è quello di sviluppare una teoria sulle natura delle cose nel mondo che possa rivelare le relazioni tra il mondo, l’anima e Dio. La teoria deve spiegare i fatti dell’esperienza religiosa e nello stesso tempo ammettere la ragione: in altre parole, ammessa la coerenza razionale, la teoria deve avere le sue basi nell’esperienza religiosa stessa. Per Radhakhrisnan la teologia, il dogma, il rituale, le altre varie istituzioni sono le eterne trappole della religione, non la sua essenza. L’essenza della religione è invece il tentativo di scoprire le possibilità ideali della vita umana. Questa ricerca è personale e coinvolge necessariamente l’intera persona. La religione include quindi la sensazione, la ragione, la volontà e va ancora oltre tutto questo verso il centro più profondo della persona, dov’è la vera sorgente dell’uomo e, integrando queste facoltà, le guida per trasformare la vita della persona in qualcosa di completo e di integro. Questo sé interiore è descritto come Spirito, e la sostanza e l’essenza della religione è l’esperienza della vita dello Spirito. Così come cambiano le forme della cultura e della civiltà, debbono mutare anche le forme di religione, in modo da poter manifestare adeguatamente l’esperienza dell’incontro spirituale. Se nell’esperienza religiosa viene coinvolta tutta la persona, essa è radicalmente da qualunque altra esperienza l’uomo possa fare. In questo senso, le distinzioni che normalmente si fanno tra soggetto e oggetto e tra una facoltà e l’altra, sono abbandonate per affermare che nell’esperienza religiosa il soggetto e l’oggetto si fondono divenendo un’unità. Ma quando è abbandonata la distinzione tra soggetto e oggetto sono abbandonate anche tutte le altre consuete distinzioni presupposte dal pensiero. Passato, presente e futuro diventano pure astrazioni, prive di realtà. C’è soltanto l’adesso, privo di dimensioni ed il qui, senza collocazione.
L’intento fondamentale della religione consiste nell’aiutare l’individuo a rendersi conto che può elevarsi oltre i limiti imposti dalla materia, dalla vita o dalla coscienza, fino a capire che nel suo essere più profondo egli è identico con lo Spirito Assoluto ed è in verità completamente libero dalle limitazioni inerenti all’identificazione con un particolare modo o funzione dello Spirito. Tutto ciò è possibile soltanto per mezzo di un’attività pratica, un’attività dell’essere piuttosto che della conoscenza. È la realizzazione spirituale dell’insegnamento di Uddalaka a suo figlio Shetaketu: “Tu sei quello”.
AUROBINDO (1872-1950)
Per Sri Aurobindo il grande problema del giorno d’oggi è la trasformazione dell’uomo attuale nel grande essere spirituale che potenzialmente è. La vita divina è per Aurobindo la vita vissuta nella piena realizzazione del Brahman, e lo yoga è il mezzo per questa vita. Lo yoga dev’essere praticato come mezzo per cambiare la condizione attuale dell’umanità. Il Brahman ha dato origine all’universo senza alcuna ragione, traendolo semplicemente fuori dalla pura esuberanza del suo essere. L’universo esiste perciò come gioco di pura esistenza. Ma non è un gioco capriccioso, poiché è diretto dall’Assoluto. L’evoluzione dell’universo verso forme sempre più alte di vita e di coscienza è così un ritorno verso la fonte di ogni cosa, verso il Brahman. La tendenza dell’esistenza umana è quella di spingersi verso livelli superiori di esistenza: per fare ciò viene in aiuto lo yoga, che comprende però ogni cosa e non è riducibile a mera ascesi fisica. Per questo ci vogliono anche condizioni materiali e sociali che permetteranno all’uomo di arrivare oltre se stesso, elevando la sua esistenza fino alla vita divina. Perciò devono essere instaurate e garantite la giustizia e la libertà della società come condizioni necessarie per la superiore evoluzione dell’uomo.
IL BUDDHISMO
A cura di Diego Fusaro
Le origini
Il termine Buddha in lingua pali significa “chi conosce o raggiunge l’illuminazione”. Il fondatore del Buddhismo si chiamava in realtà Siddharta, ed aveva come patronimico quello di Gautama o Gotama. Nacque in una famiglia principesca, del clan dei Sakya, che viveva a Kapilavastu, in una regione che oggi fa parte del Nepal, a 170 chilometri circa dall’odierna Benares. Nacque verso la metà del 6° secolo a.C. Suo padre si chiamava Suddhodana e la madre Mahamaya. Il giovane principe venne allevato in mezzo al lusso, avendo a disposizione tutte le comodità ed i piaceri. A 19 anni sposò una donna bellissima, Yasodhara. Per molti anni condusse una vita fatta di lusso e felicità domestica. Ma un giorno il giovane incontrò un vecchio, un malato, un morto ed un monaco. Quelle quattro realtà lo colpirono profondamente. Dopo essersi reso conto che la vecchiaia, la malattia e la morte sono la sorte dell’umanità e che vi sono delle persone che aspirano ad una vita diversa, decise di dedicarsi anche lui alla ricerca della verità. Aveva 29 anni quando decise di lasciare tutto e di ritirarsi in luoghi solitari per meditare. Si addentrò nella foresta, si rase il capo, indossò l’abito giallo di un eremita e per sei lunghi anni cercò una soluzione. Interrogò famosi sapienti, si diede all’ascetismo più rigido ma non riuscì a trovare la Risposta. Una notte, infine, si sedette sotto un albero e promise che non si sarebbe mosso da lì finché non avesse trovato la Risposta. Sotto quell’albero combatté l’ultima battaglia, quella contro le inclinazioni e i desideri del cuore umano, la battaglia contro l’amore per il mondo, l’illusione, l’aspirazione ad esistere e a gioire, contro il desiderio dell’onore, della felicità, della vita familiare, del benessere, del potere ecc. Fu assalito dal demone Mara, ma Siddharta superò le tentazioni. Dopo quarantanove giorni di meditazione, in una notte di luna piena del mese di maggio, in un luogo noto come Buddhagaya, egli raggiunse l’illuminazione. Da allora fu noto come “il Buddha”. Aveva circa trentacinque anni. Da quel giorno percorse per altri quarantacinque anni il nord dell’India insegnando e predicando il suo messaggio di speranza e di felicità. Buddha morì all’età di 80 anni a Kusinara, in una notte di luna piena nel mese di karttika (ottobre-novembre).
Alla sua comunità, Buddha aveva lasciato solo la dottrina (Dhamma o Dharma), che è conosciuta come le Quattro Nobili Verità. Esse sono: 1)c’è il dolore; 2)il dolore ha una causa; 3)il dolore può essere superato; 4)il modo per eliminare il dolore è pratica l’Ottuplice Sentiero. Vediamo in breve i vari punti.
Il dolore o la sofferenza (dukkha) è un fatto universale. “E questa, o monaci, è la santa verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l’unione con quel che dispiace è dolore; la separazione da ciò che piace è dolore; non ottenere ciò che si desidera è dolore; in una parola, dolore sono i cinque elementi dell’esistenza individuale”.
La causa del dolore è il desiderio ovvero brama ovvero sete (tauha). “Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione”.
Come può cessare il dolore? “Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa sete, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi”. Esiste dunque uno stato in cui c’è libertà completa dalla sofferenza e da ogni schiavitù, uno stato in cui si gode della pace assoluta, che è il Nirvana (o Nibbana).
La via che conduce alla soppressione del dolore è l’Ottuplice Sentiero: “Questa, o monaci, è la santa verità circa il sentiero che conduce alla soppressione del dolore: è l’augusto ottuplice sentiero, e cioè: retta fede, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione”. Questo Ottuplice Sentiero porta a prendere coscienza di sé, del proprio intimo, porta alla sapienza e fuga l’ignoranza; il suo frutto consiste nella serenità, nella conoscenza e nella illuminazione, che è il Nirvana, lo stato di pace perfetta e di perfetta felicità.
