LA FILOSOFIA ANTICA
“Se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica” (Aristotele, Metafisica)
I SETTE SAPIENTI
Dei cosiddetti “Sette Sapienti” – tra cui viene annoverato lo stesso Talete di Mileto – è possibile dire ben poco di storicamente fondato. Delle sentenze che vengono loro attribuite alcune sono certamente spurie e, come se non bastasse, è arduo stabilire con esattezza quali delle autentiche appartengano all’uno e quali all’altro. Ad ogni modo, i “Sette Sapienti” rappresentano il momento dell’affiorare in primo piano dell’interesse morale prima del sorgere della filosofia morale. Nel suo scritto intitolato Protagora (343 A), Platone fornisce questo elenco:
“Tra gli antichi vi furono Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, il nostro Solone, Cleobulo di Lindo, Misone di Chene e settimo tra costoro si annoverava Chilone di Sparta: tutti quanti furono ammiratori, appassionati amanti e discepoli dell’educazione spirituale spartana. E che la loro sapienza fosse di tale natura lo si può capire considerando quelle sentenze concise e memorabili, che furono pronunciate da ciascuno, e che, radunatisi insieme, essi offrirono come primizie di sapienza ad Apollo, nel tempio di Delfi, facendo scolpire quelle sentenze che tutti celebrano: Conosci te stesso (Gnoti sautòn) e Nulla di troppo (Medèn agàn). Ma a che scopo io dico questo? Perché il metodo di filosofare degli antichi consisteva appunto in una concisione spartana. E, in particolare, di Pittaco era famoso questo motto, molto lodato dai sapienti: Difficile è l’essere buoni (Calepòn esthlòn èmmenai)”.
Lo stesso Platone scrive significativamente nella sua opera Carmide (164 D):
“Infatti io dico che la temperanza è proprio questo: ‘conoscere se stessi’, d’accordo in tale definizione con l’autore dell’iscrizione votiva di Delfi; […] Infatti ‘Conosci te stesso’ e ‘Sii temperante’ sono la stessa cosa, come recita la scritta e come anch’io affermo, ma qualcuno potrebbe credere che abbiano un diverso significato, come mi sembra che sia capitato a quelli che, in seguito, consacrarono delle scritte del tipo ‘Niente di troppo’ e ‘Garanzia porta disgrazia’. Costoro, infatti, credettero che ‘Conosci te stesso’ fosse un consiglio pratico, non un saluto del dio a quanti entravano e così, per non essere da meno nel proporre suggerimenti, fecero porre queste iscrizioni”.
Sulle orme di Demetrio Falereo, Stobeo (Anthol., I, 172), anziché Misone, menziona Periandro, e ci dona la più ricca raccolta delle sentenze attribuite a questi sapienti. Dal momento che esse presentano il sunto della saggezza morale dei Greci prima del nascere della filosofia morale, è bene leggerle per intero.
Sentenze attribuite a Cleobulo
Cleobulo figlio di Evagora, di Lindo, disse:
1. La misura è la cosa migliore.
2. Si deve rispettare il proprio padre.
3. Bisogna stare bene nel corpo e nell’anima.
4. Bisogna essere desiderosi di ascoltare, e non chiacchieroni.
5. Avere molte e svariate conoscenze è come (o: è sempre meglio che) essere ignorante.
6. Mantenere la lingua pura da empietà.
7. Bisogna essere familiare della virtù, estraneo alla malvagità.
8. Odiare l’ingiustizia, custodire la pietà.
9. Consigliare le decisioni migliori ai concittadini.
10. Mantenere il controllo sul piacere.
11. Non fare nulla con la violenza.
12. Educare i figli.
13. Pregare la fortuna.
14. Risolvere le inimicizie.
15. Considerare un nemico di guerra il nemico del popolo.
16. Non litigare con la moglie e non manifestare troppo affetto verso di lei in presenza di estranei; infatti, il primo atteggiamento può comportare stoltezza, il secondo follia.
17. Non punire i servi sotto l’effetto del vino: altrimenti, sembrerai comportarti in modo sconveniente a causa dell’ubriachezza.
18. Sposarsi con una donna proveniente da una famiglia di pari condizioni: infatti, se ne sposerai una proveniente da una famiglia di condizioni superiori, acquisirai dei padroni, non dei parenti.
19. Non ridere alle battute di chi prende in giro la gente; risulterai antipatico, infatti, a coloro che vengono presi in giro.
20. Quando va bene, non essere superbo; quando va male, non avvilirsi.
Sentenze attribuite a Solone
Solone, figlio di Essecestide, ateniese, disse:
1. Nulla di troppo.
2. Non sedere come giudice, altrimenti risulterai nemico dell’accusato.
3. Fuggi il piacere che produce dolore.
4. Mantieni la virtù della condotta, più affidabile di un giuramento.
5. Poni il sigillo ai discorsi con il silenzio, e al silenzio con il momento opportuno.
6. Non mentire, bensì di’ la verità.
7. Curati delle cose oneste.
8. Non dire cose più giuste dei genitori.
9. Non acquisire amici in fretta, e quelli che hai eventualmente acquisito, non lasciarli in fretta.
10. Apprendendo a essere comandato, imparerai a comandare.
11. Se consideri giusto che gli altri rendano conto del loro operato, assoggéttati anche tu al rendiconto.
12. Consiglia ai concittadini non le cose più piacevoli, ma le migliori.
13. Non insuperbire.
14. Non metterti in compagnia di viziosi.
15. Mantieni relazioni con gli dèi.
16. Venera gli amici.
17. Non dire quello che non sai.
18. Se sai, sta’ zitto.
19. Sii mite con i tuoi.
20. Fornisci indizî evidenti per le cose invisibili.
Sentenze attribuite a Chilone
Chilone, figlio di Damageta, spartano, disse:
1. Conosci te stesso.
2. Mentre bevi, non fare molte chiacchiere: sbaglieresti.
3. Non minacciare le persone libere: non è giusto.
4. Non parlare male del tuo prossimo: altrimenti, sul tuo conto sentirai dire cose di cui dovrai addolorarti.
5. Récati lentamente ai banchetti degli amici; va’ invece incontro velocemente alle loro sventure.
6. Celebra nozze alla buona.
7. Dichiara beato solo chi è morto.
8. Onora chi è più anziano.
9. Odia chi si immischia in quello che non lo riguarda.
10. Scegli una perdita, piuttosto che un guadagno turpe: la prima, infatti, addolorerà una sola volta; l’altro, sempre.
11. Non ridere di chi è sfortunato.
12. Anche se sei impulsivo, cerca di comportarti in modo tranquillo, perché la gente di te abbia rispetto, piuttosto che paura.
13. Sovrintendi alla tua propria casa.
14. La tua lingua non corra avanti rispetto al pensiero.
15. Cerca di contenere l’ira.
16. Non desiderare cose impossibili.
17. Per strada, non affrettarti ad andare avanti.
18. E non gesticolare: denota follia.
19. Obbedisci alle leggi.
20. Se subisci un’ingiustizia, fa’ pace; se subisci un oltraggio, véndicati.
Sentenze attribuite a Talete:
Talete, figlio di Essamia, di Mileto, disse:
1. Dai garanzia, e appresso c’è sventura.
2. Ricòrdati degli amici, presenti e assenti.
3. Non adornare il tuo aspetto esteriore, ma sii bello negli atti.
4. Non arricchirti malamente.
5. Non ti comprometta il tuo discorso nei confronti di quanti ripongono in te la loro fiducia.
6. Non esitare ad adulare i genitori.
7. Non prendere dal padre quello che è vizioso.
8. Quali servigi tu abbia reso ai genitori, tali aspettati di ricevere a tua volta, in vecchiaia, dai figli.
9. È difficile conoscere se stesso.
10. Piacevole in massimo grado è ottenere quello che desideri.
11. La pigrizia è una sciagura.
12. L’intemperanza è una cosa dannosa.
13. Cosa molesta è l’ignoranza.
14. Cerca di imparare e di apprendere il meglio.
15. Non essere pigro, neppure se sei ricco.
16. I mali, nascondili in casa.
17. Fatti invidiare, piuttosto che commiserare.
18. Avvàliti della misura.
19. Non credere a tutti.
20. Incominciando, adorna te stesso.
Sentenze attribuite a Pittaco
Pittaco, figlio di Irra, di Lesbo, dice:
1. Riconosci il momento opportuno.
2. Non dire quello che hai intenzione di fare: se non avrai fortuna, sarai deriso.
3. Avvàliti di ciò che è conveniente.
4. Tutto quello che disapprovi nel tuo prossimo, non farlo tu stesso.
5. Non biasimare un indolente: su gente simile incombe già la vendetta degli dèi.
6. Rendi i depositi.
7. Sopporta, se sei danneggiato dal prossimo in piccola misura.
8. Non dire male dell’amico, e nemmeno bene del nemico: poiché un simile comportamento è illogico.
9. È tremendo conoscere il futuro, sicuro conoscere il passato.
10. La terra è una cosa affidabile, il mare è una cosa infida.
11. Insaziabile è il guadagno.
12. Impadronirsi delle cose proprie.
13. Coltiva la pietà, l’educazione, la temperanza, la saggezza, la verità, la fiducia, l’esperienza, la destrezza, l’amicizia, la sollecitudine, la gestione della casa, l’arte.
Sentenze attribuite a Biante
Biante, figlio di Teutamo, di Priene, disse:
1. La grande maggioranza degli uomini è cattiva.
2. Guardandoti allo specchio – disse –, se appari bello, devi fare cose belle; se appari brutto, devi correggere con la virtù le mancanze della natura.
3. Accìngiti con lentezza a fare qualcosa; ma, in quello che tu abbia incominciato, persévera con costanza.
4. Odia il parlare senza ponderazione, per non sbagliare; segue, infatti, il pentimento.
5. Non essere né sempliciotto, né di cattivi costumi.
6. Non accogliere la stoltezza.
7. Ama la saggezza.
8. Riguardo agli dèi, afferma che esistono.
9. Rifletti sul tuo operato.
10. Ascolta molto.
11. Cerca di parlare a proposito.
12. Se sei povero, non criticare i ricchi, a meno che tu non ne ricavi un grande giovamento.
13. Non elogiare per la sua ricchezza un uomo indegno.
14. Cerca di ottenere in forza della persuasione e non della violenza.
15. Tutto ciò che tu faccia di bello, attribuiscilo agli dèi, non a te stesso.
16. Nella giovinezza, acquisire prosperità; nella vecchiaia, invece, sapienza.
17. Avrai memoria grazie all’esercizio, circospezione grazie al riconoscimento di quanto è opportuno, nobiltà grazie ai modi, temperanza grazie alla fatica, pietà grazie al timore, amicizia grazie alla ricchezza, persuasione grazie al ragionamento, decoro grazie al silenzio, giustizia grazie all’assennatezza, valore grazie al coraggio, potenza grazie all’azione, supremazia grazie alla fama.
Sentenze attribuite a Periandro
Periandro, figlio di Cipselo, di Corinto, disse:
1. Abbi cura di tutto.
2. La tranquillità è una cosa bella.
3. La temerarietà è una cosa pericolosa.
4. Il guadagno è una cosa turpe.
5. * un’accusa della natura.
6. La democrazia è una cosa migliore della tirannide.
7. I piaceri sono mortali; la virtù, immortale.
8. Quando hai fortuna, sii moderato; quando invece hai sfortuna, sii saggio.
9. È meglio morire rispettato, piuttosto che rimanere vivo trovandosi nel bisogno.
10. Renditi degno dei genitori.
11. Cerca di essere lodato da vivo e considerato beato una volta morto.
12. Compòrtati allo stesso modo con gli amici fortunati e sfortunati.
13. Ciò su cui tu sia risultato d’accordo, osservalo; è cosa malvagia, infatti, il trasgredire.
14. Non rivelare discorsi segreti.
15. Rimprovera in maniera tale da risultare ben presto un amico.
16. Quanto alle leggi, attiéniti a quelle antiche; quanto ai cibi, invece, consuma quelli freschi.
17. Non limitarti a castigare quelli che hanno commesso una colpa, ma cerca anche di impedire quelli che stanno per commetterne una.
18. Se sei sfortunato, cerca di nasconderlo, per non fare rallegrare i nemici.
Come siamo venuti dicendo in precedenza, queste sentenze sono fondamentali per adombrare i caratteri e i limiti della “riflessione morale” nel suo stadio – se così si può dire – prefilosofico. Esse sono il prodotto di una lunga e travagliata esperienza, ma sono slegate le une rispetto alle altre, non sono sorrette da un “principio” unificatore, non sono motivate con argomentazioni, e quindi non sono giustificate; stanno quindi al di qua della filosofia, la cui essenza sta – in ultima istanza – nel “rendere ragione” (logon didonai) di ogni cosa, senza lasciare alcunché di immotivato. Il fatto che Talete di Mileto sia annoverato fra i “Sette Sapienti” è, sotto questo profilo, particolarmente interessante. Egli ha fondato la filosofia come indagine fisica e cosmologica (ravvisando nell’acqua l’arché dell’intera realtà), ma non la “filosofia morale”. Del resto, non solo Talete, ma tutti i filosofi “presocratici” come moralisti non andarono oltre il piano della “sentenza” intuitivamente colta: e ciò è dovuto al fatto che essi indagarono il “principio del cosmo”, ma non la “natura dell’uomo in quanto uomo”. Perché potesse sorgere la “filosofia morale” occorreva che l’uomo come tale diventasse oggetto di riflessione della filosofia. Era cioè necessario che venissero determinati l’essenza e il significato dell’uomo in quanto uomo. Cosa che, evidentemente, non accadde con i “Sette Sapienti”. Era altresì necessario che dall’essenza dell’uomo in quanto tale si ricavasse il concetto di “virtù” (areté). A ciò si addivenne tramite un percorso che, avviato dai Sofisti (i primi a spostare il baricentro dell’indagine filosofico dal cosmo all’uomo, dal cielo alla terra), giunse a compimento con Socrate.
TALETE
I primi passi della filosofia sono stati compiuti nelle colonie della Ionia, sulle vivaci coste dell’Asia Minore (l’attuale Turchia), come Mileto ed Efeso. Se le città del continente, lontane dal contatto con altre popolazioni, rimasero chiuse e vincolate all’orizzonte cosmico e religioso tradizionale, le città coloniali lambite dal mare sono invece caratterizzate da un maggior dinamismo anche sul piano intellettuale. Il fatto stesso che fossero terre di confine (e quindi a contatto con credenze e costumi diversi) contribuì a fare di queste aree zone in cui era molto sentito il problema della propria identità e della posizione del mondo. Un modo per risolvere questo problema può essere rintracciato nella ricerca di ciò che rende il mondo, al di là della varietà delle sue manifestazioni, una totalità unitaria. Aristotele (Metafisica, I) ci presenta proiettato in questa ricerca il presocratico Talete, il primo filosofo che la storia ricordi. Leggiamo dunque la sua preziosa testimonianza:
“La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che princípi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre. E come non diciamo che Socrate si genera in senso assoluto quando diviene bello o musico, né diciamo che perisce quando perde questi modi di essere, per il fatto che il sostrato – ossia Socrate stesso – continua ad esistere, cosí dobbiamo dire che non si corrompe, in senso assoluto, nessuna delle altre cose: infatti deve esserci qualche realtà naturale (o una sola o piú di una) dalla quale derivano tutte le altre cose, mentre essa continua ad esistere immutata. Tuttavia, questi filosofi non sono tutti d’accordo circa il numero e la specie di un tale principio. Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l’acqua (per questo afferma anche che la Terra galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide”. (Aristotele, Metafisica 983 b)
Egli nacque e visse a Mileto tra il settimo ed il sesto secolo a.C. e probabilmente non scrisse alcuna opera. La figura di Talete sfumò ben presto nella leggenda: su di lui vi sono parecchie testimonianze. Platone, per esempio, afferma che Talete era stato abilissimo nell’escogitare espedienti tecnici, mentre lo storico Erodoto ci racconta che Talete progettò e realizzò un canale per deviare un fiume dal suo corso e farlo rientrare più avanti nel suo alveo. Sempre Erodoto gli attribuisce la predizione di un’eclissi solare, più precisamente quella del 585 a.C., ed una grande abilità come consigliere politico. Altri autori (di epoche successive) fanno risalire a Talete la dimostrazione di alcuni teoremi di geometria, ma pare difficile che siano effettivamente suoi: tra questi ricordiamo la proposizione che il cerchio è dimezzato dal diametro, che è dimostrabile tramite la sovrapposizione delle due metà. Anche per quel che riguarda l’eclissi solare, è davvero difficile che Talete l’abbia intuita tramite complessi calcoli matematici, che all’epoca non erano in grado di effettuare neppure gli astronomi babilonesi. Pare che Talete, durante la sua permanenza egiziana, riuscì pure a misurare l’altezza delle piramidi tramite le loro ombre. Nel Teeteto, Platone racconta che Talete, per contemplare le meraviglie del cielo, cadde in un pozzo e una donna lo derise per il fatto che voleva guardare il cielo lui che non vedeva neppure cosa c’era per terra. Aristotele nella Politica narra che Talete, grazie alle sue conoscenze astronomiche e metereologiche, previde un abbondante raccolto di olive, fece incetta dei frantoi e in questa situazione di monopolio ricavò ingenti guadagni. Stando a quel che Aristotele sostiene, in veste di storico della filosofia, nel primo libro della Metafisica, Talete è il capostipite della ricerca delle cause (aitiai) e del principio (arch) da cui sarebbe scaturita l’intera realtà nelle sue manifestazioni. Per lui tutto, in ultima istanza, è costituito da acqua. Non sappiamo esattamente che cosa Talete intendesse con questa affermazione, ma possiamo immaginarlo. Probabilmente aveva in mente, per esempio, il ghiaccio, il vapore, l’umidità… Insomma, egli non poteva non notare l’assoluta centralità dell’acqua nella vita. Egli osservò poi che il cibo degli esseri viventi è in buona parte costituito da acqua, così come i semi degli esseri viventi sono umidi. E’ anche possibile ipotizzare perchè Talete scelse proprio l’acqua come principio: intanto, come abbiamo appena detto, essa si trova praticamente ovunque, ma poi ha delle caratteristiche che la rendono ideale come principio esplicativo della realtà: è incolore, inodore, insapore… In altre parole l’acqua non ha caratteristiche e quindi può assumerle tutte. Per individuare un principio generalmente si scelgono cose che abbiano il minor numero possibile di caratteristiche: l’acqua per Talete, l’aria per Anassimene. Talete affermò che la Terra galleggiasse sull’acqua: secondo la concezione dell’epoca vi era un immenso Oceano, una Terra tonda e delle acque interne: su quest’ Oceano infinito galleggiava, secondo le credenze dell’epoca, la Terra. In Talete riscontriamo un forte influsso orientale: l’idea che la Terra galleggiasse sull’Oceano era presente in diversi miti dell’Oriente. Per di più, come detto, sappiamo che lui stesso soggiornò in Egitto e probabilmente lì ebbe modo di assimilare questi miti. Però Talete non si accontenta di accettare la tradizione mitologica, ma da buon filosofo argomenta le sue tesi. Per lui l’acqua è sia sostanza (ciò che sta sotto, in Greco upokeimenon) sia essenza (ciò che effettivamente è, in Greco ousia ): sotto il mutamento continuo (ghiaccio, vapore, umidità…) la sostanza rimane sempre la stessa: è sempre acqua. Con Talete cominciano a farsi sentire i primi cenni di astrazione, ma è ancora molto legato al mondo concreto: è infatti interessante notare che la parola upokeimenon (la sostanza, ciò che sta sotto) avrà sì voluto significare in senso astratto che l’acqua nel corso dei suoi mutamenti rimane sempre acqua, ma era pregna di significati concreti: concretamente, infatti, la terra, secondo Talete, galleggiava sull’acqua e di conseguenza l’acqua sta sotto alla terra (il termine upokeimenon viene preso alla lettera). A noi risulta strana questa mistura di concreto e astratto, ma all’epoca doveva essere normalissima. Però verrebbe da chiedere a Talete: se la terra galleggia sull’acqua, l’acqua su cosa galleggia? senz’altro Talete avrebbe risposto che essa è il principio e perciò non vi è risposta. Nella Metafisica Aristotele, ad un certo punto, dice – a riguardo dell’identificazione dell’acqua come principio – che forse Talete si è formato questa opinione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido e che perfino il caldo deriva dall’umido e vive di esso: pare interessante, oltre al termine “forse” che denota un’ipotesi personale di Aristotele, il fatto che si parli di principio di “tutte le cose”. Si può avanzare un’obiezione: l’acqua non è il principio di tutte le cose, ma solo degli esseri viventi. Va subito precisato che concetti che per noi sono distinti, ai tempi di Talete non lo erano: non avevano distinzione tra mondo vivente e mondo non vivente: noi l’abbiamo perchè siamo avvantaggiati da strumenti tecnici. In mancanza di strumenti scientifici, la prima cosa che viene spontaneo fare per capire quali esseri sono viventi è osservare il movimento, la capacità di muoversi (Platone stesso definirà la vita come qualcosa che si muove da sè). Se cogliamo nel movimento la distinzione tra vivo e non vivo (che è la distinzione più ovvia che ci sia), di conseguenza dovremmo attribuire a tutto il mondo, sebbene non nella stessa misura, la vita. Spieghiamo il perchè servendoci di un esempio: anche una penna, se lanciata, si muove. Dunque l’atteggiamento di Talete era di attribuire vita alla materia: si parla a tal proposito di “ilozoismo” (dal greco ulh, materia + zwa, animali). In realtà si tende ad evitare questa parola perchè suggerisce che partendo dall’idea di materia inerte Talete e gli altri materialisti le abbiano attribuito la capacità di movimento e quindi la vita: per Talete, invece, la materia si è sempre mossa. Una testimonianza ci dice che Talete, che fu il primo ad occuparsi di elettricità, affermò che il magnete fosse vivo perchè in grado di far muovere le cose (infatti attrae il ferro) e che avesse un’anima. Viene da chiedersi perchè Talete parli proprio del magnete e non in generale della materia. La risposta è che questi filosofi presocratici, per dimostrare, partivano da situazioni chiare per tutti (come il fatto che il magnete sposti il ferro) per poi estenderle all’intera realtà. Voleva dimostrare che la vita non c’è solo negli esseri viventi, e per farlo si serve dell’esempio più chiaro e comprensibile per tutti. Egli si serve della generalizzazione dell’esperienza: osserva attentamente la realtà e ciò che ha osservato in determinati casi particolari lo estende. Per Talete, così come l’animale fiuta il cibo e si avvicina, così il magnete sente il ferro e si avvicina. Talete affermò pure che “tutto è pieno di dei”: sembra un’affermazione religiosa, il che per un filosofo sarebbe strano. In realtà risulta evidente che il principio è la trascrizione in termine filosofico della divinità, in quanto principio è ciò da cui tutto deriva: dire che tutto è pieno di dei è lo stesso che dire che tutto è pieno di acqua. Come accennavamo, Talete, oltrechè filosofo, fu anche grande matematico: calcolò l’altezza delle piramidi sfruttando l’ombra da esse proiettata ed elaborò il celebre teorema che porta il suo nome. Il teorema di Talete dice che un fascio di rette parallele determina su due trasversali insiemi di segmenti proporzionali. Talete muove dalla convinzione che l’arch, ovvero il principio da cui tutto deriva, sia l’acqua e – come poc’anzi notavamo – dalla convinzione secondo cui l’acqua sarebbe alla base di ogni realtà, fa addirittura conseguire la tesi – che a noi non può strappare un sorriso – secondo cui la Terra stessa galleggerebbe sull’acqua e si troverebbe pertanto in un equilibrio precario. Aristotele, con la curiosità filosofica che lo contraddistingue, prova anche a domandarsi come possa essere la concezione propria di Talete dell’acqua come causa materiale: pur in assenza di certezze (il che è testimoniato dal “forse” che Aristotele premette alla propria constatazione), non si può escludere che Talete sia addivenuto alle sue note conclusioni partendo dall’osservazione che l’umido sta alla base di ogni cosa – perfino del caldo – e che i semi stessi, da cui nasce la vita, sono anch’essi umidi. Da ciò ben si evince come Talete si basasse, nel proprio procedere filosofico, soprattutto sull’osservazione diretta dei fenomeni. Aristotele sembra anche suggerire, in certa misura, che Talete, nella formulazione delle proprie tesi, tenesse conto di quella tradizione mitica – cantata nei poemi di Omero e di Esiodo – in cui Oceano e Teti non erano che i progenitori del mondo: in questo senso, Talete avrebbe sostenuto la stessa tesi dei poeti, ma da essi si sarebbe differenziato per aver dismesso la veste teologica e mitica e per aver indossato quella ipercritica della filosofia. Fare di Talete un razionalista nell’accezione moderna – affermatasi da Cartesio in poi – sarebbe però sbagliato, anche perché su di lui influiscono concezioni animistiche che lo inducono a ritenere vivo il magnete – perché capace di muoversi in presenza del ferro – o ad affermare enigmaticamente che “tutto è pieno di dei” (frase facilmente convertibile in: “tutto è pieno d’acqua”). Anche se Aristotele trascura questo aspetto, noi possiamo tentare di spiegare l’importanza da Talete concordata all’acqua facendo riferimento alla particolare zona in cui egli è vissuto: Mileto era una città marinara, in cui l’acqua era di fondamentale importanza per i traffici e, dunque, per la sopravvivenza dei suoi cittadini. Una domanda destinata a restare senza risposta è se Talete abbia avuto discepoli e, in tal caso, se Anassimandro di Mileto rientrasse nella sua cerchia. Pare assai improbabile (anche se non escludibile) che ciò sia possibile, anche perché nel VII secolo a.C. non abbiamo testimonianze sull’esistenza del rapporto di discepolato; ciò non toglie, tuttavia, che Anassimandro abbia potuto frequentare Talete e prestare ascolto ai suoi insegnamenti.
ANASSIMANDRO
Nel contesto dei presocratici e dei Milesi si colloca insieme a Talete anche Anassimandro, che nacque a Mileto nel 610 circa a.c. e morì intorno alla metà del sesto secolo: la tradizione vuole Anassimandro discepolo di Talete; dato che a quei tempi non c’erano le scuole, si doveva trattare di un vero e proprio rapporto di disdcepolato personale. Senz’altro Anassimandro ha preso qualcosa da Talete: egli infatti si cimenta nella ricerca di un solo principio e per di più che ha a che fare con l’acqua (sebbene non sia proprio acqua pura). Anassimandro scrisse un’opera in prosa (Sulla natura, Peri fusewV): la poesia cessa di essere l’unico veicolo o, comunque, il veicolo per eccellenza per trasmettere le conoscenze sull’universo e sugli uomini. Ciò non toglie, tuttavia, che lo stile prosastico da lui impiegato non concedesse ampi margini ad un linguaggio immaginifico e poetico, volto ad accattivarsi l’attenzione dei lettori. Di tutta la sua opera, però, possediamo un solo frammento, peraltro difficile da contestualizzare. Se ci basassimo solo su questo frammento, Anassimandro ci sembrerebbe interessato solamente di cosmogonia. Però tramite varie testimonianze ci è possibile comprendere che in realtà Anassimandro si interessava di parecchie cose e la sua opera doveva spaziare nei campi più vasti. A quei tempi il suo libro sarebbe senz’altro stato catalogato come di “storia” (dove la parola storia assume un significato differente da quello che comunemente le attribuiamo: tale parola è infatti riconducibile alla radice eid-, a sua volta riconducibile al verbo greco oraw, vedere ), ossia di descrizione del mondo: l’opera iniziava con una cosmogonia (da cui è tratto il frammento che ci è pervenuto) in cui Anassimandro cercava di dare una spiegazione all’origine dell’universo e poi proseguiva con una cosmologia, dove egli spiegava la struttura dell’universo. La sua opera non si limitava alla cosmologia e alla cosmogonia (che però senz’altro dovevano essere le parti più filosofiche), ma toccava anche altri argomenti. Ad Anassimandro viene tra l’altro attribuita la prima cartina geografica del mondo allora conosciuto e l’invenzione dell’orologio solare: in tal modo spazio e tempo diventano entità descrivibili e misurabili; l’universo e il tempo in cui si scandisce la sua vicenda possono uscire dalla dispersione e essere ricompresi in una prospettiva unitaria. Oltre alle questioni di ordine stilistico, la grande innovazione apportata da Anassimandro risiede nell’aver individuato l’arch non già in un qualcosa di materiale ed empiricamente constatabile (al pari dell’acqua di Talete), bensì una realtà soprasensibile, forse in base al ragionamento che l’arch non può essere una sola delle entità visibili, ma piuttosto un qualcosa da cui tutte scaturiscano. Per questa via, Anassimandro passa dal visibile all’invisibile. Tale arch invisibile è da lui ravvisato nell’apeiron, ovvero – letteralmente – in “ciò che non ha limiti” (a + peraV). Questo “illimitato” trova una sua collocazione fisica alla periferia di un universo sferico al cui centro è posizionata la Terra, dotata di forma cilindrica ed equidistante dalla periferia (essa è dunque in perfetto equilibrio nella sua immobilità, senza bisogno di alcun sostegno, nemmeno dell’acqua supposta da Talete). Dall’apeiron si generano in primis le “qualità contrarie” (caldo/freddo, secco/umido, ecc), ossia gli elementi, giacchè alla natura di ciascun elemento corrisponde una data qualità (così al fuoco corrisponde il caldo, all’acqua il freddo, ecc). In questo senso, allora, l’apeiron manca, oltre che di limiti, anche di qualità: proprio da questo sostrato aqualitativo nascono i quattro elementi costituenti la realtà. Non è un caso che, nell’universo, ogni cosa sia dotata di limiti precisi: dalla realtà illimitata (apeiron) nascono tutte le cose e ciascuna di esse diventa col nascere il limite di tutte le altre (tant’è che nel definirla non facciamo che distinguerla dalle altre. In realtà la parola apeiron è intraducibile a causa della sua polisemia e si preferisce non tradurla: in essa ci sono infatti troppi sottintesi e significati per cui scegliendone uno (che può benissimo essere corretto) se ne tagliano automaticamente fuori altri altrettanto corretti. I due significati principali della parola sono “infinito” e “indefinito”, il primo con valenza quantitativa, il secondo con valenza qualitativa. Per Anassimandro, però, entrambe i significati erano allo stesso modo contenuti nel termine apeiron. Ora dobbiamo meglio spiegare perchè Anassimandro abbia scelto come principio proprio l’apeiron: il principio è quel qualcosa da cui deriva tutta la realtà, quel qualcosa dove tutta la realtà va a finire e quel qualcosa in cui tutta la realtà permane. Se il principio è quindi ciò da cui deriva tutto il resto, Anassimandro deve aver pensato che esso deve essere una fonte inesauribile di tutto, senza fine. Già Talete a suo modo aveva effettuato un ragionamento del genere: l’acqua era per lui il principio di tutto perchè non aveva caratteristiche e poteva di conseguenza assumerle tutte. L’introduzione dell’apeiron rappresenta un grandissimo passo verso l’astrazione: esso ancora più dell’acqua non ha caratteristiche; però per Anassimandro l’apeiron non è solo infinito, ma anche indeterminato (indefinito): egli è convinto che il principio non debba avere alcuna caratteristica e quale è la cosa che ha meno caratteristiche dell’infinito? Anassimandro quindi si distacca da Talete: l’acqua non è più il principio, ma è parte integrante dell’apeiron . Riportiamo ora il celebre frammento di Anassimandro : “principio delle cose che sono è l’illimitato… donde le cose che sono hanno la generazione, e là hanno anche il dissolvimento secondo la necessità. Infatti esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” . Mentre per Talete era implicito che la materia fosse dotata di movimento, per Anassimandro è esplicito: in realtà a parlarci di Anassimandro e a riportare il suo frammento è un filosofo minore di nome Simplicio: è difficile tradurre e capire che cosa egli intendesse dire. Sembra quasi volerci dire che Anassimandro sia stato il primo ad introdurre il fattore movimento, ma probabilmente Simplicio voleva soltanto dire che Anassimandro è stato il primo ad usare la parola “arkè” in senso filosofico, con la valenza di principio. In quell’unico frammento di Anassimandro conservatosi fino a noi il limite è descritto in termini di ubriV , ossia di violenza e di prevaricazione delle cose fra loro, una sorta di ingiustizia di cui le cose pagano il fio con la distruzione (al che provvede il processo del nascere e del perire): sulla scia di Talete, Anassimandro fa leva sul senso comune, spiegando l’ingiustizia cosmica attraverso le ingiustizie che patiamo quotidianamente. Anassimandro ha poi aperto prospettive molto moderne: il concetto di infinito per esempio ricorre spesso anche nella nostra società. Anassimandro arrivò a dire che il nostro universo è un qualcosa di infinito: a noi pare ovvio, ma si è per lungo tempo pensato che fosse finito: questa concezione di finitezza dell’universo si era radicato ai tempi dei Pitagorici, che avevano attribuito al termine “infinito” una connotazione fortemente negativa e confusionaria. Anassimandro diceva che il mondo era nato e che prima o poi sarebbe morto: Aristotele invece diceva che il mondo esistesse da sempre e che sarebbe sempre esistito. Per Anassimandro il nostro mondo non è il solo nell’universo: per lui l’intera realtà universale è cosparsa di mondi come il nostro. Egli concepiva l’universo come un oceano di apeiron con sparsi qua e là infiniti mondi come il nostro. Questi mondi erano per lui realtà definite e tra l’uno e l’altro c’era l’apeiron. Ma che cosa è che dà vita ai vari mondi, che fa sì che si stacchino dall’apeiron primordiale? Per Anassimandro è il movimento che consente la separazione dei mondi dall’apeiron. Probabilmente mentre effettuava questi ragionamenti aveva in mente i mulinelli dell’acqua: se sulla superficie ci sono corpi galleggianti (pagliuzze, rametti …) a causa della densità si separano gli uni dagli altri. Così anche nell’apeiron ci potevano essere vortici in grado di separare i vari contrari. Infatti l’apeiron è tale proprio perchè tutto è mescolato e finisce per essere indistinto: infatti caldo-freddo, secco-umido etc. se mescolati sono indefiniti. E’ il movimento che riesce a separarli. Ma non è un movimento qualunque: quello dell’apeiron infatti è un movimento capace di generare e di separare. Infatti di per sè nell’apeiron i contrari non esistono ancora: vengono successivamente generati dai vortici. Questa è la cosmogonia anassimandrea: esaminiamo ora la cosmologia, vale a dire l’assetto del mondo. Anassimandro non ci parla ancora di caldo e di freddo in modo astratto, ma li identifica nell’acqua e nel fuoco, ossia in sostanze concretamente esistenti. Egli ci fa notare che il rapporto tra i contrari è conflittuale: per lui al centro del mondo c’è l’acqua fredda, in periferia il fuoco caldo: essi tendono a scontrarsi costantemente. Il fuoco fa evaporare l’acqua marina con una duplice conseguenza: la formazione di sale e di vapore acqueo. Il sale sta a rappresentare la terra, il vapore acqueo l’aria. Va senz’altro notato che Anassimandro era particolarmente attento e sensibile alle questioni di evaporazione perchè a Mileto vi erano grandi paludi e doveva quindi essere un fenomeno molto diffuso. Quindi per lui al centro c’era l’acqua, in periferia il fuoco ed in una periferia ancora più periferica una corona in cui aria e fuoco si mescolavano. La luna ed il sole non sono nient’altro che “buchi” in cui è possibile scorgere questa corona di periferia. Senz’altro per la sua cosmologia Anassimandro deve aver preso spunto dal funzionamento della pentola a pressione. Il fuoco attacca l’acqua causandone l’evaporazione, ma essa si “vendica” attaccando la corona periferica e smantellandola. Questa sua strana idea del fuoco che agisce a discapito dell’acqua deve essergli derivata dal fatto che egli scorgeva spesso fossili marini a chilometri di distanza dal mare o addirittura sui colli: significava quindi che vi era un’evaporazione costante e che il fuoco “rosicchiava” sempre più terreno all’acqua facendola evaporare. Oltre a notare l’interesse di Anassimandro per gli aspetti comuni della vita, gli va senz’altro riconosciuto il merito di aver capito che cosa fossero i fossili (cosa che non aveva invece capito Aristotele) . Quindi per lui il nostro mondo sarebbe finito quando il fuoco sarebbe riuscito a far evaporare tutta l’acqua (che , come aveva notato Talete, è davvero fondamentale per la vita). Per Anassimandro un contrario non può vivere da solo, quindi la scomparsa dell’acqua decreterebbe anche quella del fuoco e del mondo intero. Il mondo, una volta finito, sarebbe ritornato nell’apeiron e lì ne sarebbe poi nato uno nuovo. Sempre a riguardo della cosmologia anassimandrea, va ricordato che egli non pensava che la terra fosse rotonda nè che fosse in movimento: la immaginava come il tamburo di una colonna. Per lui la terra sarebbe ferma semplicemente per il fatto che non avrebbe nessun motivo di muoversi: è al centro di tutto e quindi perchè mai dovrebbe spostarsi? Torniamo ora al frammento a noi giunto: l’espressione “secondo l’ordine del tempo” non si è sicuri che sia effettivamente anassimandrea. E’ chiaro che quando dice “da dove hanno origine, hanno fine” allude all’apeiron: il mondo, una volta finito torna, nell’apeiron. Poi egli parla di “ingiustizia”: essa consiste sia nel distacco dall’apeiron del mondo (che può essere visto come una sorta di peccato originale ) sia (soprattutto) nel conflitto che oppone un contrario all’altro. A riguardo dell’idea del peccato originale dobbiamo riallacciarci alla religione orfica, che vedeva la nascita dell’uomo come una colpa originaria: la vita sulla terra è sia l’effetto della colpa sia la punizione. Anassimandro estende questa concezione all’intero mondo: il distaccamento dall’apeiron è un peccato: i contrari stessi, opponendosi, commettono una sorta di peccato nei confronti dell’apeiron. E’ interessante l’espressione “secondo necessità”: dà l’idea che le cose avvengano secondo un ordine preciso e non casualmente. Comincia a subentrare un primo e rudimentale concetto di “legge naturale” con il “secondo necessità”. Si può riscontrare nella visione del mondo di Anassimandro un forte pessimismo legato alla tradizione orfica . Anassimandro nel suo scritto, oltre a dedicarsi alla cosmologia e alla cosmogonia, si dedica anche alla biologia e alle prime forme di vita: egli – così ci dice una testimonianza di Aezio – sostiene che i primi viventi furono generati dall’umido (va senz’altro notato come Anassimandro sia influenzato da Talete e alle sue dottrine che vedevano l’acqua protagonista della realtà), avvolti in membrane spinose e che col passare del tempo approdarono all’asciutto e, spezzatasi la membrana, mutarono in fretta il genere di vita. Per lui dalla terra e dall’acqua riscaldate nacquero o dei pesci o comunque degli animali molto simili ai pesci; in questi concrebbero gli uomini ed i feti vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi. Sembra quasi che in un certo senso anche per Anassimandro il vero principio sia l’acqua.
ANASSIMENE
Generalmente Anassimene viene collocato, insieme a Talete e ad Anassimandro, nel contesto dei “milesi”, vale a dire i filosofi della città di Mileto, nella Ionia Minore: egli visse poco dopo il VI secolo a.C. Con Anassimene, la filosofia in terra di Ionia compie un passo indietro: anch’egli autore di un’opera in prosa intitolata Sulla natura (Peri fusewV), abbandona l’indagine “astratta” intrapresa da Anassimandro e torna alla ricerca di un unico principio materiale, che egli individua non già nell’acqua, bensì nell’aria. Quanto anche la sua sia una filosofia del senso comune lo si può facilmente arguire dall’importanza rivestita dall’aria per la nostra vita, in particolare per la respirazione: secondo Anassimene, l’aria opera a livello cosmico come a livello umano, cosicché essa dà origine e tiene in vita tanto gli uomini quanto l’universo nel suo insieme. Per spiegare il processo di derivazione degli elementi (terra, acqua, fuoco) dall’aria, egli fa riferimento a due processi contrari: la rarefazione e la condensazione. L’acqua riscaldata, infatti, si trasforma in aria, e così via. In questa maniera, le trasformazioni del mondo vengono spiegate come trasformazioni dell’aria, giacchè tutte le cose costituenti l’universo non sono che aria in un diverso grado di densità. Come i suoi due colleghi , anche Anassimene individua un unico principio dal quale sarebbe derivato tutto il resto. Mentre Talete scelse l’acqua e Anassimandro l’apeiron, Anassimene afferma che tutto deriva dall’aria. Si possono avanzare ipotesi sul motivo di questa scelta: in fondo l’aria si identifica un po’ con quel cielo che era la sede degli dei e quindi non pare una scelta insensata. Di per certo sappiamo che Anassimene affermò che l’aria è il principio di tutto in quanto è principio della vita: bisogna tenere in considerazione che il termine greco che indica la vita (l’anima) è yuch, che in origine significava proprio “soffio vitale”. Comunque Anassimene viene solitamente trattato a piccoli cenni ed è sempre stato considerato inferiore rispetto agli altri due milesi: Talete fu l’iniziatore della ricerca del principio, Anassimandro fece un grande passo avanti introducendo il concetto di astrazione e Anassimene, se ponderiamo accuratamente la situazione, ha fatto un passo indietro e non ha introdotto nulla di nuovo: è rimasto legato ad un elemento concreto quale è l’aria. Tuttavia ultimamente è stato rivalutato per diverse ragioni: tra le tante, una merita di essere ricordata: in epoche successive a quelle dei Milesi, Diogene di Apollonia penserà di riprendere la filosofia milesia e tra i tre autori scelse proprio di esaminare Anassimene, da cui mutuò l’aria come principio cosmico. Ci deve dunque essere un motivo se un uomo colto come Diogene scelse proprio Anassimene . La risposta è che evidentemente Anassimene dei tre era il più coerente e classico per i successori. Anassimene non si limitò a dire che l’aria era il principio di tutto, ma si sforzò e cercò di spiegare il processo (a differenza di Talete): per lui il processo tramite il quale l’aria si trasforma in tutte le altre cose è quello della rarefazione e della condensazione. Come Talete aveva dimostrato la presenza della vita negli esseri non viventi mediante l’esempio del magnete che attira il ferro e che quindi è vivo, così Anassimene partì da un esempio particolare per poi estendere le sue tesi all’intera realtà . Egli si servì dell’esempio della respirazione. Notò che a seconda dell’apertura della bocca l’aria usciva diversamente: a bocca larga usciva calda, mentre a bocca stretta usciva fredda. Così estese il processo all’intera realtà sostenendo che freddo e caldo fossero il risultato di un fatto quantitativo. L’aria a seconda che sia più condensata o rarefatta implica il freddo e il caldo. Il caldo e il freddo sono quindi il risultato di processi quantitativi: sono quindi qualità derivanti da una quantità diversa d’aria. Al di là di un certo livello di condensazione si ha l’acqua, e al di là di un certo livello di rarefazione si ha il fuoco. L’aria attraverso passaggi quantitativi può quindi trasformarsi in tutto. Era il più coerente dei Milesi perché Talete non spiegava chiaramente come l’acqua potesse trasformarsi in tutto, mentre Anassimandro nell’ambito delle ricerche naturali dei milesi era uscito un po’ fuori tema introducendo il concetto di apeiron; Anassimene sarà anche stato un po’ monotono (non solo nelle tematiche, ma pure nello stile), ma è comunque stato coerente e ha sempre motivato coerentemente le sue affermazioni. Va poi detto che fu il primo ad ipotizzare che la qualità derivasse dalla quantità, tematica poi ripresa dai Pitagorici.
ERACLITO
Eraclito, vissuto ad Efeso tra il VI e il V secolo a.C., è di famiglia aristocratica (addirittura discendente da famiglia regale) e lo stile stesso in cui scrive risente di questa influenza aristocratica (nella sua opera arriverà a dire: “uno è per me diecimila, se è il migliore”). Nel suo libro Peri fusewV (Sulla natura) traspare palesemente un atteggiamento di disprezzo per la massa popolare (definita come un branco di “cani” che gli abbaiano contro). Va subito precisato, però, che l’aristocraticismo di Eraclito non è molto legato alla vita politica, quanto piuttosto a quella intellettuale e culturale. Secondo la tradizione, Eraclito avrebbe depositato il suo libro (di cui ci sono pervenuti parecchi frammenti) nel tempio di Artemide ad Efeso: egli compie questo gesto senz’altro per il fatto che il tempio era il luogo più sicuro per la custodia (all’epoca le biblioteche non c’erano) , ma anche perchè era tipicamente aristocratico riallacciarsi al sapere della casta sacerdotale ed arcaica. Eraclito ritiene dunque che il tempio sia l’unico luogo idoneo a custodire il suo scritto: egli infatti nutre grande sfiducia nella possibilità che il messaggio da lui consegnato allo scritto possa essere compreso dalla maggior parte degli uomini. Ciò dipende dai contenuti di esso, lontani dalle esperienze della vita comune, ma anche dal linguaggio e dalla forma nei quali questi contenuti sono espressi. In effetti ancora oggi non si è riusciti a comprendere la natura dell’opera di Eraclito, sebbene possediamo numerosi frammenti (oltre 100): essa era infatti costituita di aforismi, vale a dire paginette autonome e singole. Il fatto che fosse un libro “aforistico” non significa che fossero idee campate in aria o che Eraclito saltasse di palo in frasca, cambiando in continuo argomenti: ogni frase, ogni pagina può in qualche modo essere collegata ad altre in modo argomentativo. Va senz’altro notato che Eraclito fu probabilmente il primo a fare collegamenti forma-contenuto : dal momento che i contenuti erano complessi , anche lo stile e la forma dovevano essere complessi: è come se Eraclito volesse sottolineare la difficoltà del contenuto tramite la difficoltà della forma (tant’è che veniva spesso denominato “l’oscuro” o “il piangente”): Aristotele stesso, nel tratteggiare le qualità stilistiche proprie dei filosofi, cita Eraclito come esempio in negativo. Socrate stesso dice che per penetrare nel senso dei discorsi di Eraclito occorrerebbe essere dei “palombari di Delo”. Ma Eraclito era pienamente consapevole della difficoltà di interpretazione del suo libro: da buon aristocratico, diceva che non tutti gli uomini erano in grado di capire cosa dicesse: solo i migliori ce l’avrebbero fatta. In Eraclito perfino gli accenti sono ambigui: il termine greco “bios” (bioV) , ad esempio, letto “biòs” significa “arco” , ma letto “bìos” significa “vita” (sono addirittura antitetici i significati: l’arco è un qualcosa che provoca la morte, che è l’opposto della vita). E’ interessante e famoso il frammento in cui Eraclito dice “la natura ama nascondersi” (fusiV filei kruptein) : con ciò, egli intende sottolineare che non è facile trovare la realtà, ma occorre aprire bene gli occhi; lo stesso stile eracliteo – così oscuro – può allora essere inteso come un invito a stare in guardia. In Eraclito vi è una convinzione di fondo: che l’intera realtà sia governata da un solo principio (come dicevano i Milesi), a cui tutto è collegato. Dirà che questi legami che legano la natura sono dettati dal LogoV (Logos) : nel mondo c’è una ragione che lo fa andare avanti e un discorso che lo lega. Sia ragione sia discorso vengono proprio tradotti ambedue con “logos”, termine che riveste una miriade di significati. Logos è anche il discorso che Eraclito consegna al suo scritto, che in questo senso si presenta come espressione adeguata del logos cosmico. Questo è comune a tutti gli uomini, ma essi non sono in grado di comprenderlo perchè restano rinchiusi nel loro orizzonte privato . Eraclito paragona questi uomini a coloro che dormono e li chiama “dormienti”, in contrapposizione con coloro che son desti: quale è la differenza tra le due categorie? Quando siamo svegli siamo in grado di mettere in comune le esperienze: non siamo soli , ma c’è un comune terreno d’intesa . Quando invece dormiamo e ciascuno di noi vive nei sogni in un mondo interamente suo. I dormienti quindi, nel caso degli uomini che Eraclito così definisce, sono coloro che rinunciano al logos cosmico, che ci consente di capire insieme la realtà. Certo suona strano che un aristocratico parli di logos comune-cosmico: in realtà la questione è che quel “comune” logos “cosmico” si riferisce non a tutti gli uomini, ma a pochi : solo ai migliori , e non ai dormienti. Ma cerchiamo di comprendere che cosa Eraclito intenda con “logos comune, cosmico”: come accennato, la parola logos è polisemantica ed è quindi bene non tradurla. Essa si riconnette al verbo greco “lego”, che in origine significava “legare” ma che poi passò a significare “parlare”. Logos vuol dire, tra le varie cose, discorso: c’è l’idea di più parole che vengono tra loro legate per assumere un significato. Può anche significare “discorso interiore” in quanto prima di parlare, si effettua un ragionamento, un dialogo interno a noi stessi. Quindi passò a significare “ragionamento” e da qui “ragione”, ossia la facoltà di effettuare ragionamenti. Per Eraclito però i significati della parola logos sono essenzialmente tre: 1) La ragione che governa l’universo 2) Il pensiero che comprende questa ragione universale 3) il discorso che esprime questa conoscenza (dunque il discorso che Eraclito pone per iscritto nel suo testo). Così come abbiamo un logos dentro di noi (la ragione) , Eraclito dice che anche nella realtà ci deve essere un logos cosmico, dove logos ha valenza di “ragione” : il logos è quel qualcosa che fa funzionare l’universo. Eraclito afferma che il logos che abbiamo nella nostra mente non è diverso da quello cosmico. Per arrivare a dire questo, probabilmente, Eraclito si deve essere sagacemente chiesto: “come è che quello che noi pensiamo esiste anche nella realtà?”. Questo è anche un modo per rispondere alla domanda: “come si ricollegano le leggi della natura e del mondo? “. Di fatto, Eraclito nega l’esistenza di un dio, ma ammette quella di una ragione universale: c’è un nesso tra la ragione che governa il mondo e quella che governa la nostra mente: sono la stessa cosa e dunque l’ambiguità espositiva nell’opera “Perì fuseos” è dettata dal logos stesso, che fà sì che la natura ami nascondersi. Certo è difficile comprendere questo logos universale, ma non è impossibile: l’uomo ce la può fare usando quel frammento di logos a sua disposizione, insito dentro di lui : la ragione, che non è nient’altro che un pezzettino di logos universale di cui tutti disponiamo. Quindi tutti partiamo dallo stesso livello, ma solo i migliori riescono ad emergere e ad avvicinarsi al logos cosmico. I dormienti sono coloro che non ci riescono nè ci provano: per raggiungere il logos universale bisogna cooperare, non agire da soli e nel proprio interesse: Eraclito dice “bisogna seguire ciò che è comune; infatti ciò che è è comune di tutti . Ma pur essendo il logos di tutti , la folla vive come se avesse un proprio ed esclusivo criterio per giudicare”. Eraclito era del parere che una città per funzionare avesse bisogno delle leggi: come il logos cosmico governa il mondo, così le leggi governano la città. Anche le leggi (nomoi), come la mente umana, rappresentano un frammento di logos universale. In Eraclito matura l’idea che la legge umana derivi da quella naturale, della fusiV (natura). Tutte le leggi umane – nella misura in cui sono giuste – attingono ad un’unica legge cosmica. A quei tempi vi era anche chi diceva che le leggi umane fossero puramente convenzionali e non c’entrassero nulla con la natura. Sebbene Eraclito arrivi ad ammettere che il principio sia il logos, un’entità assolutamente astratta, tuttavia egli sente il bisogno di incarnarlo in qualcosa di materiale, e più precisamente nel fuoco. Eraclito dice che l’universo non è il prodotto di dei o uomini, ma un ordine universale unico ed eterno. Egli lo identifica con “il fuoco sempre vivente” . Con il riferimento al fuoco, Eraclito non intende soltanto introdurre una variazione rispetto alla tesi, tradizionalmente attribuita agli ionici a partire da Aristotele (Metafisica, I), dell’unicità del principio. Intende piuttosto insistere sulla peculiarità di comportamento del fuoco: si accende e si spegne regolarmente secondo una misura, come appare anche dal sole, che ora brilla (di giorno) e ora si spegne (di notte). La vicenda cosmica in tutti i suoi aspetti e nelle sue incessanti trasformazioni è infatti regolata da una misura. La mobilità del tutto non è un divenire casuale o disordinato, ma è regolata secondo ritmi precisi. Eraclito sostiene che non si tratti solo della successione di un opposto all’altro, del giorno alla notte, della vita alla morte e così via. La guerra (polemoV) assurge a simbolo e insieme regola di tutto ciò che avviene nell’universo: questo è caratterizzato da un’armonia superiore consistente nell’unità e identità degli opposti in tensione tra loro (coincidentia oppositorum). Quindi anche per Eraclito la ricerca dell’unità, al di sotto dell’apparente molteplicità e dispersione di ciò che appare ai più, è l’obiettivo primario. La guerra (“Polemos è signore di tutte le cose”) tra gli opposti non è espressione di ingiustizia, come ritengono i più e come aveva detto Anassimandro: il divenire di tutte le cose è il risultato del perenne conflitto che permea il tutto e si esprime nell’incessante tensione e trasformazione di un contrario nell’altro. Il fuoco suggerisce bene l’idea di questo costante divenire, di dinamicità, di trasformazione e di identità degli opposti: dove c’è il fuoco c’è la vita, ma il fuoco porta anche la morte (come “bios” denota sia la vita sia l’arco mortifero). Eraclito polemizzerà moltissimo con i Pitagorici (ed in particolare con Pitagora che definirà “inventore di coltelli”, vale a dire dell’arte tagliente della retorica, che mira ad affascinare l’ascoltatore con dialoghi raffinati, ma privi di verità), che sostenevano la pace e l’armonia dei contrasti e che vedevano nella musica la struttura numerica della realtà. Per lui la vera armonia è la tensione tra i contrasti (armonia discors): se prendiamo un arco o una lira, notiamo che essi funzionano fin tanto che la struttura data dal contrasto e dalla tensione degli opposti regge. Divenire significa proprio passare da un opposto all’altro. Mentre nella nostra società si tende a dare un valore negativo alla guerra, Eraclito (e in forza di ciò sarà amatissimo ad esempio da Hegel) dice che polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose, è ciò che rende liberi o schiavi gli uomini. Da notare che non si può conoscere pienamente una cosa se non si conosce il suo opposto: non si può conoscere davvero la schiavitù se non si sa che cosa sia la libertà. Per Eraclito la guerra è una grande cosa anche perchè determina quali siano gli uomini più valevoli e quelli inferiori: anche nella guerra c’è dunque un frammento di logos universale. Per Eraclito c’è armonia solo quando i contrari sono in tensione. In un suo frammento, Eraclito afferma che il diametro del sole sia di un piede umano, il che è un’assurdità e lui lo sapeva bene: con quest’affermazione sconcertante egli vuole dire che, così come è assurda la sua affermazione, tali sono anche tutte quelle che si arrestano all’apparenza, giacchè “la natura ama nascondersi”. In un altro frammento dice di aver indagato se stesso (“ho indagato me stesso”): salta all’occhio questa affermazione perchè sul tempio di Apollo a Delfi c’era scritto gnwqi sauton (conosci te stesso): lui dice di aver indagato se stesso ed emerge il legame di Eraclito con il mondo arcaico e sacro, tipicamente aristocratico, quel mondo a cui aveva voluto affidare il proprio scritto. Probabilmente quest’affermazione va riferita ad un’importante constatazione di Eraclito: voleva conoscere il logos dell’anima e dice di aver scoperto che l’anima non ha dimensioni, non è definita: “per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos”. Dice che il suo logos è profondo, quasi con l’idea dello scavare in profondità alla ricerca dell’anima. Eraclito biasima anche Esiodo, l’autore di quella specie di Bibbia dei Greci che è la “Teogonia”, che tra le varie coppie di contrari aveva individuato il giorno e la notte, ma che non le aveva individuate come identità di opposti. In un frammento Eraclito dice “la via in su ed in giù è unica ed identica”: un qualsiasi percorso in pendenza è sia salita sia discesa e ciò significa che le stesse cose possono contemporaneamente essere opposte ed identiche ed in particolare traspare l’identificazione degli opposti: la salita e la discesa sono tra loro opposti, ma si identificano. Interessante è il frammento in cui dice: “il fulmine governa tutte le cose” ; il fulmine è strettamente connesso al fuoco, che governa tutto ed è l’attributo principale di Zeus, il padre degli dei. Gli Stoici pensavano che vi sarebbe stato un grande anno in cui vi sarebbe stato un incendio che avrebbe portato alla conflagrazione del mondo (ekpurosiV) e che dopo ciò ne sarebbe nato uno nuovo. Essi amavano Eraclito perchè pensavano di leggere nei suoi frammenti idee simili, quali la conflagrazione. In effetti c’è un frammento eracliteo in cui si dice che il fuoco può cambiarsi in tutte le cose e che tutte le cose si possono cambiare in fuoco, ma Eraclito intende semplicemente dire che una parte di cose viene di continuo cambiata in fuoco, e una parte di fuoco viene di continuo cambiata in cose. C’è un equilibrio: Eraclito non intendeva assolutamente parlare di conflagrazioni: si tratta di interpretazioni errate da parte degli stoici. Uno dei frammenti senz’altro più famosi di Eraclito è quello che dice : “negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo ” : troppo spesso è stato interpretato come il manifesto della “filosofia del divenire”, del panta rei (“tutto scorre”), come se Eraclito ci stesse suggerendo che non possiamo mai bagnarci due volte nelle stesse acque di un fiume, giacchè esse si rinnovano incessantemente. In realtà l’indirizzo dell’incessante divenire che regola la realtà sarà intrapreso, più che da Eraclito (nel quale pure non è assente), dal suo discepolo Cratilo (futuro maestro di Platone): egli estremizzerà le posizioni di Eraclito e diventerà il filosofo del “tutto scorre”: a suo avviso è addirittura impossibile dare i nomi alle cose perchè esse cambiano di continuo (noi chiamiamo Po un fiume ma non è corretto, perchè le acque si rinnovano in continuazione e il fiume non è mai lo stesso); si fissa artificialmente una cosa che non è fissabile perchè in continua mutazione. Cratilo con il “panta rei” arriva a dimostrazioni sofistiche: è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre. Quindi in teoria, dal momento che non si possono attribuire nomi, bisognerebbe limitarsi ad indicare le cose col dito, senza chiamarle per nome. In realtà Eraclito, con il frammento del fiume, sta argomentando in favore della coincidenza degli opposti, mettendo in luce come quando ci immergiamo in un fiume siamo in esso e al contempo non siamo in esso (poiché nel fiume le acque cambiano di continuo). Circa l’identità degli opposti, egli dice anche che “il mare è l’acqua più pura e impura, per i pesci potabile e salutare, per gli uomini imbevibile e letale” : in questo frammento si può anche scorgere il famoso relativismo assoluto di Protagora, ad avviso del quale il miele c’è chi lo sente dolce e chi lo sente amaro, ma non si può effettivamente dire se esso sia amaro o dolce: dipende da come ciascuno lo sente. Durissima è la critica condotta da Eraclito contro i sapienti del suo tempo (Pitagora, Ecateo, Esiodo, Omero, tutta “gente dalla doppia testa”), accusati di polumaqia, il “sapere molte cose”: la vera conoscenza dev’essere quella dell’unico logos.
CRATILO
La figura di Cratilo è avvolta da un alone di mistero: tutto quel che sappiamo sul suo conto lo dobbiamo ai riferimenti che a lui Aristotele e Platone fanno nelle loro opere. Con certezza possiamo dire che Cratilo fu un filosofo presocratico vissuto nel V secolo a.C. e che fu vicino ad Eraclito di Efeso, di cui fu discepolo e di cui estremizzò gli ammaestramenti. Per gettar luce sull’ombrosa figura di Cratilo, occorre pertanto fare costante riferimento al suo maestro e alle dottrine da lui elaborate: Eraclito è troppo spesso stato presentato come il “filosofo del divenire”, ovvero come il pensatore convinto che l’universo nella sua interezza sia soggetto ad un incessante processo di cambiamento a cui nulla si sottrae. Ciò sarebbe attestato soprattutto dal celebre frammento in cui egli asserisce che “negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo”: con tale constatazione – si è notato – egli intenderebbe mettere in mostra l’impossibilità di bagnarsi due volte nelle acque di uno stesso fiume, giacchè esse si rinnovano senza tregua; tale esempio non è che un’immagine lampante di ciò che avviene per ogni singola cosa dell’universo, sottoposta all’indeflettibile legge del divenire. In realtà, Eraclito è, più che il filosofo del divenire (benché la tematica del divenire in lui sia tutt’altro che assente), il filosofo della coincidenza degli opposti: nella sua prospettiva, l’universo non è che un insieme di contrari in guerra reciproca, ma esso risulta non già dal caotico guerreggiare de medesimi, bensì dall’armonica unità dei contrari (coincidentia oppositorum), compresenti in ogni cosa. Sicchè il frammento dei fiumi deve essere innanzitutto inteso in tal senso: quando ci immergiamo nelle acque sempre e di nuovo rinnovatisi di un fiume, ci troviamo nella condizione di essere immersi nel fiume e, insieme, di non essere immersi in esso. Ciò esemplifica perfettamente la situazione di “armonia discordante” che ha in mente il filosofo di Efeso: certo, in lui non è assente la tematica del divenire, ma è comunque secondaria rispetto a quella della coincidenza degli opposti. E’ invece Cratilo a portare alle estreme conseguenze ciò che in Eraclito è presente se non embrionalmente, almeno in maniera sfumata: il mondo così come lo concepisce Cratilo è il mondo del divenire, in cui tutto scorre via (panta rei) con una rapidità tale per cui diventa impossibile cogliere stabilmente l’essenza delle cose. Nulla è stabile, tutto scorre via senza posa in un flusso che non può mai essere arrestato in forme fisse. La conseguenza paradossale cui Cratilo addiveniva è l’impossibilità di nominare le cose, poiché esse – nel momento in cui le nomino – già sono divenute altro. Così, quando vedo una persona e la chiamo per nome, sto in realtà chiamando un qualcosa che non c’è più. Ne segue – ancor più paradossalmente – che, nell’impossibilità di nominare le cose, occorre limitarsi ad indicarle col dito. Significativamente Aristotele (Metafisica, IV 5, 1010A) ci fornisce un’importante testimonianza sul pensiero cratileo:
Costui [Cratilo] finì per convincersi che non si dovesse nemmeno parlare, e si limitava a muovere semplicemente il dito, rimproverando perfino Eraclito di aver detto che non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume: Cratilo, infatti, pensava che non fosse possibile neppure una volta.
Ben si evince come le posizioni eraclitee siano tenui se raffrontate con quelle radicali di Cratilo: non è possibile bagnarsi nelle stesse acque di un fiume nemmeno una sola volta, tanto è il divenire a cui esso è soggetto. Da ciò segue la tesi cratilea dell’inconoscibilità del reale: in quanto mai fissa, ma sempre fluente in un corso ininterrotto, la realtà non può mai essere afferrata – e dunque conosciuta – dal pensiero. Stando così le cose, Cratilo è non solo il filosofo del divenire, ma anche il filosofo dell’inconoscibilità del reale, tema sul quale egli è addirittura più radicale di quanto non saranno, in età ellenistica, gli Scettici (per i quali non è dato sapere se si conosca o meno la realtà). Sempre Aristotele riporta (Metafisica, I, 6, 987 A) che Platone stesso, prima del suo incontro decisivo con Socrate e col suo modo di far filosofia, sarebbe stato discepolo di Cratilo, da cui avrebbe desunto la convinzione del perenne fluire di ogni cosa:
Platone, infatti, essendo stato fin da giovane amico di Cratilo e seguace delle dottrine eraclitee, secondo le quali tutte quante le cose sensibili sono in continuo flusso e di esse non è possibile scienza, mantenne queste convinzioni anche in seguito.
In questa sua ricostruzione storica del pensiero platonico, Aristotele ci sta suggerendo che Platone, per sfuggire al panta rei prospettato da Cratilo come dominatore del mondo, escogitò la dottrina delle idee come enti perennemente stabili e sottratti al costante divenire imperante nel mondo sensibile: in questa plausibile ricostruzione, Platone avrebbe mutuato da Cratilo la concezione (che mai avrebbe abbandonato) del mondo in incessante divenire e avrebbe proposto la dottrina iperuranica delle idee come antidoto; in questa maniera, l’essere parmenide e il divenire cratileo troverebbero entrambi posto in una realtà dicotomica per cui il mondo fisico diviene senza tregua e quello ideale è fisso nel suo essere immutabile. Potremmo a questo punto dire che le preziose testimonianze riportate da Aristotele ci hanno aiutato a far luce su Cratilo, se non fosse che anche Platone, all’interno dei suoi dialoghi, ci fornisce informazioni imprescindibili su Cratilo e – cosa paradossale – esse non solo non coincidono con quelle aristoteliche, ma addirittura dicono cose opposte. Ci troviamo pertanto nell’imbarazzante situazione di aver dinanzi a noi due Cratili diametralmente opposti: finora abbiamo preso in esame quello di Aristotele, ma ora è giunto il momento di analizzare anche quello di cui ci parla Platone, che a Cratilo dedica un dialogo che porta il suo nome (il Cratilo appunto), costruito intorno al problema del linguaggio. L’aspetto paradossale è che fin dalle prime pagine di quest’opera Cratilo ci è presentato (di contro a quello aristotelico, propugnatore del perenne divenire delle cose, dell’impossibilità di nominarle e di conoscerle) come il fervido sostenitore della dottrina naturalistica del linguaggio, tale per cui esso non sarebbe il frutto di una statuizione degli uomini (come invece sostiene l’altro interlocutore dell’opera, Ermogene), ma, al contrario, avrebbe un’origine naturale (kata fusin): che la sedia si chiami sedia, dunque, non è il frutto di un accordo con cui abbiamo stabilito di attribuire ad essa tale nome, ma è piuttosto come se la natura stessa dell’oggetto ci avesse suggerito il nome da attribuirgli. Significativamente, il dialogo platonico si apre con un’esposizione delle tesi cratilee da parte di Ermogene a un Socrate che entra improvvisamente in scena, senza nulla sapere della tenzone filosofica che vede i due contrapposti:
Cratilo, qui presente, sostiene che ciascun essere possiede la correttezza del nome che per natura gli conviene e che il nome non è quello col quale alcuni, come accordatisi a chiamarlo, lo chiamano, mettendo fuori una piccola parte della propria voce, ma che una correttezza riguardo i nomi esista per natura per Greci e barbari ed è la stessa per tutti. Io gli domando dunque se egli ha a nome Cratilo conforme verità ed egli ne conviene. “E che dire”, gli chiedo, “per Socrate?” “Socrate”, mi risponde.
Ne segue, allora, che – nominando le cose – si coglie in maniera fissa, stabile e incontrovertibile (l’errore non è in alcun caso possibile) la loro essenza: ma ciò è l’esatto opposto di quel che sostiene il Cratilo di cui parla Aristotele, quel Cratilo per il quale la realtà scorre così in fretta che non è possibile conoscere le cose né nominarle. Chi dunque – Aristotele o Platone? – dice il vero? E’ storicamente esistito il Cratilo aristotelico, quello del perenne fluire di ogni cosa, o quello platonico, dei nomi come copia infallibile della realtà? Non possiamo fornire una risposta certa, ma possiamo presumibilmente ritenere più attendibile la testimonianza aristotelica, soprattutto in riferimento al fatto che il Cratilo platonico è innanzitutto un piacevole divertissement di Platone (prova ne è l’ampia sezione dedicata alle etimologie, in cui Socrate si sbizzarrisce nelle etimologie più strampalate): del resto, che la cornice del dialogo venga nel Cratilo impiegata in maniera “ironica”, quasi come una prova di bravura dialettica, è provato dal fatto che Cratilo, in ogni situazione renitente ad accettare le tesi mediane di Socrate (a metà strada tra convenzionalismo e naturalismo), finisca poi per accettare con entusiasmo proprio la parte più caduca del discorso socratico, ovvero quella inerente alle etimologie; come se non bastasse, Cratilo è convinto che il Socrate delle etimologie sia invasato e parli per tramite di una divinità! Forse non è casuale, tuttavia, che il naturalismo di cui Cratilo è vessillifero porti in fin dei conti ad una sorta di relativismo in bilico fra eraclitismo e protagonismo, tale per cui è impossibile attribuire nomi falsi; ogni nome è giusto (è messa al bando la possibilità dell’errore, in maniera protagorea) perché dettato dalla natura stessa dell’oggetto di cui è nome, cosicché esso non fa che cogliere in maniera fissa ed infallibile l’essenza della cosa. Sulla serietà dell’Aristotele storico della filosofia, invece, non v’è dubbio alcuno, cosicché possiamo fidarci della sua testimonianza senz’altro più di quanto non possiamo nei confronti di quella di Platone, inserita in quello spaesante contesto rappresentato dal dialogo platonico. Dei due Cratili tramandatici dalla tradizione tende dunque ad imporsi, grazie alla voce veritativa di Aristotele, quello del panta rei , sebbene il fantasma del Cratilo naturalista dei nomi non possa del tutto dirsi allontanato.
