Progetto

Qui trovate un mio utopico disegno di città ideale, Καλλίπολις avrebbe detto Platone. Perché, forse, il pensiero del possibile è il solo pensiero possibile…. Fatum non datur.


 

1. I DOMINANTI, L’ARISTOCRAZIA FINANZIARIA
Nel quadro del nuovo ordine planetarizzato post-1989, il conflitto di classe ha mutato forma. La nuova classe dominante è composta da una ristretta aristocrazia finanziaria apolide, sradicata, post-borghese e ultracapitalistica. Essa vive di rendita finanziaria, sotterfugi e truffe bancarie, supersfruttamento del lavoro altrui. È nemica tanto dei valori proletari (lavoro, solidarietà, diritti sociali), quanto di quelli borghesi (famiglia, Stato, religione, morale). Il suo scopo è ridurre il mondo intero a spazio liscio dello scorrimento delle merci, delle persone mercificate e dei capitali liquido-finanziari.

2. I DOMINATI, IL PRECARIATO
La classe dominata è il precariato, il ceto degli sconfitti della mondializzazione capitalistica. Esso è il frutto dei processi di pauperizzazione, di precarizzazione e di riplebeizzazione del vecchio ceto medio borghese e della vecchia classe lavoratrice. Tali classi, che nel vecchio capitalismo costituivano polarità conflittuali e antagonistiche, stanno oggi sempre più visibilmente andando a formare un’unica classe, unita per interessi, fisionomia e composizione. Sua prerogativa fondamentale è la precarietà: ossia la flessibilizzazione integrale delle condizioni lavorative, delle norme esistenziali e, più in generale, dell’intero mondo della vita.

3. RIPARTIRE DALLA NAZIONE
Il solo modo per tutelare gli interessi reali del precariato come ceto degli sconfitti della mondializzazione, pur nella loro eterogeneità, è ripartire dall’interesse nazionale: dall’interesse della nazione come unione solidale e operosa di lavoratori e piccola imprenditoria locale; dall’unione delle classi che vivono-del-loro-lavoro, contro il parassitismo del capitale finanziario e dell’aristocrazia finanziaria apolide e sradicata. L’interesse nazionale è la reazione culturale, economica, monetaria e politica all’interesse mondialista dell’aristocrazia finanziaria sans frontières.

4. NÉ MONDIALISTI, NÉ NAZIONALISTI
Il recupero dell’idea di nazione che qui proponiamo si pone a giusta distanza tanto dal nazionalismo, quanto dal globalismo. I quali sono opposti in correlazione essenziale: in maniere antitetiche, propugnano il medesimo, ossia l’annichilimento del diritto all’esistenza delle pluralità e, dunque, delle singolarità libere e autonome. Il mondialismo è tale, giacché sacrifica la molteplicità degli Stati nazionali sull’altare dell’unità falsamente universale del mercato planetario americanocentrico. Il nazionalismo stesso, nella sua logica, si compie nel mondialismo come imperialismo di un’unica nazione (il talassocratico Leviatano atlantista), che include tutte le altre neutralizzandole.

5. ESSERE INTER-NAZIONALI
A giusta distanza dai due opposti in correlazione essenziale del nazionalismo e del mondialismo, occorre ripartire dal fondamento della nazione ed essere autenticamente inter-nazionali. Il nazionalismo, che è l’individualismo pensato a livello della nazione, è negazione del diritto alle altrui nazioni a essere tali. Proprio come il mondialismo, che aspira a neutralizzarle nel piano liscio desovranizzato del mercato planetario. Il vero inter-nazionalismo (inter nationes) presuppone l’esistenza delle nazioni: è per un “pluriverso” multipolare di nazioni sovrane, sorelle e relazionantisi tra loro secondo nessi di riconoscimento solidale.