Per chiarire meglio in che cosa consiste il Nirvana, dobbiamo ricordare che il Buddhismo ha ereditato dall’Induismo il concetto del karma. Il karma è la nostra azione o, meglio, in senso morale, è il frutto della nostra azione, il nostro merito o demerito. Fintanto che vi sarà karma, un essere nascerà e rinascerà. Questa però non vuole essere una dottrina deterministica poiché si è sempre liberi di agire per il meglio o per il peggio. È la volontà e non tanto la sola azione che riveste importanza nel produrre nuovo karma. Questa situazione è forse destinata a continuare per sempre? No, per il Buddhismo non sarà sempre così. C’è infatti la possibilità di arrivare al Nirvana per porre fine alle sofferenze, per essere liberati dalla ruota delle nascite e delle rinascite. Si tratta di uno stato di beatitudine suprema, di pace e di tranquillità interiore, accompagnato dalla certezza di aver ottenuto la liberazione; è uno stato non descrivibile a parole; solo chi lo ha sperimentato può sapere che cos’è. Infatti può essere raggiunto in questa vita e non in uno stato futuro. Né è una condizione che solo pochi possono fare propria. Tutti sono in grado di raggiungerlo, anche se sono molto pochi coloro che vi giungono in maniera perfetta durante questa vita. La beatitudine dei perfetti (Arahat) dopo la morte è chiamata Parinirvana, e costituisce ovviamente l’ultimo stadio del nirvana.Tale è il traguardo a cui l’Ottuplice Sentiero può condurre il fedele.
La teoria della anatta. Il Buddhismo respinge la nozione di anima intesa come la sostanza individuale, personale, autonoma e immortale nei confronti del corpo. Esso sostiene al contrario che non c’è nessuna anima, dunque c’è una non-anima, che chiama anatta. In altre parole, l’anima o l’io o il sé non esistono. Quel che è detto “io” è una combinazione continuamente mutevole di forze ed energie mentali e fisiche, che sono di per sé vuote, irreali. Noi siamo abituati a dire che il corpo o le abitudini o i pensieri di una persona appartengono ad un sé, ed in questo modo suggeriamo che, oltre a ciò che è posseduto, vi sia anche un possessore – l’io – di tali processi. In realtà, secondo il Buddhismo, questo è soltanto un modo di dire: la dottrina della anatta nega insomma che il cosiddetto sé sia una sostanza indipendente dai processi che formano una persona. Si tenga inoltre presente che per il Buddhismo la credenza in un sé sostanziale è proprio alla base della sofferenza, perché tale credenza rende possibile l’attaccamento dei vari processi appunto ad un sé che soffrirebbe: io soffro, io gioisco, io agisco… Questo errore fondamentale, questo ignorare quale sia la verità (per il Buddhismo) permette l’attaccamento e rende perciò reale la sofferenza ed impossibile a superarsi.
Il Sangha. Un altro concetto molto importante nel Buddhismo è la “comunità” o sangha. Il sangha è l’ordine dei monaci buddhisti (bhikku). Oggi il Buddhismo è diviso, grosso modo, nella scuola meridionale o Theravada ( diffuso in Birmania, Sri Lanka, Thailandia, Cambogia), chiamata anche Piccolo Veicolo, e nella scuola settentrionale, forse più conosciuta ai profani, del Mahayana (diffuso in Tibet, Mongolia meridionale, Cina, Giappone, Corea, Vietnam), chiamata Grande Veicolo. Queste due scuole sono due aspetti complementari di un tutto. Il Buddhismo, pur sorto in India, ha saputo adattarsi ai popoli e alle culture in cui si è diffuso. Il primo Buddhismo era contrario ai riti e alle cerimonie, alle preghiere e alle osservanze. Buddha stesso non designò alcun successore né diede direttive riguardo una forma particolare di organizzazione. Col passare del tempo fu però necessario ricorrere a qualche forma di organizzazione per tenere insieme la comunità (sangha). Essa è stata così costretta a stabilire vari gradi all’interno della comunità. Vi è dunque il novizio; quindi il monaco vero e proprio; poi l’anziano e in ultimo il grande anziano. Tra i monaci non esistono comunque segni di distinzione. La disciplina è regolata da un codice, Patimokkha, che contiene 227 precetti. È cosa relativamente semplice farsi buddhista: buddhista è chi venera il Buddha come la guida o il maestro spirituale più alto, e che si sforza di vivere in conformità ai suoi insegnamenti. Chiunque vuole diventare seguace di Buddha dichiara la propria intenzione usando la formula seguente, detta Tirasana (i tre rifugi), recitata abitualmente in lingua pali, che si può tradurre così: “Al Buddha come rifugio io vado; al Dharma come rifugio io vado; al Sangha come rifugio io vado“.
Le feste buddhiste. Il giorno di riposo è il sabato. Le tre feste più importanti sono il Capodanno, il Giorno del Buddha e la Quaresima. Il Capodanno cade in genere nel mese di aprile. La celebrazione dei primi due giorni del nuovo anno comprende la Festa dell’acqua. La gente offre recipienti di acqua fresca ai suoi anziani e regala loro dei doni utili in segno di rispetto e per chiedere la loro benedizione; a loro volta gli anziani rispondono elargendo quattro grazie, e cioè lunga vita, bell’aspetto, tranquillità ed energia. Inoltre si getta per divertimento dell’acqua addosso ai passanti. Le due pratiche sono interpretate come un lavaggio dalla “sporcizia” accumulata nel corso dell’anno. L’acqua viene gettata addosso agli altri anche allo scopo di ottenere pioggia più abbondante nella imminente stagione della semina del riso. Infine la festa serve anche a farsi dei meriti andando a visitare i propri defunti. La gente, dopo aver offerto del cibo ai monaci nei monasteri, affolla le pagode dove sono sepolte le ceneri e le ossa cremate degli antenati.
Nel Giorno del Buddha si commemorano la nascita, l’illuminazione e la morte di Buddha. Infatti in un giorno di luna piena del mese di maggio venne alla luce Siddharta Gautama; in un giorno di luna piena di maggio egli ebbe l’illuminazione, e in un giorno di maggio morì o, per meglio dire, entrò nel Parinirvana.
La Quaresima buddhista dura tre mesi, dalla luna piena di luglio alla luna piena di ottobre. In questo periodo, i monaci non possono viaggiare e non possono passare la notte fuori dal monastero se non in caso di gravi necessità. In tale epoca non si possono celebrare matrimoni, non si possono svolgere giochi e altre forme di divertimento pubblico, ed i devoti cercano di osservare il sabato più spesso che possono.