ORFICI
L’orfismo è il più grande fenomeno religioso di carattere mistico che si affacci alla Grecia del sec.VI, in quel secolo così importante per la storia religiosa del mondo, giacché in esso vediamo sorgere Confucio e Lao-tse in Cina, il Buddha nell’India, Ezechiele tra gli Israeliti, Zarathustra nell’Iran, Pitagora tra gli Elleni. Il sec.VI è per la Grecia un’epoca di profonda trasformazione sociale. Esso segna la fine del così detto medio evo greco, che sta tra il crollo delle antiche monarchie rispecchiate dai poemi d’Omero e il sorgere degli Stati democratici di cui Atene è l’esempio più illustre. In questo secolo, che porta in sè la travagliosa gestione di una nuova èra, cadono le forti oligarchie in mezzo a convulsioni politico-sociali di cui quel tanto che sappiamo vale a darci un’idea, e attraverso questo doloroso travaglio il popolo acquista coscienza dei suoi diritti. In quest’epoca agitata l’orfismo rappresenta, nella religione, l’anelito alla liberazione da un regime di oppressione e di violenza, il sacro rifugio degli spiriti migliori, dove è promesso agli adepti conforto nel presente, libertà nel futuro. Perciò presso gli Orfici si trova così vivo l’orrore del sangue, così possente il desiderio della Giustizia (Dike) e della Legge (Nomos): Nomos e Dike, che così sovente ritornano nei frammenti orfici. Perciò a dio centrale della teologia e del culto orfico viene assunto Dioniso, il più giovane degli dei della Grecia, il dio caratteristico sopratutto per i suoi patimenti e per la sua morte ingiusta, il dio straniero e popolare venuto di Tracia, invece degli dei Olimpici che avevano fatto la gloria delle vecchie aristocrazie guerriere cantate da Omero. Perciò specialmente questo movimento mistico trova simpatica accoglienza presso i tiranni che si poggiano sul popolo per abbattere l’oligarchia. E così vediamo Onomacrito teologo orfico, fondatore della comunità orfica di Atene, vivere alla corte dei Pisistratidi e Clistene tiranno di Sicione attribuire a Dioniso gli onori mitici della spedizione dei Sette contro Tebe e proibire ai rapsodi omerici di entrare in Sicione perché esaltano i Dori argivi e l’aristocrazia. Se questi sono i motivi di carattere politico-sociale che hanno suscitato o almeno oltremodo facilitato il rapido diffondersi dell’orfismo, che cosa dobbiamo pensare del fondatore, di Orfeo, il leggendario cantore tracio, capace di attirare non pur gli animali, ma tutta la natura al suono fascinatore della sua lira? La sua figura mitica ha in sè cotanti elementi, riflesso del sistema religioso che da lui prende nome, che non è più possibile delinearne la figura originale1. Egli infatti è originario di Tracia, come tracio è Dioniso, la divinità centrale dell’orfismo; egli muore di morte dionisiaca in quanto viene sbranato dalle baccanti; a lui sono attribuiti inni, oracoli, formole catartiche che costituiscono il bagaglio dell’orfismo posteriore. Sicché l’Orfeo della tradizione ci appare piuttosto figlio che padre della religione che porta il suo nome. Ma checché si debba pensare della sua figura storica, certo alle origini del movimento orfico deve esserci stato un Orfeo, ossia un uomo di profondo ingegno teologico e di profonda ispirazione religiosa, il quale ha sollevato il preesistente mistero dionisiaco alla sua sublimazione orfica, inquadrandolo in una cosmogonia filosofica e sviluppandone le prescrizioni morali in vista del destino superiore riservato all’anima dell’iniziato ai misteri di Orfeo. L’orfismo infatti ci si presenta come una sistemazione teologica dei misteri di Dioniso. Gli Orfici hanno accettato la figura di questo dio il più estraneo al pantheon olimpico, il più vicino all’anima del popolo per la sua vita fatta di emozioni profonde; hanno accettato anche il rituale di uccisione dell’animale sacro con ingestione delle sue carni crude (omwjagia); ma hanno considerato questo sacrificio, come il memoriale, la riproduzione di un sacrificio primordiale, in cui Dioniso, sotto la forma di toro, subì per altrui violenza lo sbranamento (sparagmoz): odioso deicidio, gravido di conseguenze per la storia dolorante dell’umanità, ma dal quale è pur scaturita la scintilla divina che si cela nella cenere della nostra materia, che solo la disciplina orfica può liberare facendola risalire al suo principio. Nella teologia orfica il mito di Dioniso viene inquadrato in una cosmogonia, la quale, presso un popolo, in cui era viva la tradizione di Esiodo, non poteva essere che quella esiodea, almeno come trama fondamentale, salvo quelle modificazioni che i caratteri peculiari della nuova credenza esigevano. Anche fra gli Orfici (e ne dobbiamo a Ferecide di Siro l’elaborazione conservataci dai frammenti del suo Pentemuchos “l’antro dai cinque fondi”, che sarebbero le cinque parti o elementi dell’universo: acqua, aria, terra, fuoco e tartaro) il mondo ordinato, il cosmo si sviluppa da un caos primitivo, per virtù di impulsi successivi, dovuti a figure divine, le quali però più che un valore naturistico, come nella teogonia esiodea, hanno un valore filosofico morale, conforme al pensiero orfico. Tre sono le essenze primordiali Zas (da zhn = vivere) che è il principio della vita; Chronos, il principio del tempo; Chthoniè, il principio della materia. Sono queste che operano l’ordinamento del mondo dopo una lotta che Chronos sostiene contro Ophioneus, il serpente, che è il principio del caos, lotta che ricorda quella della Cosmogonia babilonese tra il luminoso dio ordinatore Marduk contro il dragone Tiàmat. Secondo un’altra versione, raccomandata alle così dette Rapsodie (orfiche) il cui contenuto ci è conservato da Damascio, neoplatonico del sec.VI d. C., i tre elementi primordiali sono Chronos, Aither e Chaos. Chronos fabbrica nel seno di Aither un uovo da cui esce Phanes, il Brillante. Questi si accoppia con la Notte oscura e produce la coppia terra e cielo, da cui – secondo la ferrea legge di Adrastea, la Necessità che impera su tutto l’universo – nasce il vecchio Krono, che genera Zeus il quale a sua volta genera, da Persefone, Dioniso. Con Dioniso il mondo divino si riannoda all’umano. L’accoppiamento di Phanes con Nyx, del luminoso con la tenebrosa, è un motivo nuovo nella teogonia dei Greci. La coppia generatrice primordiale non è più il cielo e la terra, coppia così ovvia nella sua limpidità naturistica che la si trova intuita ed esaltata anche dalla cosmogonia polinesiana: ma è la luce e le tenebre cioè il bene e il male, l’elemento dionisiaco e l’elemento titanico. Il Dioniso, figlio di Zeus e di Persefone, l’ultima figura delle generazioni divine, riceve nell’orfismo il nome particolare di Zagreo, col quale si riannoda in modo tutto speciale al mondo infero2. Egli ha ricevuto da suo padre lo scettro del mondo. Ma i Titani, figli della Terra, elemento oscuro e tenebroso – i quali si trovano qui forse anche in quanto possono rappresentare la trasformazione mitica di un elemento rituale del culto dionisiaco: la spalmatura di argilla (titanoz, che si operava sulla faccia degli iniziati) – aizzati dalla gelosa Hera ne insidiano l’esistenza e mentre Zagreo, ingenuo fanciullo, si diverte nei campi, lo traggono in inganno con vari oggetti (che corrispondono agli strumenti secondari del rituale orfico) tra cui più importante uno specchio. Egli cerca di sfuggire alla presa cambiando di forma, ma i Titani riescono a catturarlo proprio quando ha assunto quella di toro, lo fanno a brani e lo divorano crudo. Ma Athena salva il cuore di Dioniso e lo porta a Zeus, il quale lo trangugia e genera poi da Semele un nuovo Dioniso, gloriosa resurrezione dell’antico.
I Titani per la loro empietà sono colpiti dalla folgore di Zeus e dalle loro ceneri si forma il genere umano, nel quale perciò si trovano riuniti i due elementi, il bene e il male, il titanico e il dionisiaco, fusi insieme fin da quando i Titani divorarono il corpo divino di Zagreo3. Tutta la disciplina orfica consiste appunto nella liberazione dell’elemento luminoso, celeste, dionisiaco, che è l’anima, dall’elemento oscuro, materiale, titanico che è il corpo. In questa ricostruzione del mito di Zagreo, laboriosamente, ma in maniera definitiva operata dall’eruditissimo Lobeck, si ritrovano tutti gli elementi fondamentali dell’antico sacrificio dionisiaco: Dioniso sotto il nome di Zagreo, il toro sacrificale, lo sbranamento (sparagmos) della vittima, il pasto delle carni crude (omofagia). Questi elementi producono ritualmente ancora tutta la virtù religiosa perché il rito trae sempre dalle sue proprie viscere l’efficacia della sua azione indipendentemente dalle orientazioni del mito. Ma mentre nel concetto dionisiaco il sacrificio aveva l’inebbriante valore di una comunione estatica col dio, volta per volta rinnovata, nella teologia orfica il sacrifizio è il memoriale di una primeva immolazione che è un misfatto, un deicidio, da cui deriva la triste posizione dell’uomo su la terra, la sua oscura prigionia, dalla quale è lunga e difficile la liberazione. Sul destino dell’anima e sui mezzi per raggiungerlo riposano la morale e l’escatologia orfiche: morale ed escatologia di altissimo significato, che hanno offerto alla speculazione posteriore le più ricche fonti di ispirazione e alle anime pie le ebbrezze più dolci e le certezze più consolatrici. L’anima adunque per gli Orfici è di origine divina ed il corpo è una tomba (swma, shma) in cui essa è precipitata in seguito a una colpa primordiale. E la distanza che separa la prigione oscura del corpo dalla sede beata a cui l’anima anela di risalire si può abbreviare e sopprimere soltanto a prezzo di una espiazione, purificatrice, di una catarsiz. Questa espiazione si può compiere battendo due strade. La prima è quella delle rinascite poiché non basta una sola vita a compiere l’espiazione e l’anima è condannata a trasmigrare di corpo in corpo, in una successione di vite che ritorna in se stessa come un circolo : il cerchio della generazione (o cucloz thz genesewz) che gira inesorabilmente, come una ruota, la ruota del Destino (o thz Moiraz trocoz). Quest’idea, derivata certo dalla credenza popolare della trasmigrazione delle anime, che si riscontra nel folklore di tutti i popoli e può assurgere, come in India è assurta, a grande altezza di significato filosofico, ha avuto nell’orfismo uno sviluppo assai grande. La visione di questo ciclo inesorabile pesa su gli occhi e su l’anima dell’orfico e la sua più grande gioia è di poter gridare la rottura della ruota e il ritorno dello spirito liberato al suo principio4.
La seconda strada è quella della purificazione nell’Ade luogo di terrori e di delizie dove l’anima scende dopo la morte, ma dove non trova ad ogni modo la sua gioia, anche nella più gaudiosa delle situazioni, perché il suo unico gaudio è di riunirsi al suo principio ch’è Zagreo. Per raggiungere lo scopo suo finale che è di riunirsi alla divinità, di fondersi in quell’Uno che soffre e si perde effondendosi nella pluralità delle creature, come si esprimevano filosoficamente i neoplatonici cresciuti nel solco del pensiero orfico, l’Orfico si impone una vita di purità, di ascetismo, di purificazioni cerimoniali, i cui meriti erano applicabili anche ai defunti, e le cui prescrizioni erano contenute in appositi rituali e venivano da sacerdoti orfici eseguite a beneficio di privati e di città. Anche segni esteriori contraddistinguono chi mena una vita siffatta: una veste bianca; orrore di tutto che implica un contatto mortuario, come a) la vicinanza delle tombe, b) il mangiare i legumi che sono l’offerta precipua che si fa ai defunti, c) il vestir di lana, anche nella tomba, perché la lana fu il mantello di un animale, d) il gustare uova e carne, perché anch’esse in contatto con le anime peregrinanti nei cicli vari della metempsicosi; fuggire la generazione dei mortali (cenesin broton) nel senso assai diffuso, di evitar la polluzione della partoriente. Queste prescrizioni sono tutte contenute in un prezioso frammento euripideo che si può considerare come il più importante documento della liturgia orfica. Esso appartiene ad una tragedia perduta, intitolata I Cretesi, il che si spiega considerando che in Creta il culto e il mito di Dioniso si era fuso con quello indigeno di Zeus Ideo, un dio anch’esso che nasce e muore, dal nome ignoto, che soltanto per sua grande importanza nell’isola fu dai Greci assimilato alla loro massima divinità olimpica, di origine e di etimologia indoeuropea: “Io meno una vita santa da quando son divenuto iniziato di Zeus Ideo ed essendo pastore del nottivago Zagreo, ho compiuto la celebrazione omofagica ed ho agitato le fiaccole in onore della madre dell’Ida. Santificato ho ricevuto il titolo di Bacco, tra i Cureti. Ora io indosso bianchissime vesti e fuggo il parto dei mortali, né mi accosto alle tombe e mi guardo dal cibarmi di esseri animati”. Per chi ha condotto un’esistenza pura si apre, al di là della tomba, una prospettiva che ha fatto palpitar di speranza generazioni e generazioni di Orfici ed ha dettato a Pindaro un’alata descrizione. Nell’Ade orfico regnano Eubuleo (il ben consulto) che è epiteto di Dioniso infero, Ade detto anche Eukles (il ben nomato) e sopratutto Persefone che predomina nella concezione orfica popolare. Vi sono due vie principali che si diramano dall’ingresso, a destra e a sinistra a foggia di un Y, e menano ai prati fioriti dei buoni, al Tartaro punitore dei malvagi. Vi scorre il Lete o fiume dell’oblio, proprio dell’Ade ove non v’è ricordo della vita, concetto caro agli Orfici che hanno abbandonato la vita oscura del mondo per attingere in Zagreo la scaturigine della vita divina. Appena entrato nell’Ade l’Orfico deve prendere non la sinistra via infausta, degli spiriti mali, segnata da un pioppo bianco, ma la destra che lo guida alla fonte di Mnemosine, da cui appositi guardiani tengono lontano chi non ha avuto il privilegio dell’iniziazione. Dà la parola d’ordine che lo dichiara figlio di Urano e Gaia, del cielo e della terra, ossia partecipe del composto dionisiaco e titanico conforme al mito cosmogonico della setta e domandano alla Regina degli Inferi, Persefone, che lo giudichi (è questo un concetto nuovo prettamente orfico) e lo destini alla dolce primavera dei suoi campi nell’attesa del finale ritorno nell’Unico Zagreo. Tutta questa escatologia ci è esposta dall’una o dall’altra delle laminette auree trovate in tombe orfiche5 nella Magna Grecia, a Roma, in Creta. Queste laminette lunghe pochi centimetri, ripiegate più volte come pezzettini di carta, sono state trovate appese al collo o a portata della mano del defunto come guida e promemoria e amuleto insieme del suo viaggio ultramondano. Contengono formule brevi (e per due di esse incomprensibili) di carmi apocalittici orfici in cui si effondeva la vita devozionale degli adepti e dove era affermata la loro fede ed esaltata la loro speranza. Si trovano ora nel Museo di Napoli (cinque), nel Museo Britannico (due) e in quello di Creta (quattro). Una trattazione, sia pur breve, su l’orfismo non può prescindere dalla lettura di queste vetuste laminette, che hanno anche il pregio di essere documenti originali della fede orfica a noi consegnati quasi dalla mano stessa dei defunti. Vi si sente fremere un desiderio di purificazione, un anelito verso il meglio, una sete di vita divina, che non trova l’uguale nella esperienza religiosa dell’antichità classica e che è la fonte di quanto Eschilo, Pindaro, Platone tra i Greci; Cicerone e Virgilio tra i Latini hanno scritto ad esaltazione della speranza religiosa. Si legge nella laminetta proveniente dall’antica Petelia presso l’attuale Strongoli in Calabria, trovata nel 1834, ora nel Museo Britannico: “E tu troverai a sinistra della casa di Ade una fonte e ritto ivi presso un cipresso bianco; a questa fonte tu neppure ti accosterai da presso; un’altra ne troverai scorrente fresca acqua dal lago di Mnemosine; guardiani vi stanno dinanzi. Dirai: “Figlio di Gea son io o di Uranos stellato, e celeste è la mia stirpe, e ciò pur voi sapete. La sete mi arde e mi consuma; or voi datemi subito della fresca acqua scorrente dal lago dì Mnemosine”. Ed essi ti lasceranno bere alla fonte divina ed allora tu in seguito regnerai con gli altri eroi”. Questa laminetta è la più importante per la topografia dell’Ade orfico e per quella formola breve e recisa in cui è racchiusa la dottrina fondamentale dell’orfismo: emoi genoz ouranion “la mia stirpe è celeste”. Nella certezza di questa dottrina, che anche gli déi sanno, è riposto per l’Orfico il pegno della sua sorte futura. L’Orfico è di cielo ed al cielo deve tornare. Altre quattro laminette trovate in due tombe diverse presso l’antica Thurii (attuale Terranova di Sibari) nel 1879, ora nel Museo di Napoli, sono caratteristiche per nuovi elementi che offrono e che più efficacemente risalteranno dalla lettura. Delle quattro la prima scritta in verso e prosa è stata trovata nel timpone (o tomba a tumulo) grande di Thurii, e dice: “Ma quando l’anima ha abbandonato la luce del sole bisogna che vada da un tale, di sagace intelligenza, che osserva bene ogni cosa. Salve! Col sopportare questo patimento tu non più oltre hai patito, da uomo sei diventato dio: capretto caduto nel latte. Salve. Salve o tu che hai preso la via destra verso i sacri prati e i boschi di Persefone”. Quell’Uno di sagace intelligenza è Pluto il giudice dell’Ade; concetto nuovo nell’escatologia dei Greci per i quali l’Ade racchiude in una uguale vita incolore i buoni e i tristi, i valorosi e gl’inetti, Achille e Tersite. Mentre con gli Orfici si introduce la sanzione del bene e del male, che cambia l’orientamento morale della vita ed è indice di un elevamento della coscienza non solo individuale ma anche sociale. Il patimento che l’anima ha sopportato è il ciclo delle nascite, la legge ferrea della trasmigrazione, da cui la espiatrice vita orfica l’ha liberata. Ed è impressionante quel senso di sollievo, quel salve! ripetuto tre volte come un ebbro compiacimento per la sorte beata dell’anima ormai libera dal duro contatto col male e colle tenebre. Le altre laminette, a, b, c, trovate pure a Thurii ma nel timpone piccolo in una sepoltura unica di famiglia o di sodalizio, sono la copia di un medesimo originale, salvo, nella seconda e nella terza, un’affermazione capitale per la teologia orfica, e un maggiore sviluppo che la prima contiene sul volo dell’anima dopo rotto il cerchio fatale. La laminetta a: “Io, pura fra i puri, vengo a voi o regina degl’inferi o Eukles o Eubuleo, e voi altri dei immortali! Poiché io mi pregio di appartenere alla vostra stirpe beata. Ma la Moira e il balenare del fulmine mi abbattè inaridendomi. Ma io me ne volai via dal cerchio luttuoso e duro e con rapido piede raggiunsi la bramata corona, e discesi nel grembo della signora regina infernale. Felice e beatissimo te che da uomo divenisti dio. Capretto, io caddi nel latte”. Le laminette b e c: “Io pura fra i puri vengo a voi o regina degl’inferi, o Eukles, o Eubuleo, e tutti quanti altri siete déi e spiriti. Poiché io mi pregio di appartenere alla vostra stirpe beata. Ma la Moira e il balenare del fulmine mi abbatté inaridendomi. Questa punizione fu inflitta a causa di opere non giuste. Ora io supplichevole vengo innanzi alla santa Persefone affinché benigna mi mandi nelle sedi dei pii”. Queste tre laminette (a, b, c), di Thurii sono notevoli:
1° – per l’affermazione della purità che contraddistingue l’orfico, il quale da se stesso si chiama il puro che vive in una schiera di puri: “Io pura fra i puri vengo a voi ecc.”;
2° – per l’affermazione in b e c di quella ingiustizia, di quella colpa iniziale (che è il deicidio di Zagreo) di cui tutte le anime hanno pagato il fo subendo la fulgurazione di Zeus nella persona dei Titani e soffrendo nel corpo che le imprigiona una sete che le inaridisce;
3° – per lo slancio con cui l’anima spezza i lacci della sua prigionia e se ne vola a raggiunger la bramata corona, slancio paragonato con efficace similitudine al volo (exeptan) di un uccello liberato dalle reti;
4° – per la frase caratteristica: “Capretto, io son caduto nel latte” che si trova in a e che ricorda quella (formulata in seconda persona) del timpone grande di Thurii: “tu capretto sei caduto nel latte”. Questa frase significa non il ritorno dell’anima (il capretto) nella Via Lattea, cioè nel cielo; non un rito d’immersione dell’iniziato in un bagno di latte e nemmeno una semplice locuzione proverbiale nel senso che l’iniziato sia puro come un capretto lattante. Ma significa, conforme al meccanismo mistico dell’iniziazione, che l’iniziato assimilandosi al divino capretto che è Dioniso (il quale è difatto appellato erijoz nei cosiddetti inni orfici) è diventato un Dioniso anche lui: e che si è immerso nel latte, cibo del capretto nato di fresco, in quanto anche l’Orfico, attraverso l’iniziazione si è tuffato in una vita nuova e divina, fatta di quella purità di cui il candido latte, alimento di neonati e alimento di vegetariani doveva essere presso gli Orfici l’espressione più ovvia e più conveniente. Essa equivale a quest’altra: “Io nuovo Dioniso, ho raggiunto la vita divina”.
Il che è confermato dal fatto che la frase viene, nei due casi in cui è ricordata, subito dopo l’affermazione recisa: “da uomo sei diventato dio”, quasi fosse l’espressione trasparente della trasumanazione dell’Orfico, del suo assorbimento nel dio, del suo indiarsi attraverso l’iniziazione mistica. Altre tre laminette, tutte uguali, ora conservate nel Museo di Atene, sono state ritrovate nel 1893 presso Eleutherna in Creta, dove il culto di Zagreo aveva, come abbiamo accennato, una larga diffusione. Contengono tre soli versi che dovevano appartenere al medesimo carme apocalittico della laminetta di Petelia: “Ardo di sete e mi consumo. Or via, ch’io beva della fonte perenne, a destra, là dov’è il cipresso. Chi sei tu? donde sei? Figlio di Gea son io e di Uranòs stellato”. Questi versi nella loro brevità sono di una eloquenza impressionante. Quella sete che consuma l’anima non è più l’arsura materiale che tutti i primitivi attribuiscono ai defunti e a cui provvedono fornendo al cadavere orciuoli di acqua e pregando per il suo rinfrescamento o refrigerio, ma è la sete della beata immortalità che sì attinge alla fonte di Mnemosine, unico possibile refrigerio per chi sa di esser figlio del cielo stellato. E l’anelito a ricongiungersi al divino principio da cui è uscita e 1’accoramento, quasi, con cui implora l’acqua rinfrescante di immortalità, sono una prova efficacissima dell’elevazione mistica a cui l’orfismo poteva sollevare i suoi fedeli. Resta da menzionare l’ultima laminetta, che può rimontare al II secolo d.C., trovata in Roma sulla via Ostiense e pubblicata nel 1903, ora conservata nel Museo Britannico. Appartiene a una pia matrona romana, Cecilia Secondina, e rappresenta il primo caso in cui si trova il nome dell’iniziato, caso spiegabile però su terra di Roma, dove nemmeno la religione dimenticava tutte quelle norme e precauzioni giuridiche che servivano a individuare le persone e a fissare le cose, nei rapporti tra gli uomini e la divinità. Cecilia Secondina era ascritta a uno di quei sodalizi orfici che avevano continuato a vivere in Italia non ostante la severissima soppressione, ordinata dal Senato, dei Baccanali6 cioè del culto orgiastico di Dioniso, perché l’orfismo, come abbiamo più sopra accennato, si differenzia dalle celebrazioni dionisiache per una sua caratteristica tutta speciale di equilibrio religioso, di speculazione filosofica e di elevazione morale. Dice la laminetta di Cecilia Secondina: “Viene, pura fra i puri, a voi o regina degl’inferi, o Eukles, o Eubuleo, un’anima, nobile figlia di Zeus. Io Cecilia Secondina ho avuto da Mnemosine questo dono, tanto decantato tra gli uomini, perché ho sempre trascorso la vita nell’osservanza della Legge “. Si sente bene che si tratta qui di una Romana, che ha inquadrato il suo misticismo religioso entro una severa cornice etica. Non si leva a voli mistici Cecilia Secondina, non lamenta seti tormentose. Essa dichiara la sua prerogativa di “pura tra i puri”, cioè di orfica, vanta la sua stirpe divina ed afferma di aver avuto il dono di Mnemosine, cioè la beatitudine per aver sempre vissuto secondo la Legge, cioè secondo la disciplina orfica. Nel suo laconismo questa breve laminetta romana non è meno preziosa delle altre. Essa dimostra la persistenza dei sodalizi orfici in piena epoca imperiale, in ambiente completamente estraneo, sia come origine sia come tenore di vita, a quello in cui l’orfismo fiorì. Essa dimostra come questo ideale fosse ancor capace d’imprimere un nuovo orientamento alla vita e di farla trascorrere con l’austera gioia del dovere compiuto, sopra la via tracciata dalla Legge morale. La misteriosofia orfica ha avuto su terra greca prima, nell’ambiente ellenistico poi, delle ripercussioni religiose di prim’ordine. Essa ha innalzato l’anima religiosa dei Greci, ha nobilitato la visione morale della vita, ha irradiato dì luce beata le tenebre fino allora oscure dell’oltretomba, ha dato agli uomini la divina certezza di guardare in alto al cielo come a loro patria, ed ha suggerito loro i mezzi appropriati, la Legge, per camminare in purità di vita, conservando l’anima candida come la veste prescritta dal rituale. La sua influenza su le manifestazioni del pensiero e dell’arte è incalcolabile. Il più inebbriante dialogo platonico, il Fedone, è un dialogo orfico; la tragedia dell’ebbrezza divina in Euripide, le Baccanti, è una tragedia dionisiaca; quel famoso Sogno di Scipione, in cui Cicerone ha consegnato in momenti di sconforto il suo grido di speranza e d’immortalità, è un sogno orfico; il libro sesto di Vergilio, la cui lettura commosse Livia fino al deliquio, è stato scritto sotto l’ispirazione orfica. E se si considera quel fermento spesso incomposto e squilibrato d’idee che all’alba del cristianesimo dilagò in Oriente sotto il nome complesso di gnosticismo, si troverà ancor lì, giuntovi per mezzo della grande corrente neoplatonica, sia pur rafforzato da elementi dualisti iranici e da speculazioni astrali babilonesi che poi culmineranno nella strana religione manichea, quello che è il pensiero centrale dell’orfismo: che l’uomo è un miscuglio di bene e di male, che l’anima è un raggio di luce divina nelle tenebre della materia e che tutto il dovere dell’uomo consiste nel procurarsi la gnosi, la dottrina vera che gli insegna insieme la realtà di questa sua situazione e gli addita la via della liberazione.
Gli elementi di questo pensiero – che come intuizione oscura non è estraneo alla mentalità popolare di ogni tempo, per poco che consideri la tristezza della sua realtà e la paragoni con il fulgore del suo sogno – sono suggeriti già dal culto orgiastico di Dioniso il quale, sollevando le anime durante l’ebbrezza mistica a uno stato sopranormale, dette loro la sensazione viva di una vita divina, più gaudiosa di quella ordinaria, che l’anima può vivere in quei momenti speciali. Il grande movimento orfico, sorto in un’epoca in cui gli spiriti migliori sentivano il bisogno di uscire dalla distretta dolorosa di un mondo in convulsione, assorbì il mistero dionisiaco e ne fece la piattaforma del suo sistema teologico, la fonte dispensatrice dei suoi carismi religiosi. La Grecia non ci ha dato nulla di più alto in materia di esperienza religioso-mistica.
N. Turchi
NOTE:
1 – L’etimologia stessa del nome è assai incerta. Il Kern ha recentemente accettato quella che lo ricollega con orjanoz (lat. orbus) nel senso di solitario, il che quadra con la sua concezione degli Orfici come di gente, in un primo tempo, solitaria, appartata e poi strettasi nelle note conventicole orfiche. Data la parte larghissima che le preoccupazioni ultramondane hanno nell’orfismo, il nome di Orfeo può riconnettersi, secondo un’etimologia suggerita già da G. Curtius, a quello di ereboz (rad. orj = tenebre) in relazione all’oscurità dell’Ade: si hanno di fatti: Orphos dio del mondo infero, Orphne ninfa del lago Averno, Orphnaios cavallo di Plutone. Orfeo infatti secondo il mito scende nell’Ade, donde cerca di trarre fuori Euridice, divinità anch’essa del mondo infero. Assai più strana è l’etimologia proposta recentemente da R. EISLER, Orpheus, the Fisher, London, 1921, il quale poiché i pesci nel santuario di Apollo in Licia erano detti drjoi fa di Orfeo il “pescatore”.
2 – Zagreo infatti è giusta l’Etym. Gud. 227, 37 il gran cacciatore (di anime) che travolge ogni cosa: divinità ctonica e perciò considerata come figlio di Persefone.
3 – Olympiod. ad Phaed. p. 68 [45]; Procli ad Remp. f. 55 v. [44]. Secondo Pausania 8, 37, 5, [38] Onomacrito – il quale era stato il primo ad introdurre in Atene, a tempo di Pisistrato, il culto segreto di Dioniso – fu quegli che introdusse i Titani nel mito di Zagreo.
4 – Anche Pitagora professa la medesima dottrina. Ma conviene rilevare che non è stato Pitagora a parteciparla agli Orfici, ma che l’uno e gli altri l’hanno attinta alla stessa mentalità popolare. Se mai, Pitagora è tributario dell’orfismo posto che Diogene Laerzio [1, 119] lo fa discepolo di Ferecide di Siro. Orfismo e pitagorismo sono due aspetti della medesima tendenza religiosa: più entusiasta, visionario, individualista, democratico, lirico, l’orfismo; più ponderato, dotto, disciplinato, aristocratico, scientifico, il pitagorismo. Distrutto l’organismo politico creato nella Magna Grecia con centro a Crotone, la parte scientifica del pitagorismo rimase in eredità alle scuole filosofiche e quella morale all’orfismo. Cfr. DELATTE, Essai sur la politique pythagoricienne, Paris 1922.
5 – Il modo di sepoltura prescelto dagli Orfici, quale almeno si può studiare nella necropoli di Thurii (Terranova di Sibari) attesta anch’esso il nuovo orientamento di pensiero e di vita portato da questa religione. Gli Orfici seguivano indifferentemente il rito della inumazione (timpone piccolo) o della cremazione (timpone grande), ponevano il cadavere o i resti inceneriti sotterra ricoperti da un bianco lenzuolo tra massicci blocchi di tufo. Presso il capo o vicino alla mano destra collocavano le preziose laminette. Del resto non lusso di marmi, non ricordo di nomi. I loro sepolcri in cui più persone della stessa famiglia o dello stesso sodalizio potevano essere sepolti (ma non estranei alla fede orfica, conforme alla prescrizione contenuta in una iscrizione cimiteriale cumana illustrata dal Comparetti, Laminette p. 47 ss. “ou temiz entouqa ceisqai ei mh ton bebacceumenon : Non è lecito seppellire qui chi non sia iniziato a Dioniso”) sono venuti crescendo in forma di tumuli emergenti sul piano di campagna a causa dei detriti di celebrazioni funerarie compiute sopra di essi. Donde il nome caratteristico, che tuttora essi conservano, di timponi (da tumboz, tumulo funebre). Vedine la particolareggiata descrizione in CAVALLARI, Not. Scavi, 1879 p. 80 ss. riprodotta in COMPARETTI, Laminette p. 5 ss.
6 – Le circostanze che indussero il Senato alla soppressione del culto di Dioniso sono lungamente narrate da Tito Livio, 39, 14-19 [32] da cui si rileva il carattere orgiastico tutto proprio di quei misteri. Il Senatusconsulto, che Livio riassume, ci è conservato da una tavola di bronzo, ora a Vienna, destinata all’”Agro Teurano” e ritrovata nel 1640 presso Catanzaro [31]. Le disposizioni ne erano severissime: potevano sussistere congregazioni dionisiache, là dove un decreto del pretore urbano le avesse permesse, previa autorizzazione del Senato, purché non comprendessero più di cinque membri di cui due uomini e tre donne. Secondo S. REINACH, Une ordalie par le poison à Rome et l’affaire des Bacchanales in “Cultes, Mythes et Religions” III, 244 ss., l’episodio va spiegato come una misura di repressione politica in quanto il Senato vincitore dei Cartaginesi e dei Cisalpini temeva una coalizione del mondo ellenico (Macedonia e Siria) che avrebbe potuto trovare nell’Italia meridionale un aiuto assai efficace.
G. DE SANCTIS, Storia dei Romani vol. IV, I, Torino, 1923, p. 599 approva la giustificata diffidenza del Reinach circa la credibilità del racconto liviano ed attribuisce la esagerata repressione al prevalere delle tendenze conservative, dopo la decadenza del predominio degli Scipioni.
PITAGORICI
Con i Pitagorici ci troviamo per la prima volta di fronte ad un’autentica scuola filosofica, sebbene molto arcaica e rudimentale. Siamo in pieno VI secolo a.C. e la scuola filosofica assume il carattere di scuola mistica: i contenuti si rispecchiano infatti parzialmente nella setta degli Orfici, mentre le pratiche sono assolutamente uguali: basti pensare che per entrare a far parte della scuola bisognava essere sottoposti ad un rito di iniziazione Sicchè, più che di una scuola, si tratta di una comunità filosofica, religiosa e politica (in certo senso si può anche parlare di “setta” religiosa) i cui membri conducevano vita comune e venivano iniziati. Tutti i pensatori che lavorarono in questa scuola vengono generalmente chiamati Pitagorici, dal nome del loro maestro Pitagora. Oltre a segnare il passaggio di secolo, Pitagora e la sua scuola segnano anche il passaggio della filosofia dalla Grecia e dalle zone della Ionia alla Magna Grecia. Cerchiamo di analizzare le vicende di Pitagora, benché la sua figura sia avvolta da un’aura di mistero: egli nacque a Samo e vi restò finchè non salì al potere un tiranno – Policrate di Samo – sfavorevole all’aristocrazia, nella quale Pitagora si identificava pienamente. Quello di Policrate non è un caso isolato: tutto il V secolo in Grecia (e non solo) è infatti una fase di passaggio da aristocrazia a democrazia (i tiranni infatti erano appoggiati dal popolo). Così Pitagora si vide costretto a fuggire esule a Crotone, nell’attuale Calabria. Ed è qui che egli fondò la scuola, la quale incontrò ben presto un irresistibile successo presso i ceti aristocratici ed i Pitagorici acquisirono un peso determinante nella vita politica di Crotone e delle località limitrofe. Nella scuola l’insegnamento, originariamente, non era affidato allo scritto, ma era impartito oralmente. Inoltre, entrare a far parte della scuola era molto difficile e quando si entrava non vi era la libertà di agire a piacimento: per un po’ di tempo si era, per così dire, Pitagorici “in prova”, acusmatici, ossia ascoltatori di precetti che venivano impartiti senza che venisse mostrato il perchè: gli acusmatici di loro non dicevano nulla, ma si limitavano ad imparare i precetti dei Pitagorici già maturi . Interessante è il modo di definizione pitagorico: se ad esempio veniva loro chiesto che cosa fosse bello, rispondevano dicendo la cosa più bella. Era come se trasformassero la domanda “che cosa è bello?” in “quale è la cosa più bella?”. E’ interessante notare che Aristotele (Metafisica, I), quando ci parla dei vari filosofi che l’hanno preceduto, lo fa singolarmente, ma nel caso dei Pitagorici descrive collettivamente: la scuola stessa era caratterizzata da una vita collettiva (con tanto di comunione dei beni), religiosa e politica, in cui i legami interni erano fortissimi. A Pitagora fu attribuita la valenza di profeta e la sua figura sfumò presto nella leggenda. Le dottrine della scuola erano segrete e anche dopo la morte di Pitagora continuarono ad essere a lui attribuite le variazioni e le evoluzioni, immaginando che parlasse tramite la divinità: da qui nacque la famosa espressione ipse dixit (“l’ha detto lui in persona”), con la quale si indicava che ogni elaborazione non era altro che uno sviluppo delle dottrine del maestro Pitagora. Proprio per questo non sappiamo se il celebre teorema di Pitagora sia effettivamente suo o di qualcun altro a lui vicino. Tutto però ebbe fine quando nel 510 circa vi fu una rivolta democratica a Crotone che portò alla distruzione della scuola, che era di schieramento aristocratico. La tradizione narra che l’ opposizione democratica crotoniate, guidata da un certo Cilone, assalì i Pitagorici nella loro sede e ne fece morire un gran numero nelle fiamme. Sembra poi che il Pitagorismo abbia perfino influenzato le civiltà “barbare” e che il re Numa Pompilio sia stato un pitagorico, ma molto probabilmente si tratta semplicemente di leggende. Si dice spesso che i Pitagorici fossero anti-femministi, aspetto che per altro era caratteristico dell’intera società greca, ma probabilmente non è corretto: basti pensare che nella scuola le donne erano accettate. Entriamo ora nell’ambito delle dottrine pitagoriche: tratto saliente dei Pitagorici è il marcato ascetismo a cui essi fanno capo: la pratica di non mangiare carni (la commedia greca ce li rappresenta ironicamente come dei morti di fame) e la credenza (di marca orfica) nella trasmigrazione delle anime e nelle loro espiazioni di colpe sono i pilastri della vita pitagorica; con loro prende via la tradizione del corpo come tomba dell’anima destinata – attraverso Platone prima e attraverso il cristianesimo dopo – a segnare in maniera indelebile la cultura occidentale. La cosa curiosa è che Pitagora ci è presentato come politico, come etico, come fisico e come matematico: insomma, come una figura a trecentosessanta gradi. Nel primo libro della Metafisica, Aristotele attribuisce ai Pitagorici la dottrina per cui i numeri costituiscono l’essenza di tutte le cose, tant’è che per lo Stagirita essi rientrano tra i primi indagatori della natura, sebbene non rinvengano l’arch in un unico principio, ma in una miriade di principi (i numeri); il che fa di loro non già dei monisti, bensì dei pluralisti. Tuttavia non è chiaro a quali Pitagorici faccia riferimento Aristotele (a quelli originari o a quelli a lui contemporanei?): pare difficile che egli alluda ai primi, anche perché la tradizione attesta che il nucleo originario dei loro insegnamenti fosse rigorosamente impartito per via orale e, come se ciò non bastasse, i destinatari erano tenuti al silenzio; solo più tardi, con Filolao di Crotone e Archita (IV secolo a.C. quasi), i Pitagorici mettono per iscritto le loro dottrine ed è dunque presumibile che ad essi alluda Aristotele. Due risultano essere le più importanti dottrine formulate dal Pitagorismo . La prima è quella della trasmigrazione delle anime, di derivazione orfica: l’Orfismo trovò fertile terreno di sviluppo nell’Italia Meridionale e senz’altro sostenne la dottrina della trasmigrazione delle anima prima dei Pitagorici. Sembra quindi che Pitagorismo e Orfismo siano la stessa cosa, ma non è così. L’Orfismo è di carattere maggiormente religioso, il Pitagorismo è più filosofico. Ma vi è poi un’altra grande differenza, che consiste nei mezzi con cui si può raggiungere il fine (la purificazione): per gli Orfici occorreva compiere riti e vivere in modo giusto, per i Pitagorici bisognava sì vivere in modo giusto e compiere riti, ma anche (e soprattutto) conoscere i numeri, che stanno alla base della dottrina pitagorica. La seconda grande dottrina pitagorica è appunto quella dei numeri, che è legata, come abbiamo visto, alla precedente. I Pitagorici furono dunque i primi greci ad occuparsi in maniera sistematica della matematica. Essi Ritenevano che i principi della matematica fossero anche i principi dell’intera realtà. Notarono infatti che la matematica aveva tutti i principi adatti per essere presa come principio dell’intera realtà. Essa non è un’opinione e Aristotele stesso dirà che gli oggetti di studio della matematica sono permanenti ed immutabili. Se ad esempio prendiamo la musica, gli accordi non sono nient’altro che rapporti matematici. Proprio partendo da questo esempio, che è il più evidente, estesero le loro dottrine all’intera realtà, così come aveva fatto Talete con il magnete. Così come Talete aveva notato che tutte (o quasi) le cose sono caratterizzate dall’acqua, i Pitagorici notarono che tutte le cose sono caratterizzate dalla misurabilità, vale a dire che si possono misurare. Chiaramente questo segnò un grandissimo passo avanti verso l’astrazione. Bisogna senz’altro riconoscere un merito ai Pitagorici: per loro infatti la fisica è spiegabile tramite la matematica. Il loro rapporto con la matematica non è puramente metodologico, come è per noi, ma anche ontologico: non si tratta per loro di studiare solo i numeri, ma anche la realtà, servendosi dei numeri. Nonostante i Pitagorici abbiano avuto la grande intuizione di applicare la matematica per indagare la realtà, non se ne sono serviti poi molto. Il motivo di questo loro limite è dovuto in gran parte alla mancanza di strumenti concettuali e materiali. Non potendo fare della matematica un uso effettivo, essi finirono per provare a cogliere delle somiglianze tra le caratteristiche dei numeri e quelle della realtà. Per esempio, arrivarono a dire che il numero due corrispondeva al genere femminile, il tre al maschile, il cinque al matrimonio (3+2 = 5). Il quattro ed il nove corrispondevano invece alla giustizia in quanto erano i primi numeri quadrati e suggeriscono l’idea di ordine. Nel tempo stesso va detto che la speculazione numerica pitagorica non può non essere stata influenzata dall’ osservazione dei fenomeni astronomici: dagli astri essi debbono aver tratto le loro prime idee dei numeri aventi posizione, cioè fissati come punti nello spazio, degli aggruppamenti numerici formanti figure geometriche definite e costanti , della ricorrenza di alcuni numeri nei fenomeni celesti. In altre parole, il numero viene elevato a principio universale di interpretazione, via via che é esteso dall’ ordine aritmetico a quello geometrico e, finalmente, all’ ordine fisico. Così, espressione spaziale dell’ uno é il punto; della linea, limitata da due punti, il due; della superficie il tre; del solido il quattro. E’ Aristotele che attribuisce ai Pitagorici la dottrina secondo la quale i numeri costituiscono l’essenza di tutte le cose. Per comprendere meglio il significato di essa, è necessario tenere conto del modo in cui erano abitualmente compiute le operazioni di calcolo. I Greci si servivano dei yefoi, ossia di pietruzze mediante le quali i vari numeri erano rappresentati visivamente. Con questi numeri figurati è possibile costruire serie, per esempio quella dei numeri quadrati. Infatti partendo dal primo numero quadrato, 4 (2×2), essenza della giustizia, raffigurato con quattro punti
applicando lo gnomone, ossia una specie di squadra, si può ottenere il numero quadrato successivo 9 (3×3), anch’esso essenza della giustizia, in questo modo
e poi
ossia 16, il quadrato di quattro e così via con i numeri successivi. Da notare che i Pitagorici non conoscevano lo zero ed è anche facile capire il perchè: con le pietruzze è impossibile rappresentarlo. Questo fatto contribuisce a conferire all’uno uno statuto particolare: è un’entità indivisibile, rispetto alla quale nulla è antecedente. Più che un numero come gli altri, l’uno è la sorgente da cui nascono tutti gli altri numeri. Questi a loro volta si suddividono in pari e dispari, che i Pitagorici identificavano con l’illimitato ed il limite. L’uno veniva chiamato parimpari, in quanto aggiunto ad un dispari genera un pari ed aggiunto ad un pari genera un dispari: ciò significa che l’uno deve contenere in sè sia il pari sia il dispari. Il dispari, a sua volta, diviso in due lascia sempre come resto un’unità che permane come limite, mentre ciò non avviene nel caso del pari, che è pertanto identificato con l’illimitato, l’infinito, che con i Pitagorici diventa un concetto fortemente negativo e così sarà per tantissimo tempo. Mediante il calcolo con i sassolini i Pitagorici dimostrano visivamente alcune proprietà relative a queste classi di numeri: per esempio che pari più pari dia pari, che dispari più dispari dia pari e così via. Di grande simpatia godeva anche il 10, che rappresentava tutti gli altri insieme: . Inoltre esso era una sorta di compendio dell’intero universo ed è rappresentabile sotto la forma chiamata tetraktuV (letteralmente significa “gruppo di quattro”).
Infatti, la “tetrattide” (tetraktuV) compendiante in sé l’universo (l’1 è il punto, il 2 la linea, il 3 la superficie, il 4 il solido: 1+2+3+4=10). La tetrattide rappresenta quindi la successione delle tre dimensioni che caratterizzano l’universo fisico. Queste considerazioni mostrano come per i Pitagorici ciascun numero è dotato di una propria individualità e pertanto non tutti i numeri si equivalgono come importanza (sembra che l’aristocrazia dei Pitagorici coinvolga addirittura i numeri). I numeri costituiscono una gerarchia di valore e alcuni numeri assurgono a simboli di altre entità, fisiche o concettuali: è il caso della giustizia, rappresentata dal 4 e dal 9. E visivamente il quadrato è rappresentato come la figura avente i lati uguali. Questa trama di corrispondenze simboliche tra numeri e cose è chiamata dai moderni “mistica del numero”. E’ la conoscenza di questo complesso universo di relazioni tra numeri e cose che costituiva per i Pitagorici il vertice dell’apprendimento. Tra i numeri esistono logoi, ossia rapporti e tra i rapporti è possibile rintracciare una proporzione (in greco analogia), ossia uguaglianze di rapporti . Soprattutto Archita sembra essersi dedicato allo studio di esse. I rapporti e le proporzioni si manifestano soprattutto nell’ambito musicale, dove è centrale la nozione di armonia. Poichè anche i corpi celesti compiono con i loro movimenti percorsi regolari, esprimibili numericamente, i Pitagorici giungono a sostenere l’esistenza di un’armonia delle sfere celesti, non afferrabile dall’ occhio umano. Il cosmo (la parola greca kosmoV significa ordine) dei Pitagorici è costituito infatti da un fuoco centrale, paragonato al focolare di una casa, intorno al quale ruotano la terra, la luna, il sole, i cinque pianeti allora conosciuti, ed il cosiddetto cielo delle stelle fisse. Forse per contemplare la serie fino a raggiungere il 10, i Pitagorici aggiungono anche l’antiterra, situata tra il fuoco centrale e la terra. L’aspetto più interessante della cosmologia pitagorica è che – per la prima volta nella storia – la terra non viene vista come centro dell’universo. Ma numero e proporzione dominano non solo su questa scala cosmica, ma anche all’interno del mondo umano. Essi sono all’occhio dei Pitagorici lo strumento fondamentale per far cessare la discordia tra gli uomini e instaurare l’armonia tra essi, nei loro rapporti economici e politici, attribuendo a ciascuno secondo la proporzione geometrica ciò che gli è dovuto in rapporto al suo valore e non a tutti lo stesso. Risalta anche qui l’orientamento aristocratico dei Pitagorici, contro i quali tuonerà Eraclito: per lui infatti il rapporto tra gli opposti non deve essere di armonia, ma di lotta, di tensione. Per i Pitagorici invece per avere armonia ci deve essere annullamento tra gli opposti. Tra i Pitagorici va senz’altro ricordato Filolao, che compose uno scritto in dialetto dorico (che secondo la tradizione sarebbe stato comprato da Platone stesso). Della sua opera ci sono rimasti alcuni frammenti dove è annunciata in maniera assertoria la tesi che il cosmo è composto di elementi illimitati e limitanti. Ritornando alle dottrine pitagoriche, come i movimenti celesti sono eterni, perchè in essi, per la loro circolarità, il principio e la fine si ricongiungono, così anche l’anima, a differenza del corpo, ha una serie di ritorni periodici. Del ritorno periodico di tutte le cose, diceva il pitagorico Eudemo che, data l’identità del moto e la costanza delle successioni, tutti gli eventi si riprodurranno in un tempo prefisso: “così anch’ io tornerò a parlare, tenendo questo bastoncino in mano, a voi seduti come ora; e tutto il resto si comporterà ugualmente”.
VERSI AUREI
I “versi aurei” costituiscono l’essenza dell’insegnamento Pitagorico; essi non sono direttamente riferibili al filosofo, ma costituiscono una “summa” dei dogmi della “scuola italica”, messa per iscritto dai Pitagorici che seguirono la via del maestro dopo la morte di quest’ultimo, per istruire coloro che sarebbero venuti dopo di loro. Questi principi erano l’unico strumento che consentiva agli adepti di seguire la via divina e di elevare lo spirito, essenza suprema di ciascun individuo, fino al raggiungimento dell’ “estinzione delle sofferenze terrene” per mezzo dell’unione tra lo spirito “individuale” dell’iniziato e Dio, concepito come unica fonte creatrice del tutto.
Venera innanzitutto gli Dei immortali e serba il giuramento;
onora poi i radiosi eroi divinificati e ai demoni sotterranei offri secondo il rito;
onora anche i genitori e a te chi per sangue sia più vicino;
degli altri, fatti amico chi per virtù è il migliore, imitandolo nel parlare con calma e nelle azioni utili. Non adirarti con un amico per una sua colpa lieve, sinchè tu lo possa;
approfondisci lo studio di queste cose e queste altre domina: il ventre anzitutto e così pure sonno, sesso e collera;
non far cosa che sia turpe in faccia ad altri o a te stesso, ma, soprattutto, rispetta te stesso;
poi, esercita la giustizia con le opere e la parola;
in ogni cosa, di agir senza riflettere perdi l’abitudine;
considera che per tutti è destino morire;
delle ricchezze e degli onori accetta ora il venire, ora il dipartirsi;
di quei mali, che per demoniaco destino toccano ai mortali, con animo calmo, senz’ira sopporta la tua parte pur alleviandoli, per quanto ti è dato: e ricordati che non estremi sono quelli riservati dalla Moira al saggio;
il parlare degli uomini può essere buono o cattivo; che esso non ti turbi, non permettere che ti distolga. E se mai venisse detta falsità, ad essa calmo opponiti.
ELENCO COMPLETO DEI PITAGORICI
Quella dei Pitagorici (seconda metà del VI secolo a.C. inizi del III secolo d.C.) costituisce indubbiamente una delle sette più numerose che vanti la filosofia antica, con una storia che si protrae per più di otto secoli. Giamblico conclude la sua celebre Vita Pitagorica con un imponente catalogo di ben 218 uomini e 17 donne, precisando altresì che di molti si sono persi nome e memoria. Ecco le notizie forniteci da Giamblico sugli scolarchi.
1. Pitagora di Samo.
2. Aristeo di Crotone, “di circa sette generazioni più vecchio di Platone” (riferisce sempre Giamblico), il quale assunse, già vecchio, per volere dello stesso Pitagora, la direzione della scuola.
3. Mnesarco, figlio di Pitagora.
4. Bulagora, sotto il cui scolarcato avvenne il sacco di Crotone.
5. Gartida di Crotone, successore di Bulagora.
6. Aresa che, salvatosi, riprese, dopo qualche tempo, la direzione della scuola.
A quest’epoca dovette verificarsi una crisi della scuola, se lo stesso Giamblico rileva che Diodoro d’Aspendo (7) fu accolto nella scuola “per la penuria di Pitagorici regolari”. Tornato in Grecia, poi, Diodoro divulgò le dottrine pitagoriche.
Alla composizione di opere scritte – come sempre Giamblico annota – si dedicarono:
– Clinia di Taranto (8) e Filolao di Taranto (9), nel territorio di Eraclea;
– Teoride (10) ed Eurito (11), a Metaponto;
– Archita di Taranto (12) a Taranto;
– Epicarmo (13), invece, fu membro esterno della scuola.
Ed ecco il celebre catalogo di Giamblico:
Di Crotone: Ippostrato, Dimante, Egone, Emone, Sillo, Cleostene, Agela, Episilo, Ficiada, Ecfanto, Timeo, Buto, Erato, Itaneo, Rodippo, Briante, Evandro, Millia, Antimedonte, Agea, Leofrone, Agilo, Onata, Ippostene, Cleofrone, Alcmeone, Damocle, Milone, Menone.
Di Metaponto: Brontino, Parmisco, Orestada, Leone, Damarmeno, Enea, Chilante, Melesia, Aristea, Lafaone, Evandro, Agesidamo, Senocade, Eurifemo, Aristomene, Agesarco, Alcia, Senofante, Trasea, Eurito, Epifrone, Irisco, Megistia, Leocide, Trasimede, Eufemo, Procle, Antimene, Lacrito, Damotage, Pirrone, Ressibio, Alopeco, Astilo, Lacida, Antioco, Lacrale, Glicino.
Di Agrigento: Empedocle.
Di Elea: Parmenide.
Di Taranto: Filolao, Eurito, Archita, Teodoro, Aristippo, Licone, Estio, Polemarco, Astea, Cenia, Cleone, Eurimedonte, Arcea, Clinagora, Archippo, Zopiro, Eutino, Dicearco, Filonide, Frontida, Liside, Lisibio, Dinocrate, Echecrate, Pactione, Acusilada, Icco, Pisicrate, Clearato, Leonteo, Frinico, Simichia, Aristoclida, Clinia, Abrotele, Pisirrodo, Briante, Elandro, Archemaco, Mimnomaco, Acmonida, Dicante, Carofantida.
Di Sibari: Metopo, Ippaso, Prosseno, Evanore, Leanatte, Menestore, Diocle, Empedo, Timasio, Polemeo, Endio, Tirreno.
Di Cartagine: Miltiade, Ante, Odio, Leocrito.
Di Paro: Eetio, Fenecle, Dessiteo, Alcimaco, Dinarco, Metone, Timeo, Timesianatte, Eumero, Timarida.
Di Locri: Gittio, Senone, Filodamo, Evete, Eudico, Stenonida, Sosistrato, Eutinoo, Zaleuco, Timare.
Di Posidonia: Atamante, Simo, Prosseno, Cranao, Mie, Batilao, Fedone.
Della Lucania: Occelo e Occilo fratelli, Aresandro, Cerambo.
Di Dardano: Malione.
Di Argo: Ippomedonte, Timostene, Eveltone, Trasidamo, Critone, Polittore.
Della Laconia: Autocarida, Cleanore, Euricrate.
Degli Iperborei: Abari.
Di Reggio: Aristide, Demostene, Aristocrate, Fitio, Elicaone, Mnesibulo, Ipparchide, Eutosione, Euticle, Opsimo, Calaide, Selinuntio.
Di Siracusa: Leptine, Fintia, Damone.
Di Samo: Melisso, Lacone, Archippo, Elorippo, Eloride, Ippone.
Di Caulonia: Callimbroto, Dicone, Nasta, Drimone, Senea.
Di Fliunte: Diocle, Echecrate, Polimmesto, Fantone.
Di Sicione: Poliade, Demone, Stratio, Sostene.
Di Cirene: Proro, Melanippo, Aristangelo, Teodoro.
Di Cizico: Pitodoro, Ippostene, Butero, Senofilo.
Di Catania: Caronda, Lisiade.
Di Corinto: Crisippo.
Un tirreno: Nausitoo.
Di Atene: Neocrito.
Del Ponto: Laramno.
In tutto furono duecentodiciotto.
Le pitagoriche più famose furono: Timica, moglie di Millia di Crotone; Filtide, figlia di Teofrio di Crotone e sorella di Bindaco; Occelo ed Eccelo, sorelle dei lucani Occelo e Occilo; Chilonide, figlia di Chilone spartano; Cratesiclea, della Laconia, moglie dello spartano Cleanore; Teano, moglie di Brotino di Metaponto; Miia, moglie di Milone di Crotone; Lastenia, arcade; Abrotelea, figlia di Abrotele di Taranto; Echecratia di Fliunte; Tirsenide di Sibari; Pisirrode di Taranto; Teadusa, della Laconia; Boio di Argo; Babelica di Argo; Cleecma, sorella dello spartano Autocarida.
In tutto furono diciassette.
Dal punto di vista storico, molti di questi nomi sono alquanto problematici. Essi sono assai più numerosi di quanti noi ne conosciamo; nello stesso tempo, però, noi conosciamo altri nomi di Pitagorici che qui non compaiono. Si noti, poi, come nell’elenco siano inclusi anche nomi di famosi filosofi, come Parmenide, Melisso, Empedocle, che non sono riducibili al puro pitagorismo. Sempre da un punto di vista rigorosamente storico, il pitagorismo inizia con Pitagora e si può dire che finisca con Numenio, cioè agli inizi del III secolo d.C. Successivamente il pitagorismo si fonde col platonismo in modo definitivo. In questa storia della filosofia abbiamo proposto la distinzione di tre gruppi di Pitagorici:
I. Pitagorici Antichi, ovvero Pitagorici dell’età arcaica e classica.
II. Mediopitagorici, ovvero Pitagorici dell’età ellenistica, per lo più autori di pseudoepigrafi.
III. Neopitagorici, ovvero Pitagorici che cercano di ripensare a fondo l’antica dottrina, che si presentano alla ribalta già nel I secolo a.C., ma che acquistano la loro precisa fisionomia soprattutto nei secoli I e II d.C.
Ordiniamo, quindi, il complesso materiale (edizioni, traduzioni, studi e bibliografia) sotto queste tre voci.
I. PITAGORICI ANTICHI (secoli VI-IV a.C.)
Ecco il catalogo dei Pitagorici di cui ci sono giunti testimonianze e frammenti. Il primo numero è quello dell’edizione Timpanaro Cardini, che sotto citiamo, e che è oggi il più sicuro punto di riferimento; il secondo fra parentesi è il corrispettivo nella raccolta Diels-Kranz.
1. (= 14 DK) Pitagora di Samo.
2. (= 15 DK) Cercope.
3. (= 16 DK) Petrone di Imera.
4. (= 17 DK) Brotino o Brontino di Metaponto.
5. (= 18 DK) Ippaso di Metaponto o di Crotone.
6. (= 19 DK) Callifonte e Democede di Crotone.
7. (= 20 DK) Parmisco o Parmenisco di Metaponto.
8. (= 24 DK) Alcmeone di Crotone.
9. (= 25 DK) Icco di Taranto.
10. (= 26 DK) Parone.
11. (= 27 DK) Aminia.
12. (= 32 DK) Menestore di Sibari.
13. (= 33 DK) Xuto.
14. (= 36 DK) Ione di Chio.
15. (= 42 DK) Policleto di Argo.
16. (= 42 DK) Ippocrate di Chio.
17. (= 43 DK) Teodoro di Cirene.
18. (= 44 DK) Filolao di Taranto.
19. (= 45 DK) Eurito di Crotone (o di Metaponto o di Taranto).
20. (= 46 DK) Archippo di Taranto, Liside di Taranto, Opsimo di Reggio.
21. (= 47 DK) Archita di Taranto.
22. (= 48 DK) Occello o Ocello di Lucania.
23. (= 49 DK) Timeo di Locri.
24. (= 50 DK) Iceta di Siracusa.
25. (= 51 DK) Ecfanto di Siracusa.
26. (= 52 DK) Senofilo di Calcide.
27. (= 53 DK) Diocle, Echecrate, Polimnesto, Fantone di Fliunte, Arione di Locri.
28. (= 54 DK) Proro di Cirene, Amicla e Clinia di Taranto.
29. (= 55 DK) Damone e Finzia di Siracusa.
30. (= 56 DK) Simo di Posidonia, Mionide, Eufranore.
31. (= 57 DK) Licone o Lico di Taranto.
32. (manca in DK) Timarida.
33. (= 58 DK) Scuola Pitagorica e Pitagorici anonimi.
O Della maggior parte di questi Pitagorici ci sono giunti testimonianze indirette, e, di alcuni dei più recenti, qualche frammento. Cfr. quanto diciamo alla voce Presocratici, in corrispondenza dei numeri DK sopra indicati.
E Oltre all’edizione del Diels-Kranz, è fondamentale, come abbiamo già detto, la seguente edizione, già menzionata, che amplia e migliora quella del Diels-Kranz:
– M. Timpanaro Cardini, Pitagorici, Testimonianze e frammenti, 3 voll., La Nuova Italia, Firenze 1958; 1962; 1964; 19692.
C L’edizione della Timpanaro Cardini si segnala soprattutto per un ampio ed accurato commentario (l’unico completo di cui si disponga a livello internazionale).
T Oltre alla traduzione della Timpanaro Cardini, si segnala anche la seguente per chiarezza:
– A. Maddalena, I Pitagorici, Laterza, Bari 1954 (ora anche nel volume I Presocratici, cfr. voce).
– K.S. Guthrie, T. Taylor, A.Fairbanks, D. R. Fideler, J. Godwin, The Pythagorean sourcebook and Library. An Anthology of Ancient Writings which Relate to Pythagoras and Pythagorean Philosophy, Grand Rapids 1987.
S Tra i numerosi libri su Pitagora e i Pitagorici menzioniamo:
– A. Delatte, Études sur la littérature pythagoricienne, Paris 1915.
– E. Frank, Plato und die sogenannten Pythagoreer, Halle 1923; rist. anast., Darmstadt 1962.
– A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924.
– V. Capparelli, La sapienza di Pitagora, 2 voll., Padova 1941-1944.
– J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics, Cambridge 1948; rist. anast., Amsterdam 1966.
– W. Burkert, Weisheit und Wissenschaft, Studien zu Pythagoras, Philolaos und Platon, Nürnberg 1962; trad. inglese, 1972.
– C.J. de Vogel, Pythagoras and Early Pythagoreanism, Assen 1966.
– J.A. Philip, Pythagoras and Early Pythagoreanism, Toronto 1966.
– P. Gorman, Pythagoras: A Life, London 1979.
B Stato della questione, discussione sulle interpretazioni proposte dopo lo Zeller e bibliografia fino al 1938 si troveranno in Zeller-Mondolfo, I, 2, pp. 288-685. Ulteriore bibliografia si troverà in Timpanaro Cardini, fasc. I, pp. XI-XIX; fasc. II, pp. IX-XIX; fasc. III, pp. IX-XVII e in Burkert, op. cit., pp. 457-467. Cfr. anche Totok, Handbuch…, pp. 115-119.
II. MEDIOPITAGORICI, abbiamo proposto questa denominazione per quegli autori, soprattutto dell’età ellenistica (ma alcuni, senza dubbio, anche di età imperiale), i quali si nascosero sotto il falso nome di antichi Pitagorici. La differenza fra questi Pitagorici e i Neopitagorici, è stata da noi precisata.
Un catalogo di questi filosofi e di quanto di essi ci è pervenuto è stato fatto, nel secolo scorso, dal Beckmann (De Pythagoreorum Reliquiis, Berlin 1844) e ad esso si attiene sostanzialmente lo Zeller. Un nuovo catalogo più preciso e più completo, ha redatto di recente O. Thesleff, nelle opere sottoindicate, e qui lo riportiamo, dato che è sconosciuto ai più. Ricordiamo che si tratta, nella maggior parte dei casi, di pseudonimi. In particolare, è da rilevare quanto segue. a) Si tratta, di regola, di nomi di uomini e di donne legate alla persona di Pitagora e alla scuola pitagorica, assunti da falsari. b) Non necessariamente, però, sotto lo stesso nome si nasconde una sola persona: persone diverse possono aver assunto (e in alcuni casi fu certamente cosi) il medesimo nome. c) Lo stesso falsario poté anche assumere nomi diversi. d) Alcuni nomi non sono attestati negli elenchi degli antichi Pitagorici: possono essere quindi nomi di Pitagorici di cui si è perduta notizia, ma non si può escludere che alcuni Pitagorici di età ellenistica si chiamassero davvero con quel nome sotto cui scrivevano e che scrivessero in uno stile analogo a quello dei falsari. e) Alcuni di questi “falsari” erano sicuramente in buona fede, altri no: in particolare, alcuni possono benissimo aver prodotto, come ci è attestato, scritti “pitagorici” a scopi venali.
Ed ecco il catalogo secondo l’ordine alfabetico degli autori (modifichiamo, secondo le esigenze imposte dalla traduzione italiana, l’ordine alfabetico del Thesleff), l’indicazione di quanto ci è pervenuto e la pagina relativa nell’edizione del Thesleff.
1. Acrone di Agrigento. Sotto il suo nome ci sono pervenute solo testimonianze (pp. 1-2).
2. Archippo di Samo o di Taranto. Sotto il suo nome ci sono pervenute solo testimonianze (p. 2).
3. Archita di Taranto. Sotto il suo nome ci sono pervenuti due trattati sulle Categorie e numerosi ed anche consistenti frammenti da varie opere (cfr. il catalogo in Thesleff, An Introduction, pp. 8-11; cfr. anche voce pp. 2-48).
4. Aresa Lucano. Sotto il suo nome ci è pervenuto un ampio frammento conservatoci da Stobeo di un’opera Sulla natura dell’uomo (pp. 48-50).
5. Arignote, sorella di Pitagora. Sotto il suo nome ci sono giunti solo titoli di opere a lei attribuite (pp. 50-51).
6. Arimnesto, figlio di Pitagora. Sotto il suo nome ci è pervenuta una testimonianza di Porfirio, che riporta un epigramma di due versi (p. 51).
7. Aristeo di Crotone. Sotto il suo nome ci sono pervenuti alcuni frammenti, di cui uno abbastanza ampio, tratto dall’opera Sull’armonia (pp. 52-53).
8. Aristombroto. Sotto il suo nome ci è pervenuto un breve frammento da un trattato Sulla visione (pp. 53-54).
9. Astone di Crotone. Diogene Laerzio, VIII, 7, dice che molti discorsi scritti da Astone furono attribuiti a Pitagora. Possediamo solo questa menzione p. 51.
10. Atamanta di Posidonia. Sotto il suo nome ci sono pervenuti pochissime testimonianze ed un frammento in dorico (p. 54).
11. Brisone. Sotto il suo nome ci sono pervenuti un frammento dell’Economico e versioni in lingua araba ed aramaica del medesimo. Cfr.: M. Plessner, Der oikonomikos des Neupyhagoreers Bryson und sein Einfluss auf die islamische Wissenschaft, “Orient und Antike”, 5, Heidelberg 1928. Thesleff pubblica, oltre al frammento greco, un sommario in inglese della traduzione tedesca del Plessner (pp 56-58).
12. Bro(n)tino di Crotone o di Metaponto. Sotto il suo nome ci sono pervenuti alcuni frammenti e titoli di opere (pp. 54-56).
13. Butero di Cizico. Sotto il suo nome ci è pervenuto un frammento conservatoci da Stobeo del trattato Sui numeri (p. 59).
14. Callicratida di Sparta. È noto come filosofo pitagorico solo attraverso Stobeo, che ci ha conservato alcuni frammenti: ma è da ricordare, tuttavia, che cosi si chiamava anche il fratello di Empedocle, legato ai Pitagorici, e che un falsario di età ellenistica potrebbe aver assunto tale nome (pp. 102-107).
15. Caronda di Catania. Sotto il suo nome ci è giunto un Proemio alle Leggi, che potrebbe essere completo (pp. 59-67).
16. Cleemporo. È ritenuto da alcuni (cfr. Plinio, Nat. Hist., 24, 159 autore di un’opera Sull’effetto delle piante, attribuita a Pitagora (pp. 107-175).
17. Clinia di Taranto o di Eraclea. Sotto il suo nome ci sono giunti frammenti da scritti Sulla pietà e Sui numeri (pp. 107-108).
18. Critone di Argo. Sotto il suo nome ci è giunto un frammento dell’opera Sulla saggezza conservato da Stobeo (p. 109).
19. Damippo. Ci sono pervenuti due frammenti conservatici da Stobeo e attribuiti a “Critone e Damippo pitagorico” (pp. 68-69).
20. Dio. Sotto questo nome ci sono pervenuti solamente due frammenti conservatici da Stobeo, che lo chiama appunto “Dios pitagorico” (pp 70-71).
21. Diodoro di Aspendo. Sotto il suo nome ci sono giunte pochissime testimonianze (pp. 69-70).
22. Diotogene. Sotto il suo nome ci sono pervenuti due frammenti piùttosto ampi dai trattati Sulla regalità e Sulla santità, conservatici da Stobeo che lo denomina, appunto, “Diotogene Pitagorico”; cfr. anche voce (pp. 77-78).
23. Eccelo Lucana. Probabilmente coincide con la donna di cui fa menzione il catalogo di Giamblico (DK 58 A I ), e quindi non è necessario identificarla con Occelo (che dal medesimo catalogo risulta essere stato suo fratello). Sotto il suo nome ci è giunto un frammento da uno scritto Sulla giustizia, conservatoci da Stobeo (pp. 77-78).
24. Ecfanto di Crotone o di Siracusa. Sotto il suo nome ci sono giunti quattro ampi frammenti conservatici da Stobeo da uno scritto Sulla regalità; cfr. anche voce (pp. 78-84).
25. Epaminonda di Tebe, discepolo di Liside pitagorico. Cfr. la testimonianza di Claudiano Mamerto, De an., 2,7. Non ci è pervenuto nessun frammento (p. 84).
26. Epicarmo di Siracusa. Sotto il suo nome ci è giunta una sola testimonianza (p. 84).
27. Eurifamo di Metaponto o di Siracusa. Sotto il suo nome ci è pervenuto un ampio frammento da un trattato Sulla vita, conservatoci da Stobeo (pp. 85-87).
28. Eurito di Crotone o di Metaponto o di Taranto. Sotto il suo nome ci è pervenuto un frammento dello scritto Sulla fortuna, conservatoci da Stobeo (pp. 87-88).
29. Filolao di Crotone o di Taranto. Sotto il suo nome ci sono giunte testimonianze e frammenti da scritti Sui ritmi e sulle misure e Sull’anima (pp. 147-151).
30. Fintide, forse coincide con la Filtide di DK 58 A 1. Sotto il suo nome ci sono giunti due frammenti, conservatici da Stobeo, da uno scritto sulla Saggezza della donna (pp. 151-154).
31. Gorgiade. Sotto il suo nome ci è pervenuta solo una testimonianza di Claudiano Mamerto, De an., 2, 7 (p. 88).
32. Ipparco. È detto pitagorico da Stobeo, che riporta un ampio frammento dello scritto Sulla tranquillità; questo frammento in Diels-Kranz è riportato, invece, fra le imitazioni di Democrito: cfr. Diels-Kranz, 68 C 7 (vol. II, pp. 228 sgg.) (pp.88-91).
33. Ippaso di Metaponto o di Crotone o di Sibari. Sotto il suo nome ci sono giunte alcune testimonianze (pp. 91-93).
34. Ippodamo di Mileto o di Turi. Sotto il suo nome ci sono giunti frammenti dagli scritti Sulla felicità e Sulla politeia (pp. 93-102).