6. DIFESA DELLA CULTURA E DELLA LINGUA NAZIONALI
Per sua essenza, il mondialismo è ideologia del medesimo. Vuole vedere ovunque il medesimo: merci, consumatori deterritorializzati e anglofoni, do ut des liberoscambista. Esso aspira a creare un’unica cultura globale: cioè ad annientare la cultura. La quale può esistere sempre e solo nel dialogo tra le diverse culture, tra le diverse storie, tra le diverse lingue. Di qui l’esigenza vitale di difendere la cultura e la lingua nazionali, senza cedere alla sottocultura anglofona del consumo.

7. CONFLITTO ALTO-BASSO
Il conflitto tra Capitale e Lavoro nella cornice dello Stato sovrano nazionale con primato della politica sull’economia dovrà tornare a essere il fuoco prospettico attorno al quale organizzare le armi della critica: in modo tale da elaborare una nuova teoria rivoluzionaria che, al di là delle tradizionali e ormai inservibili categorie topologiche di destra e sinistra, assuma come proprio orientamento teleologico l’emancipazione della società e la sua ridefinizione democratica in forme etiche e solidali fondate su libere individualità comunitarie. Con il transito al capitalismo assoluto post-1989, si è, infatti, verificato un mutamento della geometria spaziale della politica. La vecchia dicotomia topografica esprimente l’opposizione di destra e sinistra si è esaurita: e, in suo luogo, è subentrata la nuova antitesi tra basso e alto, tra Servo nazionale-popolare (il precariato) e Signore mondialista (aristocrazia finanziaria).

8. VALORI DI DESTRA, IDEE DI SINISTRA
In antitesi con le vecchie dicotomie, occorre avventurarsi al di là dell’antitesi di destra e sinistra. Rinunciando ad essa e, dunque, assumendo valori di destra e, al contempo, idee di sinistra. Valori di destra: radicamento, patria, onore, lealtà, trascendenza, famiglia, eticità. Idee di sinistra: emancipazione, diritti sociali, eguale libertà materiale e formale, dignità del lavoro, socialismo democratico nella produzione e nella distribuzione.

9. ANTROPOLOGIA COMUNITARIA
In antitesi con la monadologia liberista e con la sua antropologia dell’atomo privatizzato e concorrenziale, occorre ripartire dalla saggezza greca e dalla sua concezione dell’uomo come “zoon politikòn”: animale politico, comunitario e socievole. Che esiste nella relazione intersoggettiva e che solo in essa può realizzarsi appieno. Lo spazio della “polis” non coincide con il semplice stare insieme, magari alla stregua di competitors e di consumatori, secondo il modello dell’insocievole socievolezza che innerva il nostro presente. Al contrario, lo spazio comunitario della polis si fonda su un senso di appartenenza tutto da riscoprire: un senso a cagione del quale ci si sente parti di una totalità etica solida e solidale, che è libera nella misura in cui si fa effettiva garante della libertà di tutti e di ciascuno.

10. LA FAMIGLIA, CELLULA PREPOLITICA DELLA COMUNITÀ
I signori apolidi del mondialismo aspirano a dissolvere ogni eticità comunitaria solidale: di modo che il mondo intero si riconfiguri come libero mercato concorrenziale, senza padri e madri, senza cittadini e cittadine, ma con soli consumatori globali sradicati, unisex, post-nazionali e in perenne mobilità. I signori competitivisti della plutarchia neo-oligarchica debbono, di necessità, annullare la famiglia, come cellula immediata della comunità, e lo Stato, come somma potenza etica. Opponendosi a siffatte logiche, occorre rieticizzare la società: ossia valorizzare le potenze etiche, dalla famiglia allo Stato, dalla scuola pubblica alla sanità, dai sindacati alle associazioni solidali. La famiglia è comunità immediata basata sull’amore, sulla fiducia, sulla differenza naturale dei sessi e sulla crescita educativa dei figli. Essa fa valere un altruismo particolare impermeabile alla logica utilitaristica e all’individualismo acquisitivo. Finché v’è famiglia, v’è speranza.