L’etica buddhistica
Fin dagli inizi il buddhismo distinse certi valori umani assoluti, universali, validi per tutti, e dei precetti più rigidi la cui osservanza è propria dei monaci. Le cinque regole raccomandate ai laici sono (Panca sila): rispetto della vita, astenersi dal furto, castità, non mentire, non bere bevande alcoliche. Le cinque regole obbligatorie per i monaci, oltre alle cinque precedenti, sono: disciplina nell’ora dei pasti (cioè mangiare nel momento prescritto), non ricercare i piaceri mondani, evitare unguenti ed ornamenti; non usare letti ampi e comodi, non ricevere denaro. In queste prescrizioni il buddhismo non fu originale: un catalogo simile si ritrova ad es. nello Yoga. L’originalità del buddhismo è altrove. I precetti morali non hanno di mira l’individuo singolo, isolato, che ha di mira la propria salvezza; piuttosto considerano l’uomo come vivente in mezzo agli altri: non basta non fare del male, non basta non uccidere o non offendere, bisogna altresì partecipare amorosi alla vita altrui, avere simpatia per i propri simili, rallegrarsi delle loro gioie e commiserare e alleviare i loro dolori. In altre parole, simpatia e pietà introducono un elemento positivo nella morale; la quale non è più l’eliminazione o cessazione del male ma diventa un comandamento positivo: qualche cosa che bisogna fare, e a fare non per sé ma per gli altri. La morale buddhistica immette cioè nella morale indiana il senso del collettivo. L’uomo è sì artefice del proprio destino, deve evitare il male e superare le passioni e l’egoismo, ma questa purificazione non è un rigido ed austero estraniarsi dal mondo; essa trova il proprio esercizio e il terreno fecondo nella vita consociata. La morale del laico si differenzia per questo dalla morale dell’asceta: il quale necessariamente deve sottostare ad altri obblighi e limitazioni. Il contrasto tra le due morali non è stato forse per nessuna scuola così palese come nel Buddhismo: accanto a quei comandamenti universalmente validi, abbiamo la tecnica sottile, ingiunta ai monaci, per detergere tutte le macchie, distrazioni ed egoismi dal più profondo della mente, e rendere questa cristallina e pura, onde le passioni e il karma conseguente non abbiano più presa sull’uomo. Su questa prassi si innesta il processo della meditazione, dell’ottenimento della perfetta quieta, della soppressione intera della passione, della restituzione della mente alla sua assoluta, immobile serenità. Ma sulla morale laica, riscaldata dai principi della simpatia e della pietà, fiorì lo spirito di rinuncia e di sacrificio che rappresenta il centro del Grande Veicolo. Nel Mahayana infatti l’amore trionfa nella figura del Bodhisattva, che è tutto abnegazione e sacrificio. Le sei o dieci perfezioni che deve praticare il Bodhsattva per tramutarsi in Buddha muovono dalla perfezione della Legge, dalla pazienza, dalla rinuncia di se medesimi, dalla costanza: virtù che l’agiografia tradizionale celebra di continuo ad edificazione dei fedeli, ripetendo le gesta del Buddha. Tale spirito di sacrificio è assoluto, nel senso che non basta sacrificare i propri beni o la propria vita. Il Bodhsattva rinuncia al risultato karmico del bene che compie, e fa voto di assumere su di sé i peccati altrui e trasferire la propria gioia e i propri meriti agli altri. Questo supremo sacrificio si chiama parinamana, trasferimento del karma altrui sul Bodhisattva; esso diventa uno dei fattori necessari della elevazione spirituale e sta a significare l’assoluta abnegazione che deve animare il Bodhisattva.
Nagarjuna
Visse verso la fine del 2° secolo d.C. Secondo una biografia mitica cinese, era nato nell’India meridionale. Di casta brahmanica, studiò i Veda e apprese tutte le scienze, compresa la magia, grazie alla quale sapeva rendersi invisibile. Approfittando di quest’arte, penetrò nell’harem del re; scoperto, riuscì a fuggire e si fece monaco buddhista, e diffuso il buddhismo nell’India meridionale. È considerato il fondatore di una importante scuola del buddhismo, quella dei Sunya-vadin,ed è l’autore di un celebre testo, i Madhyamikakarika, oltre a numerose altre opere.
Nagarjuna dimostra che le cose, essendo reciprocamente condizionate, non hanno realtà in sé. Non c’è un soggetto e un oggetto. Nessuna cosa è esistente in sé: esiste in quanto in relazione con le altre. La sua individualità e singolarità è una supposizione erronea. Del mondo dell’esperienza non si può, in verità, predicare nulla: esso è contraddittorio e nessun concetto è valido per spiegarlo. Nagarjuna cerca di ridurre all’assurdo ogni possibile teoria. È un criticismo estremo che afferma la relatività di ogni pensiero e di ogni essere: come ogni cosa non ha un’esistenza reale e il suo essere è puramente apparente, così nessun concetto è indipendente. Pensare è supporre sempre una relazione; quando il processo dialettico ha dimostrato l’insostenibilità logica di tutto il pensato, quella cessazione o arresto è il vuoto, la vacuità, l’inesprimibile, al di là di ogni designazione. Nagarjuna fa l’esempio di un malato agli occhi che immagina di vedere macchie o punti. Chi non sappia di essere malato prende quelle macchie per vere e reali; chi sa di essere malato, pur non potendo eliminare quel difetto, sa che la persona sana ne è priva e per lei quelle macchie non esistono. Così la vera vista è quella che scopre l’identità estrema oltre tutti gli opposti e tutti i concetti, identità nella quale appunto samsara e buddhità si equivalgono: il reale trascende ogni dualità. La vacuità (sunyata) è il fondamento di tutto. Essa non è il puro nulla ma la negazione, come già accennato, di ogni categoria mentale, anche la più generale e astratta, per cui della realtà in sé non si può dire né che esiste né che non esiste perché trascende il nostro pensiero. Anche il Buddha, il nirvana e le altre categorie buddhistiche sono in sé inesistenti, hanno soltanto un valore strumentale e servono come ideali a cui deve tendere la nostra azione. Chi crede nella realtà dei fenomeni si irretisce nel ciclo delle nascite e rinascite, chi invece si convince della loro illusorietà e crede nella vacuità, non si attacca al mondo e ottiene la liberazione.
Il Buddhismo tibetano
Il Buddhismo tibetano pratica la forma del “Veicolo di diamante”(vajrayana).Secondo la tradizione, la penetrazione del buddhismo nel Tibet è legata all’opera del re Sron-btsan-sgam-po (620-649 ca.) ma è probabile che una prima penetrazione di dottrine buddhiste di provenienza cinese e centro-asiatica si sia verifica ancora prima di quest’epoca. Il periodo che va dal X al XV secolo vide il consolidamento del Buddhismo in Tibet e la definitiva sistemazione del Canone, che risultò diviso in due grandi sezioni, una contene l’altra la letteratura esegetica. ente i sutra, il tantra, le regole di disciplina. La crescente mondanizzazione della setta Sa skya pa (così chiamata dal monastero di Sa Skya, fondato nel 1073), finì con l’accentrare il potere temporale nelle mani dei religiosi e consentì loro di esercitare per esecoli un forte dominio teocratico su tutto il paese. Tale potere venne legittimato politicamente dallo stesso Kubilai khan (capo dei tartari, nipote di Gengis Khan) nel XIII secolo, che concesse loro la sovranità (ereditaria di fatto, in quanto gli abati di questa setta, non vincolati al celibato, potevano contrarre matrimonio e quindi trasmettere il potere ai propri figli) su tutto il Tibet. Si stabilirono in questo modo quelle relazioni ufficiali tra i due popoli che porteranno al vassallaggio del Tibet sotto i Mongoli e poi sotto la Cina.
Il buddhismo tibetano è chiamato lamaismo dal termine lama, cioè maestro. Il potere teocratico del lamaismo si esercita attraverso una comunità fortemente gerarchizzata a capo della quale sono due Lama: il Dalai Lama (=maestro che è oceano di saggezza) e il Pan c’en-Lama. Il primo risiedeva nel convento Potala a Lhasa e deteneva il potere supremo sul Tibet; il secondo invece dimorava nel monastero di Ta-shi-lhum-po e deteneva il potere spirituale. In ordine di dignità ai due grandi Lama, seguono 180 Hutuktu, considerati incarnazioni di bodhisattva e di dèi. Ogni volta che un Lama muore, i dignitari religiosi si pongono alla ricerca di un bambino nel quale si può avere la certezza (in base ad eventi straordinari) che si è rifugiata l’anima del Lama defunto: ove le prescritte prove di accertamento confermino la validità delle scelte, il predestinato viene ad occupare di diritto il posto del Lama deceduto.
Tra i culti più notevoli praticati dai lamaisti vi è quello dei “Buddha viventi“, ossia dei grandi monaci i quali, durante le funzioni liturgiche, sono fatti oggetto di venerazione come esseri divini. Il Lamaismo è oggi presente, oltre che in Tibet, in Mongolia, nella Cina del Nord e dell’Ovest, in Turkestan, Nepal, Bhutan e Sikkim.