35. Licone di Taranto. Sotto il suo nome ci sono giunte solo testimonianze (pp. 109-110).
36. Liside di Taranto o di Tebe. Sotto il suo nome ci sono giunte testimonianze ed una Lettera ad Ipparco (pp. 110-115).
37. Megillo. Sotto il suo nome ci è giunta una testimonianza da uno scritto Sui numeri. Può essere il nome preso dal “falsario” dal personaggio delle Leggi e dell’Epinomide di Platone (p. 115).
38. Melissa. Sotto il suo nome ci è pervenuta una Lettera a Clearta, sul ruolo della donna (pp. 115-116).
39. Metopo di Metaponto. Sotto il suo nome ci sono pervenuti due ampi frammenti conservatici da Stobeo di uno scritto Sulla virtù (pp. 116-121).
40. Metrodoro di Metaponto, figlio di Epicarmo. Sotto il suo nome ci è giunta una testimonianza di Giamblico (pp. 121-122).
41. Miia, sorella di Pitagora. Sotto il suo nome ci è giunta una Lettera a Tillide, sulla cura della prole (pp. 123-124).
42. Milone di Crotone. Di lui ci è pervenuta una breve testimonianza conservataci da Stobeo (pp. 122-123).
43. Ninone Retore. E presentato da Giamblico come uno che pretese di aver indagato i segreti dei Pitagorici. È detto autore di un Discorso sacro contro i Pitagorici. Cfr. Vita di Pitagora, 258-260. Thesleff dubita che sia davvero esistito e si limita a riportarne il nome (p. 124).
44. Numa Pompilio, Re di Roma. Thesleff si limita a menzionare il nome. Vedasi quanto diciamo alla voce (p. 124).
45. Occelo (o Ocello) di Lucania. Sotto il suo nome, oltre ad un frammento dello scritto Sulla Legge, ci è pervenuto un trattato integrale, divenuto abbastanza famoso, Sulla natura dell’universo; cfr. anche voce (pp. 124-138 ).
46. Onata (o Onato) di Crotone. Sotto il suo nome ci sono giunti frammenti di un’opera Su Dio e sul Divino conservatici da Stobeo (pp. 138-140).
47. Opsimo di Reggio. Sotto questo nome ci sono pervenute solo testimonianze (pp. 140-141).
48. Panacheo. Di lui abbiamo due brevissime testimonianze (p. 141).
49. Pempelo di Turi. Sotto il suo nome ci è giunto un frammento conservatoci da Stobeo (pp. 141 sg.).
50. Perittione di Atene. Era il nome della madre di Platone. Ci sono giunti sotto il suo nome frammenti da due scritti, Sull’armonia della donna e Sulla sapienza, conservatici da Stobeo (pp. 142-146).
51. Pitagora di Samo. Sotto il nome di Pitagora ci sono giunti oltre al Carme aureo, frammenti di varie opere, relazioni di quattro discorsi e frammenti di Lettere. Si veda il catalogo Thesleff, Introduction…. pp. 18-21; cfr. anche voce (pp. 155-186).
52. Proro di Cirene. Sotto il suo nome ci sono giunte due testimonianze di uno scritto Sull’ebdomade (pp. 154-155).
53. Simo di Posidonia. Di lui ci sono pervenute pochissime testimonianze (p. 187).
54. Stenida di Locri. Sotto il suo nome ci è pervenuto un frammento di un trattato Sulla regalità, conservatoci da Stobeo (cfr. voce) (pp. 187-188).
55. Teage di Crotone. Sotto il suo nome ci sono pervenuti ampi frammenti di un trattato Sulla virtù, conservatici da Stobeo (pp. 189-193).
56. Teano, moglie o sorella di Pitagora. Sotto il suo nome ci sono pervenuti alcune lettere e i titoli di alcune opere (pp. 193-201).
57. Tearida di Metaponto. Sotto il suo nome ci è giunto un breve frammento da un trattato Sulla natura (p. 201).
58. Telauge, figlio di Pitagora. Sotto il suo nome ci sono giunte alcune testimonianze e frammenti (pp. 188-189).
59. Timaride di Paro o di Taranto. Sotto il suo nome ci sono giunti testimonianze ed alcuni frammenti (pp. 201-202).
60. Timeo di Locri. Sotto il suo nome ci è giunto un trattato Sulla natura del cosmo e dell’anima, che si presenta come il presunto modello del Timeo di Platone; cfr. anche voce (pp. 202-225).
61. Zaleuco di Locri. Sotto il suo nome ci sono giunti frammenti di Proemi alle Leggi (pp. 225-229).
Questo è il catalogo che il Thesleff aveva tracciato nella Introduction… (cfr. sotto). Nell’edizione dei frammenti, ha poi inserito anche i seguenti nomi:
62. Androcide Pitagorico, sotto il cui nome furono fatte circolare falsificazioni (p. 2).
63. Esara, che sarebbe una figlia di Pitagora (p. 1).
64. Eufranore Pitagorico. Di lui ci è riferito che sapeva suonare bene il flauto. Potrebbe essere quindi uno pseudepigrafo che ha fatto circolare sotto il suo nome l’opera Sui flauti, menzionata da Ateneo (p. 85).
65. Cebete. Per il testo della Tavola di Cebete, Thesleff fa rimando alla edizione Praechter; cfr. voce Cebete (p. 107).
66. Platone è elencato fra i Pitagorici dell’età ellenistica per le Lettere spurie (p. 154).
A questi nomi, forse, qualcuno potrà ancora essere aggiunto. Thesleff stesso (Introduction…., p. 7, note 2 e 3) fornisce alcuni esempi di nomi che egli esclude dal catalogo, ma le cui motivazioni potrebbero essere ridiscusse. Qualcuno potrebbe, al contrario, essere tolto. Al momento, però, è questa la tavola più completa che sia stata redatta.
Accanto a questi nomi sono da ricordare le fonti anonime cui attingono le esposizioni pitagoriche di Ovidio (Metam., 15,1-478), di Diodoro, di Alessandro Poliistore (presso Diogene Laerzio, VIII, 2433), di Fozio (Biblioth., cod. 249), che Thesleff menziona o riporta alle pagine 229-245 come appendici, e che si troverà tradotto in AA.VV., The Pythagorean Sourcebook and Library. An Antology of Ancient Writings which Relate to Pythagoras and Pythagorean Philosophy, Compliled and Translated by K.S. Guthrie with Additional Translations by T. Taylor and A. Fairbanks Jr., Introduced and Edited by D.R. Fideler, with a Foreword by J. Godwin, Grand Rapids (Mich.) 1987, pp. 137-140.
Ma su queste fonti il discorso è diverso, e, in ogni caso, esse andrebbero completate, a nostro avviso, con le fonti di Eudoro di Alessandria, di Filone di Alessandria e di Sesto Empirico.
E La moderna edizione critica di tutto questo materiale, come abbiamo già detto, è stata curata da:
– H. Thesleff, The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, Abo Akademi, Abo 1965 (“Acta Academiae Aboensis”, Ser. A, Humaniora, vol. XXX, 1).
Questa edizione ha due soli difetti: non porta la traduzione, che sarebbe stata in molti casi opportuna, data la complessità linguistica dovuta al dialetto dorico in cui gran parte dei frammenti sono scritti, e, soprattutto, ha un indice delle parole del tutto inadeguato all’opera. L’introduzione a questa edizione è di quattro anni anteriore:
– H. Thesleff, An Introduction to the Pythagorean Writings of the Hellenistic Period, Abo Akademi, Abo 1961 (“Acta Academiae Aboensis”, Humaniora. XXIV. 3).
T C – B. Centrone, Pseudopythagorica Ethica. I trattati morali di Archita, Metopo, Teage, Eurifamo, Introduzione, edizione, traduzione, commento, Napoli 1990.
– The Pythagorean Writings. Hellenistic Texts from the 1st. cent. B.C. – 3rd cent. A.D. on Life, Morality, Knowledge and the World, comprising a selection of the Neo-Pythagorean fragments and testimonia of the Hellenistic Period, including those of Philolaus and Archytas, transl. by K.Guthrie, T. Taylor, with an Introduction to the Pithagorean Writings by. R. Navon, with a Foreword by L.G. Westerink, New Gardens 1986.
S – AA.VV., The Pythagorean Sourcebook and Library, Grand Rapids (Mich.) 1987, sopra citato.
Per agevolare la lettura dei difficili testi, si potrà ricorrere alla traduzione latina del Mullach, Fr. Phil. Gr., I, pp. 193 sgg.; 383-575; II, 1-129, che di questi testi pitagorici aveva fornito una raccolta già molto ricca.
Una traduzione italiana di alcuni passi fu fatta dal padre Pagnini e si trova pubblicata in G.D. Romagnosi, Opere, vol. II, 2, Milano 1944, pp. 1561-1579.
Una traduzione inglese di un certo numero di questi documenti è stata fatta da T. Taylor, agli inizi dell’800, e ora riedita:
– Jamblicus of Chalcis, Life of Pythagoras; or, Pythagoric life; accompanied by fragments of the ethical writings of certain Pythagoreans in the Doric dialect; and a coll. of Pythagoric sentences from Stobaeus and others, which are omitted by Gale in his Opuscula mythologica, and have not been noticed by any ed.; tr. from the Greek by Thomas Taylor, John Maurice Watkins, London 1965.
Dei pezzi più significativi della raccolta ci sono invece alcune traduzioni anche recenti, di cui diamo conto alle singole voci (cfr. Cebete, Ecfanto, Diotogene, Ocello, Stenida, Timeo).
Si vedano, sui vari problemi relativi a questi filosofi, i seguenti studi, per diversi aspetti assai utili:
– V. Capparelli, La sapienza di Pitagora, 2 voll., Padova 1941-1944. (Interessa soprattutto il nostro argomento il vol. I che ha il sottotitolo: Problemi e fonti di informazione).
– L. Ferrero, Storia del pitagorismo nel mondo romano (dalle origini alla fine della repubblica), Torino 1955.
– W. Burkert, Hellenistische Pseudopythagorica, in “Philologus”, 105 (1961), pp. 16-43; 226-246.
– W. Burkert, Weisheit und Wissenschaft, Nürnberg 1962.
– H. Thesleff, Introduction…, sopra cit.
– AA.VV., Pseudepigrapha, I, “Entretiens sur l’Antiquité Classique”, XVIII, Vandoeuvres-Geneve 1972.
– B. Centrone, Pseudopythagorica Ethica. Napoli 1990, pp. 13-58. (sopra citato).
– AA.VV., The Pythagorean Sourcebook and Library, Grand Rapids (Mich.) 1987.
B – Lo status quaestionis (soprattutto per ciò che concerne le questioni di carattere storico e cronologico) si troverà in Thesleff, Introduction…, pp. 30-45; ivi, pp. 123-127, si troverà anche una ricca bibliografia. Inadeguato, purtroppo, l’aggiornamento di Del Re della sezione dello Zeller riguardante questo tema: Zeller-Del Re [cfr. indicazione analitica alla voce Neopitagorici], pp. 15 sgg.
– B. Centrone, Pseudopythagorica Ethica, Napoli 1990, pp. 243-247 e 249-323 (sopra citato).
III. NEOPITAGORICI (secoli I a.C. – inizi del III secolo d.C.).
Abbiamo distinto un Mediopitagorismo da un Neopitagorismo per le ragioni spiegate. Mediopitagorici sono certi autori di pseudepigrafi che si nascondono sotto il nome di antichi pitagorici (cfr. voce); mentre Neopitagorici sono, propriamente, quei filosofi che si presentano col loro nome, avendo acquistato piena coscienza della loro identità e del loro ruolo, che manca, invece, agli autori di pseudepigrafi.
Fra i Neopitagorici si possono distinguere i seguenti quattro gruppi: I) un primo gruppo, che operò in ambiente romano, la cui filosofia ebbe una impronta prevalentemente etica; II) un secondo gruppo, che sviluppò l’indirizzo religioso-speculativo; III) un terzo gruppo, che sviluppò l’indirizzo religioso-mistico; IV) un quarto gruppo, costituito da raccoglitori di sentenze, il cui “pitagorismo” è alquanto tenue e generico.
I. Neopitagorici che operarono in ambiente romano
1. Publio Nigidio Figulo, vissuto nella prima metà del I secolo a.C. (cfr. voce).
2. Quinto Sestio (e il suo circolo), fiorito nella seconda metà del I secolo a.C. e nei primi anni del I secolo d.C.
3. Sestio, figlio di Quinto Sestio.
4. Sozione di Alessandria, fu uno dei maestri di Seneca.
5. Lucio Crassicio di Taranto.
6. Fabiano Papirio, che passò dalla retorica alla filosofia. Fu uno dei maestri di Seneca, che di lui ci parla nell’Epistola 100.
II. Neopitagorici che svilupparono l’indirizzo religioso-speculativo
1. Moderato di Gades, vissuto nel I secolo d.C. (cfr. voce).
2. Nicomaco di Gerasa, vissuto nella prima metà del II secolo d.C. (cfr. voce).
3. Numenio di Apamea, vissuto nella seconda metà del II secolo d.C. Fuse il Medioplatonismo col Pitagorismo (cfr. voce).
4. Cronio, presentato da fonti antiche quale seguace di Numenio (cfr. voce).
III. Neopitagorici rappresentanti dell’indirizzo puramente mistico-religioso
1. Apollonio di Tiana, vissuto nel I secolo d.C. (cfr. voce).
2. Filostrato Flavio, famoso soprattutto per aver scritto La vita di Apollonio, da lui composta per ispirazione di Giulia Domna (cfr. voce).
IV. Neopitagorici raccoglitori di sentenze
1. Sesto (da non confondersi con Sestio) (cfr. voce).
2. Secondo (cfr. voce).
O E Di questi pensatori, se si eccettuano Nicomaco, Filostrato, Sesto e Secondo, ci sono pervenuti solo frammenti e testimonianze. Di molti è stata fatta la raccolta e l’edizione dei frammenti, di cui daremo conto alle singole voci. Le fonti per la ricostruzione del pensiero dei Sestii si troveranno indicate negli autori sotto citati.
S Sul Neopitagorismo in genere e su quello romano in particolare si vedano:
– E. Zeller, Die Philosophie der Griechen, III, 1, pp. 699 sgg.; di recente tradotto in italiano: cfr., sotto, Zeller-Del Re.
– A. Gianola, La fortuna di Pitagora presso i Romani, Catania 1921.
– F. Bömer, Der lateinische Neuplatonismus und Neupythagoreismus und Claudianus Mamertus in Sprache und Philosophie, Leipzig 1936.
– V. Capparelli, La sapienza di Pitagora, vol. I, Padova 1941.
– L. Ferrero, Storia del pitagorismo nel mondo romano (dalle origini alla fine della repubblica), Torino 1955.
– A. Squilloni, Il significato etico-politico dell’immagine re-legge animata. Il n?omow ¿emcyxow nei trattati neopitagorici Peròi basile?iaw, “Civiltà Classica e Cristiana”, 11 (1990), 75-94.
– D.J. O’Meara, Pythagoras Revived. Mathemathics and Philosophy in Late Antiquity, Oxford 1998.
– A. Cacciari, Temi mediopltonici e neopitagorici in un frammento pseudo-giustineo, “Paideia” 43 (1988), pp. 3-27.
– J. Whittaker, Neopythagoreanism and the Trascendent Absolute, “Symbolae Osloenses”, 48 (1973), pp. 77-86.
– J. Whittaker, Neopythagoreanism and Negative Theology, “Symbolae Osloenses”, 44 (1969), pp. 109-125.
Di tutti i Neopitagorici di rilievo daremo indicazioni analitiche alle singole voci.
B In Ferrero, op. cit., pp. 422 sgg. e nelle note passim, si troverà ampia bibliografia. Cfr. la bibliografia sugli altri Neopitagorici alle singole voci. Di recente è stata altresi pubblicata la traduzione italiana della parte dell’opera zelleriana contenente la trattazione sui Neopitagorici, con aggiornamenti di R. Del Re, purtroppo non sempre soddisfacenti e soprattutto incompleti:
– E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte III, Volume IV: I precursori del Neoplatonismo, traduzione di E. Pocar, a cura di R. Del Re, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 3-141 [citiamo questo volume con l’abbreviazione Zeller-Del Re].
ARCHITA
Matematico, stratego e filosofo greco, Archita di Taranto (vissuto approssimativamente tra il 428 e il 347 a. C.), è l’ultimo rappresentante in senso forte del pensiero pitagorico. Austero uomo politico, egli resse per lungo tempo le sorti della sua città incrementandone la prosperità e la potenza e facendone la prima della Magna Grecia. In campo matematico e filosofico, continuò la tradizione pitagorica che anteponeva l’aritmetica alla geometria, pur utilizzando le più differenti tecniche nella risoluzione di complessi problemi matematici. Teorico di musica, derivò dallo studio del rapporto fra suoni armonici il concetto del numero inteso essenzialmente come rapporto, indipendente quindi dai vincoli di commensurabilità e razionalità. Altro problema prettamente aritmetico, espresso geometricamente come duplicazione del cubo (problema di Delo), fu risolto da Archita con un metodo insieme meccanico e di geometria spaziale. Fu infatti il primo e per lungo tempo l’unico filosofo della Grecia classica a intuire i vantaggi di un collegamento fra matematica e meccanica; gli si attribuiscono l’invenzione della raganella (strumento musicale) e la costruzione di una colomba volante di legno e di altri dispositivi meccanici. Ancora dai suoi studi di matematica applicata alla meccanica ricavò le nozioni che il suono è dovuto al movimento e all’urto fra corpi e che esiste un legame fra intensità della vibrazione e altezza di un suono. Amico di Platone, che fu vivamente influenzato dal suo pensiero, si adoperò per la sua liberazione dopo i contrasti che il grande filosofo ateniese ebbe a Siracusa con Dionisio II. Come notavamo, la fama di Archita è legata – oltrechè al ruolo di spicco in veste di Pitagorico – a importanti contributi quali la risoluzione del problema della ‘duplicazione del cubo’ (il cosidetto “problema di Delo”), anticipando di due secoli Eratostene, e il metodo per la costruzione di terne pitagoriche attribuito a Platone. Si dice anche che abbia inventato la carrucola e la vite, anticipando Archimede e che abbia costruito uno dei primi automi, la famosa ‘colomba di Archita’. Si tratta naturlamente di affermazioni trasmesse per tradizione e non controllabili, non essendoci pervenute le sue opere. Orazio lo chiamanò “misuratore del mare, e della terra, e delle innumerevoli arene; ed uomo che sulle celesti sfere ardito avea di sollevarsi ed aggirarsi”, mentre Cicerone lo chiama “virum magnum in primis et praeclarum”. Archita incarnò nella forma più piena l’ideale platonico del filosofo, o meglio del sapiente, coniugando nella sua vita teoria e pratica. Si impegnò anche in politica e fu grande uomo di stato e condottiero, più volte stratega di Taranto e capo della confederazione italiota. Fu un ingegno poliedrico preoccupato dell’unità del sapere. Cercò il vero in tutto e per tutto, fu teorico e tecnico, sostenendo che l’esperienza affascinante della scienza e della scoperta non dà gioia se non la si può comunicare agli amici, in opposizione, sembra, al senso di segretezza e di mistero che avvolgeva la scuola pitagorica. Perì tragicamente in un naufragio al promontorio di Matino presso il Gargano.
Curva di Archita
La prima curva gobba (cioè non contenuta in alcun piano) che si incontra nella storia della matematica, introdotta da
Archita per risolvere il problema della duplicazione del cubo. Alla sua equazione si arriva nel seguente modo: dati due segmenti
a, b siano u e v i loro medi proporzionali, cioè sia
a:u= =u:v=v:b.
Se si pone
sostituendo questi valori nella proporzione si ricavano le seguenti relazioni:
che sono equazioni di superfici. La prima è un toro, le altre due sono un cilindro e un cono quadrici che si incontrano lungo una linea di quart’ordine che costituisce la curva di Archita. Se si proietta questa curva sul piano
xy, la sua equazione in coordinate polari è la seguente:
essa costituisce una curva detta campila di Eudosso.
ALCMEONE
Alcmeone visse a Crotone alla fine del sesto secolo a.C. nel contesto pitagorico; bisogna subito specificare che non fu un vero e proprio pitagorico, in primo luogo perchè elaborò, sì, come i Pitagorici l’idea delle coppie di principi, ma a differenza di essi sceglieva le coppie a caso (e i contrari per lui erano più qualitativi che quantitativi), senza ricorrere a un criterio sistematico. Anche come idee politiche pare che differisse dai Pitagorici, che erano aristocratici: Alcmeone fu fiero sostenitore del regime democratico. Aristotele stesso ce lo presenta come un pitagorico “confusionario” e meno rigoroso. Alcmeone effettuò interessanti considerazioni sull’uomo e fu molto interessato alla medicina (lui stesso era medico). Tra le varie sue dottrine, tre sono le più importanti: 1) , strettamente legata alla dottrina pitagorica, era la concezione di salute e malattia: per elaborare questa teoria, egli studiò accuratamente il corpo umano e lo interpretò in analogia con il funzionamento della politica: per lui infatti malattia e salute corrispondevano a due precise situazioni politiche. La salute corrispondeva alla democrazia (più in particolare Alcmeone parla di “isonomia”, uguaglianza di leggi), mentre la malattia alla monarchia. Come nel corpo si ha la salute quando c’è un equilibrio tra gli organi, così nella politica per Alcmeone c’è la democrazia quando tutte le parti sono in equilibrio e tutte possono dire la loro. Invece, così come nel corpo umano c’è una malattia quando un organo prevale sugli altri impedendo loro di agire, così nella politica si ha la monarchia quando prevale un individuo sugli altri e viene a rompere l’equilibrio. Sono idee antitetiche non solo rispetto ai Pitagorici, ma anche a Platone stesso. Dobbiamo poi ricordare che a quei tempi la medicina era una realtà ben differente dalla chirurgia: queste due attività erano addirittura tra loro in contrasto, basti pensare che nel giuramento dei medici di Ippocrate bisognava giurare di non far uso della chirurgia. 2) Molto interessante fu anche la sua teoria su quale fosse l’organo principale del nostro organismo: fu il primo a rispondere che era il cervello, avanzando così un’ipotesi enfalocentrica. Generalmente si era creduto che l’organo fondamentale fosse il fegato o il cuore, mentre il cervello non fu mai preso in considerazione perchè è un organo insensibile. E’ interessante notare come Aristotele credesse che il cervello fosse un organo di raffreddamento e fu sostenitore della teoria cardiocentrica. Alcmeone fece accurati esperimenti su animali e scoprì i nervi che collegavano il cervello ad altri organi vitali (per esempio agli occhi) e ipotizzò che svolgesse la funzione di coordinamento delle mansioni sensitive. Così Alcmeone fu il primo a dire che il cervello fosse l’organo più importante. 3) Alcmeone cercò anche di individuare la posizione degli uomini e scoprì che era intermedia. La sua opera in prosa (di cui si ignora il titolo) inizia proprio con l’affermazione che gli uomini sono inferiori rispetto agli dei: “Alcmeone di Crotone, figlio di Pirito, disse questo a Brotino e a Leonte e a Batillo: delle cose invisibili e delle cose visibili soltanto gli dei hanno conoscenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare”. Dopo un’accurata presentazione di sè, egli spiega che per gli dei non ci sono barriere conoscitive e possono conoscere l’intera realtà. Gli uomini invece non riescono a scorgerla e per raggiungerla devono sforzarsi di interpretare e capire gli indizi a loro disposizione e possono comunque solo supporla . La conoscenza degli dei viene definita sapheneia e comporta un legame stretto con la chiarezza : perfino le cose invisibili non sono in realtà tali per gli dei. La conoscenza umana sta tutta nel tekmairestai, ossia nello sfruttare gli indizi per tentare di comprendere ciò che non è immediatamente carpibile con i sensi. Alcmeone dice che gli uomini sono un gradino al di sotto degli dei, ma che essi sono comunque un gradino al di sopra degli animali (da qui il fatto che l’uomo si trovi in una posizione intermedia, tema che sarà centrale nel Rinascimento neoplatonico). Sia gli uomini sia gli animali conoscono ciò che appare loro, ma gli uomini riescono a comprendere, a connettere i dati sensibili in ragionamenti: vi è proprio l’idea dello xuniemi, del comprendere visto come “prendere assieme”: i singoli organi devono raccogliere e connettere gli indizi. Gli uomini organizzando il loro pensiero possono raggiungere le realtà più profonde. Alcmeone era soprattutto mosso dall’esigenza di capire esattamente quale potesse essere la portata della conoscenza umana. Egli distingueva in modo marcato la conoscenza umana da quella divina, mettendo in luce fin dove quella umana potesse estendersi. Il sapere divino veniva da Alcmeone qualificato come safhneia , ovvero assoluta certezza; quello umano, dal canto suo, veniva visto come notevolmente meno chiaro. Quelle cose che per gli uomini risultano invisibili, sono, ad avviso di Alcmeone, perfettamente visibili per gli dèi: il conoscere umano procede attraverso indizi (tekmhria) o, nel linguaggio medico, sintomi. Si deve dunque costruire il sapere a partire dai segni, così come il medico parte dai sintomi per diagnosticare la malattia. Per superare il buio, quindi, non ho bisogno di divinità che mi aiutino, ma piuttosto di tekmhria sui quali fare inferenze, passando così dalle cose certe a cose che certe non sono. Questi indizi intorno ai quali edificare la conoscenza sono essenzialmente coglibili nell’ambito delle sensazioni, cosicchè si parte da ciò che si presenta ai sensi per arrivare a ciò che ad essi non si presenta; bisogna però spiegare come funziona questo passaggio e quale è lo strumento che consente di attuare l’inferenza. Ed è qui che entrano in gioco gli animali: infatti anch’essi hanno percezioni, ma è solo l’uomo a poterle comprendere, ossia “raccogliere e connettere” ciò che proviene dai singoli organi di senso. Ma ciò non toglie che attraverso quest’operazione di raccoglimento e connessione dei dati sensoriali l’uomo finisca per costruire una conoscenza inferiore rispetto a quella divina: ” delle cose visibili e delle invisibili solo gli dèi hanno conoscenza certa ( safhneia ); gli uomini possono soltanto congetturare […]. L’uomo differisce dagli altri animali perché esso solo comprende ” (ovvero sa connettere i dati sensoriali).
SENOFANE
Senofane sarà ricordato come il grande esule, giramondo, che per un certo tempo visse anche a Zancle (Messina) ed a Catania. Nacque nel 565 a.C. circa a Colofone, in Asia Minore, e morì forse ad Elea (Lucania) nel 470 a.C. Timeo dice che il filosofo ebbe rapporti con Gerone di Siracusa. Per la Theologumena Arithmetica “Infatti si calcolano con la massima approssimazione 514 anni dalla guerra troiana sino a Senofane il fisico e fino ai tempi di Anacreonte e Policrate e fino all’aggressione e devastazione degli Ioni ad opera di Arpago il Medo, fuggendo la quale i Focesi fondarono Massalia” (44,b,13, in I Presocratici, op. cit.). “Son già sessantasette anni che porto in giro per l’Ellade i miei affanni e i miei pensieri. Ed a questi sono da aggiungere i venticinque anni trascorsi dalla nascita, se so dire il vero intorno a queste cose”. (Diogene Laerzio IX, 19; op. cit.). Fu contemporaneo di Empedocle di Agrigento e i due ebbero modo di conoscersi e confrontarsi; l’agrigentino gli fece un giorno osservare che era impossibile riuscire a trovare un uomo sapiente: ‘E’ naturale, perché bisogna che sia sapiente chi vuol riconoscere un sapiente’, rispose il rapsodo. Col siciliano ebbe in comune la visione democratica di governo: i tiranni, disse, o sono molto gradevoli o devono essere rarissimi. Forse fu il fondatore della scuola detta Eleatica, che forgiò Zenone e Parmenide. Agli Eleati, che gli chiesero se era saggio o meno offrire sacrifici oppure canti lamentosi a Leucotea, rispose di non elevare lamenti se essi la ritenevano una dea, e di non dedicarle sacrifici se la consideravano una mortale (Aristotele, Retorica, B, 23; confronta con Plutarco, Sulla superstizione, XIII). Sempre da Plutarco apprendiamo come Senofane si difese dall’accusa d’essere un vile per essersi rifiutato di giocare ai dadi, accusa buttatagli da Laso figlio di Ermione: ammise d’essere molto vile di fronte alle cose inique (De vitioso pudore, 5; in I presocratici, op. cit.). Scrisse Senofane elegie e giambi indirizzati solo a sminuire le qualità di Esiodo ed Omero, le due basi dell’epica classica. Non condivideva quanto da loro narrato descrivendo la vita e le azioni degli dei in tutto simili alle abitudini e attitudini umane. Ma non pare fossero stati solo i due poeti il bersaglio dei suoi dardi critici che appaiono infuocati di livore: osteggiò le dottrine di Talete e di Pitagora, altro fondamento – stavolta filosofico – della cultura ellenica. Un suo concetto teorico sostiene che nell’universo possono esistere molteplici cose solo quando subentra l’azione dell’intelligenza per distinguerle. E il Dio, per l’eternità, è per lui solo pensiero e ragione; in questo ha una modernità di pensiero affascinante; ma non possiamo considerarla tale concezione simile alla nostra – Dio fece l’uomo a sua immagine – in quanto il Dio di Senofane è una sfera che “vede ed ascolta ma non respira”. E può essere raggiunto con l’uso dell’intelletto, escludendo le rivelazioni sempre mutevoli dei sensi, di natura opposta a quella dell’Ente supremo ed immobile. A leggere delle varie tesi riportate dalle fonti non si è trovato chi sia stato suo maestro; forse siamo nel giusto se lo consideriamo un ribelle alla cultura ufficiale del tempo, e più per temperamento che per una sua diversa concezione del mondo. La sua produzione poetica venne da lui pure mostrata alla maniera dei rapsodi, cioè come cantore girovago dei canti omerici – e comprende dei canti celebrativi: La fondazione di Colofone e la Colonizzazione di Elea d’Italia (IX, 20). Alla fine dei suoi circa novanta anni di vita Senofane venne sepolto dopo i suoi figli; e si tramanda che egli li seppellì colle sue mani. E per dir lode del suo animo si racconta che egli vedendo un giorno un cane che veniva bastonato, intervenne presso il padrone dicendo:
“Cessa, non percuoterlo, poiché d’un uomo, un amico, riconobbi l’anima all’udir le grida” (Diogene Laerzio; VIII, 36).
Senofane, dunque, nacque a Colofone e fu contemporaneo di Pitagora: pure lui dovette fuggire dalla patria e scrisse in ionico, ma non in prosa, allontanandosi così da Anassimandro, che aveva introdotto con il suo scritto la prosa. Senofane visse molto a lungo e passò la sua vita girovagando qua e là . Egli scriveva usando un metro simile a quello omerico e pur usando il metro è un filosofo a tutti gli effetti: il fatto che un filosofo si serva del metro è riconducibile al suo spirito divulgativo: voleva far conoscere i suoi scritti al maggior numero di persone. Egli affronta diversi argomenti tra i quali spicca la dura critica rivolta ai poeti per il loro modo di concepire la divinità. Senofane voleva riformare il concetto di divinità rendendolo più puro e questo suo atteggiamento gli valse l’appellativo di “illuminista”. Pur usando un verso simile a quello omerico, egli critica aspramente i poeti ed in particolare Omero ed Esiodo. Senofane scrive così: “Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei tutto quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente”. Secondo Senofane i due errori dei poeti sono: 1) di natura etica: se il divino deve rappresentare la perfezione ed il modello per gli umani, si deve rifiutare che gli dei abbiano caratteristiche riprovevoli perfino per gli uomini; 2) vi è una condanna dell’antropomorfismo: gli dei erano comunemente rappresentati simili agli uomini e questo era un grande gesto di presunzione del genere umano che Senofane non era disposto ad accettare. Questa sua critica emerge tutta in queste parole: “ma i mortali sono convinti che gli dei siano nati e che abbiano abito a linguaggio e aspetto come loro”. Anche qui troviamo una forte critica nei confronti di Omero (quando dice “che abbiano abito linguaggio e aspetto…” ) e di Esiodo (quando dice “siano nati…” : Esiodo è infatti autore della Teogonia, quella sorta di Bibbia dei Greci in cui è narrata la nascita degli dei). Senofane critica con un esperimento mentale l’antropomorfismo: “ma se i buoi (ed i cavalli ) e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò che gli uomini sanno fare, i cavalli disegnerebbero figure di dei simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato”; da questo esperimento mentale emerge innanzitutto l’importanza della mano, che è l’elemento che divide il mondo animale da quello umano: essa permette all’uomo di stabilire rapporti complessi con la realtà. Senofane poi sostiene che ci sia una tendenza sbagliata: quella di crearsi gli dei a propria immagine e somiglianza. Questa critica emerge anche in un altro frammento conservatosi: “gli Etiopi dicono che i loro dei sono camusi e neri, i Traci che sono cerulei di occhi e rossi di capelli”. Questa è – per così dire – la pars distruens della filosofia di Senofane: egli smonta qui le tesi già esistenti a riguardo delle divinità per presentarne altre totalmente rinnovate. Vi è poi una parte che risulta particolarmente difficile da comprendere: “Uno, dio, tra gli dei e tra gli uomini il più grande, nè per aspetto simile ai mortali, nè per intelligenza”; pare quasi che Senofane sia monoteista (parla di un dio solo), poi vi è la contrapposizione tra un dio e altri. Nel nostro mondo la contrapposizione tra monoteismo e politeismo è forte, ma all’epoca doveva essere più attenuata: vi era una proliferazione di dei e solo le persone di maggior spicco culturale erano monoteiste (il concetto è un po’ simile a quello nostro della proliferazione dei santi). L’idea predominante nel mondo greco è quella di ritenere il divino come unica realtà (to qeion) anche se le divinità sono tante. Va però fatta per Senofane un’osservazione: l’espressione “tra gli dei e tra gli uomini” poteva benissimo essere formulare, un modo di dire di allora per sottolineare la potenza del dio: quindi l’espressione “tra gli dei” non è usata in senso proprio come se vi fossero davvero divinità in gioco. Giustamente Senofane è stato considerato il primo teologo, vale a dire argomentatore razionale del divino. Vi è anche un accenno alla “teologia negativa”: partendo dall’impossibilità di rappresentare la divinità con pezzi di realtà, al posto di dire ciò che la divinità è, si dice ciò che non è. Senofane dice poi: “sempre nell’identico luogo permane senza muoversi per nulla, nè gli si addice recarsi or qui, or là”; gli dei omerici dovevano scendere dall’Olimpo per interagire nel mondo e dovevano quindi spostarsi fisicamente. Senofane non accetta questo e afferma che la divinità sia immobile, ma ciononostante può muovere tutto (“ma senza fatica con la forza del pensiero tutto scuote”). Senofane dice poi, in riferimento alla divinità,: “tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode”: dato che non si può rappresentare la divinità attribuendole caratteristiche della realtà, un buon modo di rappresentarla per Senofane è questo: mentre in noi il vedere, il sentire etc. si realizzano un po’ alla volta, in sequenza, nella divinità si realizzano tutte contemporaneamente. Così come per Alcmeone, anche per Senofane c’è distinzione tra il sapere certo degli dei e l’opinare congetturando degli uomini (“il certo nessuno mai lo ha colto nè alcuno ci sarà che lo colga e relativamente agli dei e relativamente a tutte le cose di cui parlo. Infatti, se anche uno si trovasse per caso a dire, come meglio non si può, una cosa reale, tuttavia non la conoscerebbe. Perchè a tutti è dato solo l’opinare”). Comunque il fatto che gli uomini possano solo opinare non ha solo connotazioni negative: significa che l’uomo applicandosi e usando bene la sua mente può conoscere. Senofane è del parere (un po’ come lo siamo noi ) che l’uomo parta dal basso per raggiungere col tempo l’alto tramite i suoi sforzi; a proposito egli dice: “non è che da principio gli dei abbiano rivelato tutte le cose ai mortali , ma col tempo essi cercando ritrovano il meglio”). Senofane, oltre a rifondare il concetto di divino, lo depura dalle manifestazioni naturali: l’arcobaleno, per esempio, era visto come fenomeno divino (esso si identificava con la dea Iride); per Senofane è solo un fenomeno naturale che non ha nulla a che fare con il divino: “quella che chiamano Iride è anch’essa una nuvola che presenta alla vista delle colorazioni purpuree scarlatte e verdastre”. Secondo l’autorevole testimonianza di Platone (Sofista), Senofane sarebbe stato il capostipite dell’eleatismo. Il punto di partenza della sua riflessione è costituito dalla critica alle concezioni antropomorfe della divinità: facile comprendere perché Platone scorgesse in lui l’archegeta dell’eleatismo: introducendo una sola divinità, Senofane finiva per proporre quell’unità tanto cara a Parmenide e ai suoi discepoli. Se è sbagliato propugnare l’antropomorfismo degli dèi, altrettanto sbagliato è, nell’ottica di Senofane, ritenere che la conoscenza divina sia paragonabile a quella umana: il sapere proprio della divinità è infatti incommensurabilmente superiore rispetto a quello umano, e gli uomini, nella migliore delle ipotesi, possono acquisire qualche certezza dopo aver percorso un faticoso itinerario conoscitivo; il tema della conoscenza come tortuosa via da percorrere sarà ripreso e approfondito da Parmenide stesso. Senofane dubitava fortemente che la divinità aiutasse gli uomini a conoscere, mettendo in questo modo l’accento sulla responsabilità umana della conoscenza: senza godere di aiuti divini, l’uomo è responsabile e artefice della propria conoscenza. Naturalmente, con la maggiore indipendenza dell’umano dal divino aumenta la fragilità della situazione umana, poiché gli uomini devono agire solo in virtù delle proprie forze, in quanto la divinità non ha fatto loro alcun dono (né le tecniche né il sapere). La prospettiva è piuttosto simile a quella di Alcmeone, ma diversa è la soluzione: se per il filosofo di Crotone agli uomini non restava che congetturare, secondo Senofane, invece, l’unica arma conoscitiva di cui essi dispongano è quella che egli definisce, introducendo un termine destinato al successo, dokoV , l’opinione. La conoscenza umana è, dunque, essenzialmente opinione, nemmeno congettura; il termine “opinione” suggerisce, tra l’altro, l’idea di una instabilità del sapere umano, suscettibile di essere vero o falso. Ma Senofane lascia una via per sperare: agli uomini è infatti concesso di avanzare verso il meglio, verso cioè opinioni migliori. La superiore intelligenza della divinità, ovvero le superiori attività percettive e intellettive che la contraddistinguono, dice Senofane, sono tali perché coinvolgono la divinità nella sua totalità: gli uomini con un senso vedono, con un altro gustano, con un altro ancora odono, e così via, mentre la divinità non presenta, nella sua interezza, distinzioni sensoriali. Ciò non toglie, però, che, pur nella loro notevole inferiorità, gli uomini possano acquisire conoscenze via via migliori: ” non è che in principio gli dèi abbiano rivelato tutte le cose ai mortali; ma col tempo, ricercando, essi trovano il meglio “. La conseguenza necessaria di questa riflessione è che, procedendo per opinioni, il sapere umano non potrà mai raggiungere certezze, ma solo, come abbiamo già detto, opinioni più accreditate di altre. Sotto questo profilo, anche quando crediamo di dare una definizione esatta di qualcosa, in realtà ci muoviamo comunque nell’ambito dell’opinione: ciascuno di noi può esprimere a parole nel migliore dei modi ciò che qualcosa è, ma non per questo può conoscere con certezza, nel suo linguaggio, la cosa stessa.
PARMENIDE
Parmenide fondò ad Elea , nell’attuale Campania , una vera e propria scuola filosofica e diede inizio alla corrente di pensiero eleatica che vede in Zenone e Melisso due discepoli e sostenitori . Parmenide fu attivo ad Elea verso il 500 a.c. , nacque da famiglia aristocratica e avrebbe contribuito alla legislazione della città . Permangono dubbi a proposito del suo possibile soggiorno ad Atene insieme al discepolo Zenone , dove avrebbe incontrato Socrate . Il tema della ricerca è molto sentito da Parmenide , ma è la divinità stessa ad indicare la via che occorre percorrere . Spesso la corrente di pensiero fondata da Parmenide viene denominata “monismo eleatico” per il fatto che essi , se vogliamo riallacciandosi ai Milesi e distaccandosi dai Pitagorici , sostenevano che tutto fosse riconducibile ad un unico principio . In realtà la tradizione antica vuole che il fondatore della scuola di Elea fosse Senofane , partendo da due presupposti ; in primo luogo Senofane aveva girato mezzo mondo ed era pure passato ad Elea . In secondo luogo , il tema centrale degli eleatici era l’unitarietà dell’essere , tema già presente in Senofane . Però al giorno d’oggi sappiamo che questo è davvero improbabile : è vero che Senofane predicava l’unitarietà , l’immutabilità , l’eternità e tutte le altre cose che predicavano gli eleatici , ma egli le riferiva interamente alla divinità , mentre gli eleatici le riferivano all’essere . Senofane era un teologo , Parmenide un ontologo : il concetto dell’essere è molto più astratto di quello della divinità . Gli eleatici sostengono l’immobilità della causa e così essa viene a mancare in quanto la sua funzione è quella di spiegare a che cosa è dovuto il cambiamento , che per loro non esiste : l’essere è immutabile . La parola essere (in greco “tò on” , ciò che è ) è proprio a partire da Parmenide che entra nell’uso filosofico . Egli fece un ragionamento che comportò un enorme passo avanti verso l’astrazione : notò infatti che tutti gli enti sono tra loro diversi , ma che hanno in comune il fatto di essere , di esistere . Abbiamo detto che egli fu un ontologo : ma cosa significa ? L’ontologo è colui che studia ” l’essere in quanto essere ” (come dice Aristotele) , vale a dire le caratteristiche di tutto quel che esiste . Aristotele ci parla di Parmenide e dice che studiava l’essere secondo definizione : si tratta quindi di indagare secondo definizione : la differenza tra Parmenide e gli altri pensatori sta proprio nel fatto che egli non iniziava la sua indagine partendo da constatazioni empiriche per arrivare alle conclusioni ; lui partiva dalla definizione di cosa è l’essere e tramite una serie di deduzioni arrivava alle conseguenze , spesso in netta contrapposizione con le testimonianze dei sensi . Parmenide non accenna mai alla realtà empirica . Arriva ad esplicitare due tautologie : a) l’essere è b) l’essere non è . Parmenide scrisse un poema in esametri (proprio come Senofane ed Empedocle), intitolato “Sulla natura” (Peri fusewV) , di cui ci rimangono frammenti . Mentre Senofane si serviva dell’esametro per avere maggior successo sugli ascoltatori e perchè la sua opera si divulgasse il più possibile , Parmenide scriveva in esametri perchè descriveva argomenti divini e quindi il verso epico era il miglior verso per parlare di tali argomenti . L’opera era strutturata in un proemio e due parti successive : proprio alla fine del proemio la divinità spiega che ci sono 3 vie da seguire : 1) L’essere è 2) L’essere non è 3) Si mescolano insieme l’essere ed il non essere . La seconda via verrà dichiarata impraticabile e puramente teoretica : è infatti impossibile dire o pensare ciò che non è . La terza via è quella che imboccano i comuni mortali , che mescolano l’essere con il non essere : per esempio i mortali parlano di nascere e morire , il che implica una mescolanza di essere e di non essere : nascere vuol dire essere , ma anche non essere prima di essere e morire vuol dire non essere , ma anche essere prima di non essere .Il criterio per giudicare scorretto il linguaggio degli uomini non è la sua corrispondenza a quanto ci è testimoniato dai sensi : a questi infatti appaiono oggetti che nascono e che muoiono . Ma il verdetto di Parmenide sul linguaggio e sulle opinioni degli uomini , collegate a quel tipo di linguaggio , non assume a criterio di giudizio le apparenze fornite dai sensi , bensì il contenuto logico delle parole usate dagli uomini . Essi infatti usano parole nelle quali si trova mescolato in modo contraddittorio ciò che è disgiunto radicalmente , ossia essere e non essere . Con i termini ” è ” ed ” essere ” Parmenide intende probabilmente una molteplicità di cose . Infatti dire che qualcosa è , può significare che esso è presente o che esso esiste o che è qualcosa o che è vero . Tutti questi significati sono presenti nell’essere di Parmenide . Solo ciò che è può essere propriamente pensato e detto : questo comporta un necessario legame tra ESSERE , PENSIERO e LINGUAGGIO . Partendo dalla disgiunzione assoluta tra ” é ” e “non è “, Parmenide procede quindi ad individuare quali sono le proprietà di ciò di cui si può propriamente pensare o dire che è . Egli introduce in tal modo una procedura che resterà essenziale per il ragionamento non solo filosofico , ma anche matematico . Si tratta della DEDUZIONE , vale a dire il ragionamento che partendo da proposizioni ammesse come premesse ricava delle conclusioni : si parte da definizioni e verità generali per passare in modo logico a nuove verità più particolareggiate . In particolare Parmenide mette in opera una particolare forma di deduzione consistente nella cosiddetta DIMOSTRAZIONE PER ASSURDO , della quale Zenone farà la base per la sua filosofia . Essa assume come premesse il contrario di ciò che si vuole dimostrare e ne deduce una serie di conseguenze contraddittorie o errate . E poichè queste conseguenze sono errate , ne risulta che sono errate le premesse a partire dalle quali sono ricavate . Il risultato è che saranno vere le premesse contrarie a quelle errate . E’ proprio con la dimostrazione per assurdo che Parmenide dimostra l’immutabilità , l’immobilità , l’indivisibilità e l’unicità dell’essere . Ammettiamo che l’essere muti : ne consegue che esso è ciò che non era prima o non è ciò che era prima . Ma in tal modo si attribuisce a una stessa cosa l’essere e il non essere , il che va contro quel carattere di disgiunzione assoluta tra ” é ” e ” non è ” , assunto come necessario all’inizio . Per evitare tale contraddizione , diventa allora necessario concludere esattamente l’opposto , ossia che l’essere non muta . Lo stesso vale per dimostrare l’unicità : se l’essere fosse molteplice occorrerebbe riconoscere che ciascuno di questi molteplici è se stesso e non è altri e pertanto nuovamente sarebbe e non sarebbe . L’essere è immobile : ammettiamo che si muova ; una cosa è mobile quando si muove da una cosa ad un’altra : l’essere quindi si dovrebbe muovere verso qualcosa di diverso da se stesso . Ma il diverso dall’essere è il non essere , che non esiste : quindi l’essere è immobile . Tra le proprietà dell’essere Parmenide introduce anche il carattere finito di esso : infatti se fosse infinito sarebbe incompiuto e quindi mancherebbe di qualcosa ; ma se manca di qualcosa vuol dire che non è ciò di cui manca . Anche la nozione di infinito quindi comporta una mescolanza contradditoria di essere e non essere . Per questo Parmenide paragona “ciò che è” (to on) ad una sfera compatta , la quale esprime nel miglior modo possibile il carattere di compiutezza e totalità che caratterizza l’essere . La prima parte dell’opera si chiamava “ALETHEIA” (alhqhia “verità” , dal verbo “lanqanw” : la verità è ciò che non si nasconde) e rappresenta la prima via e la verità di primo livello . L’ altra parte dell’opera si chiamava “DOXA” (doxa “opinione”) e rappresentava la seconda via e la verità di secondo livello . Nell’ Aletheia Parmenide fa considerazioni sull’essere mentre nella Doxa presenta una sorta di mezza verità , dove cerca di rendere compatibile la testimonianza dei sensi con la verità vera e propria : è come se cercasse un’interpretazione del mondo fisico compatibile con i sensi , con il modo in cui lo vediamo , e non in contrasto con l’Aletheia . Del proemio del “Peri fusewV” possediamo molto , della Doxa invece abbiamo solo pochi frammenti e questo testimonia che era ritenuta contraddittoria perchè dà l’impressione che Parmenide voglia distaccarsi da quanto aveva affermato più volte in precedenza : ciò che capiamo con la ragione va seguito anche se è in contrasto con ciò che ci dicono i sensi . Va riscontrato che Aristotele mentre ci parla di Parmenide nella “Metafisica” prende un’enorme cantonata : dice infatti che secondo Parmenide il caldo si identifica con l’essere ed il freddo con il non essere . Ma passiamo ora ad esaminare il proemio dell’opera di Parmenide : egli racconta di aver compiuto un viaggio verso la verità , voluto dal Cielo . La metafora del viaggio resterà rimarrà una costante nella riflessione antica : dal termine “hodòs” (odoV via , strada) si verrà formando già in Platone il termine ” methodos ” (meta ton odon , ciò che sta oltre al viaggio : il percorso che conduce alla verità ) , ma il concetto di hodòs risulta centrale anche per tutta la prima parte del poema . L’iniziativa del viaggio tuttavia e soprattutto la direzione che esso assume non dipende da Parmenide , sebbene egli ne sia protagonista , bensì dalle dee che lo guidano , così come varcata la porta che separa i due domini delle tenebre e della luce , sarà la dea a comunicargli quale via di ricerca egli dovrà , in futuro , percorrere . Il racconto di Parmenide riguarda dunque non una rivelazione già tutta compiuta ; questa infatti fornisce solo i caratteri generali della via lungo la quale occorrerà proseguire la ricerca e soprattutto formula i divieti relativi alle vie che non bisogna percorrere , cioè quelle comunemente battute dagli uomini in preda alle opinioni . Parmenide non dice mai chi siano esattamente le dee che lo guidano , ma sono collegate con il culto del Sole e quindi con Apollo . Il percorso che deve affrontare Parmenide conduce dalle tenebre (l’ignoranza) alla luce (la conoscenza) ; ad un certo punto , mentre il carro su cui è Parmenide sta procedendo velocemente , le dee si tolgono i veli : questo gesto simbolico rappresenta la rivelazione . La metafora tra l’altro spiega che ciò che viene disvelato e ciò che disvela sono lo stesso : si tratta sempre delle dee ; è come se l’essere stesso rivelasse la via da percorrere . Parmenide e le dee giungono alla porta che separa il giorno dalla notte : descrivendo questo portale Parmenide non fa nient’altro che descrivere l’assetto urbanistico della sua città , Elea , dove esisteva sul serio una porta : essa divideva la parte alta e aristocratica della città (l’acropoli) da quella bassa e popolare . Per aprire la porta è necessario l’intervento della Giustizia (Dikh): le dee stesse la convincono con discorsi suasori ad aprirla . L’oggetto della rivelazione è quindi l’essere , ma attenzione : non è che sia la divinità a darcelo : l’essere , la divinità , il principio … sono la stessa cosa : è un’autorivelazione dell’essere e va intesa come spiegazione di quali siano le vie da seguire ; la ricerca è l’uomo stesso a farla . Ma non è un percorso che possono fare tutti gli uomini : quello di Parmenide è un percorso solo suo , che nessun altro uomo può fare . La verità stessa impone determinate vie da seguire . Le dee dicono a Parmenide di imparare a conoscere due cose : A) il cuore non scosso ed immobile della Verità , la quale è ben rotonda (come una sfera compatta) B) le opinioni instabili e campate per aria dei mortali : la conoscenza infatti si perfeziona quando oltre a conoscere le cose perfette si conoscono le imperfezioni . Le dee dicono che non si deve fondare il sapere sull’esperienza perchè essa è dettata dai sensi nè sulla lingua , che attribuisce i nomi alle cose , ma si deve ponderare con la ragione . La rivelazione divina non implica che l’uomo non debba cercare di conoscere con il raziocinio . Vengono a Parmenide presentate le vie PENSABILI : il termine greco per pensabili è “nohsai” che può voler dire sia ” pensabili ” sia ” per pensare ” : entrambe le traduzioni sono quindi accettabili . Una via dice che l’essere è e non può non essere , l’altra che l’essere non è e che può non essere . La prima via è quindi effettivamente percorribile ed è caratterizzata dalla verità e dalla persuasione : la Verità è infatti in grado di persuadere . L’altra strada è contraddittoria ed impercorribile . Il testo in questione presenta diverse difficoltà di interpretazione , la più valida delle quali è che solo l’essere è pensabile e dicibile , mentre il non essere è impensabile ed indicibile : la prima via risulta quindi percorribile in quanto pensabile , l’altra no : è qui che emerge maggiormente l’identità parmenidea tra essere e pensare . Ma tutto questo si presta a più interpretazioni : per esempio potrebbe voler dire che se l’unica cosa che è è l’essere , allora il pensiero , dato che è , fa parte dell’essere come tutti gli altri enti . Ma potrebbe anche voler dire che tutto ciò che diciamo e pensiamo è : anche se pensiamo ad un qualcosa che materialmente non esiste ed è solo frutto della nostra immaginazione in qualche misura esiste : anche un drago per il fatto che viene pensato in qualche misura esiste . Man mano che prosegue il viaggio , salta fuori che in realtà le vie non sono 2 , ma 3 : la terza è quella che seguono quasi tutti i mortali , dove si mescolano l’essere ed il non essere : Parmenide li chiama ” uomini dalla doppia testa ” perchè affermano simultaneamente che l’essere è e non è : si tratta di gente stolta ed indecisa , dice Parmenide . Egli muove poi un’aspra critica ad Eraclito ed alla sua concezione del divenire , piena di mescolanza di essere e non essere (ricordiamoci che Parmenide negava che l’essere potesse muoversi e mutare), e a quella di molteplicità . Parmenide dice che questa terza via va assolutamente purificata e resa scevra di errori , affinchè risulti almeno parzialmente compatibile con la Verità della prima via . La seconda invece va assolutamente scartata . Parmenide dà poi una raffinata ed elegante definizione di eternità : l’essere non era nè sarà , perchè è ora tutt’insieme : una cosa è davvero eterna quando è fuori dal tempo . Ma Parmenide non si limita ad affermare , ma dimostra anche : l’essere infatti non può nè nascere nè morire (come dicono i comuni mortali) . Ipotizziamo che l’essere nasca : da sè non può nascere e quindi deve nascere da qualcosa che non sia lui stesso : deve essere quindi un qualcosa che non sia essere : ma ciò che non è essere è non essere : ma il non essere non è , di conseguenza l’essere non nasce nè muore . Parmenide dice poi per dissipare definitivamente ogni dubbio sul fatto che l’essere nè nasca nè muoia : che motivo avrebbe mai avuto per nascere ad un certo momento ? Tuttavia anche un astratto come Parmenide ha avuto bisogno di ricorrere all’incarnazione dell’astratto (l’essere) in qualcosa di concreto (la sfera tonda e compatta) : però va detto che quello della sfera potrebbe essere un semplice paragone e non un’effettiva incarnazione . Dunque Parmenide prova a correggere gli errori dei mortali : il loro primo errore consiste nell’individuazione di due principi della realtà tra loro antitetici : la luce e le tenebre . Il loro è una sorta di pitagorismo esposto in termini fisici . La luce è un principio più attivo , corrispondente al fuoco , le tenebre sono più passive e corrispondono alla terra . Ma accanto a questo errore Parmenide ne individua un altro più grossolano : hanno contrapposto tra loro questi due principi . Ammettiamo di poter interpretare la realtà in termini di luce e tenebre , evitando però di contrapporle e considerarle l’una l’essere e l’altra il non essere . In fondo quello degli esseri mortali comuni non è un errore poi così grave : è vero che hanno mescolato l’essere con il non essere , però se andiamo a vedere nè con la luce nè con le tenebre c’è il nulla , il non essere . I mortali sono stati ” bravi ” a non incappare nella seconda via . Sempre a proposito dell’opera di Parmenide possiamo concludere dicendo che mentre nell’ Aletheia troviamo un Parmenide brillante e convinto di ciò che sta dicendo , nella Doxa egli appare più restio e meno convinto . E’ come se Parmenide , dopo aver sostenuto che bisogna fidarsi solo di ciò che ci dice la ragione , avesse avuto paura di quanto detto perchè portava troppo fuori dalle testimonianze dei sensi e volesse come se scusarsi nella Doxa . Va poi detto che nessuno leggendo il testo di Parmenide si fa convincere a riguardo di quanto egli dice : seguendo il ragionamento logico ci si accorge che Parmenide ha ragione , ma le conclusioni paradossali impediscono al lettore di credere a quanto egli dice . Platone dirà di aver commesso il “parricidio di Parmenide” : si accorgerà infatti che Parmenide aveva commesso un errore a riguardo dei significati dell’essere : Aristotele individua tre modi di intendere l’essere : 1) univoco (l’essere ha un solo significato) 2) biunivoco (l’essere ha equivocità , può essere inteso in più modi) 3)analogico (il verbo essere ha diversi significati ma tutti connessi tra loro) . Aristotele lo intendeva in modo analogico , Parmenide in modo univoco : per lui essere significa solo esistere . Dunque Platone farà notare che dire ad esempio ” questo libro non è ” non vuol dire predicare il non essere : infatti si può dire ” questo libro non è una penna ” : è l’essere diversamente , dove l’essere assume il valore di copula .
ZENONE DI ELEA
LA VITA
Anche per Zenone l’unica immagine che possediamo è quella contenuta nel racconto platonico del Parmenide (127 a), nel quale un quarantenne Zenone, «ben fatto e gradevole a vedersi» accompagna Parmenide ad Atene. In base a questo racconto la nascita di Zenone andrebbe collocata nel 490 o subito dopo. Secondo Diogene Laerzio (IX, 29; ma il testo è lacunoso) Apollodoro collocava l’acme di Zenone nell’Olimpiade 79 (464-461), facendone risalire la nascita alla fine del secolo precedente. Non conosciamo nessuna vicenda della sua vita, a meno che si voglia dare valore storico alla narrazione del Parmenide platonico e alla notizia in esso contenuta che Zenone era l’amante di Parmenide. Apollodoro ne faceva invece il figlio adottivo di Parmenide e Ateneo protestava contro quella che considerava un’interpretazione maligna e gratuita di Platone. Una tradizione dice che Zenone non abbandonò mai Elea e in particolare non si recò ad Atene: potrebbe trattarsi di una reazione alla versione platonica. Un altro insieme di notizie concerne le vicende politiche di Zenone, che sarebbe stato fiero oppositore e anche vittima di un tiranno.
Non è sicuro di quale tiranno si trattasse, e anche i particolari della storia, fatta di crudeltà e di astuzie, sembrano fittizi. Zenone vi appare chiaramente come un tipico rappresentante della resistenza filosofica alla tirannide e il suo contrasto con il tiranno è anche occasione per trovate astute e risposte sottili.
IL PENSIERO
A Zenone di Elea, che la tradizione raffigurava come il fedele scolaro di Parmenide, sono stati spesso attribuiti gli aspetti più paradossali dell’eleatismo. Isocrate lo collocava vicino a Protagora, Gorgia e Melisso, come rappresentante di una cultura oratoria brillante ma poco utile, e diceva di lui che «tentava di mostrare che le medesime cose sono una volta possibili e poi di nuovo impossibili».
Secondo la testimonianza platonica Zenone dichiarava di esser venuto in aiuto di Parmenide seguendo una via indiretta: contro coloro che mettevano in luce le conseguenze ridicole e contraddittorie delle dottrine parmenidee, mostrava che è invece la molteplicità a produrre risultati contraddittori, facendo apparire «le stesse cose simili e dissimili, una sola e molte, immobili e in movimento». L’interpretazione platonica sembra una correzione dell’immagine paradossale che troviamo in Isocrate. E possibile che l’interpretazione di Platone abbia radici all’interno del gruppo platonico, e all’interpretazione platonica si ricollegava Aristotele quando faceva di Zenone «l’inventore della dialettica». Qui ‘dialettica’ va intesa probabilmente in senso aristotelico, come un ragionamento che parte da assunzioni altrui e le esamina, per metterne in luce eventuali conseguenze poco credibili.
Già le interpretazioni antiche di Zenone dovevano essere discordanti: l’immagine che ne aveva dato Platone dovette restare canonica, anche se Eudemo, Alessandro e Simplicio la dovevano intendere in modi diversi29. Secondo Simplicio, Zenone «nel suo scritto apportava molti argomenti confutatori per mostrare che chi sostiene che esistono molte cose si trova ad asserire cose contrarie, per esempio che le cose sono grandi e piccole, grandi fino ad essere infinite e piccole fino a non avere grandezza». Da una stessa premessa, «i molti sono», Zenone ricavava cioè coppie di conclusioni contraddittorie: i molti sono infinitamente grandi e infinitamente piccoli, hanno molteplicità limitata e molteplicità infinita.
Forse Zenone formulava un primo argomento contro la molteplicità per mostrare che ciascuna delle cose molteplici, se deve essere una e identica a se stessa, non può avere grandezza. Simplicio non ci riferisce questa argomentazione, ma essa doveva introdurre la divisione in parti, che ha tanta importanza nelle argomentazioni zenoniane. Se ha grandezza, una cosa può esser divisa in parti; ma allora non sarà più unitaria né identica a se stessa, perché sarà costituita da una somma di parti e sarà identica a questa somma. Può darsi che a questo punto Zenone prendesse in considerazione una possibile obiezione alla tesi che per esistere un’unità non deve avere grandezza: se non ha grandezza, una cosa non esiste, perché, per esistere, deve far aumentare la cosa cui è aggiunta o diminuire quella da cui è tolta. Ma Zenone faceva di nuovo intervenire la divisione in parti nel suo secondo argomento contro la molteplicità: se si ammette che ciò che è, per essere, deve avere grandezza, allora si avrà una molteplicità, ma i molti saranno piccoli e grandi. Infatti ogni cosa che è avrà grandezza e spessore, e l’avranno anche ciascuna delle sue parti, ognuna delle quali si distinguerà da un’altra, la quale a sua volta avrà grandezza, spessore e si distinguerà da un’altra; e così via. Si avranno allora cose tanto piccole da non avere grandezza e tanto grandi da essere infinite. Infatti, via via che si procede nella divisione di una cosa, le sue parti si fanno sempre più piccole, fino quasi ad annullarsi. Ma se ogni cosa è costituita da infinite parti, aventi ciascuna una grandezza, essa sarà infinitamente grande.
Si è osservato che, dal punto di vista matematico, il ragionamento zenoniano non è corretto perché, se le parti alle quali mette capo la divisione all’infinito tendono a 0, allora la loro somma non può essere infinita, in quanto la somma di una serie che converge a 0 (come 1/2, 1/4, 1/8,…) è 1. In questo caso nessuna delle parti è nulla e la loro somma può coincidere con la cosa di cui sono parti. Zenone però riteneva che le parti prodotte dalla divisione fossero non nulle solo se potevano far cambiare la grandezza di una cosa cui fossero aggiunte o tolte, e probabilmente ricavava di qui l’immagine di una somma di infinite parti uguali, una somma appunto infinita. In questo caso le cose finite diventerebbero somme infinite di parti. Ma è stato anche osservato che nel secondo argomento Zenone poteva formulare non un’antinomia (se si ammette la molteplicità, questa sarà contemporaneamente nulla, perché fatta di parti praticamente uguali a 0, e infinita, perché costituita dalla somma di infinite parti uguali e non nulle), ma un dilemma: o si accetta il primo argomento, e allora le parti alle quali mette capo la divisione, se esistono, non hanno grandezza, sicché la cosa costituita dalla loro somma sarà piccola (dove ‘piccolo’ è inteso in opposizione a ‘grande’); oppure le cose diventano infinitamente grandi, perché sono la somma infinita di infinite parti che hanno grandezza. In questa interpretazione il ragionamento di Zenone sarebbe meno dipendente da una divisione in parti rappresentabile come una serie.
Probabilmente nel formulare i suoi ragionamenti Zenone non dava un’interpretazione geometrica delle cose, ma spingeva oltre ogni limite un processo di divisione che ai suoi primi stadi aveva ovvi riscontri intuitivi. Doveva esser questo il presupposto del terzo argomento contro la molteplicità, che Simplicio dice di riferire alla lettera: «se i molti sono, è necessario che siano tanti quanti sono; e se sono tanti quanti sono, dovrebbero essere limitati. Se i molti sono, le cose che esistono sono infinite: infatti sempre in mezzo alle cose che sono cene sono altre, ed altre ancora in mezzo a queste. E così le cose esistenti sono infinite». Poiché non sempre tra due cose se ne deve ammettere una terza, in quanto possono esistere collezioni di cose discrete e finite, anche in questo caso si è pensato che il ragionamento zenoniano si applichi solo a insiemi densi, come quelli dei punti, tra due dei quali è sempre possibile inserirne un terzo. Ma anche in questo caso è molto più probabile che Zenone, anziché far riferimento a qualcosa come il ‘continuo’ o lo ‘spazio euclideo’, partisse da processi intuitivi, quali l’inserimento di un intervallo tra due corpi, e supponesse l’esecuzione di un’operazione simile all’interno di un corpo per dividerne le parti.
Secondo Diogene Laerzio, Zenone argomentava anche contro il movimento sostenendo che «ciò che si muove non si muove né nel luogo in cui è, né in quello in cui non è». Per Aristotele quattro sono i ragionamenti di Zenone intorno al movimento.
Il primo argomento contro il moto, detto la dicotomia, parte dalla considerazione che un mobile non può mai arrivare al termine della traiettoria, perché prima di percorrere il percorso intero deve percorrerne la metà. Questo testo è stato variamente inteso (fìg. 1).
A. Dato il percorso A-B, prima di giungere in B, il mobile deve percorrere ½(A-B), raggiungendo A1, ma prima di raggiungere A1, deve percorrere 3/2(A-A1) e così via.
B. Supposto che il mobile abbia raggiunto il punto A1, a metà del percorso A-B, esso dovrà percorrere ½ (A2-B) prima di raggiungere B, e poi 1/2(A2-B) e così via.
Aristotele spiegava la difficoltà posta da questo argomento dicendo che in esso una traiettoria infinita doveva essere percorsa in un tempo finito. In entrambe le interpretazioni il mobile dovrà percorrere infiniti intervalli decrescenti di 1/2, 1/4, 1/8,…, dove il denominatore potrà crescere all’infinito.
Il secondo argomento contro il moto è quello detto di Achille o di Achille e la tartaruga. Si supponga che Achille insegua una tartaruga, che ha su di lui un vantaggio iniziale; pur muovendosi con una velocità maggiore di quella della tartaruga, Achille non la raggiungerà mai, perché, se si suppone che AB sia il vantaggio della tartaruga su Achille, questi deve giungere in B, per raggiungere la tartaruga. Nel frattempo però la tartaruga sarà passata in A1 e, quando Achille sarà giunto in A1, essa sarà ìn A2 e così via. Secondo Aristotele questo argomento era identico al precedente, con la sola differenza che qui non si ha una serie di dimezzamenti, ma gli spazi che dividono Achille dalla tartaruga diventano sempre più piccoli secondo la serie 1/n, 1/n2 , 1/n3…
Il terzo argomento contro il moto e quello detto della freccia. In ogni momento dato un corpo occupa uno spazio esattamente uguale alla sua grandezza, e quando un corpo occupa uno spazio uguale a se stesso è in quiete. Pertanto in ogni istante di un movimento il mobile sarà in quiete, e un movimento non può risultare da una somma di stati di quiete.
II quarto argomento contro il moto, detto anche delle masse nello stadio, suppone che in uno stadio ci siano tre serie (A1, A2, A3, A4; B1, B2, B3, B3; C1, C2, C3, C4) di corpi. Le tre serie hanno uguale lunghezza e una (A1-A2) è ferma, mentre le altre due si muovono con la stessa velocità lungo percorsi paralleli. Una serie si muove dall’estremità dello stadio e l’altra in senso inverso dalla metà dello stadio verso quell’estremità. Nella posizione iniziale (fìg. 2a) B3 e B4 sono in corrispondenza di A1 e A2, mentre C1 e C2 sono in corrispondenza di A3 e A4. Ci dovrebbe essere un momento in cui ciascuna massa di una serie sarà allineata con la massa corrispondente delle altre due serie, sicché gli estremi A1-B1-C1 e A4-B4-C4 combaceranno (fìg 2b). Per raggiungere questa disposizione le masse B e C superano le une rispetto alle altre 4 intervalli, perché B4 nella posizione iniziale non corrisponde a nessun C, mentre nella posizione finale corrisponde a C4: dunque i B e i C sono sfilati gli uni rispetto agli altri di 4 posizioni. Ma nello stesso tempo, B4 raggiunge A1 e C1 raggiunge A1 muovendosi di 2 soli intervalli. Poiché le serie sono tutte uguali, bisogna ammettere che i corpi in movimento hanno percorso nello stesso tempo spazi uguali e diseguali.
Potrebbe essere Aristotele che, esponendo l’argomento della freccia, attribuisce a Zenone la concezione del tempo come somma di istanti in ognuno dei quali la freccia è stazionaria. E Aristotele liquida anche l’argomento delle masse nello stadio con l’osservazione che Zenone trascura le velocità relative dei mobili. La critica aristotelica potrebbe dipendere dal fatto che Aristotele espone gli argomenti zenoniani riferendoli a intervalli finiti e a corpi macroscopici di grandezza finita. Non così faceva con i primi due argomenti contro il moto, la dicotomia e Achille, esponendo i quali sosteneva che Zenone fa percorrere distanze infinite in tempi finiti. In effetti Aristotele faceva riferimento a Zenone nel trattare di infinito e di continuo, e la letteratura filosofica e matematica posteriore ha ripreso quelle argomentazioni.
Quando nell’Ottocento si sistemò la teoria matematica del continuo, parve che anche i paradossi zenoniani potessero esser spiegati e risolti. Nacque così una storiografia che presentava le argomentazioni zenoniane in chiave matematica, tanto più che si poteva pensare che Zenone facesse riferimento a una matematica pitagorica entrata in crisi con la scoperta delle grandezze incommensurabili; e con quella crisi Zenone poteva esser collegato, perché i suoi paradossi nascevano dalla scoperta del continuo, che solo la moderna teoria degli insiemi rendeva possibile padroneggiare.