11. TUTELA DEI CORPI INTERMEDI E DELLA SFERA PUBBLICA
Con eguale forza, occorre difendere dall’aggressione ad opera dell’aristocrazia finanziaria privatizzatrice e competitivista i corpi intermedi, le “radici etiche” situate nella società civile a cavaliere tra la famiglia e lo Stato. È il mondo del pubblico e del comune, di ciò che è nostro: scuola pubblica, università pubblica, sindacati, sanità pubblica. In termini generali, si tratta di quei diritti sociali che il ritmo della mondializzazione distrugge trasformando in merci: se i diritti spettano a ogni figlio della società civile, le merci sono disponibili solo in coerenza con la disponibilità economica del singolo consumatore.

12. LO STATO E IL PRIMATO DEL POLITICO SULL’ECONOMICO
Il generale movimento della mondializzazione capitalistica a beneficio dell’aristocrazia finanziaria consiste nella spoliticizzazione dell’economico e nella convergente neutralizzazione di quelle unità con primato del politico che sono gli Stati sovrani nazionali. Mondializzazione fa rima con desovranizzazione e liberazione: liberazione del capitale e non del lavoro, dell’aristocrazia finanziaria e non del precariato, del competitivismo e non della solidarietà comunitaria. Lo Stato sovrano nazionale figura oggi come l’ultimo fortilizio in grado di difendere i beni comuni e i pur perfettibili spazi democratici esistenti. È, di fatto, l’ultimo baluardo capace di garantire il primato della politica sull’economia, ponendo un limite invalicabile e inaccessibile alla legge del mercato deregolamentato. Lo Stato riprende e invera, in forma mediata e politica, la logica comunitaria e solidale della famiglia: i cittadini non valgono come atomi concorrenziali e conflittuali, ma come membri di una famiglia universale, e dunque come liberi ed eguali portatori di diritti inalienabili e doveri inaggirabili. Lo Stato, esercitando la sua signoria sull’economico, deve disciplinare, governare, limitare e amministrare la “bestia selvatica” del mercato in funzione della comunità nazionale solidale.

13. METAFISICA DEL LIMITE
Sul piano metafisico, occorre ripartire dalla determinazione simbolica della giusta misura e del limite. “Mètron àriston”, con la sintassi dei Greci: “la misura è la cosa migliore”. La metafisica del capitalismo è, invece, quella dell’illimite: sempre-di-più è la formula in cui si cristallizza la sua essenza. Crescita infinita, in ambito economico. Abbattimento di ogni frontiera e perenne sconfinamento, in ambito geopolitico. Violazione di ogni inviolabile, in ambito etico. Deregolamentazione, in ambito politico. Occorre reagire ristabilendo il valore del limite e della misura come baluardi metafisici attorno ai quali edificare il proprio stile di vita individuale e il modello etico dello Stato secondo ragione.

14. ONTOLOGIA DEL POSSIBILE
Il logoro ritornello del clero intellettuale di completamento dell’aristocrazia finanziaria ripete senza posa che non v’è alternativa: there is no alternative, secondo l’anglofonia egemonica dei mercati. Mira, in tal guisa, a scoraggiare ogni progetto utopico-trasformativo teso a ringiovanire il mondo e a rovesciare i rapporti di forza sempre più asimmetrici. Il fatalismo dello spettatore rende, infatti, fatale l’ordine delle cose: il mondo è intrasformabile, se ci esimiamo dal trasformarlo. È inemendabile, se rinunziamo a emendarlo. Occorre variare il coefficiente di trasformabilità e operare una rivoluzione ontologica, mutando radicalmente la nostra immagine del mondo: il fondamento dell’essente è dato dalla storia e dalla possibilità. Ciò che c’è non è tutto. Il reale è la somma di ciò che esiste e di ciò che potrebbe esistere. Non la necessità, ma la possibilità è la modalità ontologica fondamentale. Il mondo non è un solido cristallo, ma una realtà sempre modificabile: il mondo è ciò che facciamo di esso.

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Diego Fusaro