Il Buddhismo Zen
Lo Zen è una forma particolare di Buddhismo. La parola zen è un termine giapponese derivato dal cinese ch’an o shan, a sua volta trascrizione del sanscrito dhyana, ossia meditazione. È infatti una corrente del buddhismo che ebbe origine in Cina al principio del 6° sec. d. C. Dalla Cina si diffuse in Giappone con il monaco Eisai verso il 1190. Qui lo Zen ebbe grande fioritura e diede vita a numerose correnti (Rinzai, Soto ecc.), molte delle quali ancora attive.
Lo Zen non conosce dèi, non ricerca l’immortalità e non ammette concetti come peccato o anima. Non è né una religione né una filosofia in senso occidentale; è semmai un sistema di vita. Che cosa fa una persona che segue lo Zen? Essa si educa gradualmente a cogliere la realtà senza mediazioni intellettuali ma vivendola nella pienezza del momento.
È la qualità dell’esperienza qui e ora, e non la precisione della ragione, che assume la massima importanza per il seguace dello Zen. La pratica fondamentale dello Zen è lo zazen, che viene intrapresa al fine di ottenere le condizioni ottimali per vedere direttamente in se stessi e scoprire nella purezza della propria esistenza la vera natura dell’essere. Lo Zen crede che la persona comune sia presa in un groviglio di idee, teorie, riflessioni, pregiudizi, sentimenti ed emozioni tali che non le permettono di cogliere la verità e la realtà ma solo frammenti di essa. Lo scopo dello zazen è dunque quello di liberare l’individuo e di consentirgli di entrare in modo pieno e diretto nella realtà. Vi sono tre mete che lo zazen si propone. La prima consiste nell’aumentare i poteri di concentrazione eliminando tutti i fattori di distrazione e tutti i dualismi (soggetto e oggetto, realtà e apparenza, bene e male ecc.). La seconda mira al conseguimento del satori, ossia di una sorta di illuminazione (essa presuppone un intenso allenamento: per ottenere il satori, vengono in aiuto i koan, stratagemmi usati dal maestro per far ottenere l’illuminazione al discepolo). La terza infine consiste nel vivere l’illuminazione nella vita di tutti i giorni. In questo modo qualsiasi azione e qualsiasi momento sono vissuti nella pienezza e nella profondità della verità.
Storie Zen
Nan-in, un Maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il te. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il te, poi non riuscì più a contenersi. “E’ ricolma. Non ce n’entra più!”. “Come questa tazza” disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo zen, se prima non vuoti la tua tazza ?”.
Gli insegnanti di Zen abituano i loro giovani allievi a esprimersi. Due templi Zen avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra tutti. Ogni mattina uno di questi bambini, andando a comprare le verdure, incontrava l’altro per la strada. “Dove vai?” domandò il primo. “Vado dove vanno i miei piedi” rispose l’altro. Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che andò a chiedere aiuto al suo maestro. “Quando domattina incontrerai quel bambino” gli disse l’insegnante “fagli la stessa domanda. Lui ti darà la stessa risposta, e allora tu domandagli: “Fa’ conto di non avere i piedi: dove vai, in quel caso?”. Questo lo sistemerà. La mattina dopo i bambini si incontrarono di nuovo. “Dove vai?” domandò il primo bambino. “Vado dove soffia il vento” rispose l’altro. Anche stavolta il piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al maestro la propria sconfitta. “E tu domandagli dove va se non c’è vento” gli consigliò il maestro. Il giorno dopo i ragazzi si incontrarono per la terza volta. “Dove vai ?” domandò il primo bambino. “Vado al mercato a comprare le verdure” rispose l’altro.
Il grande santo buddhista Nagarjuna andava in giro tutto nudo, con solo il perizoma e, paradossalmente, una ciotola dorata per raccogliere l’elemosina, dono del re che era suo discepolo. Una sera stava per mettersi a dormire, fra le rovine di un antico monastero, quando si accorse che un ladro lo stava spiando da dietro una colonna. “Tieni, prendila”, disse Nagarjuna, porgendogli la ciotola. “Così non mi verrai a disturbare quando sarò addormentato”. Il ladro arraffò la ciotola e fuggì via, per ritornare però il mattino seguente con la ciotola e una richiesta: “Quando ieri sera mi hai regalato questa ciotola con tanta generosità, mi hai fatto sentire molto povero. Insegnami come fai a procurarti la ricchezza che ti permette di avere questo sereno distacco dalle cose”.
Ikkyu, il maestro di Zen, era molto intelligente anche da bambino. Il suo insegnante aveva una preziosa tazza da tè, un oggetto antico e raro. Sfortunatamente Ikkyu ruppe questa tazza e ne fu molto imbarazzato. Sentendo i passi dell’insegnante, nascose i cocci della tazza dietro la schiena. Quando comparve il maestro, Ikkyu gli domandò: “Perché le gente deve morire?” “Questo è naturale” spiegò il vecchio. “Ogni cosa deve morire e deve vivere per il tempo che le è destinato.” Ikkyu, mostrando la tazza rotta, disse: “Per la tua tazza era venuto il tempo di morire”.
Un giovane andò da un maestro e gli chiese: “Quanto tempo potrò impiegare per raggiungere l’illuminazione?” Rispose il maestro: “Dieci anni”. Il giovane era sbalordito. “Così tanto?” domandò incredulo. Replicò l’altro: “No, mi sono sbagliato, ci vorranno venti anni”. Il giovane chiese: ” Perché hai raddoppiato la cifra?” Allora il maestro spiegò: “Adesso che ci penso, nel tuo caso ce ne vorranno probabilmente trenta”.
Ti sei svegliato prima dell’alba, ma il tuo nemico non l’hai trovato. Quando il sole era basso hai attraversato tutta la pianura, ma il tuo nemico non l’hai trovato. Mentre il sole era alto nel cielo hai cercato tra le piante di tutta la foresta, ma il tuo nemico non l’hai trovato. Il sole era rosso nel cielo mentre tu cercavi sulla cima di tutte le colline, ma il tuo nemico non l’hai trovato. Ora sei stanco e ti riposi sulla riva di un ruscello, guardi nell’acqua ed ecco il tuo nemico: l’hai trovato.
Un uomo perse il suo anello più prezioso; cercò ovunque per ritrovarlo, ma nonostante la sua fatica non ci riuscì. Si sedette su una pietra, disperato, cercando inutilmente di sopprimere la sua disperazione. Come al solito il suo cane gli si avvicinò cercando le carezze del padrone. Il vicino di casa lo salutò come ogni sera. Gli amici gli fecero vedere i pesci che avevano pescato e gliene regalarono alcuni. La moglie e i figli lo accolsero con affetto al suo arrivo a casa esattamente come accadeva sempre. La giornata si concluse nella pace familiare. Purtroppo il tormento per la perdita dell’anello perseguitava ancora l’uomo, il quale però pensò: “nessuno si è accorto che ho perso l’anello, tutti si sono comportati con me come sempre, perché proprio io devo comportarmi in modo diverso con me stesso?”. Fu così che si addormentò sereno.
Il maestro Tanzan era in viaggio con il suo allievo Ekido lungo una strada fangosa. Ad un certo punto incontrarono una bella ragazza in kimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare quella melma, senza rovinare il suo bel vestito. Senza problemi, Tanzan la prese in braccio e la trasportò sull’altro lato della strada. Ekido rimase pensieroso per tutto il giorno. Alla sera, non resistendo più, chiese apertamente al maestro: “Noi monaci non avviciniamo le donne, è pericoloso. Perché l’hai fatto?” Tanzan rispose: “Io quella ragazza l’ho lasciata laggiù. Tu la stai ancora portando con te”
Non cercare di seguire le orme dei saggi. Cerca ciò che essi cercavano.