La storiografia più recente ha cercato di liberarsi dalla prospettiva matematica. La matematica pitagorica è apparsa un’improbabile invenzione, e gli storici sono diventati prudenti nell’introdurre riferimenti all’infinito nei paradossi di Zenone; hanno invece preferito ricostruire il suo linguaggio filosofìco, nel quale i problemi dell’infinito matematico e del continuo non sono presenti.
Non è escluso che Zenone fosse diventato un personaggio al quale si potevano assai liberamente attribuire argomenti paradossali, come quel sorite con il quale avrebbe sostenuto che ogni grano di miglio dovrebbe far rumore cadendo, se fa rumore tutto il mucchio. Oggi è difficile farci un’idea del tipo di scritti nei quali erano esposti i ‘paradossi’ di Zenone, del pubblico al quale si rivolgevano, della funzione che dovevano compiere. Spesso tra i rappresentanti della filosofia presocratica si cita Epicarmo, un personaggio vissuto tra la fine del VI e il V secolo a.C., al quale veniva attribuita l’invenzione della commedia. Alcimo accusò Platone di aver trovato in Epicarmo molte cose e di averle copiate, e la tradizione pitagorica s’impadronì di lui, facendone uno scolaro di Pitagora. Tutte queste notizie sono poco attendibili. E’ certo che Epicarmo era un rappresentante della vita intellettuale delle colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia, e che scrisse delle composizioni teatrali. In esse compaiono argomentazioni ‘di tipo filosofìco’. Trattandosi di dialoghi non c’è da stupirsi che Epicarmo mettesse in scena dottrine che potevano colpire per la loro stranezza e che potevano essere attribuite ai personaggi rappresentati. Proprio gli eleati diventeranno popolari per la paradossalità delle loro tesi. Ma i testi di Epicarmo potrebbero anche rivelare modi di argomentare inconsueti, e tuttavia diffusi nella cultura letteraria e codificati nella cosiddetta cultura fìlosofica. E possibile trovarvi versi che ricordano Senofane, che possono far venire in mente i paradossi zenoniani e che avranno echi ancora nel Fedone di Platone. Tutto questo non autorizza a dire che Epicarmo sia una fonte di Platone, così come non è possibile dire che ci siano stati rapporti tra Epicarmo e Senofane, Parmenide o Zenone. Ma il riferimento a Epicarmo può mostrare che certi modi di ragionare sono nati proprio nel linguaggio letterario e nella sua ricerca della sottigliezza e del paradosso. Tutto sommato, forse Zenone non ha dato voce a una teoria dell’infinito o del continuo o dello spazio geometrico, ma ha semplicemente costruito paradossi assumendo che una cosa non coincida con la somma delle sue parti, che un movimento sia una somma di stati stazionari, che prima di esser giunti a una posizione bisogna aver occupato la posizione precedente e così via. In questo senso egli riprendeva un elemento parmenideo. Parmenide aveva sostenuto che, una volta introdotta, la negazione genera parole, ciascuna delle quali pretende di avere un riferimento autonomo: e nasce un’immagine fallace dell’universo. Zenone fa qualcosa di analogo: se si mette una parte tra altre due o una tappa prima di un termine, non si può poi più ricostituire il tutto.
La fortuna di Zenone nella letteratura retorica e sofistica fa supporre che la sua connessione con la logica, la dialettica e la matematica possa essere molto sviante. I filologi hanno riportato le arditezze speculative dell’eleatismo al linguaggio letterario arcaico e gli storici della filosofìa hanno cercato di trovare negli usi del linguaggio comune le fonti dei paradossi di Zenone. Queste impostazioni sono in parte figlie della moda filosofica del nostro tempo. Ma certamente non conviene cercare in Zenone un critico della matematica pitagorica o un protagonista della nascita della matematica greca classica o uno scopritore delle difficoltà che la teoria moderna degli insiemi avrebbe risolto.
Zenone è rimasto una figura popolare nella nostra tradizione, e filosofi e matematici moderni hanno spesso fatto riferimento a lui; ma l’immagine che ne è sopravvissuta, passata attraverso i testi aristotelici e legata alla teoria aristotelica dell’infinito e del continuo, si è formata all’interno dei gruppi platonici nel corso della discussione sulla matematica e il movimento. In quel momento la matematica offriva una teoria della molteplicità e del movimento che poteva costituire una difficoltà per le teorie filosofiche condivise dai platonici. Dovette nascere l’idea che le difficoltà filosofiche generate da quelle teorie matematiche dipendessero dall’infinito, e i paradossi di Zenone dovettero sembrare la prova più eloquente in proposito. Infatti, prima di Platone, Zenone è conosciuto soprattutto come costruttore di paradossi e lo stesso Platone partiva da questa immagine per fare di lui un semplice difensore della filosofia parmenidea. Poi, forse già Platone, ma certamente Aristotele si servirono delle argomentazioni di Zenone per mostrare le difficoltà alle quali va incontro il tentativo di introdurre l’infinito.
OPERE
Anche per quel che riguarda l’opera di Zenone la notizia più antica è quella di Platone (Parmenide), che parla di uno scritto di Zenone, che allora arrivava per la prima volta ad Atene. Una tradizione attribuiva a Zenone più opere, forse quattro (Dispute, Esame delle dottrine di Empedocle, Contro i filosofi e Sulla natura), ma gli storici hanno riconosciuto in questi titoli tutt’al più il riferimento tardo a parti di una stessa opera.
Non sappiamo molto della struttura dello scritto di Zenone. Platone parla dei «discorsi» che lo componevano e sembra riconoscere in ogni discorso più «ipotesi».
Probabilmente nel gruppo platonico era invalsa l’abitudine di rappresentare gli eleati, a cominciare dallo stesso Parmenide, nell’atto di discutere. Proclo attribuiva a Zenone ben quaranta argomenti, mentre ai quaranta argomenti contro la molteplicità Elia aggiungeva cinque ragionamenti contro il moto.
Per noi è difficile accedere direttamente allo scritto di Zenone, perduto. Aristotele cita ampiamente argomentazioni zenoniane; ma non sappiamo affatto se egli attinga fedelmente a qualche scritto o se le sue siano interpretazioni di argomentazioni di Zenone o che si facevano risalire a Zenone.
MELISSO
BREVE PRESENTAZIONE
Melisso (che visse dopo la metà del V secolo a.C.) viene generalmente collocato nell’ambito dei filosofi eleatici (insieme a Parmenide e a Zenone), sebbene fosse originario non già di Elea, bensì di Samo, nella Ionia minore. Il giudizio di Aristotele nei suoi confronti è molto duro: lo Stagirita, infatti, non lo apprezzava a causa della sua rozzezza e grossolanità. Nonostante i giudizi poco lusinghieri di Aristotele, Melisso risulta essere molto importante per la storia della filosofia, in particolare per il suo tentativo di coniugare l’eleatismo con la filosofia della natura. Fu allievo di Parmenide, come Zenone, ma non si limitò a difendere le tesi del maestro (come aveva fatto Zenone stesso), ma apportò alcune modifiche ed innovazioni, in particolar modo l’attribuzione dell’eternità e dell’infinità all’essere. Con Melisso ci troviamo di fronte ad una contaminazione tra gli eleati e gli ionici: il particolare risultato di questa mescolanza è che Melisso dà interpretazioni prettamente fisiche ai concetti astratti di Parmenide, il quale aveva esplicitamente negato che l’ambito del pensiero potesse accordarsi con quello dell’esperienza sensibile, relegata all’ambito della doxa. In altre parole, Melisso traduce in termini fisici ciò che per Parmenide era solo in termini logici. La sua opera si intitolava Peri fusewV o Sull’essere e, a differenza di quella del maestro Parmenide, era in prosa e non in poesia. In essa egli afferma che essere e non essere sono rispettivamente – in termini naturalistici – pieno e vuoto. Per un certo verso riprende le argomentazioni ioniche dei Milesi: l’essere era e sempre sarà (a differenza di ciò che diceva Parmenide). Tra i vari aspetti in comune con gli Eleatici, troviamo proprio il costante dimostrare per assurdo, portato in auge soprattutto da Zenone, ma non assente in Parmenide stesso. Egli dimostra per assurdo che l’essere è sempre esistito e sempre esisterà: ammettiamo che l’essere sia nato. Una cosa che nasce deve per forza nascere da un’altra realtà, da qualcosa di diverso: se nascesse da sè allora significherebbe che esisteva già, quindi è nato da qualcosa di diverso; in altre parole deve essere generato da qualcosa che non è essere, ma ciò che non è essere è il non essere, ma il non essere non esiste (l’aveva dimostrato Parmenide). Dimostrato per assurdo che l’essere non è generato, ne segue che esso è eterno. Sempre nella sua opera, Melisso conferma tesi parmenidee e zenoniane servendosi di argomentazioni innovative: in particolare egli arriva a sostenere l’inesistenza del movimento, servendosi di una dimostrazione paradossale: abbiamo detto che l’essere è il pieno e il non essere è il vuoto e tutti sappiamo che, perchè avvenga un movimento, ci deve essere un qualcosa che si sposta nel vuoto (pensiamo ad una fetta di pane che viene tagliata con un coltello: il coltello si sposta nel vuoto, condizione del moto del coltello). Ma il vuoto è il non essere e il non essere non esiste, quindi si arriva alla conclusione che il movimento non esiste. Melisso si cimenta anche nel dimostrare contro la molteplicità: se l’essere fosse molteplice, allora non sarebbe unico e, pertanto, ci sarebbero cose che sono non essere, ma il non essere non esiste. Dunque l’essere non è molteplice, ma è uno solo. I successori si servirono delle tesi di Melisso capovolgendole: in particolare, essi partono dall’assunto che il movimento esista (negarlo contrasta con la più banale delle esperienze). Dunque, se voglio giustificare l’esistenza del movimento, devo ammettere il vuoto (siamo tutti d’accordo che il movimento possa essere solo nel vuoto): il vuoto è il non essere e, di conseguenza, il non essere esiste. Stessa cosa può valere per la molteplicità dell’essere, che esperiamo di continuo: quindi essa deve esistere e, di conseguenza, tutti questi enti molteplici devono per forza avere caratteristiche dell’essere, che non è uno. Melisso dimostra poi l’infinità dell’essere: se l’essere è sempre stato e sempre sarà, allora è infinito e, di conseguenza, deve anche essere uno: se infatti l’essere fosse non uno ma due, i due non potrebbero essere infiniti, ma l’uno avrebbe limite nell’altro. E’ la classica dimostrazione per assurdo, con cui Melisso riesce a dimostrare a modo suo l’unicità dell’essere. Dante (Paradiso, XIII,121-126) colloca curiosamente Melisso tra coloro che affrontando la ricerca della verità senza metodo, tornano carichi di errori più di prima che iniziassero il viaggio:
Vie più che indarno da riva si parte,
Perché non torna tal qual ei si muove,
Chi pesca per lo vero, e non ha l’arte:
E di ciò sono al mondo aperte prove
Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
I quali andavan, nè sapevan dove.
INTRODUZIONE
Anche se non sappiamo nulla delle loro biografie, Parmenide e Zenone sono diventati, da Platone in poi, una coppia esemplare di maestro e scolaro. Ma è difficile immaginare un legame di scuola che unisca Melisso di Samo, il quale vive nell’area orientale del mondo greco in piena età periclea, a Parmenide e Zenone. Con lui l’eleatismo è già diventato un’entità intellettuale vaga e diffusa. Isocrate lo pone accanto a Parmenide, Zenone e Gorgia come autore di dottrine paradossali. E Polibo, genero di Ippocrate, nel trattato De natura hominis, dopo aver polemizzato contro coloro che, non medici, si affannano a identificare l’uomo e il tutto, chi con l’aria, chi con l’acqua, chi con la terra e chi con il fuoco, disputando più di parole che di fatti, dice che costoro “danno ragione a Melisso”. Il significato di questo accenno non è sicurissimo, ma è possibile che anche qui Melisso apparisse un autore paradossale, al quale si finisce con il dar ragione a forza di dispute puramente verbali. Platone, forse con qualche ironia, dice che Melisso vale un po’ meno di Parmenide43. Ancora una volta Aristotele segue Platone considerando Melisso addirittura “rozzo”. Parmenide e Melisso avevano entrambi svolto una teoria dell’uno, ma Parmenide lo aveva considerato “secondo la definizione”, Melisso “secondo la materia, e per questo uno dice che è finito, l’altro infinito”44. Attraverso questo gergo aristotelico un punto pare effettivamente attribuibile a Melisso: la considerazione dell’uno come infinito. Questo è per Aristotele un errore di categoria, perché l’infinito spetta alla quantità, che è un predicato, e non alle cose che sono soggetti dei predicati. Le cose-soggetto sono sostanze, e le sostanze hanno un limite e sono finite: aveva visto giusto Parmenide che aveva considerato il tutto finito.
Tuttavia in Aristotele e in Simplicio è possibile cogliere una traccia del ragionamento di Melisso, indipendentemente dalle critiche aristoteliche. Per Melisso il tutto è ingenerato, perché prima del tutto non c’è nulla; e dal nulla non sarebbe derivato nulla. Se non è generato, il tutto non ha principio e, se non ha principio, non ha neppure fine, sicché sarà infinito. Per Aristotele Melisso commetteva un errore ricavando dalla proposizione (1) ‘tutto ciò che è generato ha un principio’ la proposizione (2) ‘tutto ciò che non è generato non ha un principio’. Per Aristotele il termine ‘principio’ ha un significato generale, non riducibile a quello di ‘inizio’, che risulta nelle testimonianze su Melisso. Pertanto Aristotele ritiene che, se tutto ciò che è generato ha un principio, non tutto ciò che ha un principio è generato45. Probabilmente però Melisso mostrava che l’essere non è generato (perché non può derivare dal nulla) e che perciò non ha inizio né termine, usando così la proposizione (2) senza ricavarla dalla proposizione (1). Si comprende assai bene l’avversione di Aristotele per Melisso. La filosofia di Parmenide poteva apparirgli paradossale, lontana dalla realtà delle cose; ma essa sembrava stabilire che l’essere è limitato e perfetto, un caposaldo della concezione aristotelica del mondo come un tutto ordinato e finito. E anche per Zenone l’infinito era qualcosa di negativo. Melisso invece introduceva l’infinito nell’uno stesso e pretendeva che tutto ciò che ha un principio fosse generato. Il rischio era che un mondo dipendente da un principio, che ne garantisce l’ordine, diventasse generato e perdesse l’eternità: una cosa impossibile nella concezione aristotelica del mondo.
Dai testi trasmessi da Simplicio emergono però alcuni tratti della teoria dell’infinito di Melisso, che l’interpretazione aristotelica lasciava in ombra. Non solo Melisso attribuiva all’essere l’infinità di grandezza e l’eternità temporale, ma soprattutto doveva sviluppare una teoria dell’unicità dell’infinito. Se non fosse uno solo, l’infinito confinerebbe con qualche altra cosa, e perciò non sarebbe infinito: infatti non ci potrebbero essere due infiniti, perché essi si limiterebbero a vicenda. L’uno infinito è anche omogeneo, perché se subisse qualche mutamento non sarebbe più uno. Infatti se cambiasse non sarebbe più simile a se stesso, ma ciò che era prima non ci sarebbe più e ciò che non è nascerebbe: l’uno, cambiando, diventerebbe molti. E basterebbe che mutasse di un capello in diecimila anni, perché perisse completamente: in un tempo infinito una trasformazione, per piccola che sia, potrebbe coinvolgere tutto l’uno. Non esiste neppure il vuoto, che è non essere. L’assenza del vuoto determina la mancanza di movimento, perché l’essere non può spostarsi verso il nulla46. Se esistessero i molti, ciascuno, per esistere davvero, dovrebbe essere come l’uno, e non potrebbe trasformarsi in uno degli altri o comunque mutare. Ma la percezione ci rivela anche trasformazioni e mutamenti, che invece non ci possono essere: perciò non ha vero essere quel che essa ci mostra. L’uno non ha neppure corpo, perché il corpo è divisibile in parti. Se fosse divisibile in parti, queste renderebbero possibile il movimento, e il movimento introdurrebbe il non-essere47.
Si è fatto con Melisso quello che Platone aveva tentato con Zenone: si è supposto che egli conducesse una polemica. I suoi avversari sarebbero ora i pitagorici, ora Empedocle. Ma si tratta di congetture non corroborate da riscontri attendibili. Si è cercato però anche di collegare Melisso con Anassagora, attribuendogli una teoria della completa uniformità dell’essere, oppure con gli atomisti attraverso la sua concezione del vuoto. Ma Anassagora non nega il movimento e gli atomisti ammettono il vuoto. Anche qui siamo del tutto privi di notizie specifiche, e nel caso di Melisso diventa anche più difficile immaginare i rapporti di scuola che secondo Platone avrebbero legato Zenone a Parmenide.
Con un puro confronto di testi è possibile scorgere in Melisso alcuni temi originali all’interno della cultura eleatica. Attribuisce all’uno la durata temporale che Parmenide nega all’essere48 e, mentre Parmenide immagina l’essere come finito e limitato, Melisso lo considera infinito, proprio perché non ha né inizio né fine e si estende senza limiti. Forse perfino l’unità dell’essere e motivo propriamente Melisseo49, e lo è certamente la dimostrazione dell’unicità dell’infinito, che avrà molta fortuna nella tradizione filosofìca. Si potrebbe dire che Melisso ha cercato di limitare l’ordine dell’infinito, evitando che si formassero infiniti di infiniti, oppure che ha cercato di introdurre l’infinito escludendo il continuo; ma sarebbero elucubrazioni. Probabilmente si tratta di schemi argomentativi usati da Melisso: se si ammette una molteplicità, ogni suo elemento si configura come un essere unitario, e dunque infinito; ma più infiniti sono impossibili. Forse Zenone argomentava che se c’è molteplicità c’è infinità e dunque una serie di proprietà contraddittorie. Per Melisso l’infinito in quanto tale non crea difficoltà e può essere attribuito all’uno; però, se c’è molteplicità, c’è sempre più di un infinito, e questo è impossibile.
ANASSAGORA
OyiV adelwn ta fainomena. (Le cose visibili sono uno sguardo su quelle invisibili)
ANASSAGORAAnassagora si colloca nel contesto dei pluralisti , coloro cioè che pur conservando alcuni presupposti degli Eleatici (quale l’immutabilità dell’essere ) , si allontanano dalla concezione tipicamente eleatica dell’immobilità dell’essere: immutabile non è l’essere nel suo insieme, ma i princìpi ultimi che lo costituiscono, i quali sono – secondo Anassagora, e pure secondo Democrito – un’infinita pluralità (da qui il nome “pluralisti”). La filosofia pluralista parte proprio dalla confutazione , o meglio , dal ribaltamento delle tesi di un Eleatico , Melisso : egli aveva detto che se l’essere fosse molteplice , il molteplice dovrebbe avere alcune caratteristiche dell’essere , quali l’eternità , l’immobilità , ed altre : ma dato che non le ha , l’essere non è molteplice . I pluralisti ribaltano completamente le tesi di Melisso e dicono : dato che il molteplice c’è (e lo vediamo tutti) , bisogna ammettere per forza che questi esseri molteplici abbiano caratteristiche dell’essere . Per i pluralisti vi è dunque una molteplicità di elementi in movimento , ciascuno dei quali è immutabile : si rendono infatti conto che è contraddittorio parlare di nascita e di morte (da dove si nasce? Dove si finisce una volta morti? Nel non essere! Il che è assurdo) e perciò chiamano morte e nascita i processi di aggregazione e disgregazione . Sono proprio i concetti di aggregazione e disgregazione che implicano la pluralità ed il movimento degli elementi : per aggregarsi e disgregarsi, infatti, devono essere diversi ed in movimento . Anassagora nacque a Clazomene , nella Ionia , e sappiamo che nel 462 a.c. abbandonò la sua città per stabilirsi in Atene . Qui visse per circa 30 anni , stringendo amicizia con il famoso Pericle . Ma nel 438 un indovino di nome Diopite fa approvare un decreto in base al quale sono perseguibili dalla legge tutti coloro che insegnano e divulgano cose empie a riguardo dei fenomeni celesti : Anassagora viene processato per aver sostenuto che il sole è una pietra incandescente e la luna un corpo terroso . Possiamo cogliere in questo processo non tanto un processo contro ciò che effettivamente affermava Anassagora , quanto piuttosto una condanna a carattere politico – sociale rivolta a tutti i conoscenti di Pericle . Tuttavia le dottrine fisiche di Anassagora erano un esplicito attacco a credenze e pratiche religiose . Se infatti si accettavano le sue tesi , i fenomeni celesti non potevano più essere considerati segni inviati dalle divinità agli uomini . Va poi detto che il libro in cui Anassagora esponeva le sue dottrine fisiche (“Perì fuseos”, Peri fusewV) si era sparso a macchia d’olio per via del suo basso costo nella città di Atene , che si stava progressivamente alfabetizzando . Così Anassagora fu sottoposto ad un processo e dovette abbandonare Atene per rifugiarsi a Lampsaco , nella Ionia , dove morì nel 428 a.c. Anassagora , come molti altri filosofi , affronta il problema di come si sia costituito il mondo nel quale viviamo . Egli ravvisa la matrice originaria del mondo in una totalità indistinta di tutti i materiali da cui risultano costituite le cose . Questi materiali sono da lui chiamati SEMI ed egli afferma , seguendo la scia degli Eleati , che non nascono nè periscono , ma permangono costanti: al di là del mutamento degli enti fenomenici, questi semi restano come sono, eterni. Egli riprende il concetto di mescolanza introdotto da Parmenide e sfruttato contemporaneamente da Empedocle : dice che ogni cosa è una mescolanza di questi semi , che però non sono visibili ad occhio nudo : prendiamo ad esempio un libro blu : noi lo vediamo blu perchè i semi di colore blu sono in netta prevalenza su quelli degli altri colori , che tuttavia sono tutti presenti . Probabilmente Anassagora era arrivato a trarre queste conclusioni a riguardo dei semi partendo dall’osservazione del processo di crescita degli esseri viventi mediante la nutrizione . Egli si deve essere posto questa domanda : “Come è possibile che il pane che noi mangiamo diventi sangue , muscoli , ossa…? ” . La risposta che egli dà a questa domanda è che “tutto sta in tutto” : nel pane ci sono semi di tutte le cose , di sangue , di ossa , di carne , di muscoli… Quindi quando mangiamo il pane i semi di muscoli vanno ad alimentare i muscoli , quelli di ossa vanno ad alimentare le ossa , e così via . Ma come mai noi vediamo solo il pane e non tutti gli altri semi ? Così come nel caso del quaderno noi vediamo il verde perchè c’è una prevalenza di semi verdi , così nel caso del pane noi vediamo il pane perchè i semi di pane sono in maggioranza . Partendo dal visibile (il pane), arriviamo a capire l’esistenza dell’invisibile (i semi): ecco spiegato il celebre motto anassagoreo, “oyiV adelwn ta fainomena” (le cose che appaiono sono uno sguardo su quelle che non appaiono”), con il quale è messa in luce la possibilità di un’inferenza dal visibile all’invisibile. Va specificato che nel mondo in cui viviamo non esistono propriamente parlando semi , ossia particelle allo stato puro dal momento che in ogni cosa continuano a sussistere particelle di tutte le altre cose : noi vedremo il verde non perchè una sostanza sia effettivamente verde , ma perchè il verde prevale su tutti gli altri semi , che tuttavia sono presenti , anche se noi non riusciamo a vederli . In questo senso Anassagora ammette la divisibilità all’infinito , senza che sia mai possibile raggiungere un minimo . Aristotele riprenderà questi concetti e chiamerà i semi di Anassagora col nome di “omeomerie” , vale a dire entità le cui parti sono simili al tutto . Tale è per esempio il caso della carne : se prendiamo una qualsiasi parte di carne sempre carne è , ma se prendiamo una faccia e la dividiamo non avremo tanta facce , ma parti differenti dalla faccia iniziale . Ma propriamente per Anassagora il rapporto di mescolanza tra i semi è diverso secondo i casi e nel mondo che ci circonda non c’è nessuna entità omogenea , ossia tale che tutte le sue parti siano simili al tutto di cui fanno parte . Anassagora è convinto che dalla totalità indistinta di tutti i semi non si è formato soltanto il nostro mondo : per lui si sarebbero formati anche altri mondi , anch’essi abitati da uomini e da esseri viventi . Quindi per Anassagora il nostro mondo non è il centro del tutto così come coloro che lo abitano . Resta però da spiegare come avvenne la transizione dalla totalità originaria alla pluralità dei mondi nelle loro differenziazioni . Chiaramente questa transizione richiede un movimento , ma da che cosa dipende tale movimento ? Qui subentra quella che già a Platone e ad Aristotele era sembrata la maggiore innovazione di Anassagora , anche se ai loro occhi non sufficientemente sfruttata . Anassagora infatti introduce un intelletto cosmico , il ” NOUS ” (NouV) , come agente dell’impulso originario di questo movimento . Aristotele ci parla di questo “nous” nella “Fisica” : ciò che più emerge è il fatto che questo intelletto cosmico è un potere assoluto , separato da tutto (autokratwr) e per questo non impacciato o condizionato da nulla e quindi capace di sottoporre tutto al suo dominio . E’ proprio questo potere che consente al ” nous ” di dare origine alla formazione e alla progressiva differenziazione delle cose , pur nella persistenza in tutte dei semi di ogni tipo . L’intelletto cosmico ha quindi un’intelligenza totalmente differente rispetto a quella umana : il nous ha un potere incomparabile e questo è per Anassagora dovuto al fatto che esso sia l’unica realtà data non da una mescolanza di semi . Se fosse mescolato con qualcosa sarebbe infatti impedito nella sua azione e non potrebbe pertanto imprimere il movimento iniziale alla massa originaria .Ciò non comporta che per Anassagora il nous sia una sostanza spirituale nè che esso si identifichi con la divinità . Pur chiamando questo motore originario “intelletto” , Anassagora non gli attribuì la funzione di progettare secondo un fine e precisamente in vista del meglio . La principale differenza rispetto ad Empedocle è che non ci sono le due forze che aggregano e disgregano ; va poi detto che non è una visione ciclica e pendolare (come era quella di Empedocle ) , ma è unidirezionale : non si tornerà più alla situazione di partenza . Dunque per Anassagora si parte da questa totale mescolanza dei semi (lui la chiama “MIGMA” – migma – , dal verbo “mignumi” , mescolo = mescolanza totale) ; poi interviene il nous che smuove il tutto . Da notare che la forza del nous non può essere nè totalmente aggregatrice nè totalmente disgregatrice . Abbiamo detto che Platone e soprattutto Aristotele lo accusavano di usare poco la causa finale che aveva abilmente introdotto (il nous) : molto probabilmente però Aristotele (Metafisica) e Platone (Fedone) hanno preso una cantonata perchè hanno tradotto la parola ” nous ” con ” intelletto ” ; ma il Greco di Anassagora era differente rispetto al loro : ai suoi tempi infatti la parola ” nous ” veniva spesso usata con il significato di ” anima ” , ” vita” . Probabilmente Anassagora non voleva parlare di un’intelligenza divina e di una causa finale , ma voleva semplicemente dire che dove c’è movimento c’è vita . Tuttavia se l’intelligenza umana è inferiore rispetto a quella del nous , essa è superiore (come già aveva detto Alcmeone ) a quella degli animali . Essa richiede l’impiego della procedura che inferisce ciò che non è visibile a partire da ciò che lo è . Questa procedura sorregge buona parte della stessa costruzione teorica di Anassagora , come si è visto . Il sapere umano per lui è acquisito gradualmente e non è un possesso istantaneo . Anassagora traccia una sequenza cronologica delle acquisizioni : 1)ESPERIENZA 2) SOPHIA (sofia, sapienza) 3) TECHNE (tecnh, tecnica) . La sensazione avviene per contrari , in quanto il caldo può essere avvertito mediante il freddo e viceversa : se mettiamo una mano in un secchio pieno di acqua fredda e ne aggiungiamo di calda , la sentiamo benissimo quella calda . Se però ne aggiungiamo di fredda non percepiamo quella fredda aggiunta . Dalla sensazione e dall’osservazione ripetuta si passa alla conservazione di questa nella memoria . Su questa base diventa possibile il costruirsi di un sapere . E’ interessante che come ultimo momento Anassagora indichi la tecnica : è essa che propriamente permette agli uomini di servirsi degli stessi animali e quindi di collocarsi al di sopra di essi. La superiorità dell’uomo sugli altri animali riposa sul fatto che solo l’uomo sa costruire oggetti a lui utili, ossia sa sfruttare al meglio il proprio sapere. Del resto, Anassagora vive in quell’Atene del V secolo, brulicante di cantieri e di lavori splendidi. In questo contesto si comprende forse meglio il significato della celebre tesi secondo la quale l’uomo è più intelligente degli altri animali perchè ha la mano che gli consente di stabilire un diverso rapporto con la realtà . Il possesso della mano si collega strettamente all’esercizio di attività tecniche , che appaiono indice decisivo di umanità . Aristotele invece avanzerà un’ipotesi antitetica rispetto a quella di Anassagora : dal momento che l’uomo è il più intelligente degli animali la natura gli ha dato la mano . Tra l’altro l’affermazione di Anassagora ci consente di capire quanto poco il finalismo rientri nelle sue teorie e di conseguenza se ne evince che la traduzione di Aristotele di nous con intelligenza è erronea . Sempre Aristotele (Metafisica, libro I) ribalta la tesi anassagorea della superiorità della tecnh sulla sofia, arrivando a mettere al vertice del sapere il “sapere per il sapere”, ossia il sapere disinteressato, privo di risvolti pratici.
EMPEDOCLE
CENNI BIOGRAFICI
EMPEDOCLE Il grande filosofo greco nacque nel 492 circa; si atteggiò a profeta e a taumaturgo; come medico (è ritenuto il fondatore della scuola medica siciliana) pare sua la scoperta del labirinto dell’orecchio interno; e fu forse maestro di Gorgia l’oratore. E Timeo dice che fu allievo di Pitagora (VI – V secolo a.C.) . Non sono da trascurare le sue doti di poeta, nell’utilizzo del metro della tradizione epica, e di fisico.
” (…) coloro che presso i Greci vengono chiamati ‘fisici’, dovremmo chiamarli anche poeti, perché il fisico Empedocle scrisse un eccellente poema”. (Cicerone, De Oratore, I, 217)
“Si tramanda che il rapsodo Cleomene abbia recitato in Olimpia proprio il suo poema, le Purificazioni: lo attesta anche Favorino nelle sue Memorie”. (Diogene Laerzio; VIII, 63).
Di nobile famiglia, patteggiò tuttavia per gli esponenti democratici, di cui fece parte nel governo della città grazie alla scomparsa del tiranno Terone nel 472 ed alla cacciata del di lui figlio Tisandro. In gioventù “vinse una corsa di cavalli ad Olimpia” (Ateneo, 3, e). Ma parrebbe che Ateneo confonda tale gesto con quello compiuto dal nonno del poeta, che portava lo stesso nome. Il padre fu invece Metone, leggiamo in Diogene Laerzio (VIII, 51).
“Successivamente Empedocle abolì anche l’assemblea dei Mille, costituita per la durata di tre anni, sì che non solo appartenne ai ricchi, ma anche a quelli che avevano sentimenti democratici. Anche Timeo nell’undicesimo e nel dodicesimo libro – spesso infatti fa menzione di lui – dice che Empedocle sembra aver avuto pensieri contrari al suo atteggiamento politico. E cita quel luogo dove appare vanitoso ed egoista. Dice infatti: ‘Salvete: io tra di voi dio immortale, non più mortale mi aggiro’. Etc. Nel tempo in cui dimorava in Olimpia, era ritenuto degno di maggiore attenzione, sì che di nessun altro nelle conversazioni si faceva una menzione pari a quella di Empedocle. In un tempo posteriore, quando Agrigento era in balìa delle contese civili, si opposero al suo ritorno i discendenti dei suoi nemici; onde si rifugiò nel Peloponneso ed ivi morì (VIII, 66, 67; op. cit.).
Doveva essere il 432 a.C.; durante la sua permanenza in Elea conobbe Parmenide ed il poeta di Ceo Simonide. Ma ad Agrigento circolavano anche le idee di Pitagora e Senofane, Eraclito e i medici Pausania (suo allievo prediletto) e Acrone; ed Empedocle seppe superare gli influssi di tale scuole con la sua personalità con la sua visione della realtà dei quattro classici elementi dell’acqua, dell’aria, del fuoco e della terra.
“Gli uomini non sanno comprendere queste cose né cogli occhi né con le orecchie e neppure con la mente” (Diogene Laerzio; IX, 73).
“Deboli poteri infatti sono diffusi per le membra; molti mali repentini, che ottundono i pensieri. Scorgendo una misera parte della vita nella loro vita di breve destino, come fumo sollevandosi si dileguano, questo solo credendo, in cui ciascuno si imbatte per tutto sospinti, si vantano di scoprire tutto; così queste cose non sono vedute, né udite dagli uomini, né abbracciate con la mente. Tu dunque, essendoti qui straniato, non saprai di più di ciò a cui si solleva la mente umana”. (Sesto Empirico; in I Presocratici, testimonianze e frammenti; Laterza; 1994)
Gli elementi non hanno origine, secondo l’ideale di Parmenide, ma possono modificare le loro caratteristiche sotto la spinta dell’Amore unificatore, o della Discordia disgregatrice: “Due forze che reggono la terra, ieri sono state e domani pur saranno”. All’uomo non resta che adeguarsi, e vivere una esperienza dopo l’altra, per conoscere la realtà fatta dal molteplice, e dall’insieme di innumerevoli singoli elementi. Vivere le esperienze della natura rende l’uomo sempre più simile ad essa, e può comprenderla alfine dall’interno: grazie anche alla metempsicosi. Ciò lo apprendiamo dai frammenti dei suoi lavori giuntici: 111 del poema Della natura
, e pochi delle Purificazioni.
“Le sue opere Della natura e le Purificazioni si estendono per cinquemila versi, il Trattato sulla medicina per seicento righe. Delle tragedie abbiamo già detto” (VIII, 77).
“Concordando quindi con Empedocle: ‘Non vi fu perciò nessuna guerra di dei o frastuono di battaglia, neppure fu Zeus loro re, né Crono, né Poseidone, solo Cipride bensì fu loro regina. Essa viene appagata dalla gente, con offerte devote d’animali dipinti, e balsami riccamente profumati, con sacrifici di pura mirra e fragante incenso, mentre stendono sul terreno libagioni dal giallo miele di favo'”. (Ateneo; 510, c; op. cit.).
Altri lavori dei quali sappiamo solo i titoli sono Politica, Della medicina, Proemio ad Apollo, pur se di incerta attribuzione. Un lavoro sulle guerre persiane pare sia stato distrutto per sua volontà non piacendogli. La sua fede nel valore dell’esperienza – che ci ricorda l’ideale di secoli a noi più vicini – lo condusse a potersi ritenere depositario di conoscenze taumaturgiche:
“Uomini e donne mi lodano seguendomi in massa, domandando a me la parola che sana le numerose malattie che trafiggono ogni ora le carni”.
Con disagio lo potremmo definire anche un santone, per le guarigioni fatte che la voce della leggenda tramanda con altre: una dice che egli si gettò nel cratere dell’Etna
, per liberarsi infine del corpo ormai ingombrante o far credere con la sua sparizione di essere stato assunto tra gli dei. Il cratere (riferisce Diogene Laerzio, VIII, 69) rigettò uno dei suoi sandali bronzei. Un’altra leggenda lo vuole sparire in un gran bagliore notturno, dopo aver fatto resuscitare una donna (Idem, VIII, 68). Di certo abbiamo che egli formulò per primo la teoria dei quattro elementi, base di tutte le cose, e sottoposti alle due forze che, a periodi, dominano l’universo o fondendo tutto in un unicum o separando i 4 elementi; consentendo l’esistenza del mondo come lo vediamo e lo viviamo durante i periodi di lotta tra i due: Amore e Odio.
Come egli vedeva sé stesso?
“E’ scritto nel fato che chiunque macchi il suo corpo di sangue, o sia infame seguendo l’esempio di Odio, andrà errando diecimila anni lontano dagli uomini felici, nascendo di volta in volta sotto le sembianze di ogni essere vivente, soffrendo le varie pene d’ogni diversa specie vivente. La forza dell’aria li lancia nel mare, e il mare li scaraventa nella terra e la terra li butta nelle fiamme del sole che, a sua volta, li rimette nell’aria per essere ancora respinti da tutti gli elementi. Uno di costoro sono io, fuggendo gli dei e vagando a colpa della mia fede per l’Odio”.
Ed ancora:”Già un tempo io nacqui fanciullo e fanciulla, arboscello e uccello e pesce ardente balzante fuori dal mare”.
E si narra di qualche miracolo da lui compiuto:
“Scoppiata una pestilenza fra gli abitanti di Selinunte per il fetore derivante dal vicino fiume, sì che essi stessi perivano e le donne soffrivano nel partorire, Empedocle pensò allora di portare in quel luogo a proprie spese (le acque di) altri due fiumi di quelli vicini: con questa mistione le acque divennero dolci. Così cessò la pestilenza e mentre i Selinuntini banchettavano presso il fiume, apparve Empedocle; essi balzarono, gli si prostarono e lo pregarono come un dio. Volle poi confermare quest’opinione di sé e si lanciò nel fuoco”. (VIII, 70).
Cioè si lasciò cadere dentro il cratere dell’Etna.
“E questo tutto abbrustolito chi è? – Empedocle. – Si può sapere perché ti gettasti nel cratere dell’Etna? – Per un eccesso di malinconia. – No: per orgoglio, per sparire dal mondo e farti credere un dio. Ma il fuoco rigettò una scarpa e il trucco fu scoperto”; così satireggia Luciano, allievo di Epicuro (I dialoghi, trad. Mosca; BUR, Rizzoli, 1990).
Altra voce tramanda che egli cadde da un cocchio mentre si recava a Messina, morendo pel conseguente aggravarsi dell’infezione di una ferita alla gamba. Ed il suo sepolcro sarebbe nei pressi di Megara Iblea.
IL PENSIERO
Empedocle di Agrigento svolse la sua attività di filosofo nel V secolo a.C. in Sicilia e fu influenzato dal pitagorismo e dall’orfismo, ma anche dall’eleatismo: tuttavia Empedocle si colloca nell’ambito dei cosiddetti “pluralisti”. Nacque ad Agrigento intorno al 490 a.c. e pur essendo di nobile famiglia , partecipò attivamente alle lotte politiche della sua città schierandosi con i democratici e per questo morì forse in esilio nel 425. Tuttavia la sua figura sfumò presto nella leggenda (che tra l’altro vuole che egli morisse precipitando nel cratere dell’Etna). E presenta ancora i tratti dell’antico sapiente che stende in versi la propria opera e che si occupa di tutto (di medicina, di fisica, di religione, ecc). Discendente da nobile famiglia, Empedocle sceglie di scrivere in versi perché ai suoi tempi la poesia era un’autorità da tutti riconosciuta, che tendeva a meglio diffondersi rispetto alla prosa; a differenza di Parmenide, che dalla poesia aveva ereditato esclusivamente la forma, Empedocle ne assume anche il linguaggio altisonante e roboante, tant’è che Aristotele lo considera l’inventore della retorica. C’è un alone di mistero che circonda le sue opere: il suo scritto principale – intitolato Sulla natura – è affiancato da un altro scritto, tradizionalmente noto come Purificazioni. Il mistero risiede nel fatto che le due opere trattino di cose diversissime tra loro, a tal punto da far dubitare dell’autentica paternità di Empedocle: il Sulla natura è un’opera sensu stricto fisica, mentre dalle Purificazioni traspaiono palesemente influenze pitagoriche ed orfiche, nella misura in cui Empedocle propugna l’immortalità dell’anima (che nel Sulla natura era detta mortale) e la metempsicosi. Le due opere, pertanto, ci restituiscono un Empedocle diverso e, paradossalmente, antitetico. Il mistero si infittisce nel momento in cui ci si chiede se le Purificazioni siano un’opera autonoma o, piuttosto, una parte integrante del Sulla natura. E, in quest’ultimo caso, occorre anche domandarsi in quale parte del Sulla natura debbano essere collocate (all’inizio? alla fine?). Misterioso è anche il fatto che Aristotele sembri conoscere solamente l’Empedocle del Sulla natura e che mai menzioni le Purificazioni (che non conoscesse tale opera pare assai difficile, data la straordinaria erudizione che lo caratterizza). Messo in luce il “giallo” intorno alla figura di Empedocle, proviamo ora a ricostruirne la fisica, alla luce di quanto egli stesso ci ha lasciato nel suo poema Sulla natura: qui, egli spiega la formazione del mondo a partire dall’empiria, ovvero da quel mondo in continuo fieri tanto aborrito da Parmenide. Occorre trovare a fondamento della realtà una pluralità di principi aventi caratteristiche tali da rispettare le norme fissate da Parmenide per il suo essere: unicità (se l’essere fosse molteplice, sarebbe uno e non sarebbe uno, cioè sarebbe e non sarebbe), immobilità (se l’essere fosse in moto, ora sarebbe qui e ora non sarebbe qui, cioè sarebbe e non sarebbe), eternità (se l’essere fosse generato, verrebbe ad essere mentre prima non era). Se si vuole fondare con certezza la realtà spiegandone il divenire e salvando i fenomeni (presupposto a cui tutti i “pluralisti” restano fedeli) senza trasgredire le norme parmenidee, occorre rinvenire più principi aventi tutti le caratteristiche dell’essere parmenideo. Debbono essere molti, poiché altrimenti non si spiegherebbero le molte facce in cui il reale si presenta. Empedocle ritiene di aver individuato i principi in quattro elementi: l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco. Tali principi vengono da lui denominati radici (rizomata), a sottolineare come essi facciano nascere la realtà e le conferiscano stabilità. Poste a fondamento del reale le quattro “radici”, Empedocle arriva a divinizzarle, cosa che può sembrare strana soprattutto se riferita alla terra, che rappresenta il basso. Esse sono all’origine della corruzione e della generazione, pur essendo esse stesse sottratte a tali processi: le cose che cadono sotto i nostri sensi nascono e muoiono non già nel senso che passino dal non essere all’essere e viceversa, bensì nel senso che siano il frutto dell’aggregazione (nascita) e della disgregazione (morte) delle quattro radici, le quali sono però eterne, immutabili, immobili. L’intera realtà – ivi compresi gli dei e l’anima – rientrano in tale processo di aggregazione e corruzione; solamente le quattro radici (corrispondenti all’essere parmenideo) ne restano fuori. Ciascun aggregato è il prodotto della combinazione delle radici, con la conseguenza che il fondamento della realtà è una struttura invisibile soggiacente a quella visibile e tale da spiegarla. Aristotele nota sagacemente che nella ricerca delle cause Empedocle compie un gran passo avanti, distinguendo per la prima volta tra la causa materiale e quella efficiente (detta “causa del movimento”): infatti, per spiegare come le quattro radici possano combinarsi e separarsi, Empedocle fa riferimento ad altre due cause, da lui chiamate Amore e Odio. Sicchè la generazione delle cose nasce dall’unione delle quattro radici in forza dell’azione dell’Amore, mentre la disgregazione è il frutto dell’agire dell’Odio. In questo senso, la cosmologia empedoclea non è che la proiezione sul mondo delle regole (l’odio e l’amore) stanti alla base dei rapporti umani. Amore e Odio agiscono dunque come causa del movimento delle quattro radici, ma non è in alcun caso possibile – nota Aristotele – attribuire ad essi la funzione di cause formali e finali: infatti, non agiscono in vista di un qualche fine, ma il loro processo è anzi, in certo senso, retto dal caso; in realtà Empedocle, alla parola “caso”, preferisce “armonia”: il processo messo in moto da Amore e Odio è sì casuale, ma tale da creare un’armonia. Il cosmo stesso si configura agli occhi di Empedocle come una totalità ordinata, giacchè soggetto ad una vicenda ciclica che attraversa varie fasi: dapprima prevale l’Amore e le quattro radici si trovano commiste fra loro; poi subentra l’Odio che, introducendo divisioni, permette la nascita dei viventi; in seguito l’Odio prevale e le quattro radici sono del tutto divise. A questo punto, termina il ciclo e riprende da capo. Si tratta di una vicenda ciclica non scandita da divinità, ma autoregolantesi. Anche per Empedocle gli uomini sbagliano quando parlano di perire e di nascere delle cose: Parmenide aveva già detto che l’essere è sempre stato e sempre sarà . Empedocle introduce quindi i due concetti di aggregazione e di disgregazione: in realtà dietro alle vicende di trasformazioni incessanti permangono costanti ed indistruttibili quelli che Empedocle chiama “radici” e che poi saranno chiamati elementi (terra, acqua, aria e fuoco). Questa è una grande innovazione e rappresenta un notevole allontanamento dagli eleati: il dominio di ciò che è, è molteplice. Gli oggetti che cadono sotto i nostri sensi non sono altro che mescolanze delle quattro radici secondo diverse proporzioni. Empedocle si allontana dall’eleatismo anche per il fatto che le radici siano suscettibili di movimento e per il fatto che esistano forze capaci di creare le aggregazioni a partire dalle 4 radici e le disgregazioni degli oggetti così costituiti. Il nascere ed il morire a rigore non esistono : sono solo aggregazioni e disgregazioni : sono prerogative degli oggetti risultanti dalla mescolanza delle 4 radici ; essi sono dovuti all’azione di due forze che Empedocle , attingendo al linguaggio dei racconti mitici, chiama amore e odio. Queste due forze operano non solo sull’universo nella sua totalità , ma anche su ciascuna delle cose che popolano l’universo . Un aspetto fondamentale della loro azione è che essa avviene nel tempo e secondo gradi diversi. Quando l’azione dell’Amore prevale su quella dell’Odio si ha una situazione di pace, che Empedocle , sulla scia di Parmenide, concepisce come una sfera compatta e priva di scissioni al suo interno: è il celebre sfero. Empedocle ci fornisce quindi una sua cosmogonia, una spiegazione sull’origine del mondo . Lo sfero è la situazione primordiale in cui tutte e 4 le radici sono mescolate e vi sono pure l’Amore e l’Odio: è una totale situazione di aggregazione in cui prevale l’Amore sull’Odio. Ma pian piano l’Odio prevarrà e le 4 radici si separeranno; col tempo però tornerà a prevalere l’Amore e torneremo alla situazione primordiale di totale aggregazione. Ma poi si verificherà nuovamente il prevalere dell’Odio e le 4 radici si separeranno pian piano per poi passare alla totale disgregazione e poi nuovamente all’aggregazione. Il nostro mondo si trova proprio nella posizione di separazione dall’Amore, ma non ha ancora raggiunto l’Odio : è a metà strada ; quando raggiungerà l’Odio si distruggerà per poi “rinascer” nuovamente . E’ una visione ciclica del mondo: per Empedocle durerà fin quando dal punto di partenza (l’Amore) non arriverà all’opposto (l’Odio). Ma questo processo di aggregazione e disgregazione non vale solo per il mondo, ma per l’intera realtà: anche gli uomini si vengono a formare in questo modo e quando prevarrà l’Odio si distruggeranno. Ma Empedocle dice che l’aggregazione che porta alla creazione di un uomo (o di qualunque altra realtà) non è immediata e complessiva: non è che l’uomo si formi tutt’insieme in un preciso istante: è come se gli organi nascessero da sè e poi a loro volta si aggregassero per dar vita all’uomo. Empedocle dice poi che possono nascere dall’aggregazione esseri mostruosi come il Minotauro ed il motivo per cui non si vedono in giro è reperibile nel fatto che non riescano a sopravvivere: in natura, infatti, dice Empedocle, riescono a sopravvivere solo i più idonei e i migliori. La tradizione ci presenta Empedocle come medico: pare che egli nutrisse interessi per la comprensione dei fenomeni del vivente, come la generazione o la respirazione: Empedocle affermava che il sangue ed il respiro si muovessero entro gli stessi vasi corporei, che sarebbero riempiti da sangue che fluendo esce da essi e lascia spazio all’aria che entra e, viceversa, l’aria che esce lascerà spazio al sangue. Per Empedocle la respirazione avviene tramite i pori della pelle: per spiegare questo processo lui immagina una situazione in cui si immerge in acqua una clessidra: la clessidra è un vaso con un collo stretto e un’ampia base con piccoli buchi. Se essa viene immersa in acqua con l’orifizio superiore tappato, l’acqua non penetra attraverso i buchi perchè l’aria interna vi si oppone con la sua pressione; ma se si libera l’orifizio superiore , l’aria esce e l’acqua può entrare. Viceversa, se l’orifizio è tappato quando la clessidra è piena d’acqua, l’acqua non può fuoriuscire dai piccoli buchi sul fondo. I due momenti della respirazione, cioè l’inspirazione e la espirazione, corrispondono ai momenti in cui la clessidra, rispettivamente riempita d’acqua e d’aria, viene aperta nell’orifizio superiore consentendo l’ingresso di aria in un caso, di acqua nell’altro. All’acqua della clessidra corrisponde il respiro e all’aria della clessidra il sangue. Non si tratta in realtà di un vero esperimento, quanto piuttosto di un’analogia tra ciò che è osservabile e ciò che non è direttamente osservabile. Va sottolineato il fatto che l’aria sia uno dei 4 elementi; il sangue invece, come ogni realtà, è una mescolanza di essi. Quanto migliore (quindi più proporzionata ) è tale mescolanza, tanto migliore per Empedocle risulta essere la qualità del pensiero, che Empedocle fa proprio risiedere nel sangue intorno al cuore. L’attività del pensiero è quindi legata alla struttura anatomica e alla fisiologia corporea, e poichè il corpo umano è costituito dalle stesse radici di cui sono costituite tutte le cose, sarà possibile istituire una corrispondenza biunivoca tra i costituenti del corpo e quelli delle cose: in ciò consiste per Empedocle la conoscenza, che sarà garantita proprio dalla sussistenza proporzionata di tutte e 4 le radici nel sangue. Il processo della conoscenza risulta quindi fondato nella omogeneità tra l’uomo ed il mondo. Gli interpreti antichi classificheranno questa concezione della conoscenza come conoscenza del simile tramite il simile. Anche le capacità dei singoli individui (per esempio nel parlare o nello svolgere attività) sono riconducibili alle diverse proporzioni in cui avviene la mescolanza di questi costituenti di tutte le cose. Il tempo svolge una funzione centrale nella cosmogonia di Empedocle: egli vuole rintracciare ciò che permane costante al di sotto della vicenda ciclica delle aggregazioni e delle disgregazioni. Ciò si integra perfettamente, ai suoi occhi, con la credenza propria della tradizione orfica a riguardo della trasmigrazione delle anime. L’anima , che in origine è un demone o un dio, spinta dall’Odio commette colpe ed è costretta a compiere un lungo viaggio. Esso dura millenni e porta l’anima a trasmigrare attraverso vari tipi di corpi viventi. Da notare che Empedocle parli di trasmigrazioni non solo in corpi animali, ma anche vegetali. Questa concezione conduce al vegetarianesimo e al rifiuto radicale dei sacrifici. Uccidere animali è infatti per Empedocle una forma di cannibalismo, dal momento che in ogni essere vivente è presente un’anima umana, che sta compiendo il suo ciclo di reincarnazioni . Se nel corso di questo ciclo l’anima si è comportata bene, al termine potrà tornare nella sua condizione divina. Su questo sfondo, Empedocle può proiettare la sua predicazione di salvezza agli uomini, indicando le vie della guarigione e della purificazione. In un mondo che gli appariva in un certo modo sopraffatto dall’Odio, egli additava ai suoi ascoltatori nelle città della Sicilia, con i suoi versi, ma anche con la sua azione di guaritore e mago (si raccontava che avesse ridestato a vita una donna in un caso di morte apparente) capace di influenzare le forze della natura, le linee di una condotta che si opponesse all’azione disgregatrice dell’Odio. Empedocle rappresenta il culmine di una tradizione di sapienti che si presentano dotati di un sapere eccezionale. Ma nel V secolo a.C. queste figure tendono progressivamente a venir meno, lasciando spazio a nuovi tipi di pensatori. Ma le sue teorie furono riprese in seguito da Aristotele (che nella Fisica individuò 4 elementi, parti ultime della realtà) e da Dante che (Inferno, XII) fa un chiaro riferimento alla teoria della disgregazione e dell’aggregazione dicendo : “… da tutte parti l’alta valle feda tremò sì, ch’io pensai che l’universo sentisse amor…”; con questi versi il poeta fiorentino intende chiaramente dire di aver sentito un rumore e un tremolio così forte da pensare che il mondo si stesse disgregando perchè arrivato al fondo del suo processo ciclico.
FRAMMENTI
Frr. 31 B 6, 8, 13, 14, 28, 29, 88 DK (fonti diverse)
Fr. B 6 (Sesto Empirico, Contro i matematici, X, 315)
1 Per prima cosa ascolta che quattro son le radici di tutte le cose:
2 Zeus splendente e Era avvivatrice e Edoneo
3 e Nesti, che di lacrime distilla la sorgente mortale.
Fr. B 8 (Plutarco, Moralia adversus Coloten, 10, 1111f)
1 […] Ma un’altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna delle cose
2 mortali, né fine alcuna di morte funesta,
3 ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate,
4 ma il nome di nascita, per queste cose, è usato dagli uomini.
Fr. B 13 (Aezio, I, 18, 2)
Nel tutto nulla vi è di vuoto né di sovrabbondante.
Fr B 14 (Pseudo Aristotele, De Melisso Xenophane Gorgia, 2.28, 976 b 26)
Nel tutto nulla vi è di vuoto: donde dunque qualcosa potrebbe sopraggiungere?
Fr. B 28 (Stobeo, Eclogae physicae, I, 15, 2 a-b)
1 Ma dappertutto eguale a se stesso e assolutamente infinito
2 è lo Sfero circolare, che gode della solitudine che tutto l’avvolge.
Fr. B 29 (Ippolito, Refutatio contra omnes haereses, VII, 29, 212; Simplicio, Fisica, 1124, 1)
1 Riguardo alla forma del cosmo, quale essa è nell’ordine che le è dato dall’Amicizia, dice in tal modo: “non <...> a se stesso”. Una tale bellissima forma del cosmo l’Amicizia la rende una dal molteplice; la Contesa invece, che è causa della disposizione delle cose parte per parte, da quell’unità introduce la divisione e produce il molteplice.
2 L’Amicizia produce, attraverso l’unificazione, lo Sfero, che chiama anche dio e talvolta usa anche la forma neutra.
3 “Non infatti dal suo dorso si slanciano due braccia,
4 né ha piedi, né veloci ginocchia, né membra per la generazione,
5 ma era Sfero e d’ogni parte eguale a se stesso”.
Fr. B 88 (Aristotele, Poetica, 1458a, 4)
<...> da entrambi nasce un’unica vista.
SACRIFICI
Non cesserete dall’uccisione che ha un’eco funesta? Non vedete
che vi divorate reciprocamente per la cecità della mente?
Il padre sollevato l’amato figlio, che ha mutato aspetto, lo
immola pregando, grande stolto! e sono in imbarazzo coloro che
sacrificano l’implorante; ma quello, sordo ai clamori dopo averlo
immolato prepara l’infausto banchetto nella casa.
E allo stesso modo il figlio prendendo il padre e i fanciulli e
la madre, dopo averne strappata la vita, mangiano le loro carni.
(I Presocratici, vol.I, Laterza, 1969, Bari)
L’OCCHIO
Come quando taluno pensando al suo cammino si apparecchia lume,
nella notte tempestosa, splendore di ardente fuoco,
adattando la lucerna che tutte le aure trattiene
e disperde il soffio dei venti impetuosi,
e la luce che fuori ne balza, quanto più è sottile,
rifulge nella casa con infaticabili raggi:
così allora il fuoco primevo costretto in membrane
e in tuniche sottili si appiattò nella rotonda pupilla;
ed esse erano traforate da meravigliosi canali
che il gorgo trattenevano dell’acqua intorno fluente,
ma fuori lasciavano passare il fuoco quanto più era sottile.
Grazie alla Suida, che commenta la voce ‘exanimis’, un altro frammento di Empedocle testimonia della grande considerazione che di sé aveva il poeta e taumaturgo agrigentino:
“Da me apprenderai tutti i filtri magici, con i quali sono allonta nati i malanni e la vecchiaia, poiché io solo te ne riferirò Indi le forze placherai degli sfrenati venti, che irruenti sulla terra coi soffi distruggono i campi. E se vorrai li desterai, invece, dalla terra. Agli uomini una siccità tempestiva, causerai dopo la pioggia. E viceversa il fecondo addurrai dopo la siccità
DIOGENE DI APOLLONIA
Diogene di Apollonia (da non confondersi con il “cinico” Diogene di Sinope), operativo nella seconda metà del V secolo a.C., è autore di un’opera intitolata Sulla natura (Peri fusewV) – che ebbe una certa circolazione anche in Atene – da cui traspare palesemente l’influenza subita dalle tesi di Anassimene e di Anassagora: ricollegandosi direttamente ad Anassimene, Diogene ritiene che l’aria sia l’ach in grado di spiegare l’intera realtà nella sua molteplicità. Come già per Anassimene, anche per Diogene l’argomento fondamentale in favore della sua tesi è dato dalla funzione vitale della respirazione: l’imprescindibile funzione da essa esercitata nella vita dell’uomo e degli animali vale anche a livello cosmico per il reale nel suo complesso. Se Diogene si limitasse a sostenere questa tesi, egli non sarebbe che uno Ionico giunto in ritardo – i temi dell’ materiale erano ormai tramontati da tempo – e per di più del tutto privo di originalità, giacchè nell’aria era già stato da Anassimene ravvisato il principio della realtà. Ma Diogene fa un passo avanti, ed è qui che emerge l’importanza del pensiero anassagoreo per la sua formazione: in particolare, Diogene ricollega il problema del principio materiale (di marca ionica) a quello dell’Intelligenza NouV) ammessa da Anassagora come ordinatrice del cosmo; in particolare, Diogene sostiene che l’aria è l’Intelligenza di cui parlava Anassagora. Questi, tuttavia, – come nota Aristotele (Metafisica, I) – non si era spinto fino a riconoscere nell’Intelligenza la causa finale: Diogene, dal canto suo, dopo aver identificato l’aria di Anassimene con l’Intelligenza di Anassagora, arriva a dire che tale Intelligenza presiede all’ordinamento del cosmo in senso finalistico: l’aria/Intelligenza dispone le cose nel miglior modo possibile (aspetto assente in Anassagora), secondo una struttura teleologicamente organizzata. Diogene, pur essendo corifeo di posizioni monastiche di remota ascendenza ionica, non è insensibile al problema delle differenziazioni, un problema particolarmente sentito nel V secolo a.C., quando il mondo greco era venuto a contatto con culture e genti diversissime: a tal proposito, egli riconosce l’esistenza di infiniti mondi che nascono, muoiono e si riformano. L’attenzione per la differenza è poi attestata dal fatto che Diogene distingua con una certa precisione, per la prima volta nella storia, diverse zone climatiche, caratterizzate da una diversa qualità dell’aria. L’individuazione di differenti zone climatiche porta Diogene a quello che, con termine moderno, potremmo definire un autentico determinismo ambientale, tale per cui l’ambiente agisce in maniera determinante su tutto ciò che in esso si trova: in questo come negli altri infiniti mondi l’aria si presenta non già nello stesso modo, bensì con caratteristiche diverse. Ed è infatti a seconda del tipo di aria presente che si possono distinguere le zone climatiche; non solo: perfino i viventi si differenziano fra loro nella struttura anatomica a seconda della fascia climatica in cui vivono, cosicché essi sono necessariamente determinati dall’ambiente (o, meglio, dall’aria che in esso è presente). E poiché l’intelligenza di cui gli uomini dispongono non è che aria in una determinata qualità, Diogene può addirittura spiegare la differenza di intelligenza fra gli uomini in base alle fasce climatiche. Chi vive, ad esempio, in zone umide e dall’aria densa sarà meno vivace intellettualmente rispetto a chi vive in zone con aria secca, tale da stimolare il pensiero. Tuttavia Diogene non si spinge fin laddove si era spinto Empedocle, per il quale la percezione e l’intelligenza – in quanto dipendenti dal sangue – appartengono anche alle piante; dal canto suo, Diogene nega che le piante abbiano intelligenza, giacchè esse presentano una struttura piena e non cava, tale da non lasciare spazio all’aria e, dunque, all’intelligenza. Ciò attesta la coerenza metodologica di Diogene, oltre che la sua “economia di pensiero”, che gli permette di spiegare con un unico principio la realtà nel suo articolato sviluppo. Un determinismo ambientale simile a quello professato da Diogene è reperibile anche nello scritto del corpus hippocraticum intitolato Arie acque luoghi. Aristotele ricorda la descrizione dell’apparato venoso dell’uomo fatta da Diogene e ricorda, inoltre, (De anima, I) come questi abbia sostenuto che perfino l’anima umana è costituita da aria. Dell’opera di Diogene non ci sono giunti che pochi frammenti (quasi tutti riportati da Simplicio nel suo commento alla Fisica di Aristotele): è interessante il fatto che lo scritto si aprisse con una riflessione metodologica sul proprio lavoro: Chi incomincia un qualsivoglia discorso, mi sembra necessario che esibisca un inizio indiscusso e una spiegazione poi semplice e sobria. (Fr.1) Il punto di partenza a cui Diogene fa riferimento deve essere tale da non andare incontro a possibili obiezioni e la trattazione stessa dev’essere semplice e a tutti comprensibile; il che testimonia un’attenzione rivolta alle esigenze del lettore che mai era stata prestata dai filosofi venuti prima. Il punto di partenza che Diogene ritiene inoppugnabile è l’antica tesi monastica dell’unicità del principio di natura materiale (nella fattispecie, l’aria): Per dirla insieme, mi pare che tutte le cose risultino dall’alterazione della stessa cosa e sono la stessa cosa. E ciò è chiaro: infatti, se le cose che sono adesso in questo mondo, terra, acqua, aria e fuoco e tutte le altre, quante si vedono esistere in questo mondo, dunque, se una di queste fosse diversa dall’altra perché diversa per sua propria natura e non fosse lo stesso che si muta in molte forme e si altera, non si potrebbero affatto mescolare tra loro, né all’una [verrebbe dall’altra] utilità o rovina, né mai pianta potrebbe nascere dalla terra né animale né alcun altro essere se non fossero composte in maniera da essere lo stesso. Piuttosto tutte queste cose nascono ora in una forma ora in un’altra in quanto si alterano dallo stesso e in esso ritornano. (Fr.2) Infatti non sarebbe possibile senza intelligenza una divisione tale che di ogni cosa la misura realizzi, e d’inverno e d’estate, e di notte e di giorno, e di piogge e di venti e di sereni: e tutte le altre cose, se uno vuole esaminarle, le troverà disposte nel miglior modo possibile. (Fr.3) Ci sono inoltre anche questi indizi importanti. Gli uomini e le altre creature vivono respirando l’aria. Essa è per loro anima e pensiero, come si dimostrerà chiaramente in quest’opera, e se essa si allontana, l’uomo muore e il pensiero lo abbandona. (Fr.4) Mi sembra sia dotato di intelligenza ciò che gli uomini chiamano aria, che tutti siano da esso governati e che tutto esso domini. Ciò stesso mi sembra che sia dio e giunga dovunque e tutto disponga e in tutto sia. E non c’è niente che non ne partecipi: però niente ne partecipa in maniera uguale, questo come quello, ma molti sono i modi e dell’aria e dell’intelligenza. Essa è poliforme, più calda e più fredda, più asciutta e più umida, più ferma o dotata di più rapido movimento: e vi sono in essa molte altre differenziazioni e un numero infinito di sapori e di odori. E di tutti i viventi l’anima è la stessa cosa, aria più calda di quella esterna in cui viviamo, ma molto più fredda di quella che sta presso il sole. Tuttavia questo calore non è uguale in nessun essere vivente (come neppure in un uomo rispetto all’altro) e differisce non molto, ma in modo che rimangano simili. Però nessuna delle cose che si differenziano può divenire perfettamente uguale all’altra, senza diventare la stessa. Poiché la differenziazione è multiforme, multiformi debbono essere anche gli esseri viventi e molti e, dato il grande numero delle differenziazioni, non simili l’uno all’altro né per forma né per condotta di vita né per intelligenza. Eppure tutti per la stessa cosa vivono e vedono e odono, e dalla stessa cosa tutti hanno intelligenza differente. (Fr.5)
LEUCIPPO
Si può parlare di un “caso” Leucippo, dal momento che di questo filosofo si sono dati riferimenti, non solo di natura biografica, contrastanti tra loro. Aristotele, quando parla di Leucippo, lo pone sempre in coppia col suo “collega” Democrito, col quale sarebbe stato il fondatore dell’atomismo: da ciò sembra che Leucippo – già presso Aristotele – fosse figura dai contorni molto sfumati. Secondo quanto afferma Diogene Laerzio (Vite dei filosofi X 13), Epicuro mise in dubbio l’esistenza stessa di Leucippo, mentre Aristotele in più opere (Metaphysica, De generatione et corruptione, De caelo, De anima) e Teofrasto (370-287 a.C.), la cui dossografia è la fonte per lo stesso Diogene Laerzio in IX 30 sgg., attestano sia la dottrina che la storicità della figura di Leucippo. Hermann Diels in Die Fragmente der Vorsokratiker, II, 80, raccolse le opinioni divergenti degli autori antichi e spiegò tale problematicità verificativa con la formazione nel IV secolo a.C. del corpus democriteum, la raccolta dell’insieme degli scritti di Democrito, in cui furono incluse anche le opere di Leucippo, ingenerando da allora in poi una confusione fatale tra le dottrine rispettive di Leucippo e Democrito, confusione che mise in dubbio l’esistenza stessa di Leucippo. Riunificando i dati tratti da Diogene Laerzio, Aristotele e Simplicio (Physica), pare che Leucippo sia stato più giovane di Parmenide, scolaro di Zenone, maestro di Democrito e contemporaneo di Empedocle e Anassagora. Per ciò che concerne l’opera scritta di Leucippo, abbiamo il Papyrus Herculanensis (un papiro greco scoperto a Ercolano nel 1752 contenente testi filosofici epicurei) che, nell’edizione del 1768 (coll.alt. VIII 58-62) fr. 1, sostiene: “… scrivendo che… le stesse cose erano già state dette in precedenza nella Grande Cosmologia, che dicono essere opera di Leucippo. Ed è deplorato per essersi attribuito talmente le altrui dottrine, non solo ponendo nella Piccola Cosmologia le dottrine che si trovano anche nella Grande…”; e abbiamo Aezio, ed. Diels, I 25, 4 (Doxographi graeci 321), il quale dichiara: “Leucippo dice che tutto avviene secondo necessità e che questa corrisponde al fato. Dice infatti nel libro Dell’intelletto: Nulla si genera senza motivo, ma tutto con una ragione e secondo necessità”. Dalla testimonianza di Aristotele e Teofrasto si evince che Leucippo sia stato il primo a formulare le teorie atomistiche che Democrito in seguito sviluppò, soprattutto tramite l’uso di certi termini, attribuiti dagli studiosi all’opera Grande Cosmologia mai citata da Aristotele, quali “atomi”, ossia parti indivisibili (atoma swmata), grande vuoto (mega kenon), corpi solidi (nastá), scissione (apotomé), misura (rysmós), contatto reciproco (diathighé), direzione (tropé), rimescolamento (peripalaxis), vortice (dinos). Riassumendo, Leucippo avrebbe considerato la natura legata alla matematica, l’essere come un composto molteplice e materiale di atomi infiniti, ma non infinitamente divisibili, e il non essere come il vuoto in cui vengono a muoversi gli atomi. La visione leucippea sarebbe quindi deterministica e meccanicistica, da qui la spiegazione dell’origine dei mondi attraverso il vortice, che determinerebbe la scissione degli atomi più pesanti dai più leggeri, e la formazione della Terra in seguito alla forza centripeta che raccoglierebbe questi atomi pesanti. Circa l’ordinamento degli astri, Diogene Laerzio (IX, 33) riepiloga così la teoria di Leucippo: “L’orbita del sole è la più esterna, quella della luna è la più vicina alla terra, mentre quelle degli altri astri sono in mezzo a queste due”. I PRINCIPI DELL’ATOMISMO DEMOCRITEO E LEUCIPPEO Anche gli atomisti, come già Anassagora, assumono come struttura della realtà invisibile ad occhio nudo un’infinità di principi, ancorché questi non siano infinitamente divisibili: se infatti tutto fosse divisibile all’infinito, allora il mondo avrebbe dovuto cessare di essere già da tempo. I principi primi della realtà come li intendono gli atomisti debbono essere pieni e privi di parti: tali sono quelli essi definiscono atoma swmata , ovvero – letteralmente – “corpi non ulteriormente tagliabili”, costituenti la struttura profonda del reale. Questi “atomi”, per potersi muovere e per consentire la generazione e la corruzione dei composti, devono avere uno spazio entro cui muoversi ed è per questa ragione che gli atomisti introducono come secondo principio il vuoto (to kenon), condizione imprescindibile del moto atomico. Gli stessi aggregati non sono che unioni di atomi e vuoto: il che è provato dal fatto che, consumandosi, i corpi cedono atomi e, perché ciò possa avvenire, dev’esserci il vuoto. Con terminologia eleatica, Democrito chiama gli atomi e il vuoto rispettivamente “essere” e “non essere”; egli asserisce poi – riprendendo l’antitesi sofistica – che la conoscenza intellettuale (avente come oggetto gli atomi e il vuoto) è kata fusin (secondo natura), mentre quella degli aggregati è kata nomon (secondo convenzione). Sicchè secondo natura conosciamo gli atomi e il vuoto, secondo convenzione il bianco, il profumato, ecc. Le cose che costantemente esperiamo non sono dunque la verità, ma mera parvenza. Essendo gli atomi infiniti, infiniti saranno anche i mondi che dalla loro aggregazione trarranno origine, cosicché gli atomisti possono relativizzare la vita che conduciamo sul nostro e possono inoltre evitare di far ricorso a cause extra-materiali. Incarnando in sé l’essere parmenideo (ed essendo dunque immutabili, eterni, incorruttibili), gli atomi come si distinguono fra loro? Per Empedocle e Anassagora, i principi si differenziano qualitativamente, il che tra l’altro spiega perché i corpi composti presentino qualità; per Democrito (e forse per Leucippo) invece – stando a quel che riferisce Aristotele – gli atomi si differenziano fra loro per caratteristiche quantitative. Per far luce su questo punto della dottrina atomistica, Aristotele esemplifica servendosi delle lettere dell’alfabeto, che egli chiama stoiceia : e stoiceia sono anche gli “elementi”, con la conseguenza che gli atomi sono un po’ come le lettere dell’alfabeto e il mondo che ne risulta si presenta come una sorta di libro le cui lettere sono gli atomi. Per forma (rusmoV) gli atomi si distinguono fra loro come la A si distingue dalla N; per ordine (diaqigh) come AN da NA; per posizione (troph) come Z da N. Si tratta evidentemente di differenze puramente geometriche, con caratteristiche misurabili. Tuttavia gli atomisti si spingevano oltre: pare infatti che, poste queste tre differenze di base, essi asserissero che gli atomi sono dotati di un numero incalcolabile di differenze, a tal punto che essi finiscono col riconoscere – il che costerà loro la derisione da parte dei suoi avversari – l’esistenza di atomi di forma uncinata. Il problema cui l’atomismo è chiamato a rispondere è che, se gli atomi sono quantitativamente connotati, come si spiega che poi noi percepiamo qualitativamente i composti? Perché, se la rosa non è che un aggregato di quantità, noi la percepiamo rossa, profumata, ecc? Per render conto di ciò, l’atomismo spiega le qualità come epifenomeni delle quantità, cosicché il bianco deriverebbe da un assetto casuale dato dall’unione di atomi: la rosa non è che un aggregato di atomi quantitativamente connotati che però, colpendo i nostri organi di senso, generano impressioni qualitative (il profumo, il colore rosso, ecc). Un altro problema su cui l’atomismo deve affaticarsi riguarda la natura stessa degli atomi: se essi sono corpi invisibili e indivisibili, allora non avranno parti e saranno come enti geometrici; ma allora come è possibile ch’essi, privi di parti, si aggreghino e formino corpi divisibili costituiti da parti? Come possono muoversi? L’atomismo sostiene che gli atomi sono ab aeterno dotati di moto (il che implica il vuoto in eterno) e, più precisamente, si muovono in qualunque direzione senza tregua, con la conseguenza che possono casualmente incontrarsi e aggregarsi (ciò nel caso in cui le forme siano compatibili, come ad esempio quando si incontrano atomi ad uncino e atomi ad anello). A regolare il moto degli atomi non è una forza esterna o una divinità: l’unica legge (se in questo caso di legge si può parlare) regolante il loro movimento è il caso, non già nel senso ch’essi si muovano senza causa, bensì nel senso che il loro è un moto spontaneo, scevro di finalità e non extra-naturale: è un moto che tiene conto della legge per cui il simile attira il simile. Tutto risponde ad una ragione e ad una ferrea necessità. Oltre a negare la causa finale, l’atomismo nega quella efficiente – nota Aristotele -, giacchè essa non è se non una proprietà della materia. Per l’atomismo nulla avviene a caso, tutto avviene secondo una ragione. Questa osservazione può essere provata: a questo scopo non basta accontentarsi dell’osservazione della molteplicità dei fenomeni, ma occorre risalire mediante un procedimento intellettuale alla conoscenza di ciò che non è visibile. Gli oggetti che noi percepiamo ci appaiono caldi o freddi, amari o dolci, ma queste qualità appartengono alla sfera di quello che la cultura del v secolo a.C. raggruppava sotto la categoria del nomoV, ossia di ciò che è variabile, convenzionale, instabile, contrapposto al piano stabile e immutevole della natura.
DEMOCRITO
Democrito nacque intorno il 460 a.c. ad Abdera, dove era nato anche Protagora. Egli fu atomista, ovvero seguì quelle dottrine che per un verso presuppongono l’indagine naturale dei primi pensatori e la riflessione degli eleati, ma per l’altro anche i dibattiti sui rapporti tra natura (fusiV) e legge convenzionale (nomoV). Democrito, a differenza degli altri pensatori e a somiglianza dei suoi contemporanei sofisti, scrisse una miriade di opere: tramite un catalogo stilato da Trasillo nel primo secolo d.C., sappiamo che dovevano aggirarsi intorno alla cinquantina. Purtroppo ci sono pervenuti solo pochi frammenti di esse. Anche Democrito dovette recarsi una volta ad Atene, ma per il resto del tempo pare che abbia vissuto nella sua città natale, dove sarebbe morto tra il 400 e il 380 a.C. Le indagini degli atomisti presuppongono da un lato l’interesse per i problemi posti dall’osservazione dei fenomeni naturali e, dall’altro, la riflessione degli eleati, ma al tempo stesso anche l’attenzione per la pluralità dei mondi e delle culture. Le opere di Democrito trattavano argomenti di vario genere, si passava dalla matematica alla riflessione morale, dallo studio del linguaggio e dei poeti alla medicina e allo studio degli animali, ma alla base di tutta la sua ricerca egli poneva l’obiettivo di trovare una spiegazione causale unitaria di questa molteplicità di manifestazioni e aspetti del mondo fisico e umano. Anche l’atomismo si configura come teoria “pluralistica” che si propone di spiegare il cosmo senza trasgredire le prescrizioni parmenidee: l’iniziatore della corrente atomistica sembra essere stato Leucippo, figura che per noi non è che un nome, visto la scarsissima quantità di materiale sul suo conto che possediamo; ben di più sappiamo sul suo collega Democrito di Abdera, il quale scrisse – come i Sofisti – una miriade di opere sui più svariati argomenti, benché di esse non ci siano giunti che frammenti. Anche Democrito, come già Anassagora, assume come struttura della realtà invisibile ad occhio nudo un’infinità di principi, ancorché questi non siano infinitamente divisibili: se infatti tutto fosse divisibile all’infinito, allora il mondo avrebbe dovuto cessare di essere già da tempo. I principi primi della realtà come li intende Democrito debbono essere pieni e privi di parti: tali sono quelli che egli definisceatoma swmata , ovvero – letteralmente – “corpi non ulteriormente tagliabili”, costituenti la struttura profonda del reale. Questi “atomi”, per potersi muovere e per consentire la generazione e la corruzione dei composti, devono avere uno spazio entro cui muoversi ed è per questa ragione che Democrito introduce come secondo principio il vuoto (to kenon), condizione imprescindibile del moto atomico. Gli stessi aggregati non sono che unioni di atomi e vuoto: il che è provato dal fatto che, consumandosi, i corpi cedono atomi e, perché ciò possa avvenire, dev’esserci il vuoto. Con terminologia eleatica, Democrito chiama gli atomi e il vuoto rispettivamente “essere” e “non essere”; egli asserisce poi – riprendendo l’antitesi sofistica – che la conoscenza intellettuale (avente come oggetto gli atomi e il vuoto) è kata fusin (secondo natura), mentre quella degli aggregati è kata nomon (secondo convenzione). Sicchè secondo natura conosciamo gli atomi e il vuoto, secondo convenzione il bianco, il profumato, ecc. Le cose che costantemente esperiamo non sono dunque la verità, ma mera parvenza. Essendo gli atomi infiniti, infiniti saranno anche i mondi che dalla loro aggregazione trarranno origine, cosicché Democrito può relativizzare la vita che conduciamo sul nostro e può inoltre evitare di far ricorso a cause extra-materiali. Incarnando in sé l’essere parmenideo (ed essendo dunque immutabili, eterni, incorruttibili), gli atomi come si distinguono fra loro? Per Empedocle e Anassagora, i principi si differenziano qualitativamente, il che tra l’altro spiega perché i corpi composti presentino qualità; per Democrito invece – stando a quel che riferisce Aristotele – gli atomi si differenziano fra loro per caratteristiche quantitative. Per far luce su questo punto della dottrina democritea, Aristotele esemplifica servendosi delle lettere dell’alfabeto, che egli chiama stoiceia : e stoiceia sono anche gli “elementi”, con la conseguenza che gli atomi sono un po’ come le lettere dell’alfabeto e il mondo che ne risulta si presenta come una sorta di libro le cui lettere sono gli atomi. Per forma (rusmoV) gli atomi si distinguono fra loro come la A si distingue dalla N; per ordine (diaqigh) come AN da NA; per posizione (troph) come Z da N. Si tratta evidentemente di differenze puramente geometriche, con caratteristiche misurabili. Tuttavia Democrito si spingeva oltre: pare infatti che, poste queste tre differenze di base, egli asserisse che gli atomi sono dotati di un numero incalcolabile di differenze, a tal punto che egli finisce col riconoscere – il che gli costerà la derisione da parte dei suoi avversari – l’esistenza di atomi di forma uncinata. Il problema cui Democrito è chiamato a rispondere è che, se gli atomi sono quantitativamente connotati, come si spiega che poi noi percepiamo qualitativamente i composti? Perché se la rosa non è che un aggregato di quantità noi la percepiamo rossa, profumata, ecc? Per render conto di ciò, Democrito spiega le qualità come epifenomeni delle quantità, cosicché il bianco deriverebbe da un assetto casuale dato dall’unione di atomi: la rosa non è che un aggregato di atomi quantitativamente connotati che però, colpendo i nostri organi di senso, generano impressioni qualitative (il profumo, il colore rosso, ecc). Un altro problema su cui Democrito deve affaticarsi riguarda la natura stessa degli atomi: se essi sono corpi invisibili e indivisibili, allora non avranno parti e saranno come enti geometrici; ma allora come è possibile ch’essi, privi di parti, si aggreghino e formino corpi divisibili costituiti da parti? Come possono muoversi? Democrito sostiene che gli atomi sono ab aeterno dotati di moto (il che implica il vuoto in eterno) e, più precisamente, si muovono in qualunque direzione senza tregua, con la conseguenza che possono casualmente incontrarsi e aggregarsi (ciò nel caso in cui le forme siano compatibili, come ad esempio quando si incontrano atomi ad uncino e atomi ad anello). A regolare il moto degli atomi non è una forza esterna o una divinità: l’unica legge (se in questo caso di legge si può parlare) regolante il loro movimento è il caso, non già nel senso ch’essi si muovano senza causa, bensì nel senso che il loro è un moto spontaneo, scevro di finalità e non extra-naturale: è un moto che tiene conto della legge per cui il simile attira il simile. Tutto risponde ad una ragione e ad una ferrea necessità. Oltre a negare la causa finale, l’atomismo nega quella efficiente – nota Aristotele -, giacchè per Democrito essa non è se non una proprietà della materia. Per Democrito nulla avviene a caso, tutto avviene secondo una ragione. Questa osservazione può essere provata: a questo scopo non basta accontentarsi dell’osservazione della molteplicità dei fenomeni, ma occorre risalire mediante un procedimento intellettuale alla conoscenza di ciò che non è visibile. Gli oggetti che noi percepiamo ci appaiono caldi o freddi, amari o dolci, ma queste qualità appartengono alla sfera di quello che la cultura del v secolo a.C. raggruppava sotto la categoria del nomoV, ossia di ciò che è variabile, convenzionale, instabile, contrapposto al piano stabile e immutevole della natura. La vera conoscenza è quella che consente di accedere al piano nascosto che sfugge ai sensi. Qui essa trova i costituenti di tutte le cose: gli atomi (atoma swmata) e il vuoto (to kenon). La parola atomo deriva dal Greco e significa indivisibile (a+temnw = che non si può tagliare). Gli atomi sono quindi particelle indivisibili talmente piccole che non possono essere singolarmente percepite da alcun organo di senso. Gli atomisti ritengono – sulle orme di Parmenide – che siano ingenerati ed indistruttibili. Sono dunque i costituenti ultimi della realtà. Sebbene con i pluralisti nasca la causa efficiente (ciò che mette in movimento la materia: per Empedocle Amore e Odio, per Anassagora il NouV ) , Democrito non la accetta: secondo lui vi è un grande vuoto con atomi sparsi qua e là dotati di movimenti pulviscolari (per capire che cosa intendesse Democrito , si può guardare la polvere contro luce): essi vagano casualmente finchè non si urtano gli uni contro gli altri e, quando si scontrano, avviene un qualcosa di simile al biliardo; gli atomi si scontrano e assumono nuovi movimenti. E’ una concezione materialistica e deterministica (dato un fatto A, se ne verifica necessariamente uno B) e meccanicistica (vi è l’idea che il mondo sia un macchinario dove tutto avviene per contatto: viene così confutata la tesi dei fenomeni che avvengono a distanza, come il magnete di cui parlava Talete). Tutto avviene secondo una necessità inevitabile. Gli atomi si distinguono tra di loro non perchè alcuni sono caldi e altri freddi o perchè alcuni sono amari e altri dolci: in altre parole, non si distinguono per caratteristiche qualitative, ma quantitative. Le loro differenze sono simili a quelle che intercorrono tra le lettere dell’alfabeto. L’insieme delle differenze atomiche (posizione, ordine, forma) è dunque il tipo geometrico, ovvero riguarda la forma e la disposizione nello spazio. Ma bisogna ricordare che la quantità di forme atomiche è innumerevole, non è ristretta al solo tipo delle grandezze geometriche regolari. Com’è possibile che da queste particelle invisibili ed indivisibili si formino gli oggetti che si possono percepire con gli organi di senso? Come abbiamo detto prerogativa degli atomi è il loro continuo movimento “pulviscolare” che non avviene in una direzione privilegiata ed unica. In questi movimenti possono incontrarsi, come le palle sul tavolo del biliardo: se sono incompatibili si respingono, ma se non lo sono si aggregano. Un criterio fondamentale di aggregazione è dato dal principio che il simile si aggrega con il simile. Ma non vi è un agente esterno (una causa efficiente) che fa avvenire le aggregazioni, come era invece per Anassagora e per Empedocle. Fondamentale per il movimento è il vuoto (che fa le veci della tavola da biliardo): gli atomisti possono dire che il vuoto è “non essere” (gli atomi sono invece l’essere in senso parmenideo, ingenerati e incorruttibili), in quanto esso non è dotato di forma individuale, di limitazione e di movimento, come invece è per gli atomi, che possono quindi identificarsi con l’essere. Nel vuoto infinito si formano e si distruggono infiniti mondi, anche diversi da quello in cui viviamo (tale attenzione per la diversità è sintomatica del periodo in cui Democrito vive: il V secolo). Mediante le nozioni di atomo e di vuoto diventa possibile spiegare non solo la costituzione dei mondi e degli oggetti che ciascuno di essi contiene, bensì anche fenomeni biologici come la riproduzione o la respirazione. L’anima è per Democrito una prerogativa degli esseri viventi. La vita è contrassegnata dal calore. A spiegare questo fatto interviene la forma propria degli atomi costitutivi dell’anima: essi sono di forma sferica, la quale è suscettibile della massima mobilità. E la massima mobilità genera il calore. In questa prospettiva, la respirazione è interpretata come una funzione vitale essenziale perchè consente la continua reintegrazione degli atomi di anima che incessantemente si perdono anche per la loro costante mobilità. Quando questa reintegrazione cessa arriva la morte, caratterizzata appunto dall’immobilità e dalla freddezza. Allo stesso modo la riproduzione umana è determinata dal seme costituito da atomi provenienti da tutte le parti del corpo. Ciò permette di spiegare la trasmissione di somiglianze dai genitori ai figli. Gli stessi processi percettivi possono essere chiariti mediante il modello di spiegazione atomistica. Ogni soggetto, anche se a noi sembra immobile, è costituito di atomi intervallati dal vuoto, i quali si muovono incessantemente. Da ciascun oggetto si staccano in continuazione quelli che gli atomisti chiamano eidwla (immagini): si tratta di emissioni atomiche che conservano la figurazione degli oggetti dai quali provengono. Se il medio che queste emissioni attraversano, ossia l’aria, non è disturbato ed esse pervengono ai pori, vale a dire i condotti vuoti, presenti sulla superficie del nostro corpo, e attraverso di essi ai nostri organi di senso, si hanno le varie sensazioni della vista, dell’udito e così via. Ogni sensazione è quindi ricondotta a una forma di contatto degli eidwla con il nostro corpo. Prendiamo ad esempio l’olfatto: arrivano al nostro naso atomi di un fiore e noi lo sentiamo profumato non per il fatto che gli atomi abbiano già di per sè quell’odore, ma perchè con la loro forma mi stimolano il naso in modo tale da fiutare quell’odore. Gli odori, i sapori, i colori, esistono in me che li provo, ma non nella realtà. Ogni sensazione ci fornisce quindi informazioni sulla configurazione e sui caratteri dell’oggetto corrispondente. Pure i sogni possono avere un contenuto informativo e trasmettere addirittura pensieri e sentimenti propri dell’individuo dal quale proviene il flusso di eidwla. Restano comunque inaccessibili ai sensi, sia nello stato di veglia, sia durante il sonno, i principi costitutivi del tutto, ossia gli atomi, nella loro singolarità, ed il vuoto. Alla conoscenza di essi si può pervenire soltanto andando oltre alla sensazione, ossia cercando la verità nel profondo, come dice Democrito, mediante l’intelletto. Solo questa è la conoscenza genuina. Secondo natura sono solo gli atomi e il vuoto; per convenzione invece sono il bianco, il rosso, il profumato, ecc. Dante (Inferno, IV) definisce Democrito come “colui che il mondo a caso pone” perchè – in sintonia con Aristotele – dà gran peso a quella causa finale che Democrito ignora: è come se per lui le cose andassero a caso, senza uno scopo. Nell’ottica democritea, non c’è differenza di livelli di conoscenza, tutto è percezione (persino gli oggetti del pensiero): dal cielo alla terra non ci sono che corpi costituiti da atomi e contenenti il vuoto e che (proprio perché contenenti il vuoto) emanano gli eidwla, le “immagini” delle cose; talieidwla altro non sono se non atomi che si staccano continuamente dai corpi (Epicuro parla di pulsazione dei corpi stessi) e si rendono così a noi percepibili. Anche il corpo del soggetto percipiente, infatti, è un aggregato atomico dotato di vuoto o, meglio, di canali vuoti: gli eidwla si incuneano in questi canali vuoti e rispecchiano l’immagine dell’oggetto rendendolo percepibile: si ha dunque una conoscenza per contatto. Ricapitolando, la conoscenza avviene per percezione (sensismo gnoseologico) e quest’ultima avviene per contatto attraverso i cinque sensi e, se non ci fosse il vuoto, la percezione sarebbe dolorosa perché gli eidwla colpirebbero i nostri atomi anziché infilarsi nei canali vuoti. Tuttavia, se i corpi continuano a cedere materia (gli eidwla che si staccano), allora ne consegue che essi sussistono fin tanto che la materia ceduta è bilanciata da quella ricevuta: e la mancanza di respiro, ovvero la fine del ricambio di atomi, è la prova della fine dell’esistenza del corpo. La legge che vige nel mondo degli atomisti è il caso, nel senso che non vi è alcuna causa extranaturale capace di governare il movimento degli atomi: essi si aggregano in maniera puramente casuale (ed è anche per questo che Dante rinfaccia, nel IV canto dell’Inferno, a Democrito di porre il mondo a caso). Naturalmente sorge spontaneo un quesito: che cosa mi garantisce che gli eidwla mi riportino tale e quale la forma dell’oggetto a cui provengono? Non potrebbe essere che, nello spazio che percorrono per giungere a me, subiscono una modificazione? Qui le posizioni degli atomisti divergono: Epicuro pensa che gli eidwla ci raggiungano con velocità pari a quella del pensiero, cosicchè non vi è possibilità di errore. Per Democrito, invece, tutto cambia: “nulla conosciamo secondo verità perché la verità è nel profondo”, egli afferma; sembra quasi una professione di scetticismo, ma in realtà non lo è affatto. Infatti, Democrito vuol semplicemente dire che la verità sono gli atomi e il vuoto e che tutto il resto (il dolce, l’amaro, il caldo, il freddo, ecc) è opinione che, in quanto tale, è suscettibile di essere vera o di essere falsa e che varia da individuo a individuo. Democrito si accosta dunque al motto di Anassagora “oyiV twn adelwn ta fainomena“: il mondo che mi appare è opinione, e anche le opinioni si formano in base alla percezione, anche se si fermano alla superficialità, alle qualità esterne del corpo (caldo, freddo, ecc). In quanto frutto di sensazioni, anche le opinioni hanno un fondo di verità, anche se l’unica verità degna di essere definita tale è quella che si conosce quando si conoscono il vuoto e gli atomi. “Non conosciamo nulla che sia invariabile, ma solo aspetti mutevoli”, dice Democrito: e ne deduce l’esistenza di due forme di conoscenza, una genuina (“legittima”, secondo il linguaggio giuridico), l’altra oscura (“illegittima”): la conoscenza sensibile è oscura, mentre gli oggetti di quella genuina sono nascosti. Democrito affronta anche il problema della formazione delle società umane e dei tratti che le caratterizzano. Alla base di questa formazione è quello stesso principio di aggregazione del simile con il simile, che valeva per gli atomi. Un elemento di distinzione tra animali e uomo, un po’ come i sofisti, Democrito lo ravvisa nel processo delle tecniche. Ma Democrito fa leva ancora una volta sul principio della somiglianza per spiegare la genesi delle stesse tecniche: esse si costituiscono infatti a partire dall’imitazione delle attività animali. Per questo aspetto, esiste dunque una certa continuità tra il piano della natura e quello della cultura e delle istituzioni umane. L’imposizione dei nomi alle cose è un’imposizione convenzionale. Così la religione sembra essere un’invenzione umana, ma in questo caso dovuta all’iniziativa di pochi uomini sapienti. Non è difficile scorgere la parentela tra queste affermazioni e quelle sofistiche, anch’esse incentrate sul binomio nomoV/fusiV. E’ difficile a causa dei pochi suoi frammenti pervenutici comprendere profondamente la sua indagine etico-politica. Per un verso egli continua la tradizione dell’antica saggezza, compendiata in massime che devono dirigere il proprio comportamento verso se stessi e verso gli altri. Queste massime vertono anche sui mali e sui pericoli che affliggono la società, la discordia e la stasiV, il conflitto civile. La legge secondo Democrito dovrebbe salvaguardare da questi mali. Egli mostra una decisa preferenza per la forma di governo democratica, contrapposta alla tirannide, come la libertà lo è alla schiavitù. Ma per un altro verso l’obiettivo della vita è riposto nella tranquillità dell’animo (euqumia), immune da passioni eccessive; il che comporta la necessità di non farsi coinvolgere troppo non solo nelle questioni private, ma neppure in quelle pubbliche. L’esercizio della virtù non è più legato in maniera determinante alla dimensione della politica: l’etica di Democrito sembra premiare lo studioso, colui che vive al di fuori della politica (un po’ come sarà per Aristotele). Per Democrito non vi è un luogo privilegiato in cui si debba svolgere l’attività di studioso.
FRAMMENTI
Fr. A 65 (Aristotele, Fisica, 252a, 32)
È del tutto erroneo il supporre di dare un principio sufficiente col dire che è sempre o accade sempre cosí: che è la concezione a cui Democrito riconduce le cause della natura, in base alla considerazione che i fenomeni del passato si sono prodotti nello stesso modo di ora; e la causa dell’eterno, poi, non ritiene di dover ricercare.
Fr A 66 (Cicerone, De fato, 17, 39; Aristotele, Della generazione degli animali, 789b, 2; Aezio, I, 26, 2 e I, 25, 3)
1 Tutte le cose derivano dal fato sí che il fato attribuisce loro una piena necessità: tale fu l’opinione di Democrito, Eraclito, Empedocle, Aristotele.
2 Democrito, lasciate da parte le cause finali, riconduce alla necessità [meccanica] tutte le operazioni della natura.
3 Democrito dice che consiste nella impenetrabilità, nel movimento, e nell’urto della materia.
4 Parmenide e Democrito affermano che tutto avviene per necessità: e che essa è fato e giustizia e provvidenza e produttrice del mondo.
Fr A 67 (Simplicio, Fisica, 327, 24)
Ma anche Democrito, là dove dice “dal tutto si distaccò un vortice di forme d’ogni genere” (ma non dice come né per qual causa), sembra significare che il vortice si produce spontaneamente e casualmente.
Fr. A 68 (Aristotele, Fisica, 195b, 36; Simplicio, Fisica, 330, 14)
1 Alcuni dubitano anche se [il caso] esista o no: dicono infatti che nulla vien prodotto dal caso, ma che esiste una causa determinata di tutte le cose che noi diciamo prodursi spontaneamente o per caso.
2 La frase “come quell’antica dottrina che negava il caso” sembra detta in rapporto a Democrito; questi infatti, benché nella sua cosmogonia paresse valersi del caso, nei problemi particolari invece afferma che il caso non è causa di nulla e ricorre ad altre cause: cosí per esempio, della scoperta di un tesoro è causa lo scavare oppure il piantare un ulivo, e cosí della frattura del cranio del calvo è causa l’aquila che getta la tartaruga affinché il guscio di essa si rompa. Cosí riferisce Eudemo.
Fr. A 69 (Aristotele, Fisica, 196a, 24)
Vi sono poi di quelli che attribuiscono al caso la causa dell’esistenza di questo nostro cielo e di tutti i mondi: dal caso deriva il vortice e il movimento che separò gli elementi e ordinò nella sua forma presente l’universo <...>. E quel che fa veramente meraviglia è che, mentre dicono che gli animali e le piante né esistono né nascono fortuitamente, sibbene hanno una causa, sia poi questa la materia o la mente o qualcosa di simile (giacché da ogni singolo seme non viene fuori ciò che capita, ma da questo qui viene l’olivo, da quell’altro l’uomo ecc.), affermano per contro che il cielo e tutto quanto vi è di piú divino tra i fenomeni derivano dal caso e che non vi è punto per essi una causa analoga a quella che c’è per gli animali e per le piante.
Fr. A 70 (Aristotele, Fisica, 196b, 5; Aezio, I, 29, 7; Lattanzio, Institutiones divinae, I, 2)
1 Vi sono alcuni che considerano come causa il caso, il quale è impenetrabile alla ragione umana, essendo qualcosa quasi di divino e di straordinario.
2 Anassagora e Democrito e gli Stoici introdussero una causa impenetrabile all’umano ragionamento: dissero infatti che vi è ciò che dipende dalla necessità, ciò che dipende dal fato, ciò che dipende da deliberazione, ciò che dipende dal caso.
3 <...> cominciare da quella questione che sembra essere per natura la prima, se vi sia una provvidenza che a tutte le cose provvede o se tutto nel mondo sia stato prodotto e si svolga per opera del caso, opinione questa che ebbe il suo primo assertore in Democrito ed ebbe un propugnatore in Epicuro.
Fr. B 9 (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 135)
1 Democrito talora rifiuta le apparenze sensibili e dice che nulla in esse ci appare conforme a verità, ma solo conforme a opinione, e che il vero negli oggetti consiste in ciò ch’essi sono atomi e vuoto. Infatti egli dice:
2 “Opinione il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi e il vuoto” […].
Fr. B 11 (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 138, 139)
1 Nei Canoni afferma che vi sono due modi di conoscenza, cioè mediante i sensi e mediante l’intelletto: e chiama genuina la conoscenza mediante l’intelletto, riconoscendo ad essa la credibilità nel giudicare il vero, mentre all’altra dà il nome di oscura, negandole la sicurezza nel conoscere il vero. Dice testualmente:
2 “Vi sono due forme di conoscenza, l’una genuina e l’altra oscura; e a quella oscura appartengono tutti quanti questi oggetti: vista, udito, odorato, gusto e tatto. L’altra forma è la genuina, e gli oggetti di questa sono nascosti [alla conoscenza sensibile od oscura]”.
3 Poscia, mostrando la superiorità della conoscenza genuina su quella oscura, prosegue dicendo:
4 “Quando la conoscenza oscura non può piú spingersi ad oggetto piú piccolo né col vedere né coll’udire né coll’odorato né col gusto né con la sensazione del tatto, ma
Fr. B 41 (Massime di Democrito, Natorp 45)
Astienti dalle colpe non per paura ma perché si deve.
Fr. B 171 (Massime di Democrito, Natorp 10-11)
La felicità non consiste negli armenti e neppure nell’oro; l’anima è la dimora della nostra sorte.
Fr. B 234 (Massime di Democrito, Natorp 21)
Gli uomini invocano la salute dagli dèi con le preghiere, e non sanno ch’essa è in loro potere; ma siccome per intemperanza operano contro di essa, sono essi stessi che tradiscono la propria salute a causa delle passioni.
(I Presocratici, Laterza, Bari, 19904, pagg. 694-695, 748, 749, 763, 784, 795)
IPPOCRATE
Nato sull’isola di Cos in una data imprecisata che può spaziare dal 460 al 450 a.C., Ippocrate è destinato a diventare nei secoli il simbolo stesso dell’arte medica. A quest’aura di leggenda, che sempre circondò la sua figura, si devono le innumerevoli e fantasiose tradizioni fiorite intorno alla sua esistenza e il confluire sotto il suo nome di uno stuolo di opere appartenenti ad altri autori, note nel loro complesso col titolo di Corpus Hippocraticum. Le uniche notizie piuttosto attendibili sulla vita di Ippocrate (che dovette terminare la propria esistenza poco dopo il 380 a.C.) sono quelle che lo vogliono figlio del medico Eraclide e dedito a frequenti viaggi: molto probabilmente, egli soggiornò infatti ad Atene e pure ad Abdera, dove fu in contatto con Democrito, concludendo infine la propria esistenza in Tessaglia. L’esistenza di un sistema ippocratico, che trascende le semplici osservazioni empiriche sulle varie affezioni, pare confermato da un passo del Fedro (270 c) di Platone, in cui il metodo del medico di Cos si dice finalizzato alla conoscenza del corpo in connessione con la natura del tutto, secondo quella corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo già intuita da Alcmeone: anche per lui, come per Ippocrate, la salute consiste nell’equilibrio degli opposti, identificati nei quattro umori circolanti nel corpo (sangue, flegma, bile gialla e bile nera). Riportiamo il breve passo del Fedro platonico: “Per ciò che riguarda la natura, esamina che cosa mai dicono Ippocrate e il ragionamento veritiero. Non occorre forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto, bisogna vedere se l’oggetto di cui vorremo essere esperti noi stessi e capaci di rendere tale un altro è semplice o multiforme. In secondo luogo, qualora sia semplice, occorre esaminare quale potenza abbia per natura, a che cosa si rivolga quando è attivo o da che cosa dipenda quando è passivo. Qualora invece abbia molte forme, dopo averle enumerate, bisogna esaminare ciascuna di esse come si è fatto per la forma unica, per vedere con quale forma ciascuna agisca naturalmente e che cosa faccia, o con quale forma subisca, che cosa subisca e per effetto di che cosa”. Null’altro si può affermare con certezza sulla dottrina di Ippocrate, e sterminate sono state le discussioni sulla paternità ippocratica dei singoli scritti (una settantina circa) confluiti nel Corpus Hippocraticum.Un relativo accordo fra gli studiosi sussiste comunque per due di tali scritti: quello sulla Malattia sacra e quello su Arie, acque, luoghi. Sempre al pensiero di Ippocrate paiono potersi ricondurre i due trattati chirurgici sulle Fratture e sulle Articolazioni, nonché il Prognostico e le Epidemie (ovvero i “soggiorni” di medici in città straniere). Lo scritto sulla Malattia sacra tratta in termini antisuperstiziosi e scientifici l’epilessia, tradizionalmente intesa come un morbo inviato dagli dei e perciò detto “sacro”. Nello scritto su Arie, acque, luoghi la salute umana è posta in rapporto con l’influsso esercitato dal clima, e vi trova spazio anche un piacevole excursus etnografico sulle varie regioni d’Europa e d’Asia. Merita poi di essere brevemente menzionata – nel secondo capitolo del Prognostico – la descrizione dei segni che preannunziano la morte, quella che è passata alla storia come facies hippocratica. L’impressione generale che si ricava dalla lettura degli eterogenei scritti confluiti nel Corpus Hippocraticum (e che naturalmente non possono essere tutti attribuiti al solo Ippocrate) è, innanzitutto, quella di una mescolanza tra elementi di arcaicità e di innovazione. Spesso la descrizione dei sintomi e la prescrizione della terapia da adottare ricalca antichissime formule presenti nei testi mesopotamici ed egizi, in cui a una proposizione condizionale contenente le manifestazioni del male (ad esempio, “se un uomo ha dolori allo stomaco”), segue l’indicazione del rimedio (“allora occorrerà che assuma il tale farmaco”). Lo schema logico/sintattico del “se x, allora y” riproduce formalmente quello adoperato nelle pratiche divinatorie, in cui l’osservazione dei segni implicava la possibilità di reinterpretare il volere divino. Ma nel caso degli scritti ippocratici l’analogia è solo esteriore: l’autore del secondo Prorrhtikon (Manuale delle predizioni) compreso nella seconda raccolta contesta aspramente l’applicazione del metodo mantico alla diagnostica, contrapponendo al “divinare” (manteuesqai) il “congetturare” (tekmairesqai) in base ai sintomi (shmeia) del male. L’assunzione di tale forma di ragionamento deduttivo (logismoV) applicato alla ricorrenza di certi sintomi ebbe un influsso enorme sul pensiero greco e si estese anche all’ambito filosofico e storiografico: Jaeger sottolinea a tal proposito il debito del metodo socratico nei confronti della scienza medica, e lo stesso può dirsi a proposito di Erodoto e di Tucidide. Il carattere stesso della materia trattata e l’origine non omogenea degli scritti componenti il Corpus Hippocraticum rendono problematico esprimere un giudizio sulle qualità letterarie di questa produzione, in cui a pagine redatte in un arido stile classificatorio se ne alternano altre di piglio vivacemente polemico nei confronti delle credenze tradizionali (nella Malattia sacra e nel Manuale delle predizioni), ossia pervase di una curiosità tipicamente ionica per le terre lontane e favolose (è il caso di Arie, acque, luoghi). Ciò che anima questi scritti è in ogni caso l’ansia del conoscere e la fiducia nella ragione. Quasi certamente più antico di Ippocrate è il celebre Giuramento, che praticamente fino ai giorni nostri è stato alla base dell’etica professionale medica. Questi scritti, non di rado contrastanti tra loro, hanno in parte come destinatari altri medici, cui vengono insegnate terapie adeguate, di tipo dietetico, farmacologico o chirurgico, per la cura delle varie malattie. A volte essi forniscono quadri clinici di singoli pazienti, con indicazioni dei sintomi e dei decorsi delle malattie: è questo il caso dello scritto sulle Epidemie. Sulla base della classificazione di tipi di malattie nella loro sequenza temporale, il medico poteva formulare una previsione del decorso futuro fino alla conclusione (positiva o negativa che fosse). In vista di tale fine era importantissima una valutazione accurata dei dati sintomatici osservabili, cosa a cui provvede il Prognostico. Questo tipo di scritti mette a disposizione di altri medici il sapere acquisito personalmente o ricevuto a propria volta da altri: essi presuppongono, pertanto, che il sapere medico possa essere accumulato e accresciuto gradatamente. Quest’aspetto è evidente anche nel celebre Giuramento ippocratico, che ingiunge esplicitamente di trasmettere gli insegnamenti scritti e orali ai propri figli, ai figli del proprio maestro, agli allievi che hanno prestato il giuramento. In quest’ottica, il sapere medico appare come patrimonio di un gruppo chiuso di specialisti, non di rado legati tra loro da rapporti familiari, il quale è anche tenuto alla trasmissione di tale sapere alle generazioni venture. Un altro gruppo degli scritti costituenti il Corpus Hippocraticum si rivolge invece ad un pubblico colto, non di soli specialisti, interessato a discussioni concernenti la natura dell’uomo, le malattie e i modi per affrontarle e debellarle. Il medico antico appare come un personaggio girovago, che giunge in molte città a offrire i suoi servizi e a mettere a disposizione il proprio sapere: egli si trova dunque in forte competizione coi suoi rivali e deve dimostrare la propria superiorità su di essi non solo nei fatti, ma anche con i propri discorsi. Inoltre, i frequenti insuccessi terapeutici dei medici antichi – per esempio durante la terribile peste che sconvolse Atene nel 429 a.C., mirabilmente descritta da Tucidide – li espongono ad attacchi non solo da parte di altri medici, ma anche da parte di pratiche magiche alternative alla medicina. Il che costringe i medici a riflettere profondamente sui caratteri metodici della loro disciplina, sulle sue possibilità e sui suoi limiti. Un primo obiettivo polemico è per l’appunto dato da forme di medicina magico/religiosa. Contro di esse, si tratta di mostrare il carattere naturale di tutte le malattie, dovute a cause naturali e non divine e curabili con gli strumenti propri della medicina e non con pratiche magiche: è questo il nucleo dello scritto sulla Malattia sacra. Un ulteriore obiettivo polemico è dato da impostazioni mediche fondate su presupposti filosofici neganti alla radice la possibilità di esistenza di una medicina come terapia dei mali del corpo. Tale è l’eleatismo nella formulazione datane da Melisso, giacchè con la sua rigida concezione dell’unità dell’essere esso esclude dal dominio dell’essere la possibilità di provare dolore e, più in generale, di compiere e subire un’azione. Contro le tesi di Melisso e di quei medici che sostengono che uno solo è il costituente fondamentale del corpo umano scende in campo lo scritto intitolato La natura dell’uomo, considerato da Galeno come l’espressione migliore dell’autentico pensiero di Ippocrate (sebbene Aristotele sostenga che lo scritto deve essere attribuito non già a Ippocrate, bensì al suo genero Polibo); il nucleo di questo scritto è la teoria dei quattro umori, ai quali corrispondono i quattro temperamenti fondamentali dell’uomo: i melanconici, in cui predomina la bile nera; i flegmatici, in cui predomina il flegma; i sanguigni, in cui predomina il sangue, e infine i biliosi, in cui predomina la bile gialla. In netta opposizione con Melisso, l’autore de La natura dell’uomo asserisce che la nozione di malattia presuppone l’esistenza di una molteplicità di elementi in relazione tra loro, cosicché l’alternativa è o negare l’esistenza delle malattie (e, con esse, della medicina) o riconoscere che l’uomo è costituito da una molteplicità di elementi. In questa prospettiva, l’autore dell’opera costruisce una teoria generale dell’uomo come insieme costituito dai quattro umori. Dal rapporto equilibrato di essi scaturisce la salute, mentre la malattia non è che la rottura del loro equilibrio. Questa dottrina conoscerà un’ampia diffusione nella tradizione medica antica e sarà trasmessa fino all’epoca moderna. Un posto a parte, nel Corpus Hippocraticum, occupa lo scritto intitolato La medicina antica, anch’esso percorso da una vena fortemente polemica: il bersaglio di tale polemica è dato soprattutto dalle dottrine generali sul cosmo o sulla natura dell’uomo, come quelle elaborate da Empedocle. Esso pone al centro, invece, la variabilità dei casi individuali, portando alle estreme conseguenze quella consapevolezza della molteplicità e diversità delle situazioni naturali e culturali che aveva attraversato l’intera cultura del V secolo a.C., allorché i Greci erano entrati a contatto con civiltà e mondi diversissimi dal loro. Il medico dev’essere attento alla varietà dei casi individuali nel formulare le sue diagnosi e fare le sue terapie, senza cedere all’illusione filosofica che esista un’unica terapia ugualmente valida per tutti gli infiniti casi possibili. Del resto la scoperta stessa della medicina sta a dimostrare, secondo l’autore dello scritto, come solo procedendo per distinzioni sempre più articolate il sapere medico possa pervenire ad una maggiore precisione ed efficacia. La medicina è, in primo luogo, una terapia mediante alimenti, bevande ed esercizi, ossia ha il suo nucleo portante nella dietetica. Ma quest’ultima, che provvede a fornire a ciascun paziente l’alimento adeguato a curarlo, altro non è se non la conseguenza della scoperta che gli uomini, per sopravvivere, non possono nutrirsi degli stessi cibi di cui si nutrono gli animali, così come i malati non possono ricevere la stessa alimentazione dei sani. La medicina è allora un sapere autonomo capace di crescere in direzione di un sempre maggiore perfezionamento dei suoi strumenti metodici e terapeutici: “la medicina da gran tempo ormai dispone di tutti gli elementi, e il principio e la via sono stati scoperti, grazie ai quali in lungo corso di tempo sono state fatte molte ed egregie scoperte, e il resto nel futuro sarà scoperto”. Il pubblico a cui si rivolge questo autore non è costituito esclusivamente da medici: il messaggio centrale che egli vuole trasmettere è che la medicina sta assumendo uno statuto ontologico autonomo e di scienza. La medicina può perfezionarsi solo col tempo e lo scritto si schiera contro ogni medicina “filosofica”, che pretende cioè di insegnare il mestiere ai medici a partire da teorie generali sull’uomo e sul mondo: ciò implica un eccesso di generalità che le rende inutilizzabili, giacchè i filosofi (sofistai) non spiegano il rapporto dell’universale col particolare. Non a caso l’autore etichetta queste teorie come “ipotesi”, ossia come supposizioni di come stanno le cose, ipotesi a partire dalle quali avanzano la pretesa di aver scoperto chiavi di lettura valide per tutti; e l’autore scaglia i suoi dardi contro Empedocle e contro gli altri pensatori dell’epoca. Il medico, a differenza del filosofo, può rivendicare di dare il bene reale agli uomini: molto marcato è il senso della scoperta della medicina e della sua autonomia indiscutibile, la sua capacità di fare scoperte cosicchè anche “il resto nel futuro sarà scoperto”; non ci si deve, pertanto, fermare alle scoperte fatte, ma bisogna adoperarsi per farne di nuove e questo è possibile solo se le generazioni future faranno tesoro del sapere accumulato dai loro predecessori. Coi profani si deve solamente discutere dei mali che affliggono l’uomo e loro stessi: in quest’ottica, è importantissima l’anamnesi, ovvero la ricostruzione mediante il colloquio col paziente del male passato per costruire il male presente e l’evoluzione che la malattia avrà nel futuro. Questa metodologia non è propria solo dei medici: anche gli storici, in una certa misura, partono dalla convinzione che per prevedere il futuro si debba conoscere bene il passato, perché ciò consente di formulare delle costanti. Ma come è nata la medicina? E’ un sapere naturalissimo, risponde l’anonimo autore del trattato: il momento in cui uomini illuminati si interrogarono se chi soffriva dovesse seguire lo stesso regime alimentare di chi era sano fu la causa scatenante di tale disciplina, nata, in fin dei conti, per la naturalissima esigenza di sopperire alle malattie dell’uomo, necessità ineliminabili. Il passaggio dallo stato ferino alla civiltà sta, ad avviso dell’autore, nella scoperta del fuoco e nella cottura dei cibi. Proprio così si scopersero quali cibi erano utili e quali no: il sapere medico è nato nel momento in cui l’uomo è passato ad uno stato “umano” e al progresso della condizione umana è legato quello della disciplina medica. Non c’è da meravigliarsi se i primi scopritori di quest’arte erano visti come divinità, anche se, in realtà, erano uomini che esercitavano una tecnica tipicamente umana. Ma addirittura per sapere cosa è la natura è necessario partire da studi di medicina: il medico sa cosa è l’uomo e lo deduce da ciò che l’uomo mangia e beve, studiandone la salute e la condotta di vita; medico non è, dunque, chi dice che il formaggio è un cibo cattivo, ma chi dice che il formaggio è cattivo perché genera questi determinati mali. In un brano tratto da un saggio del Corpo ippocratico Sulla tecnica è tratteggiata una sorprendente teoria della scoperta scientifica: “Scopo e compito della scienza (episthmh) è lo scoprire qualcosa che prima non era scoperto e il cui esser scoperto sia preferibile al restare ignoto”. Assai interessante è anche lo scritto dal titolo Arie, acque, luoghi: il messaggio basilare dell’opera è che il medico deve prestare particolare attenzione ai luoghi, all’aria e all’acqua che caratterizzano l’ambiente, giacchè egli deve scientemente tenerne conto nella prescrizione delle diete e nella diagnosi delle malattie (che trovano nell’aria uno dei principali veicoli di trasmissione). L’ulteriore messaggio che emerge dallo scritto è che le arie, le acque e i luoghi condizionano in maniera imprescindibile la costituzione umana, sia nel bene sia nel male, cosicché il buon medico dovrà conoscere in maniera adeguata l’ambiente circostante per poter così meglio svolgere la sua attività terapeutica. Ci troviamo dunque dinanzi ad un determinismo ambientale assai vicino a quello delineato da Diogene di Apollonia: l’ambiente determina in maniera imprescindibile chi in esso si trova. In questa prospettiva, l’autore dello scritto si lancia in un’autentica fisiognomica ambientale, facendo corrispondere a determinati individui determinati territori (ad esempio, chi è nato in zone boscose presenterà specifiche caratteristiche, e così via); tale corrispondenza si riverbera anche sui popoli: in particolare, l’autore di Arie, acque, luoghi instaura un raffronto tra i Greci e gli Orientali, notando come questi ultimi – poiché viventi in zone calde e secche – siano generalmente indolenti e pigri e, in forza di ciò, facilmente governati da tiranni. Al contrario, il clima solare e felice dei Greci fa sì ch’essi siano particolarmente briosi e agguerriti, pronti al pensiero come all’abbattimento delle tirannidi. Per questa via, l’autore dell’opera anticipa di parecchi secoli le riflessioni fatte da Montesquieu in Lo spirito delle leggi. Stante l’indiscutibile necessità della natura, resta però un interstizio in cui può inserirsi la libertà umana: tale è l’istituzione politica (nomoV), grazie alla quale l’uomo può liberamente ritagliarsi uno spazio d’azione i cui confini non possono essere varcati dall’agire necessitante della natura. Così, le popolazioni orientali sono rette da grandi dispotismi e il nomoV coopera a renderle militarmente inette (manca del tutto l’interesse a ribellarsi alla tirannide); sull’altro versante, il clima e l’ambiente greco sottopongono l’uomo a cambiamenti rapidi, come rapido dev’essere il pensiero: e le istituzioni politiche presso di loro in uso non fanno che cooperare col clima controbilanciandone la necessità. L’uomo può dunque mitigare l’agire necessitante della natura attraverso le istituzioni politiche. Lo spazio riservato dall’autore dello scritto al nomoV è parecchio, tant’è che egli arriva addirittura a riconoscere come il nomoV possa diventare una seconda natura: per chiarire questo punto, egli adduce l’esempio della popolazione dei Macrocefali, presso la quale era segno di prestigio avere la testa schiacciata; per questo motivo, la testa dei bambini veniva schiacciata, cosicché – nota l’autore dello scritto -, a furia di schiacciarla, le generazioni future sarebbero nate già con la testa schiacciata. In questo senso, il nomoV può perfino trionfare sullafusiV : anzi,nomoV e fusiV sono per l’autore ippocratico due entità combinatisi fra loro. I Sofisti, dal canto loro, tendono a leggerle piuttosto come due realtà opponentisi. Riportiamo qui in forma integrale il celebre Giuramento di Ippocrate: “Affermo con giuramento per Apollo medico e per Esculapio, per Igea e per Panacea – e ne siano testimoni tutti gli Dei e le Dee – che per quanto me lo consentiranno le mie forze e il mio pensiero, adempirò questo mio giuramento che prometto qui per iscritto. Considererò come padre colui che mi iniziò e mi fu maestro in quest’arte, e con gratitudine lo assisterò e gli fornirò quanto possa occorrergli per il nutrimento e per le necessità della vita; considererò come miei fratelli i suoi figli, e se essi vorranno apprendere quest’arte, insegnerò loro senza compenso e senza obbligazioni scritte, e farò partecipi delle mie lezioni e spiegazioni di tutta intera questa disciplina tanto i miei figli quanto quelli del mio maestro, e così i discepoli che abbiano giurato di volersi dedicare a questa professione, e nessun altro all’infuori di essi. Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni, e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa. Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali né commetterò mai cose di questo genere. Per lo stesso motivo mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire, ma serberò casta e pura da ogni delitto sia la vita sia la mia arte. Non opererò i malati di calcoli, lasciando tal compito agli esperti di quell’arte. In qualsiasi casa entrato, baderò soltanto alla salute degli infermi, rifuggendo ogni sospetto di ingiustizia e di corruzione, e soprattutto dal desiderio di illecite relazioni con donne o con uomini sia liberi che schiavi. Tutto quello che durante la cura ed anche all’infuori di essa avrò visto e avrò ascoltato sulla vita comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come cosa sacra. Che io possa, se avrò con ogni scrupolo osservato questo mio giuramento senza mai trasgredirlo, vivere a lungo e felicemente nella piena stima di tutti, e raccogliere copiosi frutti della mia arte. Che se invece lo violerò e sarò quindi spergiuro, possa capitarmi tutto il contrario”.
I MEGARICI
EUCLIDE DI MEGARA, EUBULIDE DI MILETO, DIODORO CRONO
Nelle sue Vite dei filosofi (II, 47), Diogene Laerzio fornisce un prezioso elenco dei più rappresentativi discepoli di Socrate e tra essi indica, accanto a Platone, Senofonte – che in realtà, pur eccellente come generale, non aveva certo la stoffa del filosofo -, Antistene, Eschine, Fedone ed Euclide di Megera. A parte Senofonte ed Eschine (omonimo del più celebre oratore avversario di Demostene), che per noi è poco più che un nome, tutti gli altri fondarono delle scuole filosofiche, ritenendosi ciascuno l’autentico depositario del verbo socratico, nonché il suo legittimo prosecutore: l’unitaria immagine di Socrate viene così a frantumarsi enigmaticamente in una variegata molteplicità di icone tra loro poco conciliabili e, spesso, in aperto contrasto (è questo il caso, ad esempio, del rigido moralismo cinico e dell’edonismo cirenaico), che ci restituiscono tante figure di Socrate tutte diverse l’una dalle altre. Così Antistene pose le basi del Cinismo, Euclide dette il via alla scuola megarica e Aristippo di Cirene – anch’egli fortemente influenzato dal socratismo – fondò la scuola cirenaica. Ciascuno di questi autori (benché di essi non siano sopravvissute opere ma solo scarsi frammenti) fu sì capostipite di una “scuola”, ma dobbiamo comunque tenere presente che si tratta in realtà – più che di scuole in senso istituzionale, con insegnamento regolare e vita in comune – di indirizzi di pensiero a cui ispirarsi. Euclide di Megera – operante nella sua città natale nel IV secolo a.C. – sviluppa soprattutto la tematica dell’unità della virtù, tematica da cui egli trae la conseguenza che il bene è uno, benché esso venga chiamato con una miriade di nomi (saggezza, intelligenza, dio, ecc). Si è spesso discusso – specialmente tra gli interpreti moderni – se l’unicità del bene sia da Euclide mutuata dal socratismo o, piuttosto, da quell’eleatismo (nella sua forma schiettamente parmenidea) che egli aveva certamente frequentato. Si tratta però di una domanda mal formulata: è infatti negabile che le due componenti – socratismo ed eleatismo – siano compresenti nel pensiero euclideo, senza elidersi vicendevolmente, ma anzi trovando sostegno reciproco. Euclide prestò particolare attenzione alle tecniche dell’argomentazione e della discussione delle tesi altrui, sulle quali si incentrava il metodo di cui si avvaleva Socrate stesso. Seguendo le sue orme, l’allievo Eubulide di Mileto mise in chiaro una congerie di difficoltà e fallacie che il linguaggio può generare: si tratta dei celebri paradossi del “mentitore” (se mento e dico che mento, mento o dico la verità?) e del “sorite” o del “mucchio” (un chicco di grano non forma un mucchio, così neppure due chicchi e neppure tre, e così via: quando si può allora dire che si ha un mucchio?). E’ soprattutto muovendo dal pensiero – testé sinteticamente esposto – di Eubulide che possiamo percepire la propensione dei Megarici per le sottigliezze sofistiche, cosa che meritò loro il poco lusinghiero nome di “eristici” e di “dialettici” (qui naturalmente preso in un’accezione negativa). Sappiamo che Euclide di Megera, alla morte del maestro, accolse presso di sé i discepoli di Socrate, fuoriusciti da Atene per timore di rappresaglie, e che fu molto sensibile anche all’atteggiamento parmenideo. Il bene, infatti, secondo Euclide, è uno, anche se acquista vari nomi: ogni discorso, quindi, che non faccia riferimento a quest’unico essere è un discorso vuoto, che si sforza invano di definire ciò che non è:
“Euclide diceva che uno è il bene, chiamato con molti nomi: a volte saggezza, a volte dio, altre volte intelletto e in altri modi ancora. Egli eliminava ciò che è opposto al bene, dicendo che è non essere. Criticava le dimostrazioni attaccandone non le premesse, ma la conclusione. Rifiutava anche il procedimento comparativo, dicendo che esso si avvale di simili o di dissimili; se si tratta di simili, è meglio guardare le cose stesse, che quelle cui sono simili; se si tratta di dissimili, I’accostamento è superfluo”. (Diogene Laerzio II, 106)
La filosofia di Euclide, come quella di Antistene, pose l’accento sulla confutazione e sulla dialettica socratica, ma ponendo come sfondo il problema dell’unità dell’essere parmenideo. Se l’essere è unico, anche la virtù è tale e coincide con il bene. Quindi se essere = bene = virtù, allora divenire, nascere e perire sono contraddittori e quindi impossibili. Per Euclide è dunque un errore considerare le cose come separate, come invece avviene nel linguaggio, che perciò non può che essere solo una convenzione umana, giacché in natura le cose sono enti e quindi uniche. Risulta perciò impossibile sia pensare che discorrere perché ogni discorso può essere ridotto all’assurdo poiché le parole sono contraddittorie rispetto al principio di unità dell’essere. Da questa concezione nasceranno poi i sofismi e i paradossi che caratterizzeranno la critica alla comunicazione. Il grande rigore logico delle dimostrazioni, ma anche la capacità di avvalersi dei trucchi propri del linguaggio e dei giochi di parole, furono una delle caratteristiche salienti della scuola megarica. Come già accennato, Eubulide, sempre nel IV secolo a.C., fu famoso in tutta l’antichità per i suoi “argomenti dialettici”, nei quali faceva grande uso di questo tipo di tecnica confutatoria. Eccone alcuni esempi
“Se tu dici di mentire e dici che questo è vero, menti o dici il vero?”
(Cicerone, Academica priora, II, 20)
“Conosci l’uomo che si avvicina ed è incappucciato? No. Se gli togliamo il cappuccio, lo riconosci? Si. Dunque conosci e non conosci la stessa persona”. (Alessandro di Afrodisia, Commento agli Elenchi sofistici, 62)
“Suppongo che tu affermi o neghi di avere o non avere tutto ciò che non hai perduto; qualunque cosa si risponda, è una rovina. Infatti, se si nega di avere ciò che non si è perso, si conclude che non si hanno gli occhi, che non si sono persi; se, invece, si risponde di avere ciò che non si è perso, si conclude che si hanno le corna, che non si sono perse”. (Aulo Gellio, Notti attiche, XVI, 2)
Ma la dialettica megarica non si esercitava soltanto in questi virtuosismi linguistici e in questi ragionamenti capziosi; essa svolse anche un’accesa polemica contro le dottrine trionfanti di Platone e di Aristotele, e specialmente contro i loro presupposti che il linguaggio fosse sempre in grado di tradurre in enunciati scientifici la realtà. In questa direzione acquista importanza la polemica megarica contro il concetto di possibilità:
“Ci sono alcuni i quali, come i Megarici, dicono che solo quando una cosa è in atto può essere, mentre quando non è in atto non può neppure essere. Per esempio, chi non sta costruendo non può costruire, ma è un costruttore solo quando sta costruendo”. (Aristotele, Metafisica 1046 b 29)
L’argomento contro il concetto di possibilità fu particolarmente sviluppato da Diodoro Crono, un allievo di Eubulide, morto intorno al 307 a.C., che riprese e sviluppò gli antichi paradossi zenoniani contro il movimento. Di Diodoro è anche noto un altro celebre argomento, il “dominatore”, di cui non è pervenuta la formulazione originaria: il nucleo di esso è che si può dire possibile solamente ciò che è o sarà. La conseguenza sembra essere che soltanto ciò che avviene necessariamente si può anche dire possibile. Socratismo ed eleatismo si fondevano dunque in funzione essenzialmente antiplatonica ed antiaristotelica. Contro la teoria del giudizio di Aristotele, e in particolare contro la possibilità di predicare un termine qualsiasi di un altro, si muoveva anche Stilpone di Megara, un altro allievo di Eubulide:
“Se predichiamo il correre di un cavallo, egli dice che il predicato non è identico al soggetto di cui si predica; l’essere del cavallo differisce infatti dall’essere del correre, perché se siamo richiesti della definizione dell’uno e dell’altro, non diamo la stessa risposta. Cosí anche la definizione dell’essenza necessaria di un uomo è diversa da quella di buono. D’onde deriva che sbagliano quelli che predicano i due termini uno dell’altro; se sono identici infatti il buono e l’essere uomo, il correre e l’essere cavallo, come potremo predicare il buono anche del cibo e della medicina e il correre del leone e del cane? Ma se sono diversi non è corretto dire che l’uomo è buono e il cavallo corre”. (Plutarco, Contro Colote, 23, 1120a)
Stilpone fu famosissimo al suo tempo e accolse alla sua scuola anche allievi di altri filosofi: tra i suoi discepoli vi fu anche Zenone di Cizio, il fondatore dello stoicismo. Fatto sta che, nel campo etico, le teorie dei Megarici proclamanti l’apatia (apaqia), cioè la vittoria e il dominio sulle passioni e sul dolore, si confondevano sempre di più con quelle dei Cinici, ed entrambe saranno ben presto assorbite dallo stoicismo. Minore importanza (forse anche perché non ne sappiamo quasi nulla) ebbe la scuola di Fedone di Elide (un altro scolaro di Socrate), trasportata poi ad Eretria dal suo discepolo Menedemo.
PROTAGORA
“L’uomo è misura di tutte le cose”.
A partire dalla metà del V secolo a.c. diverse città della Grecia vengono attraversate da nuovi personaggi: i sofisti. Il termine “sofista” significa letteralmente “colui che fa professione del proprio sapere”. Molti sono i professionisti che mettono in vendita il loro sapere (gli artigiani o i medici, per esempio), ma i sofisti sostenevano che il loro sapere fosse ben più importante rispetto a quello degli artigiani o dei medici, giacchè il loro è il sapere che consente di prendere parte con successo alla vita pubblica della città, quando si accede alle magistrature. Tutto questo trova fondamento nel terminearhth , la capacità di eccellere nella condotta pubblica e privata. In questo senso i sofisti si presentano come maestri di virtù. E’ chiaro che questo sapere risulta importantissimo in contesti politici in cui le decisioni sono affidate alla totalità dei cittadini, come appunto avviene nella poliV del V secolo a.C. Era dunque un sapere indispensabile soprattutto nelle democrazie. Ma il fatto che i sofisti si facciano pagare molto, fa sì che i loro clienti siano soprattutto giovani di famiglie agiate (Platone non potrà tollerare che essi facciano del sapere una materia vendibile e li definisce sprezzantemente “cacciatori di giovani ricchi”, scrivendo un dialogo – il Sofista – contro di loro: certo per Platone la vita era più facile, visto che era ricco di famiglia e non aveva bisogno di farsi pagare per insegnare). Tra i sofisti spicca la figura di Protagora: egli nacque ad Abdera, in Tracia, verso il 480 a.C., svolse la sua attività di insegnamento girovagando per le città, soggiornando più volte ad Atene. Nel 444 Pericle diede avvio alla fondazione della colonia panellenica di Turii, in Italia meridionale, e Protagora prese parte al progetto di legislazione della città. Nel 411 diede pubblica lettura ad Atene del suo scritto Sugli dei e fu accusato di empietà e dovette così lasciare la città. La tradizione vuole che Protagora sia morto in un naufragio. All’attività orale di insegnante Protagora affiancò l’insegnamento mediante lo scritto; egli non fu autore di un’unica opera, ma di parecchie: Discorsi demolitori, Le antilogie, Sull’essere e scrisse pure a riguardo dei saperi tecnici. Protagora è passato alla storia per la sua celebre affermazione: “l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono”. E’ difficile comprendere fino in fondo che cosa intendesse Protagora con “uomo” (l’uomo singolo? Il genere umano?), ma è probabile che non si riferisse alla razza umana, bensì al singolo uomo. Con questa frase si sottolinea l’assoluta relatività della verità: si fa notare che ciascuno vede le cose alla sua maniera e in modo diverso rispetto agli altri; se io dico che una bevanda è dolce ed un altro dice che è amara, chi ha ragione dei due? Bisognerebbe avere un parametro che dice la verità, se è dolce o amara, il che è impossibile. Se io la sento dolce e un altro la sente amara, l’unica cosa da fare è chiedere il parere ad un terzo, ma non vi è mai un vero paragone con la cosa in questione. Per Protagora non si può trovare una verità assoluta: non si può stabilire se la bevanda è davvero dolce o se è amara: per me è amara, e per l’altro è dolce: o meglio, per chi la sente dolce è dolce, per chi la sente amara è amara: la verità è soggettiva. Non posso negare che sia amara a chi la sente amara solo perchè io la sento dolce: non c’è una verità generale, ognuno la vede a proprio modo. Non si possono cogliere le cose come realmente sono, ma solo come appaiono all’uomo, ovvero come riesce a percepirle. Le cose per me sono come a me appaiono: sento dolce il miele e, dunque, per me il miele è dolce. Però si fa notare che non tutte le affermazioni sono uguali: esse si distinguono sul piano pratico, poichè se, nel caso della bibita, non posso stabilire se è dolce o amara, tuttavia posso affermare che il dolce è meglio dell’amaro. Ma Protagora non restringe il significato di misura alla sola dimensione dell’esperienza percettiva delle cose. L’esperienza personale di ciascun individuo è più ampia delle singole sensazioni; essa non riguarda soltanto l’istante in cui avviene la singola percezione, bensì l’intera vita dell’individuo. In questo quadro si comprende meglio la portata dell’altra celebre affermazione di Protagora: “riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare nè che sono, nè che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana”. Di talune cose, dunque, come per esempio degli dei, non si ha esperienza personale diretta (com’era invece nel caso della bevanda). Di queste cose non si può dire che l’uomo sia misura. L’esperienza personale , d’altronde , differenzia gli individui tra loro , anche per le diverse situazioni ambientali , culturali e politiche nelle quali essi vivono . In questa prospettiva si inquadra in modo centrale la collocazione dell’individuo nella città . La città è interpretata da Protagora come complesso apparato educativo , il quale mira a garantire la conservazione della città stessa mediante la trasmissione dei valori che ne sono alla base. Non potendo più disporre degli dei come termine di differenziazione per caratterizzare l’uomo (infatti ha detto di non conoscere come gli dei siano ), Protagora individua questa differenziazione rispetto agli animali. Egli riconosce un’inferiorità dell’uomo rispetto alla specie animale per quanto riguarda le doti naturali, ma ravvisa nelle tecniche lo strumento che ha consentito all’uomo di capovolgere questa situazione svantaggiosa di partenza. Ma Protagora colloca al di sopra delle varie tecniche agricole e artigianali la tecnica politica, che è prerogativa di tutti i membri di una comunità. E’ appunto la tecnica politica, ossia l’insieme di giustizia e di rispetto degli altri , che la città provvede a trasmettere, prima con l’insegnamento e poi con le leggi, a tutti i suoi membri a partire dall’infanzia. Ma se il veicolo fondamentale per la trasmissione dell’insegnamento etico/politico è la città, resta ancora spazio per l’insegnamento del sofista? Il fatto che individui diversi abbiano esperienze personali diverse non implica che essi debbano per forza sempre divergere nelle loro opinioni su certe cose. Protagora non assume una posizione solipsistica, non rinchiude ogni individuo in se stesso, in una sfera di incomunicabilità con gli altri. Egli ritiene invece che sussistano spazi di accordo possibile tra gli individui. Qui il sofista può innestare la sua opera, contribuendo all’azione educativa della città. Lo strumento principale con cui lavora il sofista è il linguaggio, che può avere efficacia persuasiva facendo appello alle esperienze personali dei singoli e contrapponendo non vero e falso, ma utile e dannoso sia per il singolo sia per la comunità. Protagora afferma che “intorno ad ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti”. Questa contrapposizione non sta a significare che uno di essi sia vero e l’altro falso, in quanto ogni discorso non è che la formulazione dell’esperienza personale di ciascuno, la quale (per il relativismo assoluto) è sempre vera. Ma sul piano dei valori, che sono alla base di una città, i due discorsi non si equivalgono: in ultima istanza è la comunità che decide su quanto è giusto e su quanto è dannoso. Il sofista insegna ad usare il linguaggio in modo conforme ed utile alle esigenze della città, per esempio nell’assumere decisioni collettive, dove può anche essere importante “render più forte l’argomento più debole”. In questa prospettiva, Protagora innesta la sua opera di specialista, analoga a quella del medico o dell’artigiano, e procede alla distinzione di vari tipi di discorsi, studiando le loro proprietà, i generi dei nomi, i tempi verbali… Il linguaggio cessa di essere uno strumento usato inconsapevolmente e diventa esso stesso oggetto di indagine e d’insegnamento: il celebre motto dei sofisti diventa “la parola può tutto”. Proprio sulla nozione di relatività era incentrata la più famosa delle tesi di Protagora, trasmessaci da Platone nel “Teeteto” (dialogo dedicato a cosa significhi conoscere) : “l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono” (pantwn crhmatwn estin metron o anqrwpoV). Questa frase, per l’impiego del termine “sono” e “non sono”, sembra inquadrarsi in un contesto vivamente eleatico, anche se viene prospettato chiaramente il criterio per distinguere l’essere da non essere: è l’uomo il metro di misura, sicchè Protagora propone un criterio di conoscenza puramente soggettivo. Sarà vero ciò che a me appare tale; viceversa, per lui sarà vero ciò che a lui appare tale, e così via. La conoscenza, in questo panorama, si riduce al sensismo: cosicchè il miele appare dolce a chi è sano, ma amaro agli ammalati. Tuttavia, in questo groviglio di verità ciascuna diversa dalle altre e ciascuna non meno valida delle altre, Protagora elabora un criterio per stabilire quale opinione (quella del sano che sente dolce il miele, o quella del malato che lo sente amaro?) sia migliore: tale criterio è incentrato sull’utilità e si risolve, per tornare all’esempio del miele, nell’interrogativo se sia migliore l’opinione di chi è malato o di chi è sano. Naturalmente, si risponderà che è migliore l’opinione del sano, anche se, ad onor del vero, sul piano gnoseologico tutte le opinioni sono equivalenti: le sensazioni si traducono in conoscenza, cosicchè la mia opinione, la tua, la sua e così via sono tutte vere, poiché l’uomo è misura di tutte le cose. Contro questa posizione protagorea si schiererà Platone che, nel Teeteto, smonterà l’argomentazione protagorea facendo notare che, se tutto è vero (come asserisce Protagora), allora è anche vero che esistono tesi false; e dato che, appunto, tutto è vero, è anche vero che ciò che dice Protagora è falso.
FRAMMENTI
Fr. 80 B 4 DK (Eusebio, Praeparatio evangelica, XIV 3, 7; Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 51)
1 Protagora, divenuto seguace di Democrito, si acquistò fama di ateo; si dice infatti che abbia cominciato il libro Degli dèi con questa introduzione:
2 Riguardo agli dèi, non so né che sono, né che non sono, né di che natura sono.
3 Riguardo agli dèi, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana.
Fr. 80 A 5 DK (Platone, Protagora, 317 b, 317 c, 318 a, 318 e, 319 a, 348 e)
[La scena nel 431 a.C. circa; parla Protagora] Io dunque ho preso la via del tutto opposta [a quella di sofisti camuffati da poeti, iniziati, ginnasti, musici, ecc.] e convengo d’esser sofista, e di educare gli uomini […]. E sí che da molt’anni sto nell’arte; perché ne ho parecchi addosso! né v’è alcuno tra voi, al quale non potrei, quanto a età, essere padre […]. Ragazzo mio, se tu frequenterai la mia scuola, già il primo giorno che verrai potrai tornartene a casa migliore; e il giorno dopo lo stesso; e cosí ogni giorno potrai progredire verso il meglio […]. Gli altri rovinano i giovani; sfuggiti questi alle scienze speciali, li riconducono loro malgrado e li ricacciano nelle scienze speciali, insegnando loro e calcolo e astronomia e geometria e musica (e qui dette un’occhiata a Ippia); mentre chi vien da me, non altro studierà se non quello per cui viene. Materia di questo studio è un retto discernimento tanto nelle cose domestiche – quale sia il miglior modo di amministrare la propria casa – quanto nelle politiche – in che modo si divenga abilissimi al governo, sia con l’opera, sia con la parola […]. [Socrate e Protagora] Se ho ben capito, mi sembra che tu alluda alla scienza politica, e che tu t’impegni a rendere gli uomini bravi cittadini. – Questa è appunto, o Socrate, la professione che professo […]. [Socrate] – E sei tanto sicuro di te stesso, che mentre gli altri esercitano questo insegnamento di nascosto, tu ti sei fatto banditore di te stesso apertamente davanti a tutti i Greci chiamandoti sofista, e ti sei esibito maestro di cultura e di virtú, pretendendo, tu per primo, di farti pagare per questo.
Frr. 80 B 6a (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 51) e 6b (Aristotele, Retorica, B 24, 1402a 23) DK
1 Intorno ad ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti.
2 Render piú forte l’argomento piú debole.
Fr. 80 B 1 DK (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 60)
1 Alcuni compresero anche Protagora di Abdera nella schiera di quei filosofi che aboliscono una norma di giudizio, per il fatto che afferma che tutte le parvenze e opinioni son vere, e che la verità è tale relativamente a qualcosa, per ciò che tutto quel che appare è opinato da uno, esiste nell’atto stesso come relativo a lui. Appunto egli comincia i suoi Discorsi sovvertitori proclamando:
2 Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono.