IL CONFUCIANESIMO
A cura di Ernesto Riva
Caratteristiche generali del pensiero cinese
Con quella indiana e quella ebraica, la cultura cinese è fra le più antiche civiltà che si siano perpetuate senza interruzioni sino ad oggi. Essa ha mantenuto una serie di caratteri peculiari che ne hanno salvaguardato l’originalità. I differenti atteggiamenti mentali coinvolgono l’idea stessa di religione e di divinità, di bene e di male, di trascendenza e di spirito, e il rapporto individuo-società e individuo-universo. A differenza della storia europea in cui il ruolo della Chiesa è stato determinante, e così pure l’antagonismo tra Stato e Chiesa e le guerre di religione, in Cina la religione non soltanto è stata subordinata allo Stato, ma è stata funzionale più alla condizione sociale dell’uomo piuttosto che allo sviluppo di una dimensione individualistica. La storia cinese non ha in pratica conosciuto la contrapposizione fra un ordinamento politico ed uno soprannaturale che lo trascende e travalica (come nel caso della Chiesa) ed i rapporti fra Impero e Chiesa buddhista non sono paragonabili a quelli fra le Chiese cristiane e gli Stati europei. Del resto, se per religione intendiamo un fenomeno analogo a quello giudaico-cristiano, difficilmente potremmo rintracciarlo in Cina. Religioni istituzionali e religioni diffuse si equilibrano e si intersecano a differenti livelli, nel sincretismo della cosiddetta religione popolare come nell’interazione tra taoismo, buddhismo e confucianesimo. Il cinese può venerare più divinità di religioni diverse senza che questo gli crei dei problemi perché è fondamentale per lui la funzione pratica della religione, e non la sua identificazione. Esempi di religione istituzionale sono il buddhismo e il taoismo, in quanto posseggono una propria organizzazione ecclesiastica, propri culti e dottrine. La religione diffusa, invece, è costituita da culti come quello rivolto agli antenati o alle divinità celesti. In campo religioso non esiste una fede monoteistica, né l’idea di un Dio personale in diretta relazione con l’individuo. Ciò significa inoltre l’assenza dell’esclusivismo di un “Dio geloso”, di un’assoluta opposizione fra una divinità identificata con il Bene e il demonio identificato con il Male. Significa anche assenza di un rapporto personale e individuale con la divinità, che in campo etico si traduce in un diverso concetto di responsabilità che deve fare i conti con i legami fra il soggetto e il suo gruppo sociale. Anche l’idea di retribuzione ne viene influenzata perché è spesso intesa come una conseguenza automatica di un certo comportamento umano, ed il ruolo degli spiriti e delle divinità popolari è ridotto ad una funzione contrattualistica e propiziatoria. La multifunzionalità dei templi contribuisce quindi al consolidamento dei legami familiari, alla protezione della comunità locale e del suo benessere, della salute individuale, dell’ordine morale, dello Stato e dell’ordinamento politico. Il pensiero cinese non ha neppure conosciuto il dualismo spirito-materia e l’opposizione fra anima e corpo – caratteristici della tradizione occidentale – e la conseguente distinzione fra il sensibile ed il razionale. Il termine xin indica la mente ma anche il cuore, vale a dire la sede del pensiero e allo stesso tempo delle emozioni e delle reazioni sensoriali. La funzione razionale non è intesa in Cina come la più alta nell’uomo, contrapposta alle passioni e agli istinti. La ragione non è neppure prerogativa dell’anima che, secondo la dottrina ad es. cristiana, avrebbe la capacità di discernere fra il bene e il male, e di compiere liberamente il bene o il male. In Cina si preferisce un universo in continua trasformazione, costituito da una sostanza fondamentale, la cui dinamicità (evoluzione ed involuzione, nascite e morti, contrazione ed espansione) è dovuta alla polarità di energie opposte ma complementari. In Cina è assente una concezione assoluta ed esclusiva degli opposti, intesi piuttosto come bipolarità complementari, come interazione e alternanza.
Confucio
In Cina la filosofia non è staccata dalla vita, e la sua pratica è considerata inseparabile dalla teoria. In Cina vi sono stati pochissimi filosofi di professione. Quasi tutti i grandi filosofi cinesi hanno ricoperto delle cariche amministrative nel governo, oppure sono stati artisti. In Cina, insomma, i filosofi vengono ritenuti tali soprattutto per le loro caratteristiche morali. Non è concepibile che un uomo cattivo possa essere un buon filosofo, o che un buon filosofo possa essere un uomo malvagio. La prova reale di una filosofia è la sua capacità di trasformare i suoi sostenitori in uomini più grandi.
Biografia di Confucio
Il nome Confucio è dovuto ai missionari del secolo 17° che latinizzarono il nome del saggio cinese K’ung fu tzu (ovvero maestro Kung) in Confucius. Confucio nacque a Tsou, una borgata dello stato di Lu (odierna Chueh-li nello Shantung) nel 551 a.C (il 27 agosto o il 28 settembre). Suo padre era governatore di Tsou e di stirpe nobile. Confucio rimase orfano di padre a tre anni. La famiglia si trovò in condizioni disagiate e Confucio dovette fare molti sacrifici e lavori umili. Si sposò a 19 anni, ed ebbe due figli, un maschio e una femmina. Nello stesso periodo ricoprì modesti incarichi governativi. Ma la sua vocazione era l’insegnamento e nel 530 a.C. aprì una scuola in cui erano ammessi tutti quelli che dimostravano di avere intelligenza, buona volontà e dai quali si faceva pagare a seconda delle possibilità. La sua era una scuola di tipo tradizionale, in cui si insegnavano le sei arti: riti, musica, tiro con l’arco, guida dei carri, annali, calcolo. Quando, nel 528 a.C., gli morì la madre, Confucio si uniformò ai riti che prescrivevano al figlio in lutto di non esercitare alcuna carica pubblica per tre anni e allora egli si ritirò a vita privata. Dedicò questo periodo allo studio delle discipline a lui preferite: musica, riti e testi antichi. Questo studio profondo gli permise di tradurre in massime la saggezza degli antichi e di formulare poi norme che dovevano regolare il comportamento dell’uomo quale membro di una società. In seguito, per ampliare le sue conoscenze, nel 515 a.C. si recò a Loyang, la capitale del regno di Chou, dove la musica e i riti erano stati tramandati nella loro purezza originale. Pare che in questo periodo abbia incontrato Lao Tzu. Confucio ritornò poi a Lu e riprese l’insegnamento. Nel 514 il sovrano di Lu dovette fuggire per motivi politici e chiese ospitalità al duca di Ch’i. Confucio seguì il sovrano in esilio. Alla morte del sovrano il ducato di Lu passò nel 509 a.C. al duca Ting e Confucio ottenne finalmente, nel 501 a.C. (aveva ormai cinquant’anni), un incarico politico. Il duca Ting lo nominò governatore di Chung-Tu, capitale dello stato di Lu, permettendogli di attuare il sogno della sua vita: dimostrare sul piano pratico la fondatezza delle sue idee etiche e politiche. La sua amministrazione si rivelò talmente perfetta che poté essere paragonata al periodo aureo dei sovrani mitici ed inoltre le leggi penali non vennero più applicate perché non furono commessi più crimini.
I felici risultati ottenuti gli valsero però l’invidia e l’inimicizia della corte e Confucio fu costretto ad andarsene da Lu. Cominciò così le sue peregrinazioni, che durarono ben tredici anni, attraverso vari stati. Ritornò a Lu quando aveva ormai 69 anni. Il nuovo duca, Ngai, lo onorò, lo invitò a corte ma non gli affidò nessuna carica pubblica. Egli allora si dedicò, con i suoi discepoli, a raccogliere e a riordinare i testi antichi e scrisse una cronaca di Lu, intitolata Primavere e autunni. Si dice che, sette giorni prima di morire, un sogno l’avvertisse della prossima fine. Dopo aver recitato alcuni versi del Libro delle Odi (“Ecco come frana il monte T’ai/il grande albero viene abbattuto/e il saggio sfiorisce come un fiore) e avere ancora una volta espresso il suo rammarico per non essere riuscito a far accettare ai principi le sue idee, si ritirò nella sua stanza e morì. Era il 479 a.C.