Frr. 80 A 4 (Eusebio, Chronica; Apuleio, Florida, 18) e 80 A 8 (Platone, Menone, 91 d, e) DK
1 Euripide è ritenuto famoso e anche Protagora sofista, i cui libri furon arsi dagli Ateniesi per pubblico decreto.
2 Di quel Protagora, che fu sofista di straordinaria cultura e oratore insigne tra i primi inventori dell’arte retorica, coetaneo del “fisico” Democrito suo concittadino (da cui egli attinse il suo sapere), si dice che avesse pattuito col suo discepolo Evatlo un compenso esagerato, ma ad una condizione arrischiata etc.
3 [Socrate ad Anito] – Io so d’un uomo, Protagora, che ha guadagnato lui solo piú danari con questa scienza [la sofistica], che non Fidia, le cui belle opere son cosí celebri, e dieci altri scultori insieme […]. Ma intanto, di Protagora, nessuno in tutta quanta la Grecia s’è accorto che guastava i discepoli e li rimandava peggiori di come li aveva ricevuti: e questo, per piú di quarant’anni! Perché credo sia morto quasi a settanta, e abbia esercitato l’arte per quaranta. E in tutto questo tempo fino ad oggi la sua celebrità non è mai venuta meno.
GORGIA
CENNI BIOGRAFICI
Gorgia di Lentini era il figlio di Carmantide e nipote del famoso medico Erodico e lo ricordiamo come il più notevole rappresentante della antica sofistica dopo Protagora, e, insieme al suo maestro Tisia, il creatore dell’arte retorica. Così lo ricorda già Cicerone (I, 103; De Oratore), come colui che volle:
“dichiararsi pronto a rispondere a tutte le domande, che ciascuno volesse fargli”.
Come date di nascita e morte possono essere assunte orientativamente quelle del 483 e del 375 a. C., morendo quindi ultra centenario. Con l’esercizio e con l’insegnamento dell’arte oratoria, una novità anche per il mondo greco, diventò ricco al punto da poter dedicare, a Delfi, una statua d’oro al dio Apollo. Nel 427 andò ad Atene come ambasciatore di Leontini, in cerca di alleanze contro lo scomodo potere siracusano, e lì si fece apprezzare come retore finissimo trovando imitatori: famoso il suo Epitafio, per commemorare dei soldati ateniesi morti in guerra. Dello stesso avviso non pare Platone che, nel suo Gorgia, lo pone in contrasto critico con Socrate (447, c):
“Ma vorrà poi Gorgia discutere con noi? Perché io vorrei sapere da lui quale è la virtù propria di quest’arte che egli professa e insegna e in che cosa precisamente consista”.
E più avanti (449, a):
Socrate – ‘Piuttosto, Gorgia, dicci tu stesso come dobbiamo chiamarti e che arte è la tua’.
Gorgia – ‘La mia arte è la retorica’.
E ancora, dove Platone crea il dialogo tra Socrate e Gorgia in modo che questi si contraddica, quasi a rivelare una latente rivalità per l’ espressione culturale – confronta con la scheda su Tisia – proveniente da una ex terra colonica che diventa sempre più sede di potenti città, usando pure lo stratagemma di “chiedere” a Gorgia risposte concise, mentre il suo Socrate articola domande molto meglio costruite (454/455):
Socrate – Ti sembra che sapere e credere, ossia ‘scienza’ e ‘opinione’, siano la stessa cosa?
Gorgia – No; direi che son cose distinte.
Socrate – E diresti bene. Infatti se uno ti domandasse: ‘Gorgia v’è una opi nione falsa e una vera?’ tu risponderesti di si, credo.
Gorgia – Di si, certo.
Socrate – Ma la scienza può essere falsa e vera?
Gorgia – Assolutamente no.
Socrate – E’ proprio vero, quindi, che scienza e opinione non sono la stessa cosa.
Gorgia – Infatti.
Socrate – Eppure vi ha persuasione sia in quelli che hanno scienza che in quelli che hanno solo opinione.
Gorgia – Lo credo bene.
Socrate – Dobbiamo stabilire, pertanto, due specie di persuasione: quella che produce opinione senza il sapere, l’altra che produce scienza.
Gorgia – Hai ben ragione.
Socrate – E allora dimmi, o Gorgia, quale delle due persuasioni produce nei tribunali e nelle altre adunanze la retorica intorno al giusto e all’ingiusto? Quella, cioè, da cui deriva opinione senza sapere, oppure l’altra da cui deriva il sapere?
Gorgia – Evidentemente quella da cui deriva opinione senza sapere.
Socrate – Dunque la retorica, a quanto pare, è produttrice di quella persua sione che induce all’opinione senza il sapere, e non alla scienza del giusto e dell’ingiusto.
Gorgia – Così è.
Socrate – Di conseguenza il retore non insegna nei tribunali e nelle altre adunanze nulla intorno al giusto e all’ingiusto, ma suscita soltanto una semplice credenza. Ed infatti, come potrebbe in così breve tempo insegnare ad una moltitudine di gente cose di così grande importanza?
Gorgia – Sarebbe effettivamente impossibile.
Tale dialogo di Platone induce a riflettere: l’autore ambienta l’incontro nel 427 a.C, cioè quando Gorgia andò in Atene, ma parrebbe composto intorno al 395, dopo cioè l’avvenuta condanna a morte di Socrate; condanna ottenuta dal potere suggestionante della retorica, a danno del giusto: a danno del giusto Socrate. E il dialogo sopra riprodotto – che andrebbe letto per intero – è colmo di giusto rancore: “Quando dicesti che il retore avrebbe potuto servirsi della retorica anche ingiustamente, io rimasi perplesso (…)”. L’animo di Gorgia si risentì dello scritto dell’allievo di Socrate che lo vedeva protagonista: il siciliano non avrebbe consentito che la nuova scienza venisse applicata malamente. Fanno fede i suoi componimenti ulteriori. Tra gli altri suoi viaggi vi sono quelli a Fere in Beozia e in Tessaglia, e fu altre volte in Atene. La sua dottrina contiene un intendimento dell’arte oratoria come produttrice di persuasione: non occorre cioè che chi ascolta si convinca che ciò che ode è la verità, bensì è più utile che questi si convinca praticamente, piegandosi alla causa sostenuta dall’oratore. Nell’Elogio di Elena alla parola viene dato il potere di dominare la vita, influenzandone le scelte anche affettive, per cui la donna non ha colpa per quel che è accaduto tra i Greci e i Troiani perché fu spinta dagli dei o dalle parole. E saper accostare parola a parola può determinare la modellatura dell’animo del singolo, come del carattere della folla. La parola può modificare l’anima di chi la ode, e tramite la poesia può anche indurre nuove esperienze (concezione di cui è evidente la parentela col relativismo gnoseologico di Protagora). E le due opere prima citate, dedicate a Elena e Palamede, sono saggi tipici di tale abilità retorica, nata con Gorgia. Nell’opera Sul non ente Gorgia sostiene tre tesi: nulla esiste, se esiste non è conoscibile dall’uomo, se è conoscibile non la si può comunicare ad alcuno, specialmente col solo uso della parola.
“La critica più recente ha chiarito, sopratutto mediante l’analisi comparativa delle due esposizioni che ci restano dello scritto gorgiano (quella di Sesto Empirico e quella dello Pseudo-Aristotele), come l’esposizione di Sesto, da cui deriva l’immagine del Gorgia effettivamente scettico e nichilista, sia in realtà deformata dalla sua intenzione di dossografo dello scetticismo, e debba quindi cedere il passo all’esposizione dello Pseudo-Aristotele, nella quale l’intenzione di ironia antieleatica dello scritto di Gorgia appare concretamente connessa al suo relativismo sofistico” (Dizionario Enciclopedico Italiano, ed. Treccani).
Rileggiamo la conclusione dell’Elogio di Elena:
“Così con le parole ho liberato la donna dalla sua cattiva fama secondo la premessa del mio discorso: e sforzandomi di distruggere l’ingiustizia di un’infamia e l’ignoranza di una opinione, questo discorso ho voluto scrivere, non solo per elogiare Elena, ma perché fosse a me di passatempo”.
Sul valore che Gorgia attribuisce al passatempo, allo scherzo, abbiamo una nota di Aristotele, inquadrata con altre e che forse sono traccia di una seconda trattazione sulla Poetica, a noi non pervenuta:
“Su ciò che fa ridere, dal momento che esso sembra avere una sua utilità nei dibattiti, e che Gorgia ha detto, e ha detto bene, che occorre distruggere la serietà degli avversari con il riso e il riso con la serietà, quante siano le forme del comico si è detto negli scritti sulla poetica: di queste l’una si adatta all’uomo libero, l’altra no, e si deve scegliere quel che meglio si adatta”.
La lezione di Gorgia è tra quelle immortali dei classici, ed in generale è tra le più alte lezioni dell’ingegno umano. Per noi immortale vuol dire davvero rileggere Gorgia con attenzione; pare oggi un esercizio nuovo l’ascoltare, a saper meglio valutare la enorme mole di informazioni – che in molti hanno interesse a che venga intesa tutta come cultura – che ci circonda. Ricordiamo un aneddoto grazioso che si narra a proposito del famoso viaggio di Gorgia in Atene. Lì egli arringò a lungo la folla, facendo risaltare la differenza di temperamento che sussisteva tra gli abitanti della Sicilia e della Magna Grecia, e tutti gli altri, definiti barbari. I barbari, diceva Gorgia, vivono nella discordia perché vivono tra loro senza armonia. L’armonia sarebbe stata, secondo l’oratore, il segno distintivo della superiorità greca sui nemici, e ciò avrebbe accresciuto la stima ed il timore dei barbari nei confronti dei greci. A questo punto uno della folla, un anonimo saccente, volle appuntare a Gorgia una annotazione sulla sua situazione familiare.
“Noi siamo in tanti, Gorgia”, disse l’uomo, “e ci suggerisci di andare d’accordo e in armonia; tutti sanno però che a casa tua siete in tre, tu tua moglie ed il servo, e litigate da mane a sera. Non credi che avrebbero più effetto i tuoi discorsi se si sapesse che voi tre non recate molestia ai vicini?”
IL PENSIERO
Anche Gorgia si colloca (come Protagora) nel contesto della Sofistica: anche per lui il problema del linguaggio è centrale. Gorgia nacque a Lentini (nei pressi di Siracusa) verso il 480 a.C., viaggiò parecchio per le città greche – un po’ come il collega Protagora- ottenendo gran successo col suo insegnamento. La sua fama portò la sua città ad inviarlo in più occasioni come ambasciatore presso altre città (ad Atene, per esempio, dove lasciò a bocca aperta gli Ateniesi per la sua eloquenza). Morì in età molto avanzata (verso il 380, in Tessaglia), dove soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere. Come Protagora, anche Gorgia scrisse molto e i suoi scritti erano per lo più orientati verso l’orazione, come il discorso Olimpico, proferito ad Olimpia per invitare i Greci a superare le loro discordie e affrontare uniti i barbari e l’Epitafio, finalizzato ad onorare gli Ateniesi caduti in guerra. Tra i suoi scritti va poi ricordato quello Sul non essere o Sulla natura, il cui titolo capovolge intenzionalmente quello dell’opera di Melisso; molto interessanti risultano anche essere L’encomio di Elena e La difesa di Palamede. Nel Non essere o Sulla natura troviamo le tre tesi fondamentali delle filosofia di Gorgia: 1) l’essere non è; 2) se anche fosse, non sarebbe conoscibile; 3) se anche fosse conoscibile, tale conoscenza non sarebbe comunicabile. Quindi per Gorgia, a differenza di Protagora, tutto è falso. Egli arriva a trarre queste conclusioni esaminando profondamente la filosofia ed in particolare quella eleatica: come gli eleatici, anche Gorgia si serve del ragionamento per assurdo: se l’essere ci fosse, sostiene Gorgia, non dovrebbe avere caratteristiche contraddittorie, come invece gli hanno attribuito gli eleatici. Gorgia ha notato che ci sono troppi contrasti tra i filosofi per quel che riguarda la questione dell’essere, cosicché egli addiviene alla conclusione che l’essere è troppo contraddittorio per esistere. Egli conclude che “l’essere non è” partendo dalle dimostrazioni che l’essere non è nè uno nè molti, nè generato nè ingenerato: sono affermazioni davvero contraddittorie. Ma la conseguenza più interessante e radicale che egli trae è probabilmente quella secondo cui non è possibile comunicare tramite il linguaggio ciò che è. Il linguaggio non ha nulla a che fare con la verità, non è possibile dire ad altri come realmente stiano le cose. Supponiamo che l’essere ci sia; prendiamo un quaderno blu: io voglio comunicare ad un altro il colore del quaderno e quindi gli dico “è blu “; ma non è che nella testa dell’altro c’è lo stesso colore, magari è un blu più tendente al verde; fatto sta che non potrà mai avere in mente la stessa cosa che ho io: l’essere, oltre a non esistere, non è pensabile e non è dicibile. Queste tre tesi di Gorgia sono l’anticipazione di quello che sarà il “nichilismo”. Gorgia sosteneva che nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. La verità, dunque, resta per Gorgia inaccessibile: ne consegue che tutto è falso, e non “tutto è vero”, come invece credeva Protagora. Tutte le proposizioni possono, ad avviso di Gorgia, essere ribaltate attraverso l’arma del logoV (la parola), equiparato dal pensatore di Lentini ad una forza irresistibile alla pari del destino dei tragici o della divinità: la parola può tutto. Anche con Gorgia Platone, a cui stava particolarmente a cuore la possibilità di distinguere il vero dal falso, compie un’operazione simile a quella operata nei confronti di Protagora: se tutto è falso, cosa ci vieta di pensare che anche ciò che dice Gorgia lo sia? Ci si è spesso interrogati se Gorgia fosse un nichilista ante litteram o se, piuttosto, volesse esercitarsi con argomentazioni dialettiche al limite del pensabile. E’ tuttavia certo che l’obiettivo polemico del suo argomentare fosse l’eleatismo: egli si serve, nelle sue argomentazioni, della dimostrazione per assurdo; in altri termini, per dimostrare la verità di A, assume per assurdo che sia vero il contrario (non-A) e, a partire da tale assunzione, si mettono in luce tutte le contraddizioni che ne derivano, a tal punto che si è costretti a riconoscere la falsità di tale assunto (non-A) e ad ammettere la veridicità della tesi di partenza ad essa opposta (A). Le tre proposizioni poc’anzi elencate con cui nega la possibilità della conoscenza non è un caso che ci vengano riportate da uno scettico, Sesto Empirico, nell’opera Contro i dogmatici. Stando a quanto da lui riportato, Gorgia avrebbe sostenuto che se le cose pensate non sono esistenti, allora le cose esistenti non sono pensate: in altri termini, il pensiero non avrebbe un contenuto proprio (poiché ciò che è pensato non esiste) e, per converso, se ne ricaverebbe che ciò che esiste non è pensato. Alla base di quest’argomentazione sta una relazione che Gorgia pone: se A è in relazione con B, allora anche B è in relazione con A; se viceversa A non è in relazione con B, allora anche B non è in relazione con A. Dunque, dato che penso cose che non esistono (dragoni o uomini volanti), allora ciò significa che il pensato non è in relazione con l’essere e, per converso, che l’essere non è in relazione col pensato. Ammettendo, infatti, per assurdo l’esistenza delle cose pensate, ne conseguirebbe che l’uomo che vola o il carro che procede sul mare (tutti oggetti del mio pensiero) dovrebbero esistere, ma l’esperienza confuta ciò. Se poi dico che il pensiero rispecchia l’esistente, non si spiega perché nel pensiero trovino cittadinanza anche l’uomo che vola o il carro che procede sul mare. Il terzo argomento addotto da Gorgia poggia sull’analogia con l’esperienza: giacchè i sensi non interferiscono tra loro né si smentiscono a vicenda, si può essere spinti a credere che ciò valga anche per il pensato, cosicchè le cose che né vedo né sento né tocco, ciononostante il pensiero mi attesta che esistono. Ma in questo modo mi troverei costretto, ancora una volta, ad ammettere l’esistenza dell’uomo che vola e del carro che procede sul mare. Con Gorgia, quindi, viene per la prima volta messa in discussione la possibilità di conoscere alcunché. Sembra essere una filosofia negativa e pessimista, ma in realtà non è così: il ragionamento conduttore è in sostanza che in assenza dell’essere l’uomo è onnipotente, non ha limitazioni. Spieghiamoci meglio: se l’essere esiste, l’uomo trova lì un limite alle sue azioni; ma se l’essere non c’è (non è conoscibile) l’uomo non ha limiti. E’ su questo presupposto che si basa l’onnipotenza della retorica di Gorgia: se l’essere è ed è conoscibile non si può far conoscere alla gente ciò che si vuole (perchè ci si deve attenere all’essere), ma se non c’è l’essere non si hanno limiti e si può convincere la gente di ogni cosa: chi può dire che una cosa sia falsa se non c’è un qualcosa a cui attenersi (l’essere)? La verità per Gorgia non conta niente perchè non esiste: ciò che conta è la capacità di argomentare. Gorgia era fratello di un medico e diceva che pur non sapendo nulla di medicina, riusciva più lui del fratello a convincere i pazienti ad assumere i farmaci. Il linguaggio è totalmente distaccato dalla verità: esso non consiste nell’enunciazione di conoscenze , bensì nella persuasione (nell’encomio di Elena Gorgia prende le difese di Elena, colei per la quale aveva avuto inizio la guerra di Troia: il discorso è in realtà un puro sfoggio di virtuosità oratorie; Gorgia, con l’arte persuasoria, dimostra le cose più assurde). Per Gorgia la persuasione è indipendente dal valore di verità di ciò che viene detto, dal momento che la parola pronunciata esercita la sua influenza sull’apparato emotivo degli ascoltatori, non sulle loro eventuali capacità intellettive. La potenza della parola è equiparata da Gorgia alla potenza dei farmaci e degli incantesimi magici. Come detto, Gorgia diceva di essere più capace a far prendere le medicine ai pazienti di quanto non lo fosse il fratello medico: questo risultato può essere ottenuto sulla base di due presupposti . Il primo consiste nel rendersi conto della particolare condizione psicologica in cui si trovano di volta in volta i propri ascoltatori e di valutare il momento opportuno (in Greco o kairoV) per parlare e dire determinate cose. Il secondo presupposto consiste nella capacità di usare diversi tipi di discorso appropriati alle circostanze. Il nucleo dell’insegnamento di Gorgia è proprio dato dallo studio delle differenti forme del discorso e della molteplicità delle figure stilistiche da usare. Per ottenere gli effetti persuasivi desiderati. Gorgia elabora anche un’interessante teoria a riguardo dell’arte (fortemente positiva); prima di lui nessuno se ne era occupato: perchè? L’età presofistica era un’età dove la filosofia era prettamente cosmologica: si cercava cioè di spiegare da dove fosse saltato fuori il mondo; con i sofisti la filosofia assume istanze a carattere antropologico: l’oggetto della ricerca diventa l’uomo e tutto ciò che lo riguarda. In seguito, anche Platone elaborerà una teoria sull’arte (fortemente negativa: per lui è meglio attenersi al vero e non lasciarsi trasportare dall’arte che stimola passioni e non è copia di ciò che è veramente) e pure Aristotele (la sua è una visione più positiva); Gorgia parte dal presupposto che noi non possiamo conoscere l’essere: se l’essere esistesse, l’arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta; ma dato che non esiste, da una parte non ho limiti e dall’altra l’arte diventa una mia creazione. Dato che non c’è un vero mondo (l’essere non c’è) , l’artista è un creatore di mondi: per Gorgia il buon artista è quello che riesce ad ingannare gli spettatori, e il buon spettatore è quello che si lascia ingannare dall’artista: tutto questo perchè l’essere non c’è. Una domanda che ci si è sempre posti analizzando Gorgia e tutti i sofisti, è se essi fossero politicamente conservatori o rivoluzionari. Politicamente Gorgia ha idee tipicamente conservatrici: alla domanda “che cos’è la virtù?”, egli rispondeva nel più tradizionale dei modi: “i giovani devono fare questo, i vecchi quello, le donne quell’altro….”. Come mai un tipo innovativo come Gorgia seguiva la tradizione? Egli segue la tradizione perchè se non si ha un criterio per stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (dato che l’essere non c’è), la cosa migliore da fare è seguire la tradizione, ciò che ci è stato tramandato dagli avi. Nonostante questo, i sofisti (ed in particolare Gorgia) rimangono rivoluzionari perchè seguono la tradizione solo perchè fa loro comodo. Nell’ambito sofistico emersero poi due diverse interpretazioni sul binomionomoV/fusiV (convenzione – natura): esistono due tipi particolari tipi di leggi, quella decretata dalla natura e quella decretata dall’uomo. Facciamo un esempio: per legge della natura, il più forte tende ad avere la meglio sul più debole; ma per la legge artificiale creata dall’uomo, questo non può accadere perchè si è tutti uguali ed è la legge stessa che protegge il più debole dal più forte. Ma quale è quella giusta, quella naturale o quella convenzionale? I sofisti rispondono in maniera differenziata gli uni dagli altri. Dal canto suo, Platone stesso affronta questo problema nel primo libro della Repubblica, in cui un sofista afferma che la legge artificiale è un’ingiustizia perpetrata dai più deboli ai danni dei più forti, giacchè essi cercano di limitare coloro che sono più forti e che per diritto naturale hanno diritto a prevalere introducendo le leggi artificiali.
FRAMMENTI
DEL NON ESSERE O DELLA NATURA
Fr 82 B 3 DK (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 65-87)
1 Gorgia da Leontini fu anche lui del gruppo di coloro che escludono una norma assoluta di giudizio; non però per le stesse obbiezioni che muoveva Protagora e la sua scuola. Infatti nel suo libro intitolato Del Non essere o Della natura egli pone tre capisaldi, l’uno conseguente all’altro: 1) nulla esiste; 2) se anche alcunché esiste, non è comprensibile all’uomo; 3) se pure è comprensibile, è per certo incomunicabile e inspiegabile agli altri.
2 (66) Che nulla esiste, lo argomenta in questo modo: ammesso che qualcosa esista, esiste soltanto o ciò che è o ciò che non è, ovvero esistono insieme e ciò che è e ciò che non è. Ma né esiste ciò che è, come dimostrerà, né ciò che non è, come ci confermerà; né infine, come anche ci spiegherà, l’essere e il non essere insieme. Dunque, nulla esiste. (67) E invero, il non essere non è; perché, supposto che il non essere sia, esso insieme sarà e non sarà; ché in quanto è concepito come non essere, non sarà, ma in quanto esiste come non esistente, a sua volta esisterà; ora, è assolutamente assurdo che una cosa insieme sia e non sia; e dunque, il non essere non è. E del resto, ammesso che il non essere sia, l’essere non esisterà piú; perché si tratta di cose contrarie tra loro; sicché se del non essere si predica l’essere, dell’essere si predicherà il non essere. E poiché l’essere in nessun modo può non essere, cosí neppure esisterà il non essere.
3 (68) Ma neppure esiste l’essere. Perché se l’essere esiste, è o eterno o generato, oppure è insieme eterno e generato; ma esso non è né eterno, né generato, né l’uno e l’altro insieme come dimostreremo; dunque l’essere non esiste. Perché se l’essere è eterno (cominciamo da questo punto), non ha alcun principio. (69) Poiché ha un principio tutto ciò che nasce; ma l’eterno, essendo per definizione ingenerato, non ha avuto principio. E non avendo principio, è illimitato. E se è illimitato, non è in alcun luogo. Perché se è in qualche luogo, ciò in cui esso è, è cosa distinta da esso; e cosí l’essere non sarà piú illimitato, ove sia contenuto in alcunché; perché il contenente è maggiore del contenuto, mentre nulla può esser maggiore dell’illimitato; dunque l’illimitato non è in alcun luogo. (70) E neppure è contenuto in se stesso. Perché allora sarebbero la stessa cosa il contenente e il contenuto, e l’essere diventerebbe duplice, cioè luogo e corpo; essendo il contenente, luogo, e il contenuto, corpo. Ma questo è assurdo. Dunque l’essere non è neppure in se stesso. Sicché se l’essere è eterno, è illimitato; se è illimitato, non è in alcun luogo; e se non è in alcun luogo, non esiste. Ammessa dunque l’eternità dell’essere, si conclude all’inesistenza assoluta.
4 [Con ragionamenti analoghi Gorgia dimostra che l’Essere non può nemmeno essere generato (par. 71) e nemmeno “eterno e generato insieme” (par. 72). Se comunque l’Essere esistesse dovrebbe essere uno o molteplice, ma non è nessuna delle due cose (parr. 73-74)]. Resta cosí dimostrato che né l’essere, né il non essere esistono.
5 (75) Che poi neppure esistano ambedue [l’Essere e il Non-essere] insieme, è facile a dedursi. Perché ammesso che esista tanto l’essere che il non essere, il non essere s’identificherà con l’essere, per ciò che riguarda l’esistenza; e perciò, nessuno dei due è. Infatti, che il non essere non è, è già convenuto; ora si ammette che l’essere è sostanzialmente lo stesso che il non essere; dunque, anche l’essere non sarà. (76) E per vero, ammesso che l’essere sia lo stesso che il non essere, non è possibile che ambedue esistano; perché se sono due, non sono lo stesso; e se sono lo stesso, non sono due. Donde segue che nulla è. Perché se l’essere non è, né è il non essere, né sono ambedue insieme, né, oltre queste, si può concepire altra possibilità, si deve concludere che nulla è.
6 (77) Passiamo ora a dimostrare che, se anche alcunché sia, esso è, per l’uomo, inconoscibile e inconcepibile. Se infatti, come dice Gorgia, le cose pensate non sono esistenti, ciò che esiste non è pensato. Questo è logico; per esempio, se di cose pensate si può predicar la bianchezza, ne segue che di cose bianche si può predicare la pensabilità; e analogamente, se delle cose pensate si predica l’inesistenza, delle cose esistenti si deve necessariamente predicare l’impensabilità. (78) Per il che, è giusta e conseguente la deduzione, che “se il pensato non esiste, ciò che è non è pensato”. E invero, le cose pensate (rifacciamoci di qui) non esistono, come dimostreremo; dunque, l’essere non è pensato. Che le cose pensate non esistano, è evidente: (79) infatti, se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si pensino; ciò che è contrario all’esperienza: perché non è vero che, se uno pensa un uomo che voli, o dei carri che corran sul mare, subito un uomo si mette a volare, o dei carri a correr sul mare. Pertanto il pensato non esiste. (80) Inoltre, se si ammette che il pensato esiste, si deve anche ammettere che l’inesistente non può esser pensato; perché i contrari hanno predicati contrari; e il contrario dell’essere è il non essere. E perciò in via assoluta, se dell’esistente si predica l’esser pensato, dell’inesistente si deve predicare il non esser pensato. Il che è assurdo, perché per esempio e Scilla e Chimera e molte altre cose inesistenti sono pensate. E dunque, ciò che esiste non è pensato. (81) E come, ciò che si vede, in tanto si dice visibile, in quanto si vede; e quel che si ode, in tanto si dice udibile, in quanto si ode; né noi respingiamo le cose visibili pel fatto che non si odano, né ripudiamo le udibili pel fatto che non si vedano (ché ciascuna dev’esser giudicata dal senso che le corrisponde, non da un altro), cosí anche le cose pensate, se pur non si vedano con la vista né si odano con l’udito, esisteranno, in quanto sono concepite dall’organo di giudizio che è proprio di esse. (82) Se dunque uno pensa dei carri che corran sul mare, anche se non li vede, deve credere che ci siano carri che corron sul mare. Ma questa è un’assurdità; dunque l’esistente né si pensa, né si comprende.
7 [Gorgia passa quindi a “dimostrare” che se l’esistente potesse essere pensato e compreso non potrebbe comunque essere comunicato (parr. 83-84). Prosegue poi con una interessante definizione del linguaggio]. (85) […] Perché la parola, dice Gorgia, è l’espressione dell’azione che su noi esercitano i fatti esterni, cioè a dire le cose sensibili; per esempio, dal contatto col sapore, ha origine in noi la parola conforme a questa qualità; e dall’incontro col colore, la parola conforme al colore. Posto questo, ne viene che non già la parola spiega il dato esterno, ma il dato esterno dà significato alla parola. (86) E neppure è possibile dire che, a quel modo che esistono oggettivamente le cose visibili e le udibili, cosí esista anche il linguaggio; sicché, esistendo anch’esso come oggetto, abbia la proprietà di significare la realtà oggettiva. Perché, ammesso pure che la parola sia oggetto, egli dice, tuttavia differisce dagli altri oggetti; e soprattutto differiscono, dalle parole, i corpi visibili; perché altro è l’organo, con cui si percepisce il visibile, ed altro quello, con cui si apprende la parola. Pertanto, la parola non può esprimere la massima parte degli oggetti, cosí come neppure questi possono rivelare l’uno la natura dell’altro. (87) Di fronte a tali quesiti insolubili, sollevati da Gorgia, sparisce, per quanto li concerne, il criterio della verità; perché dell’inesistente, dell’inconoscibile, dell’inesprimibile non c’è possibilità di giudizio.
ENCOMIO DI ELENA
Fr 82 B 11 DK
1 (1) È decoro allo stato una balda gioventú; al corpo, bellezza; all’animo, sapienza; all’azione, virtú; alla parola, verità. Il contrario di questo, disdoro. E uomo e donna, e parola ed opera, e città e azione conviene onorar di lode, chi di lode sia degno; ma sull’indegno, riversar onta; poiché è pari colpevolezza e stoltezza tanto biasimare le cose lodevoli, quanto lodar le riprovevoli. (2) È invece dovere dell’uomo, sia dire rettamente ciò che si addice, sia confutare contrario; e dunque è giusto confutare> i detrattori di Elena, donna sulla quale consona e concorde si afferma e la testimonianza di tutti i poeti, e la fama del nome, divenuto simbolo delle fortunose vicende. Pertanto io voglio, svolgendo il discorso secondo un certo metodo logico, lei cosí diffamata liberar dall’accusa, e dimostrati mentitori i suoi detrattori e svelata la verità, far cessare l’ignoranza.
2 (3) Che per nascita e stirpe fosse prima tra i primi – uomini e donne – la donna di cui ora parliamo, non c’è chi lo ignori. Noto è infatti come sua madre fu Leda, e padre autentico un dio, putativo un mortale: Tindaro e Zeus; di cui questi, pel fatto che era, fu ritenuto suo padre; quegli, pel fatto che appariva, fu messo in dubbio; l’uno il piú potente tra gli uomini, l’altro il supremo dominatore di tutti gli esseri. (4) Da tali generata, ebbe bellezza di dea, e, avutala, non nascose d’averla. Ché in moltissimi moltissime brame d’amore suscitò, e con una sola persona molte persone attirò di eroi superbi per superbi vanti: chi avea profusion di ricchezza, chi lustro d’antica nobiltà, chi pregio di innato valore, chi superiorità di sapienza acquisita; e tutti vennero, indotti da amore avido di vittoria e da invitta avidità di onore.
3 (5) Ma chi fu, e per qual motivo, e in che modo appagò l’amore colui che conquistò Elena, non lo dirò: ché il dire, a chi sa, ciò che sa, aggiunge fiducia, ma non porta diletto. E però, varcato ora, col discorso, il tempo d’allora, mi rifarò dal principio del discorso propostomi, ed esporrò le cause per le quali era naturale avvenisse la partenza di Elena verso Troia.
4 (6) Infatti, ella fece quel che fece o per cieca volontà del Caso, e meditata decisione di Dèi, e decreto di Necessità; oppure rapita per forza; o indotta con parole, o presa da amore. Se è per il primo motivo, è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire. Naturale è infatti non che il piú forte sia ostacolato dal piú debole, ma il piú debole sia dal piú forte comandato e condotto; e il piú forte guidi, il piú debole segua. E la Divinità supera l’uomo e in forza e in saggezza e nel resto. Che se dunque al Caso e alla Divinità va attribuita la colpa, Elena va dall’infamia liberata.
5 (7) E se per forza fu rapita, e contro legge violentata, e contro giustizia oltraggiata, è chiaro che del rapitore è la colpa, in quanto oltraggiò, e che la rapita, in quanto oltraggiata, subí una sventura. Merita dunque, colui che intraprese da barbaro una barbara impresa, d’esser colpito e verbalmente, e legalmente, e praticamente; verbalmente, gli spetta l’accusa; legalmente, l’infamia; praticamente, la pena. Ma colei che fu violata, e dalla patria privata, e dei suoi cari orbata, come non dovrebbe esser piuttosto compianta che diffamata? ché quello compí il male, questa lo patí; giusto è dunque che questa si compianga, quello si detesti. compianta che diffamata? ché quello compí il male, questa lo patí; dunque è giusto che questa si compianga, quello si detesti.
6 (8) Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppur questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi cosí: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò. (9) Perché bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere. Ma via, torniamo al discorso di prima. (10) Dunque, gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell’anima, la potenza dell’incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell’animo e in inganni della mente. (11) E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un finto discorso! Che se tutti avessero, circa tutte le cose, delle passate ricordo, delle presenti coscienza, delle future previdenza, non di eguale efficacia sarebbe il medesimo discorso, qual è invece per quelli, che appunto non riescono né a ricordare il passato, né a meditare sul presente, né a divinare il futuro; sicché nel piú dei casi, i piú offrono consigliera all’anima l’impressione del momento. La quale impressione, per esser fallace ed incerta, in fallaci ed incerte fortune implica chi se ne serve. (12) Qual motivo ora impedisce di credere che Elena sia stata trascinata da lusinghe di parole, e cosí poco di sua volontà, come se fosse stata rapita con violenza? Cosí si constaterebbe l’imperio della persuasione, la quale, pur non avendo l’apparenza dell’ineluttabilità, ne ha tuttavia la potenza. Infatti un discorso che abbia persuaso una mente, costringe la mente che ha persuaso, e a credere nei detti, e a consentire nei fatti. Onde chi ha persuaso, in quanto ha esercitato una costrizione, è colpevole; mentre chi fu persuasa, in quanto costretta dalla forza della parola, a torto vien diffamata. (13) E poiché la persuasione, congiunta con la parola, riesce anche a dare all’anima l’impronta che vuole, bisogna apprendere anzitutto i ragionamenti dei meteorologi, i quali sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un’altra, fanno apparire agli occhi della mente l’incredibile e l’inconcepibile; in secondo luogo, i dibattiti oratorii di pubblica necessità [politici e giudiziari], nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma scritto con arte, suol dilettare e persuadere la folla; in terzo luogo, le schermaglie filosofiche, nelle quali si rivela anche con che rapidità l’intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell’opinione. (14) C’è tra la potenza della parola e la disposizione dell’anima lo stesso rapporto che tra l’ufficio dei farmaci e la natura del corpo. Come infatti certi farmaci eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; cosí anche dei discorsi, alcuni producon dolore, altri diletto, altri paura, altri ispiran coraggio agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’anima e la stregano.
7 (15) Ecco cosí spiegato che se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata. Ora la quarta causa spiegherò col quarto ragionamento. Che se fu l’amore a compiere il tutto, non sarà difficile a lei sfuggire all’accusa del fallo attribuitole. Infatti la natura delle cose che vediamo non è quale la vogliamo noi, ma quale è coessenziale a ciascuna; e per mezzo della vista, l’anima anche nei suoi atteggiamenti ne vien modellata. (16) Per esempio, se mai l’occhio scorge nemici armarsi contro nemici in nemica armatura di bronzo e di ferro, l’una a offesa, l’altra a difesa, subito si turba, e turba l’anima, sicché spesso avviene che si fugge atterriti, come fosse il pericolo imminente. Poiché la consuetudine della legge, per quanto sia salda, viene scossa dalla paura prodotta dalla vista, il cui intervento fa dimenticare e il bello che risulta dalla legge, e il buono che nasce dalla vittoria. (17) E non di rado alcuni, alla vista di cose paurose, smarriscono nell’attimo la ragione che ancora possiedono: tanto la paura scaccia e soffoca l’intelligenza. Molti poi cadono in vani affanni, e in gravi malattie, e in insanabili follie; a tal punto la vista ha impresso loro nella mente le immagini delle cose vedute. E di cose terribili molte ne tralascio; ché sono, le tralasciate, simili a quelle anzidette. (18) D’altro lato i pittori, quando da molti colori e corpi compongono in modo perfetto un sol corpo e una sola figura, dilettano la vista. E figure umane scolpite, figure divine cesellate sogliono offrire agli occhi un gradito spettacolo. Sicché certe cose per natura addolorano la vista, certe altre l’attirano. Ché molte cose, in molti, di molti oggetti e persone inspirano l’amore e il desiderio. (19) Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di Alessandro, inspirò all’anima fervore e zelo d’amore, qual meraviglia? il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dèi la divina potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo, o resistergli? e se poi è un’infermità umana e una cecità della mente, non è da condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura; venne infatti, come venne, per agguati del caso, non per premeditazioni della mente, e per ineluttabilità d’amore, non per artificiosi raggiri.
8 (20) Come dunque si può ritener giusto il disonore gettato su Elena, la quale, sia che abbia agito come ha agito perché innamorata, sia perché lusingata da parole, sia perché rapita con violenza, sia perché costretta da costrizione divina, in ogni caso è esente da colpa?
9 (21) Ho distrutto con la parola l’infamia d’una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’inizio del discorso, ho tentato di annientare l’ingiustizia di un’onta e l’infondatezza di un’opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di gioco dialettico.
da ORAZIONE OLIMPICA
Degni dell’ammirazione universale, o Greci (…). Ed alla nostra gara
sono necessarie due virtù: audacia e sapienza, per svelare l’enigma;
perché la parola come il bando dell’araldo in Olimpia chiama chi si
offre, ma incorona chi riesce.
ANTIFONTE
CENNI BIOGRAFICI
“Noi rispettiamo e veneriamo chi è di nobile origine, ma chi è di natali oscuri, né lo rispettiamo, né l’onoriamo. In questo, ci comportiamo gli uni verso gli altri da barbari, poiché di natura tutti siamo assolutamente uguali, sia Greci che barbari. Basta osservare le necessità naturali proprie di tutti gli uomini (…) nessuno di noi può esser definito né come barbaro, né come greco. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e con le narici”.
A cura di Daniele Lo Giudice
Ci furono almeno due Antifonte, l’uno oratore, e l’altro sofista; l’uno originario di Atene e l’altro originario di Ramnunte. Senza escludere l’ipotesi di un terzo uomo, autore, come vedremo, di un trattato sui sogni. Antifonte di Ramnunte fu, forse, più celebre al suo tempo e nei periodi immediatamente successivi ma, non si sa bene, ancor oggi, chi sia davvero l’autore di un’opera in due libri sulla Verità. Ragioni stilistiche portano ad escludere che l’autore possa essere l’oratore e che, quindi, sia il sofista l’uomo che cerchiamo, ovvero quel tizio che tra i primi affermò che le leggi umane sono tutte convenzionali e che l’uomo dovrebbe seguire le leggi di natura, posto che sia possibile stabilire quali sono. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tuttavia, non fu questo l’aspetto più importante del contributo alla storia del pensiero di Antifonte. Se l’autore è la stessa identica persona, come vedremo, la tesi delle leggi di natura non quadra del tutto con l’affermazione che si deve cercare l’accordo e la convivenza pacifica, perchè, seguendo la natura, è assai probabile che si affermino aspetti egoistici, e non accordi sociali armoniosi. Viene da chiedersi se siamo di fronte ad un filosofo contraddittorio e paradossale, oppure ad una inedita profondità di pensiero, che seppe bene, infine, mostrare la conflittualità intima cui si trova spesso ogni individuo che ragioni. Il secondo lavoro di Antifonte, Della Concordia, potrebbe risultare la continuazione necessaria della Verità, anche se, in proposito, si è osservato che lo stile è diverso, “più artificioso”, in forma di dialogo e non di trattato. L’Untersteiner si confessa contrario all’ipotesi del dialogo e francamente non saprei pronunciarmi. L’opera Politico è di più difficile attribuzione perchè, come testimonia Senofonte nei Memorabili, rivelerebbe un uomo che vuole avere influenza sullo stato, quindi più il retore che il maestro di virtù. Ma l’Untersteiner è piuttosto deciso nell’attribuire anche quest’opera al sofista. Analogamente, egli sostiene che anche Dell’interpretazione dei sogni mostra coerenza con la dottrina del sofista di nome Antifonte. Risultassero vere tutte le ipotesi dell’Untersteiner, saremmo di fronte ad una personalità notevole, da distinguere decisamente rispetto all’Antifonte retore. Altre notizie sulla vita sono impossibili a trovarsi. Siamo di fronte ad un piccolo enigma della storia e la cosa è non poco sconcertante, come vedremo, perchè il pensiero di Antifonte costituì una prima ed importante risposta alla sfida di Gorgia ed alle sue posizioni provocatorie. Sia Platone che Aristotele, ma soprattutto quest’ultimo, ricorsero ad argomenti elaborati da Antifonte e ragionando su molti temi sollevati nei libri di Fisica dello Stagirita, si ha chiaro lo stimolo esercitato da questo pensatore. Antifonte riprese certamente l’ideale protagoreo della pacificazione della vita sociale nel libero confronto di opinioni, ma dovette obbligatoriamente misurarsi, con la dottrina gorgiana della negazione di ogni validità alle esperienze sensibili, ed anche a quelle più squisitamente intellegibili, sentendosi certamente contrariato e negato da questo attacco alle sue più profonde convinzioni. L’Untersteiner offre una citazione nella quale Antifonte riprese il pensiero di Gorgia, esponendolo per poi criticarlo: ” di lui [cioè di Gorgia] apprenderai queste cose: « e che non vi è / per lui nulla che sia uno, fra quante cose può vedere con la vista più lungi e può pensare con l’intelletto chi più lungi può conoscere…» In vista dell’obiettivo di rivalutare non solo sensi, esperienza e ragione, ma anche l’unità sostanziale dell’individuo, si può pensare che Antifonte abbia realizzato una contestazione puntuale ed articolata di tutte le tesi gorgiane, in particolare quella che affermava che né l’eternità, nè la corruzione siano predicabili dell’ente.
Come rispose Antifonte?
Egli pose, in modo davvero efficace, e prekantiano ante-litteram, il tempo come scienza del prima e del poi, misura degli eventi, ordine della loro successione. Gorgia aveva persino provato a negare l’esistenza del tempo, ma aveva sbagliato clamorosamente a confutarlo come esistente in senso ontologico, giacchè il tempo, disse Antifonte, non è sostanza, ma, certamente, sarà “misurabile” e noi lo misuriamo con giorni, ore, lune, cicli di anni. Indirettamente vi è una precisazione rispetto anche a Protagora: l’uomo che conosce il tempo non è solo misura soggettiva di tutte le cose, ma anche misura oggettiva, ovvero comune a tutti quanti abbiano il senso del tempo. Le esperienze si succedono nel tempo, dunque è possibile ordinarle e riflettere su di esse. Il loro verificarsi riporta ad un logos, una ragione per la quale, prima di questo, si è verificato quest’altro. Possiamo avere dubbi, avrà certamente concesso Antifonte, sulla validità di una singola esperienza o sensazione, ma non sulla loro concatenazione. Gorgia nega la legittimità razionale della concatenazione, Antifonte l’afferma. E l’argomento con il quale si volge contro Gorgia, e probabilmente vinse la contesa, fu che l’infinito non esiste in forma attuale, argomento che certamente convinse Aristotele, il quale l’elaborò in parte meglio ed in parte peggio. Tutto sta nel comprendere che, se si vuol dare valore ad un’esperienza, essa deve considerarsi finita. Così come cessiamo di osservare che quando il cielo si annuvola è possibile che piova, ma quando il cielo è sereno, è impossibile che piova. Non vi è alcun motivo per continuare all’infinito l’osservazione del cielo. Su questo piano, e solo su questo, ovviamente, la logica di Antifonte ebbe la meglio. Ma bastava ad andar oltre le difficoltà opposte da Gorgia al processo conoscitivo. Tutte le esperienze si attuano, si attuarono e si attueranno in parte per natura e per caso e in parte per arte Questo disse Antifonte, ed è evidente in questa affermazione lo sforzo per distinguere il carattere e le qualità di ogni singola esperienza. Delle esperienze si può parlare in generale, ma rischiamo di fare d’ogni erba un fascio, se non le analizziamo e le classifichiamo una per una. Il caso va inteso in senso soggettivo. Alcune esperienze ci sono capitate per caso e non perchè le abbiamo volute e cercate, ma non per questo sono meno istruttive delle altre. Quelle per arte, sono dovute al fatto che siamo in grado di fare alcune cose, e l’arte di fare le cose è dovuta all’esperienza. Come potrebbe un inesperto costruire una casa od una trireme? L’Untersteiner aggiunge una sorta di completamento a questa tesi: “tutto quello che viene fatto secondo la legge e indipendentemente dalla legge viene senz’altro compiuto in dato tempo o è stato compiuto o lo sarà.” Scrive a commento: ” Il concetto unitario che ne risulta è chiaro: le esperienze, deve aver detto Antifonte, a qualunque ordine appartengano, sia naturale sia intellettuale, esistono perchè / si manifestano secondo quella successione temporale che, sola, rende possibile un giudizio di esistenza.” Per Antifonte, quindi la percezione sensibile, la memoria che abbiamo di questa, è garanzia sufficiente della validità del conoscere, confutazione oggettiva a qualsiasi contestazione dell’inganno dei sensi. Non ci è dato di sapere a quale livello ci fu anche una polemica con Democrito e la sua teoria della soggettività assoluta in ordine al giudizio di dolce ed amaro, ma è probabile che Antifonte, mente analitica di eccezionale livello, come si sarà compreso, abbia avanzato qualche precisazione in ordine alla differenza tra sensazione elementare ed intensità di piacere o dispiacere che proviamo rispetto ad essa. All’affermazione gorgiana della impossibilità umana di distinguere tra ciò che esiste veramente e ciò che esiste solo nella nostra fantasia, Antifonte rispose per le rime, asserendo che solo ciò che esiste è visibile e conoscibile, mentre la fantasia non ha riscontro materiale e formale con la realtà. L’impossibile non può concretarsi. L’esempio avanzato fu quello di un letto di legno sepolto sottoterra, che per “putredine”, producendo un germoglio, non si sarebbe mai duplicato come letto, ma semplicemente come legno. Anche su questo piano, sembra dire l’Untersteiner, Antifonte distinse natura ed arte, e probabilmente vide nell’arte intesa come tecnica di manipolazione, un’estensione della natura, alla maniera di Prodico di Ceo. Tuttavia, mentre Prodico negò e confutò l’opposizione tra natura e mondo dell’uomo, tra natura e civiltà, Antifonte ammise, anzi, affermò, che tutto ciò che è civiltà e legge, appartiene al mondo della convenzione, senza peraltro considerare che la convenzione stessa ha tratto origine dalla necessità di porre fine alla contesa tra uomo e uomo onde porre le condizioni della coesistenza pacifica.
Opposizione di natura e legge civile
Si è scritto che Antifonte fu particolarmente sensibile al tema della costrizione dell’individuo in abiti civili e formali, e che egli detestava l’eccesso di leggi, di obblighi, di norme che si moltiplicavano all’infinito, ignare ed irrispettose della natura umana, e persino della libertà. Non è chiaro, ovviamente, se questa particolare posizione fosse frutto di una contingenza storica e politica, il dilagare dei diritti del volgo e quella dittatura del conformismo delle masse deprecato da così tanti filosofi in ogni epoca, o se invece rispecchiasse una posizione più profonda e radicale. Comunque sia, il contrasto con Prodico è evidente, dettato da un’insofferenza per l’eccesso legislativo che aveva una qualche dignità filosofica. Antifonte non era un guerrafondaio, e non mirava a liberare belve bionde. Non teorizzò il diritto del più forte a fare i propri comodi nella società. Aveva di mira la concordia politica e sociale. Credeva nell’accordo e nel compromesso, proprio per il suo carattere convenzionale. E’ pertanto da escludere che egli rappresentasse interessi forti compressi dalla legislazione populista. Molto più probabilmente, egli vide che l’eccesso legislativo procurava effetti opposti a quelli desiderati: non più ordine e disciplina, ma caos, ingorghi giudiziari, sentenze contraddittorie, una macchinosità sempre più frenante e debilitante. Fu dunque chiaramente consapevole che la legge interpretata in questo modo cavilloso ed ossessivo portava alla moltiplicazione delle ingiustizie, anzichè a giustizia. E, per di più, esprimeva una visione totalmente pessimistica rispetto all’uomo vero, in carne ed ossa, all’uomo prodotto dalla natura e capace per questo, e non per educazione, di essere virtuoso. Intendiamoci: non buono di natura, nel senso predicato da Rousseau, ma virtuoso nel senso di virile, onesto, quadrato, fermo e responsabile. O per dirla con Aristotele, in grado di deliberare e di cercare l’eccellenza in ogni cosa.
La legge come divisione tra gli uomini e le città
Un altro punto interessante della critica che Antifonte rivolse alla legge intesa come nomos fu quello del particolarismo. Ogni città ha la sua legge, e spesso ciò che è giusto e legale qui, è ingiusto ed illegale là. L’eccesso legislativo è dunque un fattore di divisione, un’esasperazione delle differenze, un contrasto artificioso tra gli uomini. Nessuna legislazione particolare, portata all’estremo cavilloso, può considerarsi universale, e quindi davvero utile a metter fine alle incomprensioni, alle guerre.
Ateo
Pare certo che Antifonte si sia professato ateo. Si ricava questa impressione esaminando l’affermazione, riportata dall’Untersteiner, che “gli dei furono prodotti d’arte e non di natura”. Del divino vi potrebbe essere esperienza, tuttavia, in quanto il nome di ogni singolo dio rinvia all’esperienza che noi abbiamo di determinate funzioni ed operazioni. Isolate ed astratte dal contesto generale delle attività umane e naturali, il forgiare i metalli diviene arte di Efesto, l’usare saggezza, prudenza ed astuzia è arte di Athena, vedere lontano è arte apollinea, e … la musica espressione del dionisiaco.
Distinzione tra arti fantastiche e tecnica di cose serie
C’è qualcosa che non convince nel quadro generale disegnato dall’Untersteiner, ed è la presunta condanna che Antifonte avrebbe formulato nei confronti di musica e poesia. L’apertura mentale di Antifonte, se tutto quanto riportato fin qui corrisponde in qualche modo al vero, non può essersi improvvisamente richiusa di fronte al fenomeno artistico più spontaneo, naturale e genuino: il canto degli uccelli, il canto dell’uomo, la creazione di un testo che racconta esperienze ed emozioni. Forse, Antifonte, ebbe una personale antipatia per la musica e la poesia, ma non al punto da farne una questione di politica educativa. Supponendo, come l’Untersteiner, che Antifonte intendesse escludere dai programmi educativi musica e poesia, si viene di fatto ad ammettere una contraddizione radicale: ovvero l’intenzione di una legislazione per regolare l’educazione e fissarne a priori i contenuti, in maniera censoria. Pare accettabile l’idea della distinzione tra arti rivolte a produrre effetti artistici ed arti rivolte a produrre beni indispensabili, e quindi fondamentali. Poteva essere l’inizio di una riflessione sull’economia politica, ma non abbiamo alcuna notizia che giustifichi una simile ipotesi.
I sogni
Se l’Antifonte di cui abbiamo parlato finora sia lo stesso autore del trattato sui sogni non può essere certo nemmeno al 50%. Tuttavia, potremmo prendere per buone le affermazioni dell’Untersteiner, in mancanza di meglio. Il sogno è, in fondo, un evento naturale cui nessuna legislazione può imporre regole di svolgimento e tantomeno di interpretazione. La posizione di questo Antifonte fu paradossalmente opposta al suo credo fondamentale: sbagliata la divinazione naturale, corretta la divinazione artificiosa. Seguendo la prima, si ha che il sogno è propizio quando riporta eventi felici, e funesto quando propone situazioni drammatiche ed eventi funesti. Al contrario, la divinazione artificiosa prescindeva da questo semplicistico punto di vista, e consentiva di interpretare in senso propizio anche gli incubi notturni. Questo Antifonte cercò di evidenziare l’esistenza di una scienza mantica, e si disse in grado di padroneggiarla, ma francamente le argomentazioni dell’Untersteiner non mi risultano affatto persuasive e chiarificatorie. Ma è difficile dire che questo Antifonte sia lo stesso di cui abbiamo parlato finora.
Sulla legge
“[…] Giustizia consiste nel non trasgredire alcuna delle leggi dello Stato di cui uno sia cittadino; e perciò l’individuo applicherà nel modo a lui piú vantaggioso la giustizia, se farà gran conto delle leggi, di fronte a testimoni; ma in assenza di testimoni, seguirà piuttosto le norme di natura; perché le norme di legge sono accessorie, quelle di natura, essenziali; quelle di legge sono concordate, non native: quelle di natura, sono native, non concordate. Perciò, se uno trasgredisce le norme di legge, finché sfugge agli autori di esse, va esente da biasimo e da pena; se non sfugge, no. Ma se invece violenta oltre il possibile le norme poste in noi da natura, se anche nessuno se ne accorga, non minore è il male, né è maggiore se anche tutti lo sappiano; perché si offende non l’opinione, ma la verità”.
(Fr. 87 B 44 A DK Papiro di Oxyrinco, XI n. 1364)
TRASIMACO
A cura di Daniele Lo Giudice
“Il giusto altro non è che l’utile del più forte”.
Introduzione
Trasimaco nacque a Calcedone in Bitinia, una colonia di Megara e fu attivo soprattutto negli ultimi tre decenni del secolo V. La data di nascita potrebbe collocarsi intorno al 450, 460 a.C. Giovenale diffuse la notizia che morì malamente, pentito e rammaricato per le dottrine che aveva insegnato ma, non si è trovata alcuna conferma di quanto affermato successivamente dallo scoliaste, ovvero che si impiccò. Fu soprattutto un retore, un avvocato più che un sofista. Essendo uno dei personaggi protagonisti del dialogo platonico Repubblica, dobbiamo credere che le dottrine morali e politiche quivi patrocinate corrispondano al pensiero di Trasimaco, anche se non sempre Platone fu un testimone obiettivo del pensiero altrui. Trasimaco è presentato come persona irruente, irriverente, antipatica, che nemmeno ama perdersi in chiacchiere. Dopo un primo passaggio, attacca frontalmente Socrate, sfidandolo a dire qualcosa di concreto anzichè perdersi in lunghi giri di parole sulla giustizia. Trasimaco ha la sfrontatezza di chiedere del denaro per dare quella risposta che Socrate dichiara di ignorare, secondo il classico schema dell’unica cosa che so è di non sapere. Trasimaco dichiara, al contrario, di sapere, ed afferma: ” Io dico che la giustizia altro non è che se non ciò che giova al più forte…O perchè non mi lodi? … Ma non lo vorrai.” Socrate obbietta con ironia che se a Polidamante, il pancratiaste, giova la carne di bue, questo potrebbe significare che essa giova anche a noi, meno forti di lui? Trasimaco risponde in modo offensivo:
-“Sei un buffone, Socrate. Tu fingi d’intendere la mia definizione in modo da falsarla addirittura.”
– “Tutt’altro, eccellente uomo; ma di in modo più chiaro che cosa vuoi intendere.”
– “E non sai che alcune città sono rette da tiranni, altre dal popolo, altre da ottimati?”
– “E come no?”
– ” E in ogni città la forza non appartiene al governo costituito?”
– ” Senza dubbio”
– ” Orbene, ciascun governo si fa le leggi che meglio gli giovano: la democrazia se le fa democratiche, la tirannide tiranniche e gli altri al pari, e fattele i governanti dichiarano giusto per i sudditi quel che giova a se stessi e puniscono chi trasgredisce i loro ordini come violatori delle leggi e colpevole di ingiustizia. Questo è dunque, bravuomo, quello che tutte le città io dico essere ugualmente giusto: ciò che giova al governo costituito, che è poi il potere dominante; e però chi ben ragiona deve riconoscere che giusto è dappertutto egualmente questo: ciò che giova al più forte.”
Socrate chiede a Trasimaco se qualche volta i governanti sbaglino, e questi lo ammette. Ma ciò porta ad un’incongruenza: se i governanti sbagliano significa che emanano disposizioni che non giovano a loro stessi. Ciò porta Trasimaco a contraddirsi, ed ad affermare che i governanti non sbagliano mai, e che comunque il popolo deve obbedire. Ciò, secondo Socrate, contraddice ciò che avviene nelle scienze, nessuna delle quali osserva ed ordina quel che giova al più forte, bensì quel che giova al più debole, come la medicina. Trasimaco concede un assenso superficiale all’affermazione socratica, ma subito riprende da capo la sua teoria, asserendo che la giustizia è ciò che giova a chi comanda, mentre l’ingiustizia governa gli ingenui ed i giusti. I giusti, secondo Trasimaco hanno sempre la peggio; dunque chi osserva le leggi è un infelice, mentre il vero ingiusto è sempre felice, soprattutto quando sa comportarsi in modo da non passare per ingiusto. Dalla lettura e dalla riflessione conseguente su questa prima parte del dialogo, mi pare evidente, che tra Trasimaco e Socrate, oltre ad una buona dose di antipatia, si registri anche una mancata comprensione del senso delle rispettive affermazioni. Quella di Trasimaco, infatti, non era una sorta di teorizzazzione dell’ingiustizia, ma una denuncia del carattere strumentale della cosiddetta giustizia. Gli uomini chiamano giustizia l’ipocrisia e la parvenza della legalità, che è dettata dal potere. Ma il potere fa sempre le leggi a sua misura. Trasimaco è dunque in linea con Antifonte ed Ippia, e riprende la loro denuncia del carattere di classe e di parte della legge civile. Socrate, nel tentativo di definire, al contrario, il concetto stesso di giustizia, urta contro la parzialità delle leggi senza, tuttavia, dar loro un gran peso, almeno in questa prima fase. Per lui, infatti, era fondamentale pervenire in primo luogo alla concettualizzazione della giustizia stessa, per chiarire in primo luogo che cosa si andava cercando. Messo a fuoco il tipo e la qualità del contrasto tra Socrate e Trasimaco, viene in evidenza che il vero protagonista di questo primo spezzone del dialogo platonico è l’incomprensione. Socrate e Trasimaco hanno due linguaggi diversi e nessuno dei due sembra particolarmente interessato a capire il motivo dell’altro, anche se, ovviamente, Socrate esce (più apparentemente che realmente) vincitore della contesa. Non è infatti accettabile che l’ingiustizia possa diventare in qualche caso virtù e che un uomo che viola leggi della propria città sia da definirsi virtuoso. Trasimaco, dal canto suo, pur avendo una chiara e realistica visione di come vanno realmente le cose nel mondo civile, non sembra in grado di trarne delle conseguenze politiche. L’unico modo di salvarsi dalla giustizia delle città è l’ingiusto agire individuale di chi è abile a violare le leggi senza farsi scoprire. Non vi è in Trasimaco alcuna speranza di una giustizia giusta, a differenza, ad esempio, di Ippia, per il quale, un giorno, la legge naturale diventerà la legge giusta.
Il problema della giustizia
Nel primo libro della Repubblica Platone riferisce l’opinione di Trasimaco sul rapporto fra la giustizia e il potere. Dalla provocazione di questo sofista prende poi spunto il trattato sullo Stato, sviluppato da Platone nei successivi nove libri.
1 (10) [definizione della giustizia e del giusto]. Piú volte Trasimaco, mentre noi parlavamo, era balzato su per interloquire obbiettando, ma poi n’era stato impedito dagli astanti, che volevano star a sentire il discorso sino alla fine; ma come sostammo un momento dopo ch’io ebbi detto queste cose, non poté piú reggere, e ravvoltosi in se stesso come una fiera, si slanciò su di noi, come per sbranarci. Io e Polemarco dalla paura restammo agghiacciati; ed egli nel mezzo urlando: “Che sciocchezze andate dicendo da un pezzo, o Socrate?” gridò.
2 Io [Trasimaco] affermo dunque essere il giusto non altro che l’utile del piú forte.
3 (8) Trasimaco scrisse in un suo discorso qualcosa di simile, che gli dèi non badano alle cose umane; altrimenti non trascurerebbero il massimo dei beni fra gli uomini, la giustizia; vediamo infatti che gli uomini non l’applicano mai.
Frr. 85 A 10 DK (Platone, Repubblica, I, 336 b, 338 c) e 85 B 8 DK (Hermias Alexandrinus, In Platonis Phaedrum, ed. Couvrer, pag. 239, 21)
CRIZIA
Nato ad Atene all’incirca verso il 460 da nobilissima famiglia (era cugino della madre di Platone), Crizia fu un elemento di spicco nella rivoluzione oligarchica che, dopo la vittoria spartana nella battaglia navale di Egospotami (405 a.C.) – battaglia che segnò la disfatta decisiva per Atene nella Guerra del Peloponneso – soppresse per qualche tempo la democrazia ad Atene. Egli fu uno dei Trenta Tiranni e, più di altri, fu responsabile del clima di terrore (testimoniato dal meteco Lisia nella sua Contro Eratostene) che si instaurò ad Atene sotto il loro regime autoritario, nonché delle atrocità da quelli perpetrate a danno di chiunque si fosse opposto al loro regime. Morì nel 403 a.C., combattendo a Munichia contro i democratici capeggiati da Trasibulo, restauratore della democrazia in Atene. E’ quasi certamente da ascrivere alla sinistra fama che Crizia si guadagnò col suo operato politico l’oblio in cui cadde la sua ricca produzione letteraria e filosofica, che comprendeva tragedie, elegie e trattati in prosa. Dei suoi drammi conosciamo solamente quattro titoli (Temnes, Radamanto, Piritoo, Sisifo), dei quali i primi tre erroneamente attribuiti ad Euripide, mentre il quarto era un dramma satiresco. Dai frammenti superstiti, è possibile ricavare idee molo sommarie solo sul contenuto del Piritoo e di Sisifo: il primo trattava della discesa all’Ade di Piritoo e di Teseo per riportare alla luce Persefone, colà trattenuta da Ade stesso. Nel secondo, invece, – che trattava le vicende del mitico Sisifo, condannato ad un’eterna ed inutile fatica – è celeberrimo il passo in cui Crizia (il quale fu esponente di spicco della Sofistica schierata “a destra”, ovvero in senso decisamente aristocratico e antipopolare) ipotizza che la credenza negli dei sia stata opera di un astuto individuo che, con la paura dell’occulto, volle caricare di sacro timore il diritto e la legge, affinché gli uomini venissero dissuasi dal commettere ingiustizie e crimini. Tale teoria dev’essere considerata come la punta più avanzata dell’insegnamento sofistico: in essa coesistono l’idea del carattere convenzionale che presiedette alla nascita della legge e del diritto, e quella della civiltà come prodotto dell’intervento diretto dell’uomo, che con l’invenzione degli dei “che tutto vedono”, anche il delitto concepito nel silenzio, è riuscito a superare il tempo in cui la vita umana era senza legge e a regolare la vita era la violenza, cosicché i malvagi non ricevevano punizione alcuna, i buoni non erano in alcun modo premiati. Infatti, come si noterà nella Repubblica platonica con il mito dell’anello di Gige, ci tratteniamo dal commettere azioni ingiuste esclusivamente perché temiamo di essere scoperti e, dunque, puniti: se solo avessimo la garanzia dell’impunità (garanzia che ha Gige, in possesso di un anello che lo rende invisibile), non esiteremmo minimamente a commettere ingiustizia. Proprio in ciò risiede la scaltrezza dell’inventore degli dei di cui parla Crizia: in ogni singolo momento della nostra vita siamo osservati dagli dei, cosicché, per evitare di essere punti, dobbiamo comportarci in conformità delle leggi. Se è vero che agiamo giustamente finchè siamo osservati da un’autorità in grado di punirci, allora basterà ipotizzare un’autorità in grado di osservarci ininterrottamente per garantire una condotta irreprensibile: questo è lo scopo per cui sono stati escogitati gli dei, come autorità che ci tengono gli occhi addosso di continuo. Quella di Crizia sull’invenzione degli dèi è una teoria famosa, ripresa di tanto in tanto nei secoli seguenti (ad esempio da alcuni illuministi del Settecento). Secondo la testimonianza di Sesto Empirico – che ci ha tramandato il frammento -, Crizia avrebbe esposto nel dramma satiresco Sisifo la sua concezione sull’origine della religione: egli sostiene – come accennavamo – che la religione è un prodotto assolutamente artificiale dell’uomo; la stessa cosa Prodico sostiene a proposito della legge. Opposta è invece la concezione che i due filosofi hanno della natura umana: per Prodico fondata sull’uguaglianza, per Crizia su uno stato permanente di guerra di tutti contro tutti (l’hobbesiano bellum omnium contra omnes), che troverà espressione nella celebre formula homo homini lupus, usata da Plauto (Asinaria, v. 495) e ripresa nel XVII secolo dal filosofo inglese Thomas Hobbes. La legge – secondo Crizia – si fonda sulla forza, unico strumento per garantire la giustizia. Ma lo stato basato esclusivamente sulla propria capacità repressiva non può esercitare un controllo efficace e continuo su tutti gli uomini (la forza repressiva è di gran lunga meno idonea a garantire l’ordine che non la capacità persuasiva dei discorsi!). Per questo, secondo Crizia, fu necessario “inventare” la religione, come strumento per garantire l’ordine e la legalità. Crizia, quindi, dimostra di essere stato un attento studioso dei risvolti psicologici della natura umana. Riportiamo qui il brano, contenuto nel Contro i matematici (IX, 54) di Sesto Empirico:
“Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini, e ferina, e strumento di violenza, quando premio alcuno non c’era pei buoni, né alcun castigo ai malvagi. In seguito, parmi che gli uomini leggi punitive sancissero, sí che fosse Giustizia assoluta signora egualmente di tutti e avesse ad ancella la Forza; ed era punito chiunque peccasse. Ma poi, giacché le leggi distoglievan bensí gli uomini dal compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, dapprima un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timor degli dèi, sí che uno spauracchio ci fosse ai malvagi anche per ciò che di nascosto facessero o dicessero o pensassero. Laonde introdusse la divinità sotto forma di Genio, fiorente di vita imperitura, che con la mente ode e vede, e con somma perspicacia sorveglia le azioni umane, mostrando divina natura; il quale Genio udirà tutto quanto si dice tra gli uomini e potrà vedere tutto quanto da essi si compie. E se anche tu mediti qualche male in silenzio, ciò non sfuggirà agli dèi; ché troppa è la loro perspicacia. Facendo di questi discorsi, divulgava il piú gradito degli insegnamenti, avvolgendo la verità in un finto racconto. E affermava gli dèi abitare colà, dove ponendoli, sapeva di colpire massimamente gli uomini, là donde sapeva che vengono gli spaventi ai mortali e le consolazioni alla loro misera vita: dalla sfera celeste, dove vedeva esserci lampi, e orrendi rombi di tuoni, e lo stellato corpo del cielo, opera mirabilmente varia del sapiente artefice, il Tempo; là donde s’avanza fulgida la massa rovente del Sole, donde l’umida pioggia sovra la Terra scende. Tali spaventi egli agitò dinanzi agli occhi degli uomini, e servendosi di essi, costruí con la parola, da artista, la divinità, ponendola in un luogo a lei adatto; e spense cosí l’illegalità con le leggi. […] Per tal via dunque io penso che in principio qualcuno inducesse i mortali a credere che vi sia una stirpe di dèi”.
Esponente d’eccezione della sofistica schierata “a destra” e di un’oligarchia non più nostalgicamente ancorata ai valori religiosi del passato, bensì spregiudicatamente interessata a una visione totalmente mondana del potere e della forza, Crizia fu fermamente convinto della superiorità naturale dell’aristocrazia, per la quale non possono esistere scrupoli morali d’alcun tipo. La religione e la legge esistono dunque per convenzione (nomoV), non per natura (fusiV). Pur disponendo di scarse informazioni in merito, possiamo dire che anche nelle elegie – di cui ci restano scarsissimi frammenti – è presente una fortissima connotazione ideologica di marca aristocratica, che accomuna i versi di Crizia a quelli dell’antico Teognide di Megara. Impronta altrettanto marcata avevano le Costituzioni, un’opera mista di poesia e prosa che trattava di Atene, della Tessaglia e di Sparta (quest’ultima esaltata più d’ogni altra, in virtù dei suoi ordinamenti oligarchici): la famosa Costituzione degli Ateniesi (risalente ai primi anni della Guerra del Peloponneso), a noi pervenuta nel corpus delle opere di Senofonte, deve essere attribuita a Crizia, come hanno osservato Boeckh e Canfora; nell’opuscolo, viene lucidamente analizzato, da un’angolazione reazionaria, l’assetto istituzionale e sociale della poliV ateniese, di cui si riconosce la profonda coerenza e funzionalità in ordine allo scopo che esso si prefigge: assicurare l’egemonia del popolo ai danni dell’aristocrazia. Che lo scritto debba essere attribuito a Crizia (e non a Senofonte o ad Alcibiade o a Tucidide di Melesia, come vuole la tradizione) è del resto avvalorato dal fatto che esso abbia struttura dialogica: in esso, i giudizi e le considerazioni dell’esponente della destra radicale vengono stimolati man mano dalle larvate obiezioni di un secondo interlocutore (la cui presenza è stata erroneamente cancellata dalla tradizione manoscritta); identificandosi nell’esponente della destra radicale, Crizia avrebbe utilizzato gli schemi dialettici tipici del suo maestro Socrate. L’opera si risolve in un’analisi serrata e lucida del regime democratico ateniese, del quale sono messi in evidenza quelli che Crizia ritiene elementi negativi (la mancanza di scrupoli morali nei governanti, la loro ignoranza, la venalità dei giudici, la libertà di parola concessa anche ai meteci e agli schiavi); in questa spietata e feroce valutazione della democrazia ateniese dell’età periclea, Crizia si attesta su posizioni di netta insofferenza per il popolo, inteso come una massa di inferiori che una città saggiamente governata (ovvero retta da un regime aristocratico) non dovrebbe neppure ammettere alle assemblee, ma anzi dovrebbe tenere in schiavitù. La contrapposizione di natura tra aristocratici e plebei è insanabile: il popolo, in quanto rozzo e ignorante, è inadatto a governare la poliV. Nella seconda parte dell’opera, però, alla marcata insofferenza verso il regime democratico, si sostituiscono positive considerazioni sulla necessità dello sviluppo della talassocrazia ad Atene e sulla validità della gestione economica della città: il che dimostra l’ottima preparazione tecnica e politica di Crizia, che sul finale dell’opera constata in maniera rassegnata l’impossibilità che ad Atene l’attuale situazione possa mutare. Resta sconosciuto, invece, l’argomento degli Aforismi e delle Conversazioni.
IPPIA di ELIDE
A cura di Daniele Lo Giudice Introduzione Ippia di Elide (443 – prima metà del sec. V) fu filosofo di multiforme ingegno speculativo e di grandi conoscenze enciclopediche, fece frequenti viaggi in qualità di retore e di rappresentante politico a Sparta, Atene, Olimpia e in Sicilia. Fu uno dei principali esponenti rappresentante di quella nobile sofistica di cui parla Platone nel Sofista. La sua filosofia propugnava il principio dell'”autarchia”, cioè del bastare a se stessi, in una prospettiva individualistica, che sta alla base anche della sua filosofia della politica, il cui punto di partenza è l’antitesi tra legge e natura. Le leggi non hanno invariabilità e stabilità assolute, e inoltre determinano arbitrio e giustificano spesso la tirannide, quelle autentiche non sono dettate dall’uomo come concetto astratto bensì dalla stessa natura umana, legislatrice di regole non scritte, radicate nella nostra natura umana, ma che sono tuttavia preferibili perché uguali in ogni luogo e in ogni momento. Con queste tesi brillanti e originali Ippia realizza così una delle prime filosofie a base egualitaria, internazionalista, democratica. Per dare una soluzione al problema geometrico della trisezione dell’angolo, tracciò una curva definita successivamente quadratrice, perchè usata da Dinostrato per risolvere la questione della quadratura del cerchio. Alcuni storici della filosofia lo considerano autore dello scritto attribuito all’Anonimo di Giamblico. Scrisse molto, anche testi di carattere letterario, come odi religiose ed elegie, ma di lui ci sono pervenute solo testimonianze frammentarie e qualche titolo: il Troiano, il Registro dei vincitori ad Olimpia, la Raccolta e i Nomi dei popoli. È molto probabile che sia lo stesso Ippia protagonista dell’Ippia maggiore e dell’Ippia minore di Platone. Il pensiero Due dialoghi platonici – Ippia maggiore ed Ippia minore – ci introducono ad un personaggio antipatico e pieno di sé, borioso, spavaldo e superficiale, che fa di una capziosa verbosità la propria arma argomentativa privilegiata. Ma, l’Ippia minore è un dialogo anomalo ed inquietante, nel quale Socrate sembra dare letteralmente i numeri, mentre lo stesso Ippia rimane sconcertato. Socrate avanza una strana teoria, che poi rinnegherà immediatamente, ma intanto l’ha detta, e dicendola la sostiene anche con qualche argomento. La cosa non quadra con una certa idea che abbiamo di Socrate e nemmeno con Platone. Ma c’è Senofonte a testimoniare la veridicità dell’episodio, a meno che non si ammetta che un ignoto burlone abbia scritto il dialogo speculando su quanto raccontato da Senofonte. Di che si tratta? Socrate afferma che chi fa volontariamente il male, sapendo cioè quello che fa, è sicuramente superiore a chi lo compie involontariamente. Ippia risponde che persino le leggi (che lo stesso riteneva sempre insufficienti e mancanti) riconoscono che il dolo volontario è di maggiore gravità, e quindi puniscono l’autore di un crimine volontario con pene più severe. A questo punto Socrate confessa di non sapere a quale argomento appigliarsi. Eppure, preso da stato febbrile, propone ad Ippia di ascoltare qualcosa. Ecco che poco alla volta viene in chiaro cosa intendeva Socrate. Chi sa distinguere tra bene e male e tuttavia sceglie il male, è intellettualmente più dotato, più completo, diremmo noi: più consapevole. Dunque, la conclusione paradossale è che solo un uomo dabbene può fare il male consapevolmente. Uno degli argomenti di Socrate è quello del medico di cui ci serviamo. Chiede ad Ippia: ” E’ meglio servirsi di un medico che fa male involontariamente o di uno che procura malattia volontariamente? ” E quello, ammettendo che è migliore chi sa fare il male, prepara la risposta finale di Socrate. ” E infine, della nostra anima non vorremmo che fosse quanto di migliore è possibile?” “sì” risponde Ippia. ” E non sarà dunque migliore se fa il male volontariamente piuttosto che involontariamente?” Ippia risponde:” Ma sarebbe enorme, Socrate,…” Il dialogo prosegue ancora per un po’, senza che le posizioni mutino sostanzialmente. Ora, per quanto si sia riflettuto su tutta la vicenda, è impossibile trovare probabili che due alternative: o si tratta di un falso, redatto probabilmente da qualche acuto aristotelico, o si tratta di un’opera perfettamente compiuta, ovvero non di un lavoro tralasciato a metà da Platone. Il suo intento non era quello di trasmettere una conclusione, ma di far discutere, superando tutta una serie di luoghi comuni, non ultimi gli stessi luoghi comuni diffusi da Socrate in altri contesti, come quello che in genere fa il male chi non conosce il bene. Il vero obiettivo di Platone era evidenziare, allora, la profondità di Socrate e la pochezza e superficialità di Ippia, che intendeva il termine migliore solo in un senso etico e morale, mentre Socrate lo intendeva nel senso di individuo in grado di discernere, valutare le conseguenze delle proprie azioni, avere una mente lucida. La domanda che dovrebbe venirci spontanea di fronte all’affermazione sarebbe: migliore in che senso? Non venendo da Ippia alcuna reazione di questo tipo, ma solo un rifiuto moralistico, abbiamo un ritratto dell’uomo convinto di avere raggiunto grandi conoscenze e grandi certezze, eppure assai scarso di acutezza intellettuale. Così vengono ad evidenziarsi due metodi assai diversi per introdurre non solo l’insegnamento della filosofia, ma proprio il concetto di educazione in generale. Per Ippia che, secondo l’Untersteiner, fu nientemeno che il fondatore del programmo educativo centrato sul quadrivio, la trasmissione del sapere è retorica, cioè discorso che fissa nella memoria concetti inquestionabili come il bene ed il male. Ed ovviamente si scandalizza di ogni possibile obiezione al dogma. Per Socrate la discussione e la ricerca dialettica sono invece l’unico modo per produrre non solo un sapere superficiale, una cultura di nozioni, ma una consapevolezza, un saggiare le questioni sotto molteplici aspetti. Insomma, è vera filosofia e vera pedagogia la via socratica e non quella di Ippia, niente più di un bravuomo molto preso da quella che poteva essere la sua missione ed il suo tornaconto, ma assolutamente inadatto a fare l’insegnante perchè incapace di suscitare la discussione e la ricerca, incapace di suscitare domande del tipo: in che senso intendi migliore? Non si può prescindere da questo Ippia rappresentato da Platone per parlare di Ippia di Elide, matematico valente, insigne maestro di virtù, tuttologo, sapiente enciclopedico, anch’egli sostenitore della gorgiana teoria che il retore potrebbe imbastire discorsi sensati e persuasivi su tutto lo scibile umano. Socrate, nel vero Ippia, l’Ippia maggiore, sembra dilettarsi nel farlo a pezzettini, nel ridurlo alla statura d’un nano. Ma questa volta non riusciamo a comprendere Platone: non sapeva che riducendo il valore del contendente, veniva a deprezzare il valore di Socrate? Era davvero così scadente, superficiale e vuoto tale Ippia, il prototipo di un certo tipo di sofista, capace solo di discorsi generici e grossolani, ampollosi e vuoti? Qualche dubbio è lecito. Un matematico deve avere mente sobria e disciplinata, essenziale e logica. Ed Ippia fu l’unico tra i sofisti a poter vantare una solida preparazione matematica. Certo, non era di scuola pitagorica. Ma il marchio di fabbrica del pitagorismo qualificava e certificava un matematico in modo particolare? Il primo punto da chiarire è allora questo: a differenza dei pitagorici Ippia ricevette un’educazione alla geometria, o meglio, che privilegiava la geometria rispetto all’aritmetica. Gli storici della matematica grosso modo concordano sul fatto che egli diede un’importante contributo alla quadratura del cerchio, anche se poi, la vera dimostrazione venne riconosciuta come merito di Dinostrato. E, forse, Platone detestava Ippia per la sua superiorità in campo matematico, o, forse, per il suo rifiuto ad insegnare (gratis) nell’Accademia. Ce n’è a sufficienza per capire come mai tra i due non corresse buon sangue. Probabilmente, la verità attorno all’Ippia maggiore è una sola: non un dialogo, ma un pamphlet, uno scritto polemico dovuto a circostanze particolari, persino rabbioso. A meno che, a differenza di tanti altri dialoghi, costruiti in atmosfere ideali e rarefatte, l’Ippia maggiore non fosse che un resoconto nudo e crudo di un vero scontro, un libro-verità su un Socrate più velenoso del solito, cioè il vero Socrate contro uno dei tanti Ippia rinvenibili sul mercato all’ingrosso delle scuole sofistiche. Dopo aver letto i dialoghi platonici si può nutrire nei confronti di Ippia un pregiudizio che non era sano. E’ come quando incontri per la prima volta una persona che tuttavia ti è stata descritta attraverso aneddoti e resoconti sommari. Ha detto questo, ha fatto quest’altro, di solito è nervoso, aggressivo, parla troppo, gli piace la letteratura russa, ha la casa piena di quadri comprati lungo i navigli, non legge i giornali tutti i giorni, spesso mangia in quei bar dove si fa il brunch verso le 11 di mattina, ecc. So tutto di lui senza aver mai visto niente. O, forse, so niente? Merito dell’Untersteiner, indubbiamente, è la ricostruzione del probabile pensiero di Ippia in termini più oggettivi. Scrisse moltissimo, con incursioni in ogni campo, ma non rimangono che frammenti, oppure testi di seconda mano, che è sempre avventuroso riconoscere come legati al vero pensiero di Ippia. Certamente fu enciclopedico; aveva una cultura enorme, allevata da una memoria formidabile. Nacque ad Elide in un molto probabile 443 a.C. Nel 399 era già famoso, ma dei suoi maestri non si sa nulla. Viaggiò molto, anche come ambasciatore e fu spesso a Sparta dove, secondo l’Untesteiner “sperimentò quella rigidità della legge, che doveva combattere nella sua teoria.” Fu ad Atene almeno due volte, e in Sicilia esercitò una grande influenza, specie sul tiranno di Siracusa Dionigi il giovane. Ippia era di orientamento democratico, fece attivamente politica su scala internazionale. Fu ucciso mentre “tramava insidie contro la propria patria.” Aveva sposato una certa Platane, dalla quale ebbe tre figli. Scrisse moltissimo e le sue opere più importanti dovrebbero essere Troiano, Consigli di Chirone, Nomi dei popoli, Registro dei vincitori di Olimpia. Le fonti per conoscere il pensiero di Ippia sono, secondo l’Untersteiner, oltre ai frammenti, il capitolo di Tucidide che interpreta i fatti di Corcira, l’Anonymus Iamblichi, le cui idee rispecchierebbero fedelmente il pensiero di Ippia. Ed il Proemio spurio ai Caratteri di Teofrasto sarebbe opera di Ippia. Su queste basi ecco un quadro del pensiero di Ippia. Un politico deve saper parlare in pubblico in modo elegante e persuasivo. Ma l’arte retorica non basta, occorre avere i materiali da plasmare: i contenuti. Essi si ricavano con la conoscenza di tutto, una conoscenza enciclopedica, e qui è la differenza con Gorgia, non solo perchè Ippia afferma che la conoscenza è possibile, ma perchè è anche comunicabile. La meta della conoscenza, tuttavia non è la sapienza separata di ogni campo, ma la superiore visione della realtà, la quale è natura della realtà stessa. Ha la sapienza politica necessaria chi perviene a conoscere la natura, la physis della realtà. Questa natura della realtà corrisponde alla verità. Sembrerebbe, se non parlassimo di Ippia, che parliamo di Aristotele. Gradi della conoscenza La conoscenza della natura delle cose avviene attraverso tre gradini da salire: la conoscenza delle parole e del loro significato, la conoscenza dei numeri, il concetto di giusto ed il concetto in generale. La conoscenza delle parole deve essere analitica prima ancora che semantica. La parola si compone di lettere e fonemi la cui esatta pronuncia, con la giusta considerazione per ritmi ed accenti porta alla perfezione del linguaggio. La scelta delle parole è estremamente importante perchè è attraverso di essa che perveniamo alla precisione del discorso, la quale rispecchia l’acutezza del proposito, del cosa vogliamo comunicare. Il secondo gradino da scalare è quello della matematica, non solo il numero nella sua forma aritmetica, ma l’immagine sensibile delle cose, nella loro forma scheletrica e strutturale, la geometria fondata sulle immagini, le figure. Ippia privilegia l’impatto sensibile, l’esperienza della figura, rispetto ad una concezione idealistica. In questo quadro si spiegherebbero i suoi tentivi, storicamente documentati di fornire una dimostrazione della quadratura della circonferenza, in un quadro dinamico, di geometria animata, di linee mobili, di curve. Il terzo gradino è quello rappresentato dalla conoscenza del concetto di giusto, in diversi significati: appropriato, conforme a norma naturale, regolato da leggi che rispecchiano questa conformità alla natura delle cose. Questo terzo gradino è certamente il più importante perchè Ippia vi fonda la sua convinzione fondamentale: l’aver egli stesso compreso la natura delle cose, e dell’uomo in particolare. La critica alle leggi Su questa base egli mosse una critica generale alle leggi, al nomos, asserendo, come Antifonte, che le leggi esercitano violenza sulla natura dell’uomo: siamo così agli antipodi da quanto teorizzato da Prodico di Ceo. Ma il senso dell’affermazione non è chiaro, anche se, muovendo da posizioni democratiche, sostanzialmente protagoriche e periclee, si può pensare che non volesse affermare il diritto del più forte ad esercitare prepotenze, ma qualcosa di radicalmente diverso, ovvero denunciare la gabbia legislativa che limita il libero sviluppo delle persone, proibendo quello che non deve essere proibito, ed imponendo quello che non può essere imposto, come, ad esempio, la religione ufficiale. Avremmo dunque un Ippia radical-democratico, una ragione di più, guarda la combinazione, per un intensa contrapposizione al giovin Platone, simpatizzante per l’aristocrazia e filo-spartano. E questa sarebbe ragion più che sufficiente per realizzare l’antipatia reciproca, se non fosse che, proprio tra i democratici ateniesi della fase post-Pericle, si fosse instaurata una convinzione del tutto anti-democratica, ovvero il diritto della maggioranza di esercitare una sorta di dittatura con la forza della legge. Ippia era un democratico, allora, ma per nulla in sintonia con i democratici reali, la nuova ondata di demagoghi, la canea dei sofisti dei secondo e terzo ordine che concionavano agli angoli delle strade. Queste considerazioni concorrono ad arrichire il quadro già mosso e complesso, per nulla lineare. Raramente, nella storia, progressisti e conservatori hanno formato blocchi monolitici l’un contro l’altro armati, e men che mai questo accadde ad Atene. Raramente gli intellettuali si sono prestati ad essere “organici”, cioè servi di strategie di puro esercizio del potere. Spesso hanno teso a criticare ciò che prediligevano, perchè delusi dai comportamenti dei capi. Come del resto oggi, in Italia, gli interessi puramente economici, il conflitto oggettivo tra le classi passa spesso in secondo ordine rispetto a problemi di potere, istituzionali, giudiziari, a vere e proprie vanità ed ambizioni di singoli, così in Grecia le cose non andavano tanto diversamente. Ecco perchè non convince fino in fondo il ritratto del vanesio disegnato da Platone: quando Ippia affermava di aver compreso la natura dell’uomo e di aver quindi trovato una ricetta, un farmaco alla crisi sociale, morale e politica, doveva, in effetti, aver scoperto qualcosa di importante e di nuovo. Le leggi scritte dagli uomini non riflettevano che in poco le leggi non scritte, ma scolpite nella natura umana. Ad una fase nella quale, come ritiene l’Untersteiner, Ippia credette che le leggi umane fossero il metro di misura della giustizia, seguì una fase nella quale si persuase che le leggi umane negavano la vera giustizia, quella non scritta, ma rinvenibile in ogni uomo e nel logos afferrato da Eraclito. Ma il problema della traduzione di questa giustizia fisica in giustizia legislativa e diritto positivo non pare risolto, e non solo per impossibilità politica, ma per difetto teorico e chiarezza di intenti. Non ne abbiamo le prove, ma nemmeno l’Untersteiner potrebbe esibire prove in senso opposto. Ippia rimane un mistico della giustizia, con una fortissima idea confusa che non riescì ad esporre, se non negando la giustizia realmente esistente, forte delle delusioni e delle amarezze che procura. Solo su un punto egli seppe avanzare una proposta concreta: punire chi calunnia. Constatato che la legislazione delle città greche in generale non prevedeva pene contro chi avanzava accuse ingiuste, oppure spargeva dicerie contro qualcuno al fine di denigrarlo e renderlo odioso, Ippia se ne fece scrupolo e punto d’orgoglio, imbastendo una specie di campagna perchè la falsa testimonionza resa contro qualcuno diventasse un reato, tra i più gravi. Basterebbe questo a smentire la stereotipata superficialità di Ippia? Credo di sì: egli disse, pressapoco, che è ancora più ripugnante chi sparge menzogne rivolte a denigrare altri di chi commette prepotenze: quest’ultimo agisce alla luce del sole; il calunniatore agisce nell’ombra, come Jago, che seppe suscitare i più bestiali sentimenti di gelosia in Otello, fino al punto da indurlo all’assassinio. Grazie a Shakespeare (ed a Giuseppe Verdi), forse anche Ippia può trovare finalmente il giusto riconoscimento. Punendo duramente chi calunnia, anche per legittima difesa, forse la legge umana incontra quella naturale, o divina, che dir si voglia. La curva di Ippia Ippia di Elide ideò una curva mediante la quale è facile risolvere sia il problema della quadratura del cerchio che della trisezione dell’angolo generico. Resta ormai chiarito che attraverso il solo uso di riga e compasso non si riesce a rettificare la circonferenza e quindi a quadrare il cerchio. Se, oltre alle linee elementari (segmenti, circoli), consideriamo linee che non sono tali, cioè facciamo ricorso a curve di ordine superiore a due, tracciati eventualmente con strumenti non elementari, allora si riesce nell’intento di rettificare la circonferenza. E’ interessante vedere, fra tante almeno una rettificazione di circonferenza ottenuta senza l’uso esclusivo della riga e del compasso.ottenuta senza l’uso esclusivo della riga e del compasso.
Descrizione della curva
Consideriamo un quadrato abcd e facciamo ruotare uniformemente il lato CB attorno al vertice C, fino a portarsi su CD; contemporaneamente un moto uniforme di traslazione al lato AB fino a portarsi sul lato CD stesso.Regoliamo i due moti in maniera tale che i segmenti detti portano contemporaneamente e giungano sempre contemporaneamente nella posizione finale.Si chiama curva di Ippia il luogo geometrico delle intersezioni dei due segmenti mobili, ottenute istante per istante. La curva è costruibile per punti mediante successive bisezioni del segmento BC e dell’angolo B’CD.
equazione della curva
In termini più moderni, cerchiamo di ricavare dalla definizione l’equazione della curva. Prendiamo intanto il lato del quadrato come unità di misura, come asse x e asse y rispettivamente le rette cui giacciono i lati CD e CB.
ponendo avremo:
e anche
quindi
che rappresenta l’equazione della curva descritta.
PRODICO
A cura di Daniele Lo Giudice
Introduzione
Prodico nacque a Ceo, un’isola delle Cicladi, tra il 470 e il 460; venne mandato dalIa sua città in diverse occasioni ad Atene, dove ebbe un grande successo come oratore politico, nonchè per le sue lezioni di filosofia e di retorica. Dovette essere un uomo di grande fascino intellettuale, se riuscì riunire intorno a sè molti giovani. Prodico è rimasto famoso soprattutto per i suoi studi di sinonimica e di etimologia, che inquadrò nel piú vasto problema del rapporto natura-cultura, allora assai sentito e dibattuto. Il linguaggio – le parole – costituisce per Prodico un fatto naturale se considerato in sè (etimologia), ma anche un fatto convenzionale, se considerato nella sua applicazione pratica (sinonimica), all’interno di una società. Intatti l’etimologia, in individuando l’origine di un nome e collegando dei suoni a degli oggetti, a fatti naturali, stabilisce una stretta dipendenza della parola dalla cosa. D’altra parte, oltre a questo significato “naturale” di ogni vocabolo, v’è anche un significato “storico” che esso assume e che deriva dall’uso, cioè dalle condizioni ambientali e storiche in cui viene usato: questo significato storico è studiato appunto dalla sinonimica. Ma Prodico è anche uno studioso della storia dell’uomo; egli ne disegna un profilo che va dallo stato iniziale di ferinità e di soggezione alla natura fino all’istituzione di società fondate sul lavoro e sulle leggi. Il fattore fondamentale di questo sviluppo è techne, cioè l’arte, l’attività lavorativa dell’uomo, che rappresenta lo strumento attraverso il quale – dall’agricoltura all’industria – l’uomo riesce a sfruttare ed a mettere al proprio servizio le forze della natura. A questo proposito anzi Prodico elabora un’importante teoria delle religioni, che per lui sono la celebrazione dei benefici dell’attività umana e degli sforzi degli scopritori delle piú importanti technai, come Efesto del fuoco e della metallurgia.
“Il sole e la luna e i fiumi e le fonti e in genere tutto ciò che giova alla nostra vita, gli antichi li chiamavano dei per la loro utilità, come gli Egiziani fanno per il Nilo, e per questo il pane fu chiamato Demetra, e il vino Dioniso, e l’acqua Poseidone, e il fuoco Efesto e cosí ciascuna cosa che ci è utile”. (DK 84 B 5)
La filosofia morale di Prodico, sostenitore di un’etica che punti sempre sulle virtù, sullo sforzo e sull’impegno dell’ uomo a costruire un mondo di leggi adeguato alla sua natura, ci è testimoniata da un lungo frammento intitolato Le Ore, o Eracles al bivio, in cui si immagina che Eracle, posto di fronte all’alternativa di seguire la via facile del vizio o quella difficile della virtù, imbocchi decisamente questa seconda.
Il pensiero
Prodico nacque a Ceo, forse in un anno da cercarsi tra il 470 el 460 a.C. Fu probabilmente un aristocratico e venne inviato più volte ad Atene come ambasciatore. Secondo l’Untersteiner, ottenne un vivo successo nelle assemblee popolari ed ampio prestigio come retore ed insegnante. Guadagnò, inoltre, molto denaro con l’insegnamento. “Era, dunque, un vero sofista, ma libero da ogni interesse retorico – scrive l’Untersteiner – tant’è vero che definiva il sofista intermedio tra il filosofo ed il politico. ” Questa definizione sembra implicitamente ammettere che già nel V secolo era palese la la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva, cioè la partecipazione alla politica, e tra vita intellettuale e dimensione pratica. Amante dei piaceri e cagionevole di salute, Prodico ebbe discepoli importanti come Socrate, Tucidide (al quale trasmise la sua passione per la storia), Euripide, Teramene, Isocrate e Damone. Basterebbe questo a rivalutarne la figura, ma nascono difficoltà spesso insormontabili per ricostruirne fedelmente il pensiero, data la scarsità dei testi disponibili e la carenza di testimonianze, alcune delle quali, come quella di Platone, decisamente riduttive. Prodico crisse un trattato intitolato Wrai, Le Ore, dee della fecondità venerate a Ceo e significative dell’intero processo naturale. L’Untersteiner sostiene che gli scritti Intorno alla natura e Intorno alla natura dell’uomo erano parte integrante delle Ore e non testi autonomi.
Origine delle cose, umanesimo, forse un “senso della storia”
Prodico guardò alla realtà del mondo con lo sguardo dell’uomo comune, ma per primo, ebbe consapevolezza della necessità di scrivere una storia in chiave antropologica. Fu uno dei primi pensatori a delineare il concetto di progresso, se non di “evoluzione”, ed a tentare di chiarire i processi secondo i quali l’uomo, creatura originariamente fatta con il fango, fosse diventato in un certo senso signore della natura. Scrisse l’Untersteiner: “Nella sua massima opera, le Ore, ove il ciclo delle cose e la legge etica, che tutto regola, trovavano una loro visione unitaria, noi possiamo immaginare che il primo argomento fosse proprio quello dell’origine degli enti, fuggevolmente accennato in Protagora, ma di certo perseguito, in più precisi sviluppi, da Prodico.” Secondo Prodico la condizione originaria dell’umanità era di “estrema fralezza” (Untesteiner), ma esso seppe progredire per opera di “scopritori” che, “con il loro errare, dopo che da essi erano state scoperte da poco le messi, giovarono all’utile degli uomini.” Il talento degli scopritori, secondo Prodico, era consistito nel conoscere la natura, e nel trovare in essa le più segrete risorse. Ne nacque l’arte dell’agricoltura, che fu preludio alla scoperta di tutte le arti. Secondo l’Untersteiner, Prodico si collegava alla religiosità misterica di Eleusi, che appunto predicava Demetra come la dea datrice dell’agricoltura e la poneva a fondamento di tutto ciò che di buono esiste al mondo. Non è chiaro, tuttavia, se Prodico debba essere considerato come un evemerista ante-litteram, ovvero se egli in qualche modo anticipò l’idea di Evemero di Messina, filosofo del III secolo a.C., secondo il quale gli dei erano stati solo uomini di grandi meriti, che gli uomini divinizzarono in seguito alla loro scomparsa. Certo è che alla base delle convinzioni del nostro vi era un curioso impasto di filosofia di Empedocle e di tradizioni misteriche. Egli pose alla radice di una probabile cosmogonia la preesistenza dei quattro elementi e la comparsa del sole e della luna quali determinanti alla vita. Gli dei sono gli elementi stessi, ma nel significato più proprio di “radici” e non di entità sovrannaturali antropomorfe. Secondo l’Untersteiner, la debolezza umana postulata da Prodico come condizione originaria conduce ad un pessimismo cosmico, in singolare contrasto con “l’ottimismo” di altri sofisti come Protagora e Gorgia. L’osservazione non mi sembra molto pertinente, se non altro perchè fatico a comprendere dove stia l’ottimismo di Gorgia. Evidenzierei piuttosto, al contrario, che se, lentamente ed a fatica, si fa strada l’idea di progresso, proprio in Prodico, c’è una nota ottimistica che spezza la circolarità ciclica nella concezione del tempo storico nella mentalità greca, avvicinandolo ad una concezione, in questo caso davvero ante-litteram, ebraico-cristiana. In Prodico la cronologia, visto che è ancora improprio parlare di storia (se historia significava allora primariamente ricerca, e non narrazione e ricostruzione degli eventi), assume già un senso ed una direzione. E questa direzione è caratterizzata dal venire da un tempo di tenebre e di debolezza dell’uomo, ad un tempo di luce e di forza. La civilizzazione non è perdita, ma conquista. La cultura acquisita non è segno di una degenerazione della presunta natura umana, ma il frutto della particolare natura umana, che non è la stessa natura degli altri animali. Sono pensieri moderni, antropologici. Dunque, di fronte all’antitesi, presente in molti sofisti, tra legge (regole umane) e natura (impulsi ed istinti), Prodico mirò alla sintesi. La legge, il nomos, non è altro dalla prosecuzione della natura, come pure l’arte è la sua comprensione più efficace e raffinata. La riflessione consente all’uomo di superare e trascendere la condizione naturale, senza tuttavia abbandonarla del tutto. Ovviamente, non si tratta di interpretare Prodico come fosse Hegel. La sua filosofia della storia è ancora rudimentale, quasi istintiva. In essa la categoria dello spirito umano, della tempra e della mentalità che sono immanenti all’uomo stesso, e non trascendenti, sono semplicemente in nuce. Prodico era ancora convinto della conciliazione reale, e non solo apparente e formale, tra filosofia e religione popolare. Mentre esaltava la divinità naturale come “insieme” e non come particolarità di nomi e di santi patroni (Hermes, Athena, Efesto ed Afrodite), non voleva muovere alcun attacco a tali sacre figure venerate dal popolo e dalla religione ufficiale delle città. Se la filosofia si presentava comunque come superiore alla religione, per Prodico, essa non aveva comunque un oggetto diverso: portava comunque al riconoscimento del divino, alla sua definizione concettuale di benefattore dell’umanità. Il grande merito di Prodico fu certamente quello di inaugurare la riflessione sul linguaggio e la sua origine in maniera feconda, anche se unilaterale. Convinto della continuità tra natura e cultura, egli sostenne con convinzione che le parole ed i nomi non hanno origine nell’arbitrio, ma vengono dalla natura stessa. Molti hanno visto in questa impostazione una indiretta polemica con Gorgia, il quale, asserendo che la conoscenza era incomunicabile, aveva scavato un fossato tra nome e parola, tra significante e significato. Forse, nel tentativo di ricucire lo strappo, Prodico non trovò di meglio che cercare di rifondare la certezza del significante e del nome nella storia e nella genealogia della parola, evidenziando che gli equivoci e le imprecisioni non sono dovute alla debolezza della lingua, ma all’uso impreciso e sommario che se ne fa. Questa ricerca sul significato delle parole e sui sinonimi, se ci si riflette bene, potrebbe aver influito grandemente su Socrate, inducendolo a portare avanti la ricerca sul concetto, la definizione del cosa è questo di cui stiamo parlando. Non diversamente, secondo l’Untersteiner, Prodico, approfondendo la sinonimica, cercò di rispondere anche a Democrito, che aveva postulato l’origine convenzionale dei nomi, e quindi aperto a Gorgia la via della critica al rapporto tra pensiero, linguaggio e realtà. C’è da dire che Platone fu molto critico con Prodico, asserendo che egli, aveva spaccato il capello, “esercitato violenza sulla lingua, senza pervenire all’essenza della cosa, al suo essere, e senza, allo stesso tempo, aver saputo destare autentico interesse filosofico per la vera sapienza e la virtù. E’ arduo pronunciarsi sulla fondatezza di tale rimprovero se non fosse che l’intero approccio di Prodico all’insegnamento della filosofia, o meglio, della sua sophia, era certamente compromesso dal fatto che era a pagamento. Ma proprio da una polemica su tale questione, e sul connesso problema della ricchezza, venne dall’uomo di Ceo un insegnamento, a mio giudizio, di carattere fondamentale. A chi, come lo stesso Socrate, asseriva che la ricchezza era un male in sé, Prodico rispose che: ” per la persona di perfetta onestà e che sa in quale occasione si deve far uso della ricchezza, essa è un bene, mentre per i malvagi che non lo sanno, essa è un male. E’ una tesi che riecheggia la risposta che Gorgia diede allo stesso Socrate sul valore della retorica. Un semplice strumento: c’è chi la usa bene e chi la usa male; non si può dare la colpa a Gorgia se chi impara a fare discorsi, si volge alla calunnia, alla menzogna, alle malefatte. Si tratta, com’è ovvio, di due approcci del tutto diversi e quello di Prodico, in apparenza solo più spregiudicato, era in realtà meno ideologico e più aperto, più aderente alla realtà nella quale è vero che non tutti i ricchi sono disonesti, anche se la ricchezza sembra portare in sé una qualche maledizione che se non colpisce i ricchi, colpisce comunque i loro discendenti, facendone dei “viziati”. Questo inciso ci ha consentito di introdurci agli insegnamenti etici di Prodico che, nella concezione di Aristotele, sarebbe risultato forse più un saggio che un filosofo, un maestro di vita e non un maestro di scienza. L’etica di Prodico, in realtà, è facilmente riassumibile nella storia che egli stessò raccontò, anche se non la inventò, quella di Eracle al bivio. A circa ventanni Eracle si trovò ad un bivio dove incontrò due donne, l’una alta e bella, dai lineamenti armoniosi simboleggiava la virtù; la seconda, bella altrettanto, ma dalle forme prorompenti e lascive, impersonava vizio e corruzione. Entrambe cercarono di attrarre Eracle, incitandolo a seguire una sola strada, vista l’impossibilità di percorrerle entrambe. Ed Eracle scelse la virtù. A prescindere dal fatto che virtù non significava per i greci del tempo, e nemmeno per Prodico, solo il bene, la castità, la perfezione e l’altruismo, ma qualcosa di analogo al valore, al coraggio, all’onestà, cioè a doti più virili che monacali, è evidente che in Prodico era maturata la convinzione che bene e male fossero qualcosa di distinguibile in modo molto più certo e meno relativistico che in Gorgia. L’antitesi, tuttavia, come già s’è detto, non era tra natura e cultura, o tra carne e spirito, ma tra due opposti richiami di carattere assai più primitivo, interni all’uomo stesso, alla sua umanità simboleggiata dalle due donne. Ciò che colpisce è che Arete, la donna virtuosa, il valore, non fece appello alla ragione, all’anima razionale, ma alla natura di Eracle, al suo carattere, alla sua capacità di decidere, in quanto uomo, su quale strada immettersi.
SOCRATE
Socrate nacque nel 470 / 469 a.c. da Sofronisco , scultore , e Fenarete , levatrice . Dapprima esercitò forse il mestiere del padre , ma successivamente l’abbandonò per dedicarsi esclusivamente all’indagine filosofica . Non di rado dovette quindi ricorrere all’aiuto economico di amici . Sposò Santippe , che una certa tradizione tende a presentare come donna bisbetica e insopportabile : si è arrivati a pensare che Socrate stesse sempre in piazza non tanto per filosofare quanto piuttosto per stare lontano da Santippe e dalle sue ramanzine continue : pare che Socrate sia riuscito a far ragionare tutti tranne Santippe . Da lei ebbe tre figli . Socrate non lasciò mai Atene se non per brevi spedizioni militari : partecipò infatti nel 432 alla spedizione contro Potidea , traendo in salvo Alcibiade ferito , e nel 424 combattè a Delio a fianco di Lachete durante la ritirata degli Ateniesi di fronte ai Beoti . Successivamente nel 421 combattè ad Anfipoli . Nel 406 in conformità al principio della rotazione delle cariche , fece parte dei pritani , ossia del gruppo del Consiglio al quale spettava decidere quali problemi sottoporre all’Assemblea e si oppose alla proposta illegale di processare tutti insieme i generali vincitori nello scontro navale avvenuto al largo Arginuse , perchè non avevano raccolto i naufraghi . Con questa presa di posizione egli si poneva in contrasto con i democratici , ma nel 404 , passato il potere in mano all’oligarchia capeggiata dai Trenta , rifiutò di obbedire all’ordine di arrestare un loro avversario , Leone di Salamina . Nel 403 la democrazia restaurata , pur concedendo un’amnistia , continuò a ravvisare in Socrate una figura ostile al nuovo ordine , anche per i rapporti da lui intrattenuti in passato con figure come Alcibiade e Crizia . Nel 399 fu presentato da Meleto un atto di accusa contro Socrate , ma tra i suoi accusatori erano anche Licone e soprattutto Anito , uno dei personaggi più influenti della democrazia restaurata . L’atto di accusa è il seguente : ” Socrate è colpevole di essersi rifiutato di riconoscere gli dei riconosciuti dalla città e di avere introdotto altre nuove divinità . Inoltre è colpevole di avere corrotto i giovani . Si richiede la pena di morte ” . Gli accusatori contavano probabilmente in un esilio volontario da parte di Socrate , com’era avvenuto in passato per Protagora o Anassagora , ma egli non abbandonò la città e si sottopose al processo . A maggioranza i giudici votarono per la condanna a morte la quale fu eseguita in carcere mediante la somministrazione di cicuta . Possiamo inserire Socrate nell’era sofistica (sebbene lui si schierò contro i sofisti) perchè come i sofisti si interessò di problemi etici ed antropologici , mettendo da parte la ricerca del principio e della cosmogonia . Socrate non scrisse mai nulla e così per ricostruire il suo pensiero dobbiamo ricorrere ad altri autori . Le fonti principali sulla vita di Socrate sono quattro 1) Platone 2)Senofonte 3)Aristotele 4)Aristofane . 1) Platone è senz’altro la fonte più attendibile : egli fu discepolo diretto di Socrate e con lui condivise sempre l’idea della filosofia come ricerca continua . Senofonte è la fonte più banale e meno interessante : il Socrate degli scritti di Senofonte è un cittadino ligio alla tradizione , il vero interprete dei valori correnti , il saggio che mira al bene dei suoi concittadini ed è ossequioso verso la città e le sue divinità . Va subito precisato che Senofonte era un grande generale , coraggioso e valoroso , ma non era certo un’aquila : i suoi scritti stessi non sono certo esempi eclatanti della letteratura greca : sono ridondanti e ripetitivi . Senofonte fece anche campagne militari con Socrate e nei suoi scritti ne esalta il valore dicendo che non stava mai fermo , era sempre in azione , non soffriva niente (camminava addirittura a piedi nud sul ghiaccio) . A Senofonte della filosofia non gliene importava nulla e con Socrate , di cui era grande amico , non trattava mai argomenti filosofici , ma solo militari : questo ci consente di capire che Socrate modulava il discorso a seconda del personaggio che aveva di fronte : con un filosofo parlava di filosofia , con un generale di guerra . 3) La testimonianza di Aristotele è stata a lungo ritenuta la più attendibile perchè Socrate non viene caricato di significati simbolici : Aristotele ce ne parla in modo oggettivo . Tuttavia la testimonianza aristotelica ha dei limiti : in primis , è la meno ” artistica ” delle 4 ed è l’unica di un non-contemporaneo . Va poi detto che in Aristotele Socrate ci viene presentato quasi come un ” robot ” : la filosofia socratica viene presentata come un susseguirsi di ragionamenti e non viene dato spazio al filosofare in pubblico , al dialogo aperto . 4) Aristofane è il personaggio più vicino a Socrate come età : ci presenta un Socrate relativamente giovane (circa 40 anni) . Va ricordato che Aristofane era un commediografo e ne risulta che l’immagine che lui ci dà di Socrate è fortemente impregnata di tratti sarcastici . Ne ” Le nuvole ” ce lo presenta come un sofista studioso della natura (il contrario di ciò che era in realtà) , con la testa fra le nuvole . Insomma Aristofane è l’unico a darci di Socrate un’immagine fortemente negativa (non a caso Aristofane era stato uno dei primi accusatori di Socrate) . In realtà non dobbiamo pensare che Aristofane volesse gettar discredito su Socrate o lo prendesse in giro per cattiveria : in fondo lui faceva solo il suo lavoro di commediografo , che consisteva nel far ridere . In realtà con la figura di Socrate vuole prendere in giro non Socrate , ma l’intera categoria dei filosofi . La testimonianza di Platone resta la migliore e le altre tre vanno sfruttate come appoggio . Platone lo conosceva davvero bene ed era lui stesso un gran filosofo : il grosso limite è che trattandosi di un filosofo , Platone avrebbe potuto rimaneggiare i discorsi di Socrate , ed è proprio quel che fa man mano che invecchia . ” L’apologia ” , per fortuna , resta un dialogo giovanile nel quale Platone descrive il processo che decretò la condanna a morte di Socrate . E’ proprio in questo dialogo che emerge fortemente la differenza tra Socrate ed i sofisti : i sofisti pronunciavano discorsi raffinati ed eleganti , ma totalmente privi di verità : per loro l’importante era parlar bene , avere un buon effetto sulle orecchie degli ascoltatori . Per Socrate invece quel che più conta è la verità : lui si proclama incapace di controbattere a discorsi così eleganti e ben formulati (ma falsi) . Socrate , pur non tenendo un’orazione raffinata , dice il vero : la critica ai sofisti verrà poi ripresa da Platone stesso . I sofisti puntavano a stupire l’ascoltatore , dal momento che erano convinti che la verità non esistesse (soprattutto Gorgia . Socrate per difendersi in tribunale non pronuncia un discorso (come i sofisti) , ma imposta un dialogo botta e risposta : è proprio dal discorso che viene a galla la verità (Platone dirà che il discorso tra due o più individui è come lo scontro tra due pietre dal quale nasce la fiamma della conoscenza) . Lo stile oratorio di Socrate è scarno , secco e quasi familiare , modulato a seconda dell’interlocutore . Il punto di partenza del discorso socratico è la cosiddetta ” ironia socratica ” , ossia la totale autodiminuzione , ” io non so , tu sai ” . Così inizia anche ” L’apologia” : si pone la domanda “che cosa è x ?” e l’interlocutore cade nel tranello e risponde , sentendosi superiore a Socrate . Socrate , come abbiamo detto parlando di Senofonte , parla di argomenti noti all’interlocutore : se ad esempio parla con un generale gli chiederà ” che cosa è il coraggio ? ” . Quello risponderà , per esempio , dicendo che il coraggio è il non indietreggiare mai . Allora Socrate interverrà dicendo che quello non è coraggio , bensì pazzia . La critica diventa stimolo per l’interlocutore a fornire una seconda risposta meglio articolata : il gioco può andare avanti a lungo e spesso rimane aperto . Questo metodo viene detto ” maieutico ” : Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre , la quale era ostetrica : lei faceva partorire le donne , lui le anime . Come le ostetriche valutano se il neonato è ” buono ” , così Socrate valuta se le idee , le definizioni sono buone . Non tutti gli interlocutori erano intelligenti e riconoscevano i propri errori : spesso preferivano evitare Socrate . Da un interlocutore Socrate fu anche denominato ” torpedine ” in quanto l’incontro con Socrate risulta scioccante perchè ribalta le concezioni di chi era convinto di sapere e dimostrava che in realtà non sapeva . Socrate stesso si paragonava ad un moscone che stimola il cavallo : lui stimolava gli uomini a ragionare . Socrate con il processo dell’autodiminuzione afferma di non sapere nulla , mentre sostiene che i sofisti sappiano tutto : dice che forse l’educazione che impartisce lui è inutile rispetto a quella sofistica , ma senz’altro è più importante . Le calunnie nei confronti di Socrate hanno avuto inizio quando lui si definiva sapiente in quanto l’oracolo di Delfi gli aveva detto che era il più sapiente tra gli uomini . Lui era rimasto sconvolto da tale affermazione e non riusciva a crederci : allora cominciò a girare per Atene per vedere se trovava persone effettivamente più sapienti di lui . Dunque si recò da coloro che si ritenevano sapienti : politici , poeti , artigiani . Socrate si accorse che tutte e tre le categorie erano convinte di sapere , ma in realtà non sapevano niente : i politici erano i peggiori di tutti non in quanto politici (Socrate stesso , se vogliamo , era un politico perchè svolgeva la sua attività in pubblico) ma in quanto non capaci di insegnare il loro sapere : un vero sapiente deve spiegare ciò che sa : anche i politici migliori (Pericle) non sanno trasmettere il loro sapere . Lo stesso era per i poeti , che a partire da Omero erano considerati sapienti ed educatori : Socrate li biasima sia perchè dicono assurdità , sia perchè il loro non è un sapere , ma una forma di ” follia ispirata ” : era la divinità che parlava per bocca loro . I meno peggio risultarono essere gli artigiani , che almeno sapevano fare diverse cose di utilità pubblica : la loro è una ” tecnè ” , ossia una sapienza pratica . Però anche gli artigiani avevano i loro difetti : erano sì competenti nel loro settore , ma peccavano di presunzione perchè erano convinti che la loro conoscenza fosse universale ed illimitata , anzichè limitata . Inoltre essi agivano senza pensare e ponderare . Socrate arrivò alla conclusione che l’oracolo di Delfi aveva ragione : lui stesso è il più sapiente , pur sapendo di non sapere . Il suo non va interpretato come atteggiamento di rinuncia alla ricerca della verità , ma come segno di modestia intellettuale : è proprio il fatto di essere consapevoli della propria conoscenza che spinge l’uomo a sforzarsi di raggiungere la conoscenza ; se si è convinti di sapere già tutto non ci si sforzerà di migliorare . Tra le varie accuse che vengono mosse a Socrate c’è anche quella di corrompere i giovani nella piazza rendendoli peggiori : lui ribatte a questa accusa dicendo che non avrebbe motivo di fare ciò . Infatti se corrompesse i giovani finirebbe per vivere in una città di giovani corrotti , il che si ritorcerebbe contro lui stesso . Va senz’altro ricordato il cosiddetto ” intellettualismo etico ” di Socrate : secondo lui nessuno può compiere il male sapendo effettivamente di compierlo : nessuno potrebbe mai fare del male volontariamente . Un rapinatore rapina non pensando di fare del male , ma di fare del bene : è un errore intellettuale ritenere bene ciò che è male . E’ un atteggiamento tipicamente cristiano-cattolico che si possa scegliere tra bene e male indistintamente . Dunque Socrate introducendo l’intellettualismo etico dimostra di aver agito per il bene della sua città . E’ Socrate che ha scoperto il concetto moderno di anima (yuch ) : in precedenza significava ” soffio vitale ” , ciò che fa vivere le cose ; il termine yuch assunse poi il significato di ” immagine nell’Ade ” , un’esistenza depotenziata . Per gli Orfici significava ” demone ” . A partire da Socrate fino al giorno d’oggi l’anima è diventata il nostro io : ci identifichiamo con l’anima . Secondo Socrate possiamo dividere i beni ed i mali in tre categorie a) dell’anima b) del corpo c) dell’esterno . Il corpo è lo strumento nonchè la prigione dell’anima . Il denaro , per esempio , è un bene esterno . In alcuni frangenti sembra che Socrate (e anche Platone ) rifiuti i beni materiali e del corpo , scegliendo quelli dell’anima ; in altre occasioni pare che possano essere accettati entrambe . Socrate , per esempio , pare che non disprezzasse il vino . Quest’ambiguità tra beni del corpo e beni dell’anima può essere spiegata affermando che i beni son tutti beni finchè non entrano in conflitto con altri : la ricerca del piacere fisico diventa un male quando la si antepone alla ricerca di quello intellettuale . Questo non vale solo per i beni , ma anche per il rapporto tra anima e corpo : il corpo per Socrate e Platone non va disprezzato , anzi va apprezzato perchè serve all’anima . Per il Cristianesimo la ricchezza è un male , per Socrate e Platone è un bene finchè non entra in conflitto con gli altri beni . Interessante è il concetto socratico di ingiustizia : essa non danneggia chi la subisce , ma chi la commette . La giustizia infatti dà un senso di piacere interiore e chi è ingiusto perde questo piacere , mentre chi subisce l’ingiustizia continua a provarlo . Questo vale anche per Platone . Tra le cose che Socrate dice di non sapere vi è la conoscenza dell’aldilà , di cosa c’è dopo la morte ( Platone dirà di essere in grado di dimostrare l’esistenza di un aldilà) . Per lui non è che se si vive una vita giusta si sarà premiati : si è già appagati dal vivere giustamente , la felicità che si prova perchè si è giusti è già una sorta di premio : Socrate dice che magari potrebbe esserci una vita ultraterrena , ma lui non lo sa . Tra le varie accuse rivolte c’era anche quella di ateismo e di empietà : Socrate infatti credeva nei demoni , che lui proclamava ” figli delle divinità ” . Lui dimostra che è un’accusa sbagliata dicendo che se crede nei demoni che sono figli delle divinità , è ovvio che creda anche nelle divinità : perchè ci sia il figlio (demone) , ci devono anche essere il padre e la madre (le altre divinità) . Ma che cosa era questo demone ? Abbiamo due testimonianze divergenti : per Platone era una sorta di angelo custode – coscienza personale che interveniva ogni qual volta Socrate stesse per sbagliare : si tratterebbe di una sorta di ” aiuto privilegiato ” che non tutti hanno : solo le persone per bene . E’ un dono divino per i buoni . E’ come se la divinità partecipasse alla vita umana . Per Senofonte invece il demone è un’entità che lo spinge ad agire in determinati modi : Senofonte intende ancorare fortemente Socrate alla credenza in un ordine divino e in un intervento divino nella vita umana . Per Socrate l’importante non è vivere , ma vivere bene : quando la nostra anima è sana , giusta , allora anche noi stiamo bene . Sempre Senofonte nei ” Detti memorabili ” riassume la prova dell’esistenza di Dio formulata da Socrate in questi termini : ciò che non è opera del caso postula una causa intelligente , con particolare riguardo al corpo umano che ha una struttura organizzata non casuale . Per questa sua origine l’uomo è ritenuto superiore a tutti gli altri animali ed è oggetto dell’interesse di Dio , come si deduce anche dalla possibilità di conoscere i suoi progetti sull’uomo ricorrendo all’arte della divinazione . Va notato che il Dio socratico ( inteso come intelligenza finalizzatrice ) è una sorta di elevazione a entità assoluta della psychè umana . Molti hanno notato che gli accusatori non volevano in realtà condannarlo a morte , ma semplicemente zittirlo . Ma Socrate non può accettare di essere zittito : il suo destino è andare in giro a colloquiare con la gente . Vivere bene per Socrate significa svolgere quest’attività e non rifiutare di essere colpevole significava non far perdere significato alla sua vita . Dal momento che era già vecchio e gli restavano pochi anni di vita , tanto valeva farla finita lì , ma non rinunciare ai suoi ideali . Mentre la ricerca di Platone si spingerà in un’altra dimensione , quella di Socrate rimane saldamente ancorata al mondo terreno : la sua mIssione è far capire ai cittadini ciò che fanno . In Socrate vi è poi un rifiuto della politica (che peraltro troveremo anche in Platone ) : fa infatti notare che lui stesso aveva avuto parecchi problemi con la politica : prima contro di lui si erano scagliati gli oligarchici , ed ora i democratici (nell’accusa ai danni di Socrate si possono scorgere istanze politiche : lui era un aristocratico e i democratici volevano punirlo ) . Pur avendo problemi con la politica , Socrate non dice che vada abolita . Prima dell’esecuzione della pena capitale , a Socrate era stata presentata la possibilità di evadere dal carcere , ma lui si era rifiutato : in lui infatti vi era il massimo rispetto per la legge , che non si deve infrangere in nessun caso . La legge può essee criticata , ma non infranta : di fronte ad una legge ingiusta non bisogna infrangerla , ma bisogna battersi per farla cambiare . Socrate afferma che sarebbe stato suo dovere far cambiare la legge e che non essendoci riuscito è giusto che lui muoia . Gli Ateniesi son convinti di essersi liberati di Socrate avendolo eliminato fisicamente , ma in realtà per liberarsene completamente avrebbero dovuto ” ucciderlo filosoficamente ” , batterlo a parole . In realtà volevano farlo tacere , ma han sortito l’effetto opposto : Platone infatti , che era intenzionato a dedicarsi alla vita politica , resterà sconvolto per condanna del maestro e si dedicherà alla filosofia . In Socrate vi è una vaga idea di provvidenza divina , ma non collettiva , bensì individuale : la divinità aiuta solo i migliori . Celeberrima è la conclusione dell’ Apologia , in cui Socrate si rivolge ai suoi discepoli prima di essere giustiziato : ” Ma ormai è ora di partire : io verso la morte , voi verso la vita . Chi di noi cammini a una meta superiore è oscuro a chiunque : non al mio dio .” Nel ” Simposio ” di PlatonePlatone Alcibiade afferma che Socrate non assomiglia a nessuno degli uomini del passato e del presente : è una figura nuova . Non si interessa di politica , ma non la disprezza , non rifiuta i festini , ma non vi si identifica ( nel ” Simposio ” tutti i convitati si addormentano , Socrate no ) . Soffermiamoci ora maggiormente sulla tecnica discorsiva di Socrate : la confutazione è la tecnica che dimostra l’inconsistenza del sapere dei propri interlocutori . Ma per arrivare a questo risultato bisogna partire dal metodo delle domande e delle risposte . ” Che cosa è la giustizia ? ” può essere il punto di partenza per il dibattito : porre questa o qualsiasi altra domanda del genere significa richiedere la definizione delle cose in questione , che però deve essere valida per tutti i casi particolari . In questo senso la ricerca di Socrate è stata interpretata da Aristotele come ricerca dell’universale , nell’ambito dei concetti e dei problemi morali . Gli interlocutori di Socrate si dimostrano incapaci di rispondere correttamente alla domanda sia perchè sottovalutano Socrate (che dice di essere inferiore) sia perchè rispondono citando casi particolari , anzichè la definizione universale . Abbiamo già citato il caso della domanda ” Che cosa è il coraggio ? ” : rispondere ” non inditreggiare mai ” è sbagliato , così come dire ” assalire il nemico ” : si può essere coraggiosi anche nell’affrontare una malattia o un’interrogazione : una definizione corretta deve coprire tutti i casi possibili . Nella sua funzione negativa il metodo delle domande e risposte si caratterizza come confutazione , ossia dimostrazione della falsità o contradditorietà delle risposte date dall’interlocutore . Gli effetti prodotti dall’esercizio di questo metodo sono paragonati a quelli della torpedine marina , che intorpidisce coloro che tocca . Di fronte alla confutazione si può reagire rifiutandola , come fanno vari interlocutori di Socrate . Ma , se la si accetta , essa può liberare dalle false opinioni che si hanno sui vari argomenti e agire dunque come una forma di purificazione . La situazione , che risulta dalla confutazione , è detta aporia , ossia letteralmente situazione senza vie di uscita . Essa consiste nel rendersi conto che i tentativi sin qui percorsi di rispondere a un determinato problema , hanno condotto a un vicolo cieco . Ma in questa nuova situazione , liberi dal falso sapere e soprattutto dalla presunzione di sapere , ci si può accingere alla ricerca del vero sapere , tentando nuove stade che possano condurre ad esso . In questo nuovo orientamento il metodo delle domande e risposte può assolvere una funzione positiva . Essa è paragonata alla funzione svolta dalla maieutica , capace di far partorire ad ognuno , mediante domande opportunamente indirizzate , la verità , di cui ciascuno è gravido . Socrate si ostina incessantemente a far convergere i propri interlocutori nell’ammissione di un punto fondamentale : per saper agire bene , cioè virtuosamente , in un determinato ambito , occorre possedere il sapere che renda capaci di ciò . A questo risultato egli perviene mediante l’analogia con le tecniche : il buon artigiano che sa svolgere bene la propria attività possiede un sapere capace di guidarlo a questo risultato . La stessa cosa deve valere in ambito etico-politico : questo è il nocciolo della famosa tesi secondo cui la virtù è scienza . Questa tesi conduce ad alcune conseguenze . In primo luogo , chi conosce che cosa è bene e quindi anche che cosa è buono per lui non può non farlo . Il bene è dotato di un potere incontrastabile di attrazione . Ciò non significa che Socrate disconosca l’importanza delle passioni e delle emozioni nella vita umana , ma soltanto che in ogni ambito della vita umana l’unico strumento capace di orientare verso il comportamento corretto è ravvisato nel sapere . La posizione etica di Socrate non va confusa con forme di rigorismo ascetico . Essa è invece definibile come una forma di eudemonismo , perchè pone come obiettivo fondamentale il perseguimento della felicità (in Greco eudaimonia ) . E’ il sapere che è in grado di effettuare un corretto calcolo degli stessi piaceri , misurando le conseguenze piacevoli o dolorose che essi possono arrecare . Questo è il sapere , di cui Socrate dichiara di non essere in possesso , ma proprio per questo è il sapere che egli persegue . Non ha senso allora distinguere le varie virtù nettamente le une dalle altre : la virtù è una , come uno solo è il sapere in cui esse si compendiano : sapere che cosa è bene e che cosa è male .
FEDONE
Fedone di Elide, degli Eupatridi, fu catturato insieme con la caduta della sua patria e venne costretto a stare in una casa di malaffare. Egli riuscì ad allacciare i contatti con Socrate, e, dietro incitamento di quest’ultimo, Alcibiade, Critone e i loro amici lo riscattarono. Da allora, nuovamente libero, cominciò a dedicarsi alla filosofia. Fedone scrisse dialoghi, fra cui Zopiro e Simone. Diogene Laerzio nelle sue Vite dei filosofi menzionò anche altri titoli, però disse espressamente che alcuni non li ritenevano autentici.
Il nostro filosofo, a cui Platone dedicò l’omonimo dialogo, fondò una scuola nella nativa Elide.
Le testimonianze indicano che egli seguì due direzioni nella sua speculazione.
Il sillografo Timone lo accomuna a Euclide di Megara e sembrerebbe considerarlo, come Euclide stesso, un erista-dialettico.
Da altre fonti, in modo più determinato, risulta invece che Fedone si sia occupato prevalentemente di etica.
Nel suo Zopiro egli sosteneva che il logos (il logos socratico) non trova alcun ostacolo nella natura dell’uomo, nel senso che esso è in grado di dominare anche i caratteri più ribelli e i temperamenti più passionali.
Zopiro era un «fisiognomista»; egli riteneva di saper ricavare dalle fisionomie degli uomini il loro carattere morale. Basandosi sui tratti del volto di Socrate, egli sentenziò che il filosofo doveva essere un vizioso, suscitando la generale ilarità; ma fu proprio Socrate a difendere Zopiro, spiegando che tale egli era stato veramente, prima che il suo logos filosofico lo trasformasse.
Una conferma che tale fosse la tesi di fondo sostenuta da Fedone si trova anche in una lettera dell’imperatore Giuliano:
“Fedone riteneva che non ci fosse nulla di incurabile per la filosofia, e che in virtù di essa tutti potessero distaccarsi da tutti i generi di vita, da tutte le abitudini, da tutte le passioni e da tutte le cose di questo genere. Ora, se la filosofia avesse potere soltanto sugli uomini ben nati e ben educati, non ci sarebbe niente di straordinario in essa: ma che essa sappia portare verso la luce uomini che giacevano in siffatto stato [allusione allo stato di abiezione in cui era caduto Fedone], mi pare veramente essere prodigioso” (Giuliano, Epistola, 82, 445).
È evidente che Fedone approfondì un punto della filosofia socratica di cui aveva direttamente sperimentato l’efficacia. Infatti, come abbiamo visto, il logos di Socrate era stato capace di liberarlo dalla bassezza in cui era caduto restando prigioniero in una casa di malaffare.
La scuola di Elide ebbe breve durata.
A Fedone successe Plisteno, nativo di quella stessa città, il quale non impresse alcuno sviluppo alla Scuola che di fatto si esaurì.
In effetti, già una generazione più tardi, Menedemo e Asclepiade trasferirono la Scuola da Elide a Eretria.