L’insegnamento di Confucio
L’insegnamento del maestro cinese è stato esclusivamente orale. Egli era convinto che la verità si possa cogliere concretamente e in singole situazioni, mentre ogni tentativo di elaborare un quadro completo non fa che impoverirne o travisarne l’infinita ricchezza. Non c’è alcun tentativo di definire concetti o di elaborare principi e teorie come fanno invece i filosofi occidentali. Spesso Confucio si limita a ricorrere al modello analogico, associando un esempio antico ad un episodio presente, o limitandosi a brevi osservazioni concrete.
Tutto quello che ci è pervenuto del suo pensiero è raccolto nei cosiddetti Quattro Libri (Ssu Shu), che sono opera di discepoli. Essi sono I Dialoghi, Il Grande Studio, L’Invariabile Mezzo e il Libro di Mencio.
I Dialoghi sono il libro più antico. Esso consta di 11.705 caratteri ed è diviso in venti libri, ognuno dei quali è chiamato col nome dei due caratteri che lo iniziano. Gli insegnamenti sono fatti sotto forma di massime, aforismi o brevi dialoghi senza legame tra loro. Confucio era convinto di aver ricevuto dal Cielo (T’ien) una missione da compiere. I suoi discepoli credevano fermamente in lui e nel suo mandato. Confucio era legittimista: non vedeva altra possibilità per sanare i mali della società se non con la restaurazione degli antichi valori morali, degli usi rituali e delle istituzioni del passato; ristabilire insomma l’ordinamento feudale come era agli inizi della dinastia Chou. Per salvare la società egli insisteva che per prima cosa bisognava salvare l’uomo. Per riuscire in ciò, egli si rivolgeva in primo luogo a quelli che considerava i responsabili del disordine sociale: i principi. Essi dovevano essere consci delle loro responsabilità e dei loro doveri e dovevano prendere esempio dalle sagge istituzioni dei re santi dell’antichità che si erano preoccupati prima di tutto della felicità del loro popolo. “Vi è governo quando il principe (si comporta) da principe, il ministro da ministro, il padre da padre, il figlio da figlio”(Dialoghi, 12,11). Ognuno doveva quindi mantenere la posizione che gli competeva ed attenersi ai doveri che gli imponeva la propria qualifica e rango. Secondo Confucio, “governare è correggere. Se induci il popolo a correggersi, chi oserà non correggersi?” (Dialoghi, ibid.).
Per aiutare i principi ad attuare quanto era necessario al buon governo, egli intendeva preparare per essi dei consiglieri abili, onesti, saggi e fidati. Secondo l’ideale confuciano, essi avrebbero dovuto possedere le virtù morali del chun-tzu, ovvero l’uomo saggio, perfetto. Quest’uomo non era necessariamente un nobile per nascita bensì un uomo virtuoso. Se il consigliere tendeva alla perfezione, ne derivava anche un miglioramento dell’uomo comune, del suddito, che seguendo l’esempio di colui che lo governava, diventava un suddito docile e fedele. Nel Grande Studio è detto: “Dal Figlio del Cielo all’ultimo del popolo, per tutti la cosa principale è perfezionare la propria persona” (par. 6). Nel commento si fa rilevare che il perfezionamento si ottiene quando si riescono a dominare le passioni, non ci si crea delle illusioni e si riesce ad essere sinceri con se stessi; ciò permette al saggio di vedere com’è veramente il mondo e gli dà la possibilità di poterlo giudicare obiettivamente. Ciò che conferisce all’uomo i sentimenti di umanità, giustizia, altruismo ecc. viene chiamato da Confucio col termine jen: si tratta di una virtù unica e completa in se stessa, che riassume tutta la legge morale oggettiva. In più vi è il li (ordine, etichetta), che si riferiva ai riti e alle cerimonie, ma esprimeva anche le norme che dovevano regolare i rapporti umani ed era quindi un codice di comportamento morale e sociale in una società organizzata gerarchicamente. Questi due concetti costituiscono la base del confucianesimo.
Quando chiedevano a Confucio di spiegare che cosa fosse jen, egli dava parecchie definizioni. Jen è “amare gli uomini”; è “conoscere gli uomini” (Dialoghi, 12,22). Altrove dirà che per attuare lo jen è necessario “rispetto, magnanimità, sincerità, sollecitudine, benevolenza. Chi rispetta non offende, chi è magnanimo si guadagna le folle, chi è sincero ottiene la fiducia degli altri, chi è sollecito porta a compimento, chi è benevolo è adatto a comandare gli uomini” (Dialoghi, 17,6). Anche il modo di comportarsi è jen: “fuori di casa comportati come quando ricevi un ospite importante; nel comandare al popolo comportati come se offrissi il grande sacrificio; ciò che non vuoi sia fatto a te, non fare agli altri; non suscitare ostilità nello stato, non suscitare rancori nella famiglia” (Dialoghi, 12,2). Gli fu chiesto una volta che cosa ne pensasse del principio per cui bisogna rendere il bene per il male. Confucio disse: “Con che ripagheresti la clemenza(bene)? Un torto si ripaga con la giustizia e la clemenza con la clemenza” (Dialoghi, 14,36).
Per Confucio il li pervade tutte le cose, in quanto è la vera base del governare. Il li rappresenta una completa dottrina sociale e morale, che si fonda sul principio dell’armonia nei rapporti umani fondamentali. Essi sono cinque (wu lun): tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra fratello maggiore e fratello minore, tra amico e amico. Il governo vero e proprio non è opera degli impiegati statali, ma di ciascun cittadino che osserva i giusti rapporti con gli altri individui. Quando in una società esistono dei buoni rapporti tra tutti i cittadini, allora vuol dire che lo scopo del governo è stato raggiunto. In altre parole, quando tutti gli individui agiscono moralmente in tutti i loro rapporti con le altre persone, non vi sono più problemi sociali. Ecco perché Confucio può dire che per raggiungere la pace nel mondo è necessario e sufficiente rettificare i propri cuori o curare la propria vita personale e porre ordine nella propria vita familiare. Il li comprende anche un altro concetto molto importante, quello di hsiao, che comunemente è tradotto con pietà filiale. Essa è la virtù della venerazione. I genitori sono anzitutto venerati in quanto la vita stessa è generata da loro. Nel mostrare venerazione per i genitori, è importante proteggere il corpo dall’offesa, poiché il corpo viene da essi. Quindi proteggere il corpo è onorare i genitori. Ma non basta: hsiao non è solo prestare cure fisiche ai genitori, ma dare loro una ricchezza emotiva e spirituale. Ugualmente importante, dopo che i genitori sono morti, gli scopi e i propositi del figlio dovrebbero essere i propositi e gli scopi che essi non sono riusciti a raggiungere. Ma hsiao non è solo una virtù familiare: essa diviene una virtù sociale. Quando i figli apprendono il rispetto e la venerazione per i loro genitori, arrivano ad avere rispetto e amore per i loro fratelli e sorelle. E quando hanno fatto ciò, possono rispettare ed amare tutta l’umanità. Quando dunque tutte le loro azioni sono dirette dall’amore per l’umanità, essi agiscono in accordo con lo jen.
Se Confucio sognava un’umanità perfetta, frutto dell’amore, dell’educazione e dello studio, era però convinto che questa perfezione non si poteva ottenere se non con l’aiuto del Cielo (T’ien). Sul concetto di T’ien, le interpretazioni sono discordanti. Possiamo comunque dire che egli non si discostava da quelle che erano le idee fondamentali della tradizione antica, e credeva dunque in un Cielo personalizzato, in cui vedeva l’ordinatore divino della coscienza morale dell’uomo. Nonostante i decreti celesti siano infallibili e immutabili (ming), l’uomo rimane responsabile delle sue azioni, e queste non riescono comunque a contrastare il corso degli eventi quale è disposto dal Cielo, ma dipendono dalla malizia dei loro cuori, che cercano i guadagni piuttosto che la rettitudine. La teoria dell’interazione tra cielo e terra era anche alla base della teoria del “mandato celeste”, già preesistente a Confucio (a cui poi Mencio diede una sistemazione organica) come fondamento di legittimazione del potere del sovrano. D’altronde il confucianesimo stesso, pur essendo sorto come filosofia e morale secolare, assunse progressivamente una serie di elementi religiosi, come quelli delle religioni diffuse, elaborando tutto un sistema di riti di riti ufficiali ed inglobando la cosmologia delle teorie dello yin e yang e dei cinque elementi (legno, fuoco, terra, metallo, acqua).
Egli parla pure del Tao, della legge morale cosmica, per seguire la quale l’uomo doveva praticare il li (cerimonie, riti). Egli quindi rendeva omaggio agli spiriti degli antenati e compiva i sacrifici come se essi fossero presenti, ma nello stesso tempo criticava l’abuso delle cerimonie e dei riti e il comportamento di coloro che compivano le cerimonie tradizionali, senza la debita reverenza o che, compiendole, peccavano contro il Cielo: “se si offende il Cielo, non serve pregare” (Dialoghi, 3,13).
Confucio non si atteggiò mai a superuomo o a profeta. Il suo era soprattutto un insegnamento pratico, guidato dalla consapevolezza delle difficoltà del compito che si era prefisso, del dovere e della responsabilità che si assumeva. Il suo insegnamento era quindi più esortazione che teoria. Egli credeva nella bontà dell’uomo e nell’azione benefica dello studio: “E’ difficile che un uomo che abbia studiato per tre anni non sia diventato buono” (Dialoghi, 8,12). Ma ammoniva: “Studiare senza meditare è inutile, meditare senza studiare è pericoloso” (Dialoghi, 2,15). Confucio non si poneva mai al di sopra degli altri e non si sopravvalutava mai. Inoltre, modestamente, concludeva: “Io tramando, non creo” (Dialoghi, 7,1).
IL TAOISMO
A cura di Ernesto Riva
Il Taoismo sorse sullo stesso terreno culturale in cui nacque il Confucianesimo e si servì degli stessi elementi utilizzati da questo, che formavano il patrimonio intellettuale della Cina della seconda metà del 1° millennio a.C. Ma mentre il Confucianesimo ne dedusse dei modelli da imitare per ritornare alle virtù morali degli antichi re “santi”, il Taoismo li sottopose ad aspra critica, additando nei portatori di quelle virtù i corruttori della primigenia virtù del Tao, fatta di naturalezza e spontaneità. D’altro canto, essendo Lao Tzu e Confucio contemporanei, la medesima situazione storica di decadenza della dinastia Chou (che regnava ormai da sei secoli ed aveva perduto lo slancio riformatore dei primi sovrani), spingeva i due capiscuola ad evocare i tempi aurei in cui vigeva la semplicità del Tao, per Lao Tzu, o la carità e la giustizia dei santi imperatori, per Confucio. Bisogna ammettere però che i concetti che troviamo alla base del Taoismo e del Confucianesimo preesistevano ai fondatori delle due scuole, i quali non fecero che elaborarli e fissarli in un corpo di dottrine: Lao Tzu con lo scritto, Confucio con l’insegnamento.
La tradizione ci dice che Lao tzu(o Lao tze) – che è in realtà un soprannome che vuol dire “vecchio maestro” -, si chiamava Chung-erh o Po-yang o anche Lao tan. Visse nel 6° secolo a.C. ed era di qualche anno più vecchio di Confucio. Nacque nel villaggio di Ch’u-jen, nel territorio dell’odierno Honan (Cina orientale, a sud di Pechino). Fu storiografo negli archivi imperiali. Si dice che Confucio si sarebbe incontrato con lui e sarebbe stato colpito dalla sua saggezza. Lao tzu abbandonò il suo incarico quando la corta cominciò a dare segni di decadenza e se ne andò verso l’ovest. Arrivato al passo di Han-ku, il guardiano Yin Hsi gli chiese di scrivere un libro per lui e Lao tzu espose allora le sue dottrine nel Tao Te ching. Poi partì e non se ne seppe più nulla.
L’opera di Lao Tzu è divisa in due parti, la prima sul Tao e la seconda sul Te. In seguito fu suddivisa nel numero mistico di 81 capitoletti, e il nome di Tao Te ching fu dato, sembra, da uno dei suoi commentatori, Ho-shang Kung. L’opera ci è anche giunta in un’altra redazione, non molto diversa dalla prima, curata da Wang Pi.
Il libro si apre con una descrizione del Tao. La parola significa propriamente via e quindi anche modo di condursi, sistema. Il Tao è una astrazione metafisica che indica la legge universale della natura, lo spontaneo modo di essere e di comportarsi dell’universo. In questo senso è indicibile, ineffabile, indeterminato. Essendo il principio primo e assoluto, è privo di caratteristiche, giacché è la stessa fonte di tutte le caratteristiche; non è però il nulla, dato che è l’origine di ogni cosa. Esso è prima di tutte le cose, dà loro l’esistenza. “Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome” (In cinese suona più o meno così: Tao ke Tao fei chang Tao; ming ke ming, fei chang ming: cfr. Tao Te Ching, 1). In altri termini, il Tao è oltre ogni denominazione, visto che la fonte da cui tutto deriva non può essere nominata, costituendo l’origine dei nomi e di ogni descrizione possibile. Tao è quindi un non-nome; indica, piuttosto, ciò che consente alle cose di essere quello che sono; è ciò che dà loro l’esistenza (come se si dicesse: il questo da cui derivano l’essere e il non essere). Sebbene non si possa dire ciò che il Tao è, ma si possa soltanto accennarlo, lo si può in un certo modo comprendere considerando il suo “funzionamento”, le sue manifestazioni. Il Tao si manifesta nell’universo, nella natura, dato che ciò che le cose individuale possiedono del Tao è il Te. La parola Te, tradotta il genere con virtù, non ha un significato strettamente morale bensì quello di vigore, potenza, facoltà, efficacia. È in pratica la manifestazione del Tao, come già accennato. Il Tao, in quanto origine, fonte, sorgente, dà l’esistenza alle cose, mentre il Te dà loro diversità.
Tutte le cose esistono nel Tao e il Tao è presente in tutte le cose. Finché le cose avvengono naturalmente, tutto è armonico e nulla turba l’equilibrio cosmico. L’uomo, se vuole vivere felice, deve seguire il Tao senza ostacolarlo. In questo senso, egli non deve agire, nel senso che non deve modificare l’armonia dell’universo. Se lo fa, allora non è più in accordo col Tao. Il principio della inazione (wu wei) non indica quindi il rimanere ozioso, senza far nulla, ma è piuttosto basato sul riconoscimento che l’uomo non è la misura e la sorgente di tutte le cose, ma lo è soltanto il Tao. La vita è vissuta bene solo quando l’uomo è in completa armonia con tutto l’universo e la sua azione è l’azione dell’universo che fluisce attraverso di lui. Il bene non viene compiuto dall’azione spinta dai desideri, ma dalla inazione (wu wei) che è ispirata alla semplicità del Tao. “Il Tao in eterno non agisce eppure non c’è nulla che non sia fatto. Se chi governa si attenesse ai suoi principi, gli esseri si svilupperebbero da soli. Se durante questo sviluppo crescesse il desiderio, basterà risvegliare in essi l’originaria semplicità di quello che non ha nome. La semplicità del senza-nome genera l’assenza del desiderio; l’assenza del desiderio genera la serenità, così l’impero si consolida da solo” (TTC, 37).
Il problema riguarda dunque il modo in cui si dovrebbe agire. La risposta è che si dovrebbe agire adottando la semplice via del Tao, non imponendo i proprio desideri al mondo ma seguendo la natura stessa. L’uomo deve conoscere le leggi che regolano i mutamenti delle cose per confermarsi ad esse; conoscendo tali leggi, l’uomo si renderà conto che è vano perseguire un fine diverso, poiché ogni cosa segue il proprio sviluppo, la propria intima legge. L’uomo deve liberarsi da ogni pensiero, passione, interesse, desiderio particolare per ritornare alla semplicità di quando era bambino; egli deve fare solo ciò che è necessario e naturale. Vivere semplicemente vuol dire vivere una vita in cui è ignorato il profitto, lasciata da parte la scaltrezza, minimizzato l’egoismo, ridotti i desideri. Non bisogna cioè agire con artifici e deformazioni ma lasciare che le cose si compiano in modo spontaneo e naturale.
Anche in ambito sociale, le istituzioni sono giuste quando si permette loro di essere ciò che sono naturalmente; anche la società deve essere in armonia con l’universo. Se il legislatore si attenesse alle norme del Tao, il governo procederebbe in modo spontaneo e naturale. E non ci sarebbe bisogno di leggi severe e di guerre. Quando si governa un paese, si dovrebbe badare a non opprimere troppo la gente, portandola a ribellarsi. Quando invece le persone sono soddisfatte non ci sono guerre e ribellioni. Perciò la semplice norma del governare consiste nel dare al popolo ciò che vuole, e nel rendere il governo conforme alla volontà del popolo, piuttosto che tentare di rendere il popolo conforme alla volontà di chi governa. Il lavoro di chi governa è quello di lasciare che il Tao operi liberamente, invece di tentare di opporsi alla sua funzione e di cambiarla. Così, chi vuole governare con l’aiuto del Tao, è avvisato di non fare uso di forza o violenza, poiché ciò finisce per determinare un rovesciamento. “Colui che assiste il principe col Tao non fortifica l’impero con le armi…tutto ciò che è contrario al Tao non può durare”. Quando chi governa conosce il Tao e il suo Te, da in che modo deve starsene al di fuori della vita del popolo e servirlo senza intromettersi. Così Lao Tzu dice che le persone “sono difficile da governare poiché chi governa agisce troppo”. “Più leggi e divieti ci sono nel mondo, più povero sarà il popolo… più si emanano leggi e decreti, più ci saranno ladri e predoni” (TTC, 57). Eliminando i desideri e lasciando che il Tao entri e ci pervada, la vita supererà le distinzioni tra buono e cattivo. Ogni attività verrà dal Tao, e l’uomo diventerà uno col mondo. Questa è la soluzione di Lao Tzu al problema della felicità. È una soluzione che dipende soprattutto dal raggiungimento dell’unità col grande principio immanente della realtà, ed è perciò, in questo senso, una soluzione mistica.
Nei secoli a cavallo dell’era volgare, i seguaci del Taoismo si dedicarono soprattutto alla speculazione metafisica e in particolare sul problema della morte e della immortalità. Nacque così una forma di religione taoista, che assunse ben presto aspetti istituzionali e che ebbe, sotto la dinastia dei Tang (620-906 d.C.), una enorme diffusione, pari al buddhismo. Il pensiero cinese delle origini non aveva elaborato una dottrina (come era successo in Grecia e nel Cristianesimo) che rispondesse al problema del destino dell’uomo dopo la morte. L’uomo cinese si vedeva solamente mortale. Da qui sorse la convinzione che l’immortalità fosse una sorta di conquista, da ottenere attraverso modalità per lo meno singolari. Il problema era appunto quello di far diventare il corpo umano immortale. Già da tempo erano stati codificati dei metodi per prolungare la vita e permettere una sorta di immortalità. Questi metodi si dividono in due gruppi: le pratiche per nutrire lo spirito e le pratiche per nutrire la vita o il corpo.
Le pratiche per nutrire lo spirito si riferiscono naturalmente all’esercizio delle virtù morali, cioè la purezza di vita, il riconoscimento e il pentimento delle proprie colpe e il compimento delle buone azioni meritorie.
Le pratiche per nutrire la vita o il corpo sono invece di ordine dietetico, respiratorio, sessuale e alchimistico. La pratica dietetica consiste nell’astensione dai cosiddetti cinque cereali, perché di essi si nutrono i tre demoni (san shih) che risiedono nel corpo umano e sono avversi all’uomo. L’astensione da quegli alimenti mira a liberare l’uomo dalla loro presenza, facendoli morire di inedia.
Un’altra pratica molto importante è quella della respirazione controllata. Secondo le antiche tradizioni, il ch’i è il soffio vitale che permea l’universo. La pratica respiratoria tende ad immettere nel corpo il ch’i più sottile affinché lo nutra e piano piano elimini la parte densa e impura, portandolo alla stessa sottigliezza e purezza del cielo immortale.
La pratica sessuale consiste essenzialmente nella ritenzione del seme maschile: l’orgasmo dovrebbe essere ripetuto più volte e con diverse compagne, senza però lasciar sfuggire il ching maschile, in modo che torni indietro e si diffonda nell’organismo dove, unendosi al ch’i, darebbe nascita al corpo immortale. La pratica invece più difficile, dispendiosa e misteriosa, consisteva nell’ingerire, dopo una lunga preparazione alchimistica, il cinabro (solfuro di mercurio), che provocherebbe di per sé l’immortalità.
Come si vede, siamo ormai lontani dall’autentico Taoismo, che comunque fu importante perché fu la risposta a molteplici interrogativi spirituali. Inoltre non si dimentichi che, in campo politico, con la credenza messianica in una società migliore, molte furono le rivolte contadine che ebbero i loro capi in persone che si ispiravano al Taoismo. In campo artistico, il Taoismo, concedendo assoluta libertà all’individuo, permise la creazione di opere d’arte concepite per il godimento del letterato e del pittore e non, come volevano i confuciani, in esclusiva funzione di un certo tipo di società. In ultimo, la donna, che nella Cina confuciana e feudale era relegata a vivere all’interno della sua abitazione, acquisterà col Taoismo una certa parità con l’uomo, al punto di poter accedere anche a certi gradi della gerarchia religiosa taoista.
Oggi il Taoismo è diffuso nelle comunità cinesi sparse per il mondo, ed in particolare a Taiwan, Vietnam e Singapore.
DONNE FILOSOFICHE
Tutto ciò che è stato scritto dagli uomini sulle donne deve essere ritenuto sospetto dal momento che essi sono ad un tempo giudici e parti in causa. (Kant)
A cura di Ernesto Riva
Secondo quanto ci viene tramandato, è nell’ambito della scuola pitagorica (VI sec. A.C.) che le donne fecero la loro prima apparizione come seguaci e praticanti di filosofia. Giamblico(251-325 d.C.), nella sua Vita pitagorica, parla di ben 17 discepole di Pitagora! Intorno al 440 a.C., si distinse Aspasia di Mileto, che fu l’amante di Pericle e la sua casa fu il centro della vita letteraria e filosofica dell’Atene del V secolo.Tra le donne che fecero professione di filosofia incontriamo Diotima ,sacerdotessa di Mantinea. E’ famosa perché viene soprattutto ricordata in un dialogo platonico, il Simposio (201 d – 212 c), in cui Socrate dice di aver appreso da lei la teoria dell’amore.
Diogene Laerzio ci parla di Ipparchia, che aderì alle teorie dei Cinici. Di lei viene esaltata la grande cultura filosofica e l’eleganza del ragionamento, paragonandola addirittura a Platone. Piuttosto discussa è la figura di Leonzia (Leonzio o Leontina) ,forse cortegiana di Epicuro, si dice abbia scritto una invettiva contro un altro celebre filosofo, Teofrasto.
Comunque, la più rilevante figura di filosofa che viene tramandata dall’antichità greca è quella di Ipazia, di tendenze neoplatoniche, morta verso il 415 d.C. Fu figlia del matematico e astronomo Teone di Alessandria e si interessò lei stessa di scienze. Si recò ad Atene ed ebbe una notevole influenza negli ambienti f