PLATONE: Introduzione
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Maxi RiassuntoPlatone nacque ad Atene nel 427-428 a.c.e morì nel 348-347 circa : si è a lungo discusso sul suo soprannome ( Platone , infatti, é solo un soprannome , in quanto il vero nome era Aristocle ): si è concordi sul fatto che derivi dall’aggettivo greco “platùs” (ampio).Vi è chi sostiene che l’aggettivo vada attribuito alla larghezza e alla fluità del suo stile , chi è invece del parere che sia dovuto alla sua fronte particolarmente ampia e chi sostiene che fosse un soprannome datogli dal suo insegnante di ginnastica a causa dell’ampiezza delle sue spalle. Pur essendo un autore di circa 2400 anni fa ,egli affronta problemi che possiamo accomunare a quelli dei giorni nostri:la sua è un’ epoca di passaggio tra oralità e scrittura e lui è il primo ad affrontare questo problema.Di Platone possediamo praticamente tutte le opere(probabilmente molte gli sono attribuite pur non essendo effettivamente sue),ma paradossalmente egli stesso ci dice che la vera filosofia è solo orale.All’inizio del 1800 un teologo luterano di nome Schleirmacher effettuò un gran lavoro sulle opere di Platone ignorando però totalmente quanto abbiamo appena detto:egli esaminò infatti la filosofia platonica con il mezzo del “sola scriptura”(solo mediante la scrittura:era un celebre motto di Lutero):non si curò assolutamente del fatto che per Platone la filosofia fosse solo orale,rifiutando tra l’altro di servirsi di scritti non realmente platonici.Il teologo luterano ebbe però il merito di introdurre un altro metodo per esaminare la filosofia platonica:si trattava del sistema ermeneutico (la parola deriva da Hermes,messaggero ed interpretatore divino;in Italiano la parola ha assunto il significato di “tecnica dell’interpretazione”):era (ed è) infatti difficile definire la filosofia platonica,in quanto non ci troviamo di fronte ad un sistema,ma ad un insieme:il “corpus” platonico,come quello dell’Antico e del Nuovo Testamento,è costituito da una molteplicità di libri;la tecnica dell’ermeneutica consiste nel riuscire a contestualizzare un testo,al fine di comprenderlo,servendosi delle nozioni generali,in questo caso,della filosofia platonica:è come quando leggiamo un articolo di giornale;in realtà non partiamo proprio da zero e tramite la lettura dell’articolo ampliamo le nostre conoscenze.Platone fu discepolo del celebre Socrate e visse in prima persona l’ingiusta condanna del maestro (della quale si fa portavoce nell’ Apologia ):nasce proprio da questa esperienza la filosofia platonica.Egli rimane profondamente deluso dalla politica:prima vi era stato il governo filo-spartano dei Trenta Tiranni,di cui era membro niente meno che il suo stesso zio Crizia:Platone rimase deluso dal loro dominio dispotico e violento.Delusione e sfiducia gli procurò anche la democrazia restaurata,che nel 399 mandò a morte Socrate (in parte si trattava proprio di una condanna politica: Socrate era infatti un aristocratico e pur avendolo accusato di empietà e di corrompere i giovani,il vero motivo della condanna era di origine politica : i suoi “seguaci” ,mentre attendeva in carcere il giorno dell’esecuzione,prepararono un piano per farlo evadere,ma lui si rifiutò di compiere tale azione perchè era del parere che fosse un grande errore violare la legge : egli aveva infatti gran rispetto per la legge , che a suo avviso poteva essere criticata ma non infranta;quindi di fronte ad una legge ingiusta non bisogna reagire infrangendola,bensì battersi per farla modificare in meglio : e Socrate si accusa proprio di non essere riuscito a fare questo). Il tema della condanna di Socrate viene da Platone affrontato anche nel ” Critone ” , dialogo che prende il nome da Critone , un agiato ateniese coetaneo di Socrate e , come ci dice Senofonte , suo discepolo devotissimo . La scena si svolge nel carcere in cui Socrate deve soggiornare in attesa della morte . Critone cerca di persuadere Socrate ad evadere : tenta di convincerlo dicendo che se non fuggirà la gente biasimerà i suoi amici per non averlo aiutato ; Critone dice poi che tutte le difficoltà pratiche che la fuga comporta sono superabili e che rimanendo in carcere Socrate danneggerà se stesso , i figli e gli amici . Poi prende la parola Socrate , che si ostina a preferire la permanenza in carcere : a sua difesa dice che la vita di un uomo deve essere coerente con le sue dottrine : la legge non va violata in nessun caso : Socrate ha sempre rispettato le leggi e non vuole violarle proprio ora : è ormai vecchio e trasgredire le leggi dopo aver condotto una vita corretta , il tutto per vivere solo i pochi anni di vita che gli resterebbero , sarebbe un’assurdità , un’incoerenza . Il problema di fondo è se evadere sia giusto oppure no : per Socrate chiaramente non lo è , e commettere ingiustizia è gravissimo e più dannoso per chi la commette che non per chi la subisce . Socrate pronuncia poi una celeberrima frase : non bisogna tenere in massimo conto il vivere come tale , bensì il vivere bene , ed il vivere bene è lo stesso che il vivere con virtù e con giustizia . Se non avesse vissuto tale esperienza probabilmente si sarebbe dedicato ad attività di tutt’altro genere;egli infatti era aristocratico sia per origini sia per orientamento politico ed è proprio alla vita politica che egli si sarebbe dato se non avesse vissuto la condanna politica del suo maestro.La politica,tuttavia,è una componente che sarà sempre in qualche modo presente nelle sue opere . Perchè Platone amasse tanto l’oralità e il dialogo è facile intuirlo:il dialogo presenta parecchi vantaggi tra i quali la possibilità di interloquire e di modulare il discorso in base a chi ci si rivolge:un libro,invece,non consente un dibattito e può finire nelle mani di persone che potrebbero fraintenderlo;Platone stesso dice che c’è un aspetto che accomuna scrittura e pittura:le immagini dipinte si presentano quasi come se fossero vive,ma se si chiede loro qualcosa,chiaramente,tacciono;lo stesso vale anche per i discorsi scritti:si può quasi avere l’impressione che parlino,ma se si chiede loro di spiegare qualcuno dei concetti che hanno espresso,essi non rispondono.Tuttavia,come abbiamo detto,egli stesso ha scritto molto(sotto il suo nome ci sono giunti 35 dialoghi e 13 lettere,la cui stesura viene generalmente suddivisa in 3 periodi della sua lunga vita:la giovinezza,la maturità e la vecchiaia).Che funzione aveva dunque la srittura per Platone?Egli,pur prediligendo apertamente l’oralità,sente il bisogno di scrivere(probabilmente anche dettato dal periodo di transizione in cui viveva)e la scrittura svolge per Platone principalmente due ruoli:uno propagandistico,vale a dire cercare di invogliare alla filosofia,l’altro rammemorativo,cioè far ricordare la filosofia a chi già l’ha vissuta(ad esempio le persone anziane).Si può quindi dire che anche la scrittura avesse una sua utilità,pur non essendo un “filosofare”pieno:in una sua opera Platone la definisce “un gioco serio”,vale a dire un passatempo piu’ intelligente di molti altri.Egli argomenta in favore dell’oralità in un mito di ambientazione egizia,simbolo per i Greci di una grande civiltà:il protagonista è Teuth,divinità della scrittura e della saggezza.Egli è un inventore dalle grandi abilità e presenta le sue scoperte al faraone che le promuove sempre con entusiasmo;quando però Teuth propone l’invenzione della scrittura,spiegando che serve a ricordare,il faraone non approva,sostenendo che,al contrario,sortirebbe l’effetto opposto:mettendo le cose per iscritto,infatti,non è più necessario ricordarle.Proprio nel ricordare consisteva la sapienza:le posizioni del faraone possono un pò identificarsi con quelle di Platone.E’ un’evidente difesa dell’oralità mediante un mito platonico,inventato di sana pianta,cosa che per altro Platone faceva spessissimo.Può sembrare strano che un filosofo,che per definizione è chi cerca di dare spiegazioni razionali e scientifiche,si serva del mito,che non è nient’altro che una spiegazione fondata sulla tradizione e sulla religione:la verità è che per Platone il mito è una cosa al di fuori del comune,che ha ben poco a che fare con la tradizione.Egli sapeva bene che l’argomentazione razionale era migliore,ma sapeva altrettanto bene che un mito,una favola o una metafora possono sortire ottimi effetti:stimolano la fantasia,divertono e restano meglio impressi.Platone se ne serve dunque come arma impropria dell’intelletto.Inoltre è convinto che si possa dimostrare l’immortalità dell’anima,ma non razionalmente:si serve cosi’ di miti esplicativi,detti escatologici:non a caso si parla di “fede razionale”di Platone.Egli sfrutta inoltre i miti per descrivere particolari livelli della realtà:aveva in mente come una scala che vedeva il suo fulcro intorno all’essere,che corrispondeva al pieno livello di conoscenza(è pienamente conoscibile solo una cosa che è,che esiste pienamente):più ci si allontana dall’essere(sia più in alto,sia più in basso) e più la conoscenza diventa inferiore.Una cosa non pienamente conoscibile non è pienamente razionale ed il modo migliore per parlarne è il mito.Un mito molto interessante è quello raccontato nel “Fedro” ,una dei dialoghi più conosciuti:Platone tratta qui un argomento non pienamente raggiungibile con la ragione,anche se il nucleo è alquanto razionale:racconta dell’esistenza dell’anima e dell’incarnazione.Per Platone l’anima è una biga trainata da cavalli alati:essa è composta da tre elementi:un auriga e due cavalli.Nell’esistenza prenatale le anime degli uomini stavano con quelle degli dei nel cielo,con la possibilità di raggiungere un livello superiore,l’iperuranio,una realtà al di là del mondo fisico che si riconnette alla celeberrima teoria delle idee,che esamineremo in seguito,secondo la quale vi erano due livelli di realtà:il nostro mondo e le idee.L’auriga impersonificava l’elemento razionale,mentre i cavalli quelli irrazionali:ciò significa che la nostra anima è per Platone costituita da elementi razionali ed irrazionali.Dei due cavalli,uno,di colore bianco,è un destriero da corsa ubbidiente e con spirito competitivo,l’altro,nero,è tozzo,recalcitrante ed incapace:compito dell’auriga è riuscire a dominarli grazie alla sua abilità e alla collaborazione del bianco.Il nero si ribella all’auriga (la ragione)e rappresenta le passioni più infime e basse,legate al corpo.Il bianco rappresenta le passioni spirituali,più elevate e sublimi.Significa che non tutti gli aspetti irrazionali sono negativi e che è comunque impossibile eliminarli:si possono solo controllare con la “metriopazia”,la regolazione delle passioni.E’ una metafora efficace perchè è vero che guida l’auriga,ma senza i cavalli la biga non si muove:significa che le passioni sono fondamentali per la vita.Sta anche a significare che soltanto alla parte razionale,in quanto dotata di sapere,spetta il governo dell’anima.Anche le anime degli dei hanno i cavalli,ma solo bianchi.Lo scopo è arrivare all’altopiano dell’iperuranio:gli dei non incontrano particolari difficoltà,mentre le bighe delle anime umane hanno seri problemi perchè si creano ingorghi ed i cavalli neri tendono a volare nella direzione opposta,verso il basso.Accade spesso che le ali dei cavalli si spezzino e la biga precipiti sulla terra:questa è l’incarnazione.Una volta arrivato sulla terra,l’uomo non si ricorda più dell’altra dimensione,e vive con nostalgia:la vita dell’uomo non è nient’altro che un tentativo di tornare a quella situazione primordiale e le vie da percorrere per raggiungerla sono due,vale a dire la filosofia,che ci consente di vedere le ombre di quel mondo splendido,di cui quello terreno è solo un’imitazione,e la bellezza,una via più semplice,che fa nascere l’amore;se ha la meglio il cavallo bianco guidato dall’auriga l’amore assumerà connotazioni sublimi,se vincerà quello nero sarà un amore puramente fisico.La bellezza è una delle tante idee e filtra facilmente nel mondo sensibile perchè è coglibile per tutti grazie ad un senso,la vista.Secondo Platone per gli occhi degli innamorati intercorre un fluido che scorre fino al punto dove le ali dei cavalli s’erano spezzate cosi’ che si ricreano e si può tornare alla dimensione primordiale:il liquido che viene a contatto con l’ala spezzata le dà nuovo vigore facendola rispuntare;proprio quando essa sta ricrescendo,esattamente come i primi denti che spuntano,fa soffrire.Quando si è vicini alla persona amata,contemplandola scorre nuovo flusso che fa passare il dolore dell’anima alimentandola.Quando si è lontani dalla persona amata,invece,non arrivando più il flusso,le ali si inaridiscono e si seccano,accentuando il dolore e la sofferenza.Quindi l’innamorato farà di tutto per vedere il più spesso possibile la persona amata e solo in sua presenza starà bene.Il concetto di amore platonico che abbiamo oggi deriva dal medioevo e non è completamente corretto in quanto i Medioevali credevano che per un innalzamento spirituale non ci dovesse essere amore fisico;per Platone c’è una scala gerarchica dell’amore:nei gradini più bassi si trova l’amore fisico,ma per arrivare in cima ad una scala bisogna percorrere tutti i gradini.Per Platone l’anima ed il corpo hanno caratteristiche opposte:l’una è spirituale e legata all’Iperuranio,alla dimensione delle idee,mentre l’altro è puramente materiale,affine al mondo sensibile e terreno,e soprattutto è mortale.Mentre il corpo spinge l’uomo a cercare piaceri sensibili e di livello basso,l’anima lo induce a cercare piaceri sublimi e spirituali.Va senz’altro notato come Platone riprenda la teoria dei Pitagorici(e degli Orfici )secondo la quale il corpo è la prigione dell’anima(si giocava sulla parola greca “soma” che indica il corpo e “sema”,che indica invece la prigione).Il contrasto anima-corpo lo si affronta anche da un punto di vista gnosologico:il corpo talvolta ci aiuta a conoscere,talvolta ci ostacola:se si disegna un triangolo rettangolo e ci si ragiona,da un lato può essere un aiuto per passare all’astrazione e passare all’idea di triangolo,che è ben diversa dal triangolo disegnato che è solo un’imitazione mal riuscita,dall’altro può essere un ostacolo se ci si limita a ragionare su quel singolo triangolo senza passare al livello di astrazione.La principale differenza tra l’amore di oggi e quello dei tempi di Platone è che al giorno d’oggi abbiamo in mente un amore “bilanciato”,biunivoco,dove i due amanti si amano reciprocamente;ai tempi di Platone era univoco,uno amava e l’altro si faceva amare:nel mondo greco o l’uomo amava la donna o l’uomo amava l’uomo:l’omosessualità era diffusissima.Talvolta ci poteva essere un amore biunivoco,che Platone spiegava ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre tra gli occhi:secondo lui poteva venirsi a creare una situazione di “specchio”:in realtà l’amato vede negli occhi di chi lo ama se stesso perchè vede riflessa la propria bellezza;è una concezione mitica che rievoca i celeberrimi versi di Dante:”amor,ch’a nullo amato amar perdona…”:è come se chi è amato si innamorasse del sentimento stesso.Platone ci parla dell’amore(in Greco “eros”,che designa l’amore passionale ed irrazionale,diverso da “agapè”,l’amore puro)nel ” FEDRO “:in realtà gli argomenti trattati sono due:1)l’eros 2)la retorica.Quella di Platone,oltre ad essere un’epoca di passaggio tra oralità e scrittura,è anche un’epoca in cui emerge un importante quesito:come si fanno ad educare i cittadini?Vi era chi rispondeva che l’unica via era la filosofia(tra questi Platone stesso),e chi,come Isocrate,sosteneva che per tale funzione ci fosse la retorica.Platone,dunque,vuole argomentare in difesa della filosofia:le vicende si svolgono nella campagna circostante Atene,in una calda giornata estiva.Protagonista è Socrate ,che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di Platone sebbene man mano che l’autore matura tenda a sfumare;Socrate in campagna si imbatte in Fedro,un suo discepolo che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti.I due si siedono al riparo dal sole sotto un platano e Fedro mostra a Socrate un’orazione di Lisia,uno dei più grandi oratori greci,che si è appena trascritto:è un’orazione riguardante l’amore a carattere “sofistico”,si cercano cioè di dimostrare cose paradossali ed assurde:Lisia (va senz’altro notato come Platone ben riproduca lo stile lisiano)cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non ama:Lisia parte dal presupposto che l’amore sia una “follia” e che concedersi a chi ama è una stoltezza:si avrebbe un amore troppo “appiccicaticcio” che se mai si rompesse farebbe soffrire terribilmente l’innamorato-amante;poi dopo che è passato l’ardore iniziale si torna in sè e ci si rimprovera di esseresi comportati così da “rimbambiti” e si finisce per soffrire di continuo.Con una persona non amata è chiaro che ci si comporterebbe in tutt’altro modo:più che altro si penserebbe ad essere felici noi rispetto all’amato non amato . Socrate a sua volta imposta due discorsi:nel primo conferma la tesi lisiana,mentre nel secondo sostiene che il suo “demone”(una specie di coscienza personale-angelo custode che si fa sentire solo quando Socrate sta commettendo un errore) lo sta ammonendo,facendogli capire che sta clamorosamente sbagliando.Anche per Socrate l’amore è una follia,però,a differenza di Lisia,per lui è positiva:vi sono infatti follie dannose e negative,ma anche positive e benigne.Poi Socrate formula un nuovo discorso per farsi perdonare per quel che ha detto dal dio dell’amore (“Eros”).E’ difficile comprendere quale sia il tema centrale(l’amore?La retorica?);fatto sta che sono due argomenti strettamente connessi tra loro in quanto l’amore(l’eros)è una metafora per indicare la filosofia:questa stretta parentela Platone la esamina meglio nel “SIMPOSIO”(dal Greco sun+pino=bere insieme),il suo capolavoro : Socrate si sta dirigendo verso la casa del tragediografo Agatone quando incontra un amico;allora invita anche l’amico e quando sono ormai arrivati , Socrate comincia a riflettere intensamente.Durante i simposi (all’epoca non c’era la TV e le serate si trascorrevano cosi’)veniva nominato un simposiarca il cui compito era quello di dare un ordine alla discussione facendo passare la parola da un invitato all’altro e selezionare l’argomento da trattare.Si sceglie di parlare dell’amore:c’è chi dice che Eros è la divinità più giovane e più bella,chi dice che è la più vecchia in quanto forza generatrice di tutto,chi sostiene che sia una forza cosmica che domina la natura,chi suggerisce che sia un tentativo da parte di tutti gli enti finiti di eternarsi procreando,c’è chi è del parere che sia la divinità più valorosa in quanto riesce a dominare perfino la guerra,facendo riferimento all’episodio mitico secondo il quale Ares,il dio della guerra,sarebbe innamorato di Afrodite.Aristofane,celeberrimo commediografo,narra una storia semiseria:si tratta di un mito secondo il quale gli uomini un tempo erano tondi, sferici e doppi:questi esseri si sentivano forti e perfetti e peccarono di tracotanza;gli dei per punirli li tagliarono a metà e per ricucirli fecero loro un nodo(l’ombelico)sulla schiena;poi lo posizionarono sulla pancia perchè si ricordassero di quanto era successo ogni volta che guardavano in basso:questi esseri sentivano il bisogno di ritrovare l’altra metà e la cercavano disperatamente.Quando la trovavano si attaccavano e non si staccavano più neanche per mangiare e cosi’ morivano di fame;cosi’ gli dei crearono l’atto sessuale che consentiva di trovare un appagamento da questa unione.Questo mito originale ci spiega due cose:1)in ogni epoca i rapporti sessuali sono sempre stati etero e omo.2)il tentativo di ritornare ad una situazione primordiale.Notare che nel mondo greco la forma sferica è sempre vista come unità originaria perfetta( cosi’ era già in altri grandi filosofi quali Empedocle,Parmenide…).Se si leggono accuratamente tutti i discorsi ci si accorge che ognuno di essi contiene una parte di verità:il discorso finale di Socrate non sarà nient’altro che una sintesi in cui li unisce praticamente tutti.Egli racconta di essersi una volta incontrato con una sacerdotessa(Diotima)che gli ha rivelato tutti i misteri dell’eros:viene a proposito citato un mito riguardante i festeggiamenti divini per la nascita di Afrodite:tra le varie divinità ci sono anche Poros(astuzia,furbizia)e Penia(povertà).Essi,ormai ubriachi per l’eccessivo bere,si uniscono e viene cosi’concepito Eros,che ha quindi le caratteristiche dei suoi genitori:è ignorante,povero e brutto a causa di Penia,ma sa cavarsela sempre grazie a Poros.Non è bello,ma sa andare a caccia della bellezza;egli sente l’amore ed è soggetto della ricerca della bellezza e dell’amore,svolge le mansioni dell’amante e non dell’amato.Chiaramente se ricerca la bellezza significa che non la possiede:così il filosofo è privo e bisognoso del sapere (penia=povertà),ma ha anche le capacità di cercarsi e di procurarsi ciò di cui è privo (poros=astuzia,espediente);dato che Eros è privo di bellezza e le cose buone sono belle,manca anche di bontà;ciò che non è bello o buono,non è necessariamente brutto e cattivo;per Platone vi è un livello intermedio;tra il sapere e l’essere ignoranti la via di mezzo consiste nell’avere buone opinioni,senza però darne ragione;la posizione intermedia comunque non è un male perchè è uno stimolo per arrivare al top:chi si trova nella posizione più bassa sa di non potersi elevare e neanche ci prova,chi si trova in quella più alta non si deve impegnare perchè è già nella posizione ottimale:chi si impegna e lavora è chi si trova in una zona intermedia (i filosofi,che non sanno ma si sforzano di avvicinarsi al sapere).Tutti gli dei,gli aveva detto Diotima,sono belli e buoni e di conseguenza Eros non rientra nella categoria.Anche da questo punto di vista Eros riveste una posizione intermedia:non è un dio,ma neanche un mortale:è un qualcosa che nasce e muore di continuo;è una metafora con cui si vuole dimostrare che non si può mai possedere totalmente l’amore;è anche metafora della filosofia perchè l’uomo non possiede il sapere,ma si sforza per ottenerlo;può riuscire ad avvicinarvisi,ma non si tratta comunque di una conquista definitiva:il pieno sapere è irraggiungibile.Dunque Eros è una semi-divinità intermedia.Nella struttura sociale dell’epoca l’omosessualità era tipica dei filospartani e di coloro che avevano un’impostazione culturale arcaica:è questo il caso di Socrate e Platone.Il rapporto veniva vissuto “pedagogicamente”,vale a dire che era un rapporto di tipo maestro-allievo.A differenza dell’amore eterosessuale,di livello più basso in quanto volto al piacere fisico e alla procreazione materiale,quello omosessuale era di più alto livello in quanto volto alla procreazione spirituale:vengono fecondate le anime per procreare nuove idee.Propriamente in Socrate non si parlava di amore,ma vanno tenute in considerazione le affermazioni a riguardo della maieutica(Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre che era un’ostetrica:lei faceva partorire le donne,lui le idee): Socrate aveva quindi già in mente anime gravide da far partorire;Platone invece sostiene che ci sia una vera e propria fecondazione delle anime,che chiaramente non devono essere sterili.Ben si intuisce che la ricerca dell’amore combacia con quella della filosofia.Alla fine del Simposio irrompe improvvisamente il famoso Alcibiade,totalmente ubriaco,che racconta pubblicamente di aver fatto delle “avances” a Socrate ,che però non ha accettato:lui,bello,giovane,aitante con un vecchio decrepito che non ci sta:il che sta a significare che la bellezza esteriore conta meno di quella interiore,ed è anche un modo per ribadire il concetto della scala gerarchica dell’amore. Socrate non ci viene presentato come un asceta:egli è totalmente immerso nella sua realtà,ma non si lascia catturare:ai festini lui partecipa tranquillamente,pur non identificandovisi;dagli altri si distingue perchè mantiene sempre la sua capacità di giudizio(nel Simposio è l’unico a non addormentarsi).Nella LETTERA 7°(non si è certi se sia realmente opera di Platone:la maggior parte delle lettere,infatti,sono false in quanto compaiono dottrine posteriori a quelle platoniche.Si è quasi sicuri sull’autenticità della Lettera 7° in quanto sono effettivamente presenti le ideologie platoniche e lo stile;a supportare ulteriormente questa tesi sta il fatto che non è mai successo che un falsario abbia inventato un genere tutto nuovo come questo:la lettera 7° infatti è una lettera “aperta” finalizzata a fare “pubblicità” alle ideologie platoniche ) vi è una sua autobiografia dove ci racconta anche di un incontro con il tiranno di Siracusa Dionigi.Nella mente di Platone è fortemente radicata l’idea che ci sarà un buon governo solo quando o i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi;proprio la conoscenza dell’idea del bene rende legittima l’attribuzione del governo ai filosofi(conoscere il bene significa conoscere ciò che rende buone le cose);a sua volta,il governo della città dipende dal buon uso del sapere.Per chiarire in che cosa consista questo uso del sapere Platone introduce nella “Repubblica” ,una sua celebre opera,il mito “della caverna”;egli paragona il processo conoscitivo,che attraversa i vari gradi sino a culminare nella conoscenza dell’idea del bene,ad un processo di liberazione da catene che ci tengono imprigionati nel fondo di una caverna sino all’uscita alla luce del sole:Dopo che ci si è liberati dai legami sensibili che tengono imprigionati nella caverna rischiarata artificialmente soltanto da un fuoco,si arriva soltanto lentamente ad abituarsi alla luce del sole.Il sole è appunto l’analogo del bene.Platone si capaciterà definitivamente che quello dei filosofi re o dei re filosofi è un progetto irrealizzabile (lo stato ideale per Platone non è quindi realizzabile su questa terra:è solo un’idea,e come tale appartiene al mondo intellegibile delle idee) proprio da questo incontro;Platone cercò di insegnare la filosofia a Dionigi ed il risultato che ottenne fu che il tiranno scrisse un libro dove spacciava per sue le idee di Platone,il quale si indignò parecchio e ribadi’ che la vera filosofia è solo orale,è un dibattito aperto tra due o più individui dal cui “scontro”,come da quello di due pietre,prende vita una fiamma,che rappresenta la conoscenza che coglie l’uomo:secondo Platone,talvolta, è la conoscenza che si impossessa dell’uomo;a volte,invece,si serve della metafora della caccia per indicare che l’uomo deve andare alla caccia del sapere.Platone per definire la filosofia,oltre a quella dell’eros,si serve di un’altra efficace metafora:paragona la filosofia alla medicina che con Ippocrate aveva raggiunto livelli elevati.Per Platone la filosofia è come una sorta di medicina per l’anima.Ma non si accontenta di dire questo e attacca ancora una volta la retorica affermando che la filosofia sta alla retorica come la medicina alla gastronomia.La medicina si occupa del corpo e la filosofia dell’anima:pure la gastronomia si occupa del corpo,come la retorica dell’anima.La medicina però si occupa del bene del corpo,mentre la gastronomia del piacere;cosi’ vale anche per la filosofia e per la retorica:una si occupa del bene dell’anima,l’altra del piacere.La filosofia fornisce all’anima un nutrimento piacevole e sostanzioso.La retorica le fornisce solo un piacere:sentire una persona pronunciare discorsi raffinati ed eleganti è senz’altro piacevole,ma se sono privi di verità(come nel caso della retorica,che è proprio l’arte del parlare)sono totalmente inutili.vi è quindi una distinzione tra bene e piacere,che non si identificano affatto tra di loro:contro l’identità bene-piacere vi sono diverse argomentazioni da parte di Platone,nessuna delle quali risulta però totalmente convincente;fatto sta che ad avere a che fare con il piacere sono principalmente le persone peggiori.Platone dice che il piacere può essere considerato bene nella misura in cui è razionalmente controllabile (pare,per esempio,che Socrate non disdegnasse il vino,ma che comunque sapesse regolarsi);il bene può infatti riuscire a controllare il piacere.Dunque il vero piacere è quello che viaggia di pari passo con il bene,senza separarsene:tuttavia bene e piacere non si identificano:il piacere in alcune sue forme può essere un bene,in altre un male.Quindi l’argomentazione in realtà si limita a dire che piacere e bene sono due cose distinte e che tuttavia dove c’è piacere non c’è necessariamente male.Il piacere non esiste mai “puro”:è sempre accompagnato dal dolore:nel “Gorgia”,un’altra grande opera platoniana,si fa addirittura notare che il piacere ed il dolore sono la stessa cosa:un caso con cui possiamo esemplificare ciò che intendeva Platone è quello della fame e della sete,entrambe forme di dolore;il dolore consiste nel provare la sete(o la fame) e il piacere nel soddisfare l’esigenza bevendo(o mangiando,nel caso della fame);se sparisce il dolore,sparisce anche il piacere.Per cui se sparisse la sete,è vero che non soffriremmo più,ma non proveremmo neppure più piacere.Un quesito che ha sempre crucciato l’uomo è quello di come si fa a sapere,a conoscere.I sofisti sostenevano ch e non si può imparare perchè o già una cosa la si conosce o non la si conosce:nel secondo caso è impossibile trovare una cosa che non si sa cosa sia,come sia fatta. Socrate stesso aveva detto che non si poteva insegnare,ma solo imparare tramite la maieutica,la tecnica con la quale faceva partorire le anime.Questo tema Platone lo affronta soprattutto nel “Menone”.Ancora una volta Platone assume una posizione intermedia,servendosi in parte delle affermazioni dei sofisti:se è vero quel che dicono i sofisti e uno dei loro più grandi esponenti,Gorgia,(cioè che non si può imparare e quindi neanche insegnare),si può ricordare:una cosa che ci siamo dimenticati e ci torna in mente,non possiamo dire di conoscerla ma neanche di non conoscerla.Dunque per Platone il processo attraverso il quale si impara e si conosce è puramente di rammemorazione(in Greco anamnesis).L’unico modo di considerare il sapere come “ricordare”è quello di fare una ipotesi piuttosto strana(ragionare per ipotesi significa vedere quale è la condizione che bisogna ammettere perchè si verifichi un determinato fatto):l’unica ipotesi per Platone valida è quella della preesistenza dell’anima.Nel Menone il corpo viene visto proprio come prigione dell’anima.Anche nel “Fedone”,dialogo ambientato nel periodo dopo la condanna e prima della sua morte,Socrate parla con due Pitagorici a riguardo della preesistenza dell’anima:egli li porta a capire la questione servendosi di esempi:tira in ballo la scienza dell’uomo e quella della lira,che sono evidentemente diverse tra loro; Socrate afferma che agli innamorati,nel momento in cui vedono una lira o un vestito che il loro amato è solito usare,succede quanto segue:riconoscono la lira e nel pensiero colgono l’idea del ragazzo a cui appartiene la lira:la reminescenza consiste proprio in questo,riuscire a ricordarsi cose tramite vari “agganci”,aspetti che stimolano il ricordo.Nel “Menone” Socrate parla con uno schiavo privo di cultura e gli pone una serie di domande mirate e legate al teorema di Pitagora ;chiaramente lo schiavo non lo conosce,ma Socrate ponendogli solo domande specifiche lo porta alla soluzione:è un tipico caso di maieutica.L’unica spiegazione possibile è che lo schiavo si ricordi di un qualcosa che già conosceva,ma aveva dimenticato:dato che non l’ha conosciuto nell’attuale vita significa che l’ha conosciuto in un’altra dimensione(l’altopiano dell’iperuranio).Tale dimenticanza è legata al momento dell’incarnazione:nella sua vita terrena l’uomo può avere momenti in cui ricorda.L’apprendimento è quindi interpretato come il recupero di conoscenze acquisite dall’anima prima di incarnarsi in un corpo,ma dimenticate al momento della nascita e rimaste latenti in essa.Si definisce giustamente Platone “INNATISTA”,perchè sostiene che quando nasciamo sono già presenti in noi alcuni elementi di conoscenza.Lo schiavo il teorema ce l’aveva già nella sua mente,si trattava solo di ricordarglielo.Quali sono dunque le vie per ricordare?Un modo,come nel Menone ,è avere qualcuno che ci aiuti(Socrate),un altro(più impegnativo)è usare bene la propria esperienza(come nel caso di Pitagora ,che per primo si ricordò con la sua esperienza del teorema che gli viene attribuito:in realtà lui non l’ha inventato,se l’è solo ricordato per primo).Oltre a sostenere la preesistenza dell’anima,Platone era anche convinto della sua immortalità e della sua eternità:l’anima è viva per definizione e un corpo è vivo o morto a seconda che abbia o meno un’anima;l’anima,quindi,dà e toglie la vita.E’ un qualcosa che partecipa all’idea di vita e che di conseguenza non può partecipare a quella di morte,come il numero 3 partecipa all’idea di dispari e non può partecipare a quella di pari.Per Platone ciò che può corrompere l’anima è l’ingiustizia;essa però non può distruggerla:se l’ingiustizia,che è il suo male peggiore,non è in grado di annientarla,è chiaro che neanche i mali minori ce la faranno.L’anima,essendo increata,è anche eterna ed immutabile.Per Platone vivere significa prepararsi alla morte perchè il distacco dell’anima dal corpo va preparato moralmente:bisogna liberarsi dalle passioni legate al corpo superandole (un pò come era per i Pitagorici e per gli Orfici :occorreva purificarsi).Dal punto di visto gnosologico,l’anima disincarnata coglie facilmente le idee nell’Iperuranio;in Platone compare la frase “omoios teo”,che significa ottenere un tale perfezionamento da diventare tutt’uno con la divinità : dice questo nel Teeteto dove dice testualmente che ” non è possibile che i mali scompaiano del tutto perchè è una necessità che ci sia sempre qualcosa di contrapposto al bene , nè possono avere sede tra gli dei , ma si aggirano nella natura mortale e in questo nostro mondo qui . E’ per questo che bisogna anche sforzarsi di fuggire di qui a lassù al più presto . E fuga è rendersi simili a Dio secondo le proprie possibilità : e rendersi simili a Dio significa diventare giusti e santi , e insieme sapienti ” . Va poi ricordato che Platone aveva identificato diversi livelli di conoscenza,i cui 2 più importanti sono quello della conoscenza sensibile (doxa),basato su un sapere sensibile,instabile e dettato dalle opinioni,e della conoscenza intellegibile (episteme),sicura,certa e basata su cause vere e proprie.A noi viene da pensare che la differenza tra la doxa e l’episteme ad esempio quando osserviamo un libro consista nel conoscerlo meglio o peggio;pensiamo che guardandolo si abbia una conoscenza sensibile e superficiale,mentre esaminandolo da un punto di vista geometrico se ne abbia una intellettuale.Platone invece è convinto che ad ogni livello di conoscenza corrisponda un oggetto preciso:non è che cogliamo il libro prima con i sensi e poi con l’intelletto.Per Platone dopo che esaminiamo attentamente il libro in modo sensibile,esso ci rievoca con le sue forme geometriche l’idea di parallelepipedo,che è totalmente differente dal libro stesso.Infatti il libro partecipa all’idea di parallelepipedo,cioè la imita,ma non lo è:quando in matematica si dimostra su un parallelepipedo disegnato,in realtà si dimostra sull’idea stessa di parallelepipedo:le regole di dimostrazione valgono per tutti i parallelepipedi perchè in realtà vanno riferite solo all’idea del parallelepipedo;d’altronde le misure che risultano dalla dimostrazione non potranno mai essere esattamente compatibili con quelle del nostro disegno:lo sono esclusivamente con quelle dell’idea (quando noi diciamo di disegnare un triangolo rettangolo,diciamo un’assurdità perchè è impossibile che un angolo risulti esattamente di 90°:in realtà esiste solo l’idea di triangolo rettangolo).Di conseguenza ci sono anche 2 soggetti conoscitivi:a conoscere il libro è la sfera del sensibile(il corpo),mentre a conoscere il parallelepipedo è la sfera dell’ intellegibile(l’anima).Tutto questo dimostra che vi è una stretta parentela tra l’anima e le idee,che non a caso Platone dice essere costituite dello stesso materiale metafisico ed entrambe eterne:vale a dire che sono immutabili.Che cos’è la dottrina delle idee?La parola “idea”,innanzitutto,deriva dalla radice greca “id-“che è a sua volta riconducibile al verbo “orao”,vedere:è quindi qualcosa che si può vedere ma non con gli occhi,bensi’ con l’intelletto;la percezione degli oggetti sensibili risveglia il ricordo delle idee dell’iperuranio,le quali permettono di misurare l’inferiorità e la deficienza degli oggetti sensibili rispetto ad esse.Cosi’ qualunque oggetto sensibile possa essere detto bello, non coincide mai con l’idea della bellezza nella sua perfezione ed immutabilità.L’idea di bellezza,per esempio, è il modello ed il criterio in base al quale possiamo denominare belli determinati oggetti:infatti è perchè già possediamo l’idea di bellezza che possiamo designare belli questi altri oggetti.Nei primi dialoghi Platone aveva presentato l’indagine di Socrate proiettata alla ricerca di definizioni ( un dialogo in cui troviamo un Socrate proiettato alla ricerca di definizioni é , per esempio , l’ ” Ippia Maggiore “ , che ruota tutto intorno alla ricerca del bello ),ossia di risposte corrette alla domanda:”Che cos’è x ?”(dove x sta per bello,giusto…).Per Platone la risposta a questa domanda consiste nel rintracciare l’idea in questione(per esempio l’idea di bellezza,di giustizia…).L’idea è dunque un “universale”:ciò significa che i molteplici oggetti sensibili,dei quali l’idea si predica,dicendoli per esempio belli o giusti,sono casi o esempi particolari rispetto all’idea:una bella persona o una bella pentola sono casi particolari di bellezza,non sono la bellezza.Mentre gli oggetti sensibili sono caratterizzati dal divenire e dal mutamento,soltanto delle idee si può propriamente dire che sono stabilmente se stesse;proprio questa differenza di livelli ontologici,ossia di consistenza di essere,qualifica le idee come modelli rispetto agli oggetti sensibili corrispondenti.L’attività di un artigiano,per esempio di un costruttore di letti,è descrivibile da parte di Platone come un insieme di operazioni che mirano a foggiare un determinato materiale (in questo caso il legno) secondo il modello dell’ idea del letto,alla quale egli si riferisce costantemente con il suo pensiero.L’idea è quindi dotata di esistenza autonoma,nè dipende per la sua esistenza dal fatto di poter essere pensata;essa è ciò di cui gli oggetti sensibili partecipano.La partecipazione all’idea,per esempio,di bellezza rende un determinato oggetto sensibile bello.Si usa solitamente dire che le idee abbiano una triplice valenza:1)Ontologica (dal participio del verbo essere greco):due cavalli,per esempio,si assomigliano perchè compartecipano all’idea.L’idea rende conto di ciò che una cosa è.Le cose sono infatti quel che sono perchè imitano le idee.2)Gnosologica (dal verbo greco “gignosco”,conoscere):noi conosciamo le cose perchè facciamo riferimento all’idea di uguaglianza:nella realtà empirica l’uguaglianza non esiste;essa esiste in un’altra dimensione.Due uomini si assomigliano perchè partecipano entrambe all’idea di uomo.3)Assiologica (da “axiologia”,la scienza che studia i valori):l’idea è il modello (in Greco “paradigma”) imitando il quale ogni cosa tende al bene,che è lo scopo di ogni cosa:per un cavallo il bene sarà correre veloce.Ovviamente le imitazioni non potranno mai essere uguali al modello;questo avviene per diversi motivi:uno che merita di essere ricordato è che le idee nell’iperuranio non avevano nè forma,nè colore,nè dimensioni…quindi se disegnamo un triangolo bianco è già diverso dal modello che non aveva alcun colore e che paradossalmente li aveva tutti.Platone sostiene quindi la causa finale:secondo lui la causa il motivo per cui avviene una cosa è il suo fine stesso;la causa finale di una casa è farvi abitare della gente:ci sono però anche delle “concause”(che noi definiremmo “la condizione senza la quale…”),in questo caso i mattoni,il cemento…la vera causa finale però è l’idea stessa,sul modello della quale la casa viene costruita:il fine della casa infatti è essere fatta sul modello dell’idea di casa,cioè nel migliore dei modi:il meglio di ogni categoria corrisponde infatti alla sua idea.I sofisti avevano individuato solo una causa riferita alla materia;Platone non accetta questo e dice,servendosi di una metafora legata alla tecnica della navigazione,che la loro “prima navigazione” era fallita,e che quindi lui si serve della “seconda navigazione”,quella che si usa quando non c’è vento e ci si serve dei remi:è una navigazione più faticosa,ma più sicura.Della “seconda navigazione” Platone ce ne parla nel “Fedone”:Socrate racconta che in gioventù era stato attratto dalla scienza naturale,che era tipica dei sofisti (non a caso Aristofane nelle sue commedie ce lo presenta come un sofista con la testa fra le nuvole)ma poi se ne era allontanato per dedicarsi alla vera filisofia e aveva così effettuato la seconda navigazione . Anassagora , fra i filosofi naturalisti, sembrava, con la sua dottrina del “Nous”, aver trovato la vera causa delle cose. Ma a questa affermazione, di per sé eccellente, Anassagora non seppe dare adeguato fondamento. Infatti, il “Nous” avrebbe dovuto spiegare come tutti i fenomeni siano strutturati in funzione del meglio, presupponendo quindi una precisa conoscenza, da parte del “Nous”, del Bene e del Male. Ma Anassagora non ha saputo fare questo e ha continuato ad assegnare agli elementi fisici – le “omeomerìe” – un ruolo di causa determinante. Gli elementi fisici sono solo una causa ausiliare, non la vera causa. Ma se vogliamo spiegare la «vera causa» noi non possiamo riferirci a cause fisiche; la vera causa, ossia la causa reale, è l’Intelligenza che opera in funzione del meglio. Occorre guadagnare quel «meglio», ossia quel «Bene», in funzione di cui opera l’intelligenza, il quale sta al di là del fisico e del sensibile; occorre quindi guadagnare il piano dell’essere intelligibile, metasensibile, ovvero l’essere «metafisico». La verità delle cose sta appunto nelle realtà intelligibili, che Platone ha chiamato “Idee”, pure forme, eterni modelli delle cose, rispetto alle quali le cose sensibili sono un mezzo o strumento di realizzazione, non quindi l’essenza delle cose, ma ciò mediante cui l’essenza si realizza nella sfera del sensibile . Questa scoperta delle Idee come vero essere, intelligibile, incorporeo, immutabile, in sé e per sé esistente, è stato in passato considerato il vertice speculativo del pensiero platonico (oggi noi sappiamo che Platone, nelle «Dottrine non scritte», si è spinto ancora oltre con la teoria dei Principi primi e supremi.). Hegel scriveva addirittura che proprio nella formulazione della dottrina delle Idee sta «la vera grandezza speculativa» di Platone, «grazie alla quale egli segna una pietra miliare nella storia della filosofia e quindi nella storia universale»(Hegel, “Lezioni sulla storia della filosofia” . Socrate (e anche Platone) non solo si era allontanato dai sofisti,ma addirittura cercava di far comprendere ai suoi concittadini che il loro metodo era sbagliato:essi non danno motivazioni razionali e partono dal presupposto (in particolare Protagora) che non esista una verità:l’uomo è misura di tutte le cose);per di più i sofisti si fanno pagare per i loro discorsi raffinati e privi di verità;per dimostrare la loro bravura effettuano dimostrazioni assolutamente paradossali (vedi quella di Lisia);Platone non può tollerare che “vendano”il sapere:è una cosa sbagliatissima e a riguardo si esprime nel “Protagora”;va però detto che per lui la vita era facile:era nato ricco e non aveva problemi economici:ma non tutti si trovavano nella sua stessa condizione.L’errore consiste soprattutto nel considerare il sapere alla pari delle altre cose,vendibile come esse:il rischio nell’acquisto degli insegnamenti è molto più grande rispetto a quello ,per esempio, del cibo,con il quale abbiamo un rapporto di “incorporazione”:i cibi,però,si possono portare a casa in recipienti e analizzarli con calma,mentre le cognizioni le si devono mettere alla prova su se stessi,sulla propria anima;il che può essere tanto un bene quanto un male ed in entrambe i casi non si può più tornare indietro:è un processo irreversibile.Acquisire nuove conoscenze,infatti,significa cambiare in un senso lineare ed inevocabile,e non semplicemente soddisfare un bisogno che si ripresenta ciclicamente e che deve essere soddisfatto per la sopravvivenza.Il rapporto che si instaura tra il commerciante ed il cliente è di manipolazione:chi vende si interessa solo di sfruttare a proprio vantaggio un bisogno altrui o addirittura di suscitare negli altri un bisogno che non hanno.Socrate dice poi che ad Atene,città democratica per eccellenza,tutti hanno voce in capitolo quando è il momento di prendere le decisioni,mentre nelle altre arti (per esempio la medicina) c’è una divisione del lavoro che porta ad affidare le scelte tecniche a persone competenti e non a chiunque.Di conseguenza per gli Ateniesi la politica non è insegnabile;infatti se tutti hanno voce in capitolo e dicono la loro,significa che tutti la conoscono già e non occorre insegnargliela,meno che mai a pagamento. Protagora replica affermando che lui insegna l’arte politica,che consiste nell’amministrare con senno tanto la propria casa quanto le questioni pubbliche. Platone passa dal concretismo sofistico all’astrattismo.Nella teoria delle idee traspare una sorta di ambiguità,che nasce dalla diversità delle valenze ontologiche ed assiologiche:infatti l’idea dovrebbe rendere conto di ciò che una cosa è,e di ciò che dovrebbe essere:il che è contradditorio,ma perchè non siano contrastanti bisogna supporre che l’essere ed il dover essere siano lo stesso.Ciò nella realtà è chiaramente impossibile, e Platone lo sapeva bene.La condizione pare essere che l’essenza di ciascuna cosa stia nel tendere a realizzare una determinata idea.L’essere è quindi concepito come stato dinamico e di tensione.Platone ha una concezione trascendente della realtà:ogni essere che appartiene al mondo fisico,secondo Platone, ha la propria essenza fuori di sè:si trova nell’idea.L’idea sta quindi oltre l’esistenza fisica;noi uomini non siamo al 100%100 dentro di noi;una delle parti più importanti si trova fuori.Chiaramente le parole che Platone mette in bocca a Socrate non sappiamo se siano effettivamente di Platone o di Socrate : man mano che matura Platone tende sempre più a elaborare e a reinterpretare i discorsi di Socrate ,mettendogli in bocca proprie idee.Va senz’altro ricordato che Platone fu il fondatore di una scuola(l’Accademia)dove veniva fornita un’impostazione culturale che spaziava nei campi più vasti e che si prefiggeva di selezionare coloro che avrebbero dovuto continuare gli studi per poi governare rettamente,oltre ad insegnare il bene(che non si identifica con il piacere:la filosofia fornisce bene all’anima,la retorica piacere;è questo il tema trattato nel “Gorgia”.I beni sono molteplici,ma il bene vero e proprio è per l’uomo è quello che riguarda la sua anima.Da questo punto di vista la filosofia si costituisce come medicina,come terapia dell’anima.Dove si può apprendere il bene?Non di certo nella città,che ha condannato ingiustamente Socrate,il suo uomo migliore;la vera sede per cercarlo diventa la scuola filosofica):si basava quindi sulla selezione.Per arrivare al potere non bastava essere figli di governanti,bensi’bisognava dimostrarsi idonei di svolgere tale ruolo.Tutti gli studenti venivano quindi messi alla pari e a creare le distinzioni tra loro era solo il merito del singolo.Questo ben rispecchia gli orientamenti politici aristocratici (la parola stessa “aristos”migliore+”crazia”forza,indica che il potere dev’essere in mano a chi se lo merita ed è superiore agli altri) di Platone.Le due materie che venivano maggiormente trattate erano la matematica e la filosofia:la prima,che era volta alla conoscenza degli enti matematici,eleva l’anima umana dal mondo sensibile a quello intellegibile,portando all’astrazione;la seconda perchè fornisce le conoscenze della realtà vera,di quei modelli perfetti della realtà cui tende l’anima umana .
La “REPUBBLICA” è l’opera in cui affiorano maggiormente tutti i temi di Platone:è un libro composto a sua volta da 10 dialoghi dove in particolare emerge il pensiero politico platoniano;come abbiamo già detto Platone era rimasto molto deluso dalla politica della sua città che aveva condannato il suo uomo più giusto e per lui lo stato ideale è quello in cui l’uomo giusto può trovare il suo collocamento senza essere tormentato;molto deluso era anche rimasto dall’incontro con il tiranno di Siracusa e si accorge quindi che il suo concetto di stato è inattuabile,puramente ideale:come ogni altra idea,anche quella di stato va imitata,sebbene sia impossibile riuscirvi totalmente.Si dice spesso che lo stato platoniano sia una utopia,vale a dire un qualcosa che non sta da nessuna parte . Netta pare la distinzione tra il primo “libro” della repubblica,probabilmente scritto in gioventù, e gli altri:è il dialogo tra Socrate ed un sofista,che dà una definizione di giustizia:essa per lui è il diritto del più forte;egli sostiene,come molti altri sofisti,che gli uomini per natura nascono diversi,chi più forte e chi più debole,ed è solo la legge che li fa uguali:per lui la legge non è nient’altro che un’ingiustizia dei più deboli nei confronti dei più forti,che dovrebbero dominare per natura.Per il sofista il modello d’uomo ideale è il tiranno,colui che ha fatto valere la sua superiorità sui più deboli:il tiranno è l’uomo più felice e potente.Il primo libro termina con la confutazione di Socrate delle tesi del sofista:per lui ci deve essre per forza una giustizia,in quanto l’ingiustizia che predicava il sofista non può esserci,perchè tende ad eliminarsi da sè:Socrate porta l’esempio dei briganti,ingiusti per eccellenza;anche dopo che hanno commesso ingiustizie rubando,per dividersi il bottino dovranno pur applicare qualche norma.A partire dal 2° libro Socrate imposta il suo discorso cambiando prospettiva,sostenendo che il modo migliore per esaminare l’uomo giusto sia vedere le cose più in grande:dov’è che esiste più in grande il concetto di giustizia?Certamente nello stato;Socrate mirerà a dimostrare l’opposto del sofista:per lui l’uomo ingiusto non è il più felice.Socrate aveva già più volte affermato che la giustizia rende automaticamente felici:nel libro 10° della Repubblica Platone ci spiega attraverso un mito escatologico ( che possiamo in qualche modo paragonare a quello presente nel Gorgia , il mito dei morti ) che la giustizia conduce alla felicità anche nel mondo ultraterreno . Tuttavia Socrate dovrà anche confutare la critica mossagli dall’ aristocratico Glaucone , che sostiene che si é giusti solo per timore di essere scoperti ; non solo , ma chi é ingiusto conduce una vita molto più felice rispetto al giusto . Glaucone argomenta servendosi del celebre mito di Gige , il pastore che imbattutosi in un anello capace di rendere invisibile chiunque se lo fosse infilato , da giusto che era divenne ladro e omicida , diventando ingiusto proprio perchè non poteva essere scoperto ; Socrate potrà ribattere servendosi della super-idea del bene . Socrate imposta poi il suo discorso tratteggiando lo stato ideale,partendo da zero:uno stato nasce secondo lui da esigenze materiali e per soddisfare dei bisogni;dal momento che ci sono diverse tecniche per soddisfarli,occorre selezionarle.A suo parere uno stato per funzionare deve avere tre classi sociali:1)i governanti.2)i difensori.3)i produttori.Ogni classe deve svolgere le sue funzioni,che non sono però di ugual livello,sebbene siano tutte fondamentali;è una chiara prospettiva aristocratica.In realtà la classe dei governanti si costituisce tramite la selezione di difensori che maturando diventano governanti:la forza fisica cede il passo a quella intellettuale e morale.Questa tripartizione ebbe enorme successo nella storia:nel Medioevo,per esempio,la società era suddivisa in oratores,bellatores e laboratores.E le donne che funzione avevano?Platone è stato il primo ad affermare che non ci siano propriamente lavori maschili e lavori femminili;tuttavia era convinto che in ogni campo gli uomini fossero superiori e riuscissero meglio. La città ideale di Platone è aristocratica,cioè governata da coloro che risultano essere i migliori ed i più idonei a svolgere tale compito;i migliori vengono selezionati in base al loro talento e non al fatto che i loro genitori potessero essere governanti;tuttavia egli ammette che ci sia una sorta di ereditarietà:ciò non significa che i giovani venissero selezionati per la loro discendenza,ma è un dato di fatto che coloro che mostrano maggiori attitudini per il governo sono proprio i figli dei governanti.Per selezionare occorre effettuare 2 lavori:1)la selezione vera e propria,2)sviluppare le propensioni dei selezionati.In realtà lo stato delineato da Platone è lo stato spartano idealizzato:a quei tempi presso gli aristocratici era visto come il top dell’organizzazione.Ma Platone tratteggia anche le possibili degenerazioni statali e proprio tra queste ci sarà lo stato spartano che era in realtà dominato non da aristocratici,ma da militari e proprietari terrieri.Secondo Platone ad ogni classe sociale spetta una virtù;poi ce n’è una comune a tutti e tre i gruppi:in tutto sono 4 le virtù (anche nel Cristianesimo ci sono le virtù,4 cardinali e 3 teologali:le 4 cardinali l’uomo le possiede per natura,le 3 teologali deriverebbero dalla divinità e sono fede,carità e speranza) e si suddividono così:1)sapere2)coraggio3)temperanza4)giustizia.I governanti,come abbiamo già detto,devono essere filosofi e quindi la loro virtù è il sapere;quella dei difensori è il coraggio che serve loro per difendere strenuamente lo stato;i produttori devono invece essere dotati della temperanza,devono cioè sapere che vi è chi governa e chi lavora;è una virtù che in realtà appartiene un pò a tutti,ma soprattutto a loro che devono obbedire.In termini moderni la temperanza è il consenso:se non c’è una diffusa convinzione del fatto che ci sia chi governa e chi lavora lo stato non può reggere.Bisogna tenere a mente che Platone sta sì parlando per bocca di Socrate per delineare la giustizia statale ideale ma solo per tratteggiare l’uomo giusto:si serve dello stato per poter operare su un modello più grande.La “Repubblica” viene spesso letta solo in chiave politica sebbene la politica sia in secondo piano:il tema centrale è proprio l’uomo giusto e la sua formazione.Per esempio descrive le degenerazioni statali per delineare parallelamente quelle umane;a sostenere la tesi che sia un libro il cui fulcro è l’uomo è il 10° libro che con un mito escatologico spiega che ne sarà dell’uomo giusto nell’aldilà.Nella “Repubblica” Platone ripropone la tripartizione dell’anima che corrisponde esattamente a quella statale,dettata dal fatto che non in tutti gli uomini prevale la stessa parte dell’anima:quella razionale (l’auriga) dominerà nei governanti,i quali ricercano il sapere razionale;quella irascibile (il cavallo bianco)prevale nei difensori,che agiscono mossi da orgoglio;quella concubiscibile (il cavallo nero) avrà la meglio sui produttori.Possiamo così comprendere perchè Platone la chiami temperanza:le varie parti dell’anima capiscono che bisogna tenere a bada,temperare, quella concubiscibile.Platone definisce un uomo più forte di se stesso quando la parte razionale tiene a freno le altre,vale a dire quando l’auriga ha la meglio.La giustizia è la 4° virtù : si ha giustizia quando ciascuno svolge le proprie mansioni e non pretende di svolgere ruoli che non gli spettano.Sparta era una oligarchia militare e quindi era ingiusta in quanto svolgevano le mansioni di governanti persone non idonee e a detenere il potere non sono necessariamente i migliori.Atene,città democratica, era anche messa peggio:era retta dalla 3° classe,i produttori;Platone definisce la democrazia il governo degli incompetenti,dove bisogna ascoltare il parere di qualsiasi stolto e dove ciascuno pensa solo a se stesso.Lo stesso vale per l’uomo:l’uomo giusto non si lascia trascinare dai piaceri (tanto meno da quelli fisici) ed è felice perchè la giustizia stessa fornisce un piacevole senso di benessere;la parte irascibile (cavallo bianco),vincolata dall’orgoglio, si vergogna dei piaceri e aiuta l’auriga a tenerne l’anima distante.Per Platone il tiranno è schiavo della parte peggiore di se stesso,del cavallo nero:è quindi ingiusto perchè nel contesto dell’anima non spetta al cavallo nero di comandare ed infelice perchè privo di giustizia.Un dubbio che può sorgere è come si ottiene il consenso o temperanza che dir si voglia:Platone dà una spiegazione tramite un mito,che può quindi anche rivestire una funzione politica:per convincere afferma che gli uomini siano stati forgiati con 3 diversi metalli (oro,argento,ferro):ci sono quindi differenze naturali tra gli uomini e quindi la tripartizione è necessaria e giustificata.Si ha consenso quando si ha una ideologia diffusa:la parola ideologia ha una lieve sfumatura negativa,come se si affermasse qualcosa non proprio corretto ma fatto passare per buono:è proprio il caso del mito platonico con valenza politica;Platone parla anche in questo caso di menzogne buone e necessarie per il consenso.Per lui,comunque,quando lo stato è felice,allora anche tutti i gruppi lo sono.Secondo le concezioni liberali e moderne è l’opposto:quando i singoli stanno bene,anche lo stato procede felicemente.Platone,per motivare quanto detto,si serve di una concezione “organicista”:se il nostro organismo sta bene,allora ogni singolo membro sta bene.dire concezione organicista,non significa che le singole parti debbano per forza essere subordinate alla totalità:Platone dice che da un lato conta il tutto,ma che dall’altro se il tutto è felice anche le parti lo sono.Come possono essere esse felici?Platone non si limita alla precedente argomentazione organicista;egli pone dei limiti allo stato:non deve essere troppo ampio perchè uno stato è tale solo quando i suoi abitanti hanno la consapevolezza di formarlo;uno stato troppo esteso è anche difficilmente controllabile.Platone vedeva lo stato come una grande famiglia basata sull’armonia e sulla solidarietà:per creare questa situazione bisogna a suo avviso eliminare la famiglia naturale in modo che gli abitanti dello stato considerino propri familiari gli altri abitanti;bisogna poi eliminare la proprietà che frammenta la società.E’ un comunismo radicale ed estremista dove bisogna addirittura vivere insieme;lo scopo è far sì che i cittadini concepiscano un forte senso di solidarietà:ciascuno lavorerà e difenderà lo stato come farebbe con la propria famiglia.Probabilmente Platone prese spunto dalla società spartana arcaica e militare improntata sul governo oligarchico-militare.Questo comunismo per Platone deve riguardare solo alle due classi superiori,che devono governare.Bisogna eliminare gli interessi personali in modo tale da evitare che i governanti tutelino i propri interessi accecati dalla smania di denaro,tralasciando quelli altrui.L’obiezione di fondo che solitamente si muove,al di là dell’estremismo,è che i governanti,condannati ad una scelta così rigida,condurrebbero una vita tristissima.La società è fortemente gerarchizzata e sul piano materiale sono avvantaggiati i produttori,che vivono normalmente e possono arricchirsi.Quindi può sembrare che i ceti superiori siano infelici;in realtà i governanti ed i guardiani che poi lo diverranno hanno un talento naturale e sono già stati selezionati ed educati dallo stato;da questa educazione trarranno enormi vantaggi e saranno poi chiamati a governare,sebbene contro la loro volontà:infatti vengono educati alla sapienza e alla conoscenza,che comprenderanno essere le cose più importanti ed utili di tutte;dello stato non gliene importa nulla,così come non gli importa delle ricchezze materiali:la sapienza rappresenta una ricchezza morale molto più importante e duratura.Verranno però poi chiamati a governare proprio perchè non vogliono!Secondo Platone infatti lo stato va amministrato da chi non vuole farlo,da chi ha raggiunto un alto livello di educazione e ha compreso che ciò che più conta è il sapere,e non da chi vuole amministrarlo,in quanto lo farebbe solo per interessi personali.Vivranno quindi la maggior parte della loro vita dedicandosi alla cultura,ma saranno poi costretti a governare per un pò:lo devono allo stato che li ha allevati e mantenuti negli studi.E’ un dovere morale.Guardiamo ora alle singole classi sociali.i governanti (ed i difensori) nel complesso fanno ciò che desiderano,svolgono cioè la loro vita dedicandosi al sapere (il periodo in cui governano,come abbiamo detto,è breve);ai produttori non interessa il sapere e sono felici di arricchirsi materialmente e perseguire questi strumenti inferiori di felicità.Quindi è una società (ideale) felice anche nelle sue singole parti.Platone viene anche criticato per aver creato uno stato totalitario,che vuole organizzare totalmente la vita dei singoli,la cui vita non conta nulla di per sè,se non in funzione dello stato:si può portare come esempio il caso che Platone cita in uno dei 10 libri:l’ eugenetica (dal Greco eu,bene,+gignomai,nasco,=nascere bene);lo stato sceglie gli individui da far accoppiare in modo tale da avere una discendenza perfetta.Un filosofo di posizioni liberali,Popper,criticava la società di Platone,perfetta e totalitaria,ed era in favore di una società aperta,che avesse la possibilità di correggersi e di migliorare: Popper era del parere che creare una società perfetta fosse impossibile perchè l’uomo stesso è imperfetto per natura.La società aperta è inferiore a quella totalitaria platonica,ma ha conoscenza della propria inferiorità e sa correggersi cambiando in continuazione:una società perfetta non ha motivo di fare questo.Platone insiste invece sull’immutabilità:la società per lui è perfetta così com’è e non deve assolutamente cambiare.Popper ha però commesso un errore dimenticandosi nella foga che Platone parla di un’idea statale:un’idea,per definizione,non è mai realizzabile:è solo un punto verso cui muovere.Nelle “Leggi”,opera incompiuta,Platone delineerà lo “stato secondo”:dal momento che quello delineato nella “Repubblica” è puramente ideale,Platone ne tratteggia uno attuabile,dove prende gli aspetti migliori di ogni governo in modo tale da creare il miglior stato tra quelli attuabili (questa soluzione piacque molto in seguito ed è considerata il punto di partenza dello stato “misto”.Il ragionamento di Popper è dunque in parte fuori luogo:se ipotizzassimo la società perfetta,perchè mai dovremmo cambiarla?Perchè cambiare qualcosa di perfetto?Potrebbe cambiare solo in peggio.Abbiamo detto che lo stato delineato nella “Repubblica” è un’utopia ed è interessante notare la distinzione tra i due aggettivi che ne derivano;”utopistico” è un qualcosa di negativo che si pretende realizzabile,ma che per fortuna non lo è:utopistico è il Comunismo ideale.”Utopico” è un concetto tipicamente progressista che induce a vedere il mondo,che molti credono buono così com’è,imperfetto e migliorabile:il progressista ha un atteggiamento sempre volto al cambiare.Si può dire che il concetto di “utopistico” si avvicini molto a Platone che nelle Leggi fa notare che lo stato così com’è non va bene e ne propone uno “misto”,dal momento che quello ideale-aristocratico è inattuabile. Popper ha invece preso l’idea di Platone utopica di stato per utopistica.La “Repubblica” può anche essere vista in chiave di trattato pedagogico-educativo volto all’istruzione dei futuri governanti:Platone ci indica qui i diversi livelli di conoscenza e contrappone la filosofia ad altri metodi di educazione,primo tra tutti quello della retorica capeggiato da Isocrate ;per Platone la vera retorica è quella che si fonda sulla piena conoscenza della verità e delle persone cui ci si rivolge,non come la intendevano tutti i suoi contemporanei:per Isocrate e tutti gli altri essa consisteva invece nel formulare discorsi eleganti ma privi di verità.Platone critica anche la poesia:Socrate stesso diceva che essa non è un vero sapere,ma una forma di conoscenza infusa dalla divinità:il poeta infatti quando componeva era divinamente ispirato,la divinità si serviva di lui per comunicare (basti pensare ad Omero ,che parlava ammaestrato dalla Musa).Platone era appassionato di etimologia e si divertiva a dare interpretazioni sull’origine e la derivazione delle parole,che per lo più erano errate;una di queste,però,era corretta:Platone fece derivare la parola “mantica” dal termine greco “mania”,follia.Infatti quando si davano responsi si era come se fuori di sè: a parlare era la divinità.Non significa comunque che la poesia non valga nulla (Platone stesso può essere considerato poeta). Va senz’altro a proposito citato lo ” Ione “ , un dialogo platonico considerato ” minore ” , dove ben emerge come fondamento della poesia non sia la scienza , bensì l’ispirazione . Protagonisti sono Socrate e Ione , un rapsodo . Ione si dichiara espertissimo di Omero e di tutte le sue opere , e ne dà prova recitando a memoria i pezzi più svariati . Ione ne sa davvero molto su Omero , ma Socrate gli dimostra che il suo sapere non si basa su conoscenza e scienza : è un’ispirazione divina . Platone nella “Repubblica” fa considerazioni più articolate e complesse rispetto a quelle di Socrate ,attaccando l’arte su due piani differenti:1)morale e più banale rispetto all’altro:Platone,come già Senofane,sostiene che l’arte ci presenta gli dei o gli eroi con caratteristiche fortemente negative e che assumono atteggiamenti meschini e di basso valore morale (basti pensare all’ira di Achille);lo stesso vale anche per la musica,di cui Platone era esperto (si racconta che ormai in fin di vita,sentendo una fanciulla che suonava il flauto,le ultime parole che pronunciò prima di morire furono di rimprovero perchè ella aveva stonato):a quell’epoca vi erano diversi stili ben canonizzati e definiti,ognuno dei quali stimolava determinati sentimenti,positivi e negativi.Secondo Platone la musica che stimola sentimenti negativi va assolutamente censurata;al giorno d’oggi abbiamo criteri di giudizio differenti:un brano musicale o ci piace o non ci piace,indistintamente dal suo valore morale:per noi bello e brutto sono su un livello totalmente differente da buono e cattivo.Prendiamo per esempio i Carmina Burana di Orf,di orientamento filo-nazista:si possono apprezzare pur non essendo filo-nazisti.Presso di noi vige l’autonomia dell’arte,che Platone non ha riconosciuto:bello-brutto è diverso da buono-cattivo e da vero-falso:in un libro di storia ricerco la verità,in un romanzo la bellezza…Platone era senz’altro molto attratto dalla questione del bello,che per lui aveva a che fare con la natura e non con l’arte:parla infatti di begli uomini,belle piante,belle azioni…Il suo giudizio è puramente morale:se un’opera è cattiva sul piano morale,anche se bella va censurata,il che rientra bene nella concezione di stato totalitario platonico.Bisogna comunque dire che era un concetto molto diffuso presso i Greci,che lo riassumevano nella “calogazia”:non c’era differenza tra bello e buono.Abbiamo anche tirato in ballo la coppia vero-falso,di valenza gnosologica;abbiamo già detto a riguardo delle idee che il piano ontologico e quello gnosologico corrispondono:vero e falso si identifica con essere e non essere;di conseguenza il falso va censurato.2)metafisico e di più alto livello:in un primo momento Platone afferma dunque che le opere d’arte pericolose vanno allontanate;successivamente,non soddisfatto di quanto detto,sostiene che vadano censurate tutte dalla prima all’ultima.Quando un artista raffigura un corpo,secondo Platone,imita un corpo esistente in natura;ma abbiamo detto che per Platone le cose sono imitazioni delle idee.Le opere d’arte sono quindi a suo avviso imitazioni di imitazioni:se già le cose sensibili sono inferiori alle idee,figuriamoci le opere d’arte:sono un gradino più distanti e contengono un tasso di verità addirittura inferiore a quello delle cose:le opere d’arte impediscono all’uomo ancora di più rispetto alle cose sensibili di conoscere le idee e vanno dunque bandite.L’arte diventa quindi negativa a prescindere dal fatto che stimoli buoni o cattivi sentimenti:il piano morale non conta più.Sono affermazioni piuttosto strane,soprattutto se consideriamo che Platone stesso era un artista e dedicò dialoghi al bello naturale,come il “Fedro” o il “Simposio” .Chiaramente aveva ben presente le capacità persuasive dell’arte.Tuttavia in epoche successive si sono usate queste stesse affermazioni platoniche per giustificare l’arte:essa non imita la realtà empirica,ma le idee stesse ed è strano che Platone non se ne sia accorto in quanto aveva tutti gli strumenti:i ritratti stessi (presso i Greci ancora di più i busti) sono idealizzati;l’artista sfrutta il volto di chi deve ritrarre per poi passare all’idea vera e propria (è lo stesso del triangolo disegnato che serve per ragionare sull’idea di triangolo).Probabilmente per noi è più facile capirlo perchè possediamo la macchina fotografica;è facile per tutti capire la differenza tra un ritratto e una foto.Da notare,poi,che dalla scoperta della macchina fotografica in poi i pittori hanno cominciato a fare ritratti sempre più astratti e meno realistici.Gorgiaaveva dato grande importanza all’arte sganciandola dal piano ontologico:secondo lui dal momento che la verità non esiste,ci si può creare un mondo proprio,dato che non c’è un vero mondo:non si hanno vincoli imitativi;per Gorgia l’artista è tanto più bravo tanto più riesce ad ingannare.Gli artisti secondo Platone,invece, con le loro “copie” precludono agli uomini la possibilità di conoscere.Altro motivo della condanna da parte di Platone è che l’arte corrompe i giovani perchè rappresenta l’uomo in preda alle passioni;vengono indotti a considerare normale una vita in balia delle passioni,dell’odio,dell’invidia…l’arte stessa sviluppa le passioni.Lo stesso Omero (che veniva anche definito “la bibbia dei Greci” dal momento che nelle sue opere si trovava un pò di tutto:verità religiose,tecniche militari…)ha rappresentato i più grandi eroi in preda a passioni.Platone nella sua condanna risparmia solo la musica e le poesie patriottiche che elevano l’uomo al grande dovere di sacrificio per la patria,ispirandosi al modello spartano,dove la musica patriottica aveva avuto importanza sul piano educativo.Tuttavia in altri dialoghi dà un giudizio positivo rivalutandola completamente (egli stesso era un grande poeta).Platone,come detto,si occupa dell’educazione dei futuri governanti,recuperando alcuni aspetti della “paideia” tradizionale;il percorso da seguire è lungo e difficile e si può suddividere in varie tappe:nel periodo della giovane età l’educazione viene improntata sulla musica e sulla ginnastica;Platone è convinto che nella prima fase dell’educazione non si possa forzare sul piano teoretico.La musica aveva a che fare con il ritmo e più che musica come la intendiamo noi,era educazione ad ogni tipo di ritmo:era quindi educazione dell’anima.La ginnastica aveva la funzione di creare uno stato di armonia sia nel corpo sia nell’anima, e di conseguenza era una forma di educazione tanto relativa al corpo quanto all’anima.Si può dire che l’intero percorso educativo miri all’armonia dell’anima:in poche parole l’uomo giusto è l’uomo armonico.Prima di entrare nella fase vera e propria dello studio teoretico secondo Platone bisogna dunque impartire un’armonia psico-fisica tramite queste due attività.lo studio vero e proprio si articola nello studio della matematica e della filosofia:il culmine consiste nel raggiungimento dell’idea di bene;è un itinerario lungo e selettivo:quando lo si completerà si avranno ormai circa 50 anni per poi essere pronti a governare lo stato,anche se controvoglia.E’ interessante il fatto che nelle “Leggi” Platone parli di un’educazione prenatale:a suo avviso grazie a tecniche particolari (modi di cullare,per esempio) si può dare una prima educazione all’armonia;ai giorni nostri si è scoperto che ciò ha davvero una sua influenza;è quindi un’interessante intuizione platonica,che sapeva bene che l’educazione non è solo razionale.La dimensione conoscitiva è legata ancora una volta alla gerarchia ontologica;Platone per esprimere meglio questa idea si serve di un’efficace immagine e di un mito (il celebre mito della caverna):la prima è la celebre immagine della “linea”:
come abbiamo già detto la conoscenza stabile è quella basata sull’episteme,quella mutevole ed opinabile sulla doxa.Ancora una volta riscontriamo una chiara influenza pitagorica : i Pitagorici infatti individuarono il numero come principio della realtà e crearono una “piramide” di principi che partiva dalla coppia finiti-infinito e da lì si generavano tutte le altre coppie.Per il momento diciamo che i livelli platonici sono 4 (anche se quelli fondamentali restano 2).L’eikasia ha a che fare con la radice eik- di somiglianza,apparenza:è opportuno tradurla con “immaginazione”,ma va depurata da tutti i significati che le attribuiamo noi;è la capacità di cogliere le immagini;si tratta di verità addirittura inferiori a quelle del mondo sensibile e possiamo in parte identificarle con le opere d’arte,ma anche con i riflessi delle cose,come gli specchi o le superfici di laghi o fiumi:Platone aveva in mente tutte le riproduzioni del mondo sensibile;ma molti studiosi hanno anche sostenuto che nella capacità di immaginazione si possa vedere anche un primitivo atteggiamento conoscitivo:si tratta della pura e semplice sensazione;quando prendiamo in mano un quaderno abbiamo dapprima una pura e semplice percezione sensuale:notiamo la forma,il colore…Conoscere realmente un quaderno significa mettere insieme le sensazioni e sfruttarle;forse per capire meglio basterebbe chiudere gli occhi e stringere un libro:lo si percepirebbe con il tasto e si potrebbe immaginare cosa si vedrebbe ad occhi aperti;verso la fine del ‘600 si cominciarono ad effettuare i primi interventi di cataratta e si fecero vedere per la prima volta persone che non avevano mai visto:quando costoro riferirono le loro impressioni si scoprirono cose interessanti;per esempio non riuscirono ad identificare con la vista ciò che per anni avevano toccato;chiaramente è molto differente da ciò che intendeva Platone,ma ci permette comunque di capire che l’oggetto della conoscenza (sebbene la conoscenza empirica sia inferiore a quella intellegibile)è il risultato di operazioni complesse:si associano esperienze visive con esperienze tattili;tuttavia non siamo per niente sicuri che Platone ci sia davvero arrivato.La pistis,che possiamo tradurre con “credenza”è il soggetto conoscitivo degli oggetti sensibili.Della episteme abbiamo già parlato:i suoi oggetti sono intellegibili,ma non necessariamente idee;o meglio,ci sono sì le idee,ma anche gli enti matematici che possiamo suddividere in a)geometria,b)musica,vista come rapporti matematici,c)stereometria,che è la geometria dei corpi solidi,d)astronomia,vista come scienza del movimento dei solidi:erano le arti del “quadrivio”,diremmo oggi le materie scientifiche che già all’epoca si contrapponevano a quelle umanistiche.Dunque la dianoia corrisponde alla matematica in generale,la noesis alle idee;Platone era molto interessato di matematica (anche qui possiamo riscontrare un’influenza pitagorica ) e proprio sull’entrata dell’Accademia (i cui resti si possono vedere qui di fianco )
; c’era scritto “Non entri chi non conosce la matematica”:essa per Platone aveva una valenza propedeutica e di ginnastica mentale.Per un verso assomiglia alla filosofia perchè ha oggetti stabili,permanenti e non sensibili (uso sì disegni,ma per dimostrare su idee)per un altro presenta grandi limiti:si pensa sì ad idee,ma si lavora pur sempre su cose sensibili:occorre sempre l’appoggio del piano sensibile;la filosofia invece è un percorso mentale tutto interno alle idee.La matematica ha poi bisogno di ipotesi:si parte da postulati e da definizioni:cose che vengono accettate senza venir dimostrate;la filosofia ha invece un carattere critico:non si accetta mai nessuna cosa per data e si tende a mettere sempre in discussione fino ad arrivare alla conoscenza.Bisogna infatti risalire tutte le ipotesi fino ad arrivare ad una ipotesi indiscutibile da cui derivano tutte le altre.Va poi ricordato che gli oggetti matematici sono su un piano intermedio:hanno caratteristiche di idee (l’immutabilità) ma anche di enti empirici (la molteplicità):molteplicità e immutabilità sono proprio 2 dei principali aspetti che differenziano il mondo sensibile da quello intellegibile;il numero 3,ad esempio,è immutabile ma in un’espressione matematica lo si può scrivere più volte.Dianoia e noesis hanno entrambe la radice di “nous”,intelletto:la noesis è la versione pura e senza aggiunte e si può tradurre con “intellezione”;dianoia è più complessa perchè compare la radice “dià”,attraverso-mediante,che implica il passaggio da qualcosa a qualcos’altro e si può tradurre con “ragionamento discorsivo”:in un’espressione ci sono diversi passaggi e si passa di continuo da mondo empirico a mondo intellegibile.La noesis è l’intellezione,la contemplazione delle idee.La diversa lunghezza dei segmenti nel disegno di prima suggerisce una chiara gerarchizzazione:un segmento più è lungo e più è conoscibile,vale a dire che contiene un maggior tasso di essere.Il punto di arrivo della conoscenza è il bene in sè,l’idea di bene,cui Platone allude qua e là nei suoi dialoghi,sempre velatamente,chiamandola “misura”,”uno”,”bellezza”…Si tratta del più alto livello di argomentazione platonica:ce ne parla però in maniera molto indiretta e sfumata e doveva rientrare nelle dottrine non scritte;Platone stesso ci dice che lui non ne parlerà usando una strana metafora,che si può definire “bancaria”:dice che parlerà “del figlio e non del padre”,termini che in greco significano anche “interesse” e “capitale”:quindi si può intendere “vi parlerò dell’interesse e non del capitale”.Si serve poi di un’efficace metafora “solare”:il bene sta al mondo delle idee come il sole sta a quello sensibile.Con bene in sè,idea di bene si intende un bene assoluto e non relativo ad altre cose come le idee (l’idea di forza,ad esempio,è un bene relativo perchè può essere un bene come un male:dipende dall’uso e dalle circostanze).Il bene in sè è la conoscenza suprema e sublime a cui sono chiamati i filosofi-re,che devono seguire il lungo percorso di studi:esso è il top del percorso educativo:quando si ottiene la conoscenza del bene in sè si è chiamati a governare la città;ciò che porta ad orientare ogni cosa verso il bene,a renderla buona è proprio la conoscenza del bene in sè.Per molti aspetti esso coincide con l’idea del bello:la bellezza è il modo in cui si esterna il bene interno:è una concezione ampiamente diffusa in tutto il mondo greco.Secondo Platone il sole è la “ratio essendi” (la ragione di essere)e la “ratio cognoscendi” (la ragione di conoscere)nel mondo sensibile:è infatti grazie al sole che riusciamo a vedere il mondo sensibile;in sua assenza vediamo molto male ed è grazie a lui che conosciamo la realtà sensibile.Il sole consente poi la vita:dove non c’è il sole non c’è vita.Il bene riveste le stesse funzioni del sole,però nel mondo intellegibile delle idee,che in un certo senso sono anch’esse “ratio cognoscendi” e “ratio essendi”:l’idea fa sì che un cavallo sia tale e che lo si riconosca.Come detto,l’idea ha anche valenza assiologica (i cavalli mirano ad imitare l’idea di cavallo) ed è bene aggiungere di “unità della molteplicità”:i cavalli sono tantissimi,ma l’idea di cavallo è unica e la si può definire “stampo” dei cavalli.Il bene in sè,oltre a quelle del sole,svolge le funzioni anche delle idee:risulta quindi inesatto definirlo idea:è una idea delle idee,una super-idea che si trova ad un livello superiore delle idee e che riveste funzioni analoghe a quelle delle idee sul mondo sensibile,ma sulle idee a stesse.Le idee sono unità della molteplicità,ma tuttavia sono tante:quindi si può fare lo stesso discorso che facevamo per le funzioni delle idee sul mondo sensibile;esse dovranno avere qualcosa in comune tra di loro.Esse rappresentano il bene per ciascuna categoria,il punto cui devono mirare i componenti di ogni “classe”:le idee tendono ad essere il bene per la loro categoria:l’idea di uomo è il punto cui tutti miriamo:le idee fanno quindi riferimento al bene in sè,che è quindi un principio supremo,una super-idea.Esso svolge le stesse funzioni che le idee svolgono nel mondo sensibile,ma sulle idee stesse:ce le renderà conoscibili (conosco un’idea perchè è il bene della sua categoria),le farà esistere ( esistono nella misura in cui sono il bene della loro categoria,partecipano al bene).L’idea del bene sarà anche l’unità della molteplicità delle idee,che sono innumerevoli,pur essendo il solo modello per ogni categoria.Abbiamo detto che a volte,al posto di bene in sè,troviamo “uno”,”misura”…Abbiamo anche già parlato di quella volta che Platone tenne la conferenza sul bene parlando di matematica:dunque l'”uno” ben si riallaccia.Ma che cos’era il bene in sè?Per Platone esso è unità,armonia,ordine,misura,unità…In altri dialoghi parla del bene in sè,del vertice della realtà,come coppia di principi,o meglio come principio bipolare:al vertice della realtà ci sarebbero dunque l'”uno” e la “diade indefinita”.L'”uno” è l’unità,la diade fa riferimento al 2,quasi all’idea di 2:Platone col 2 vuole chiaramente indicare la negazione dell’unità,suggerendo il principio della molteplicità o almeno un primo passo verso di essa.Con il bene in sè (in greco “katà auton”)sta pian piano rivelandoci l’esistenza di un 5° livello,principio supremo della realtà.La dottrina delle idee serve a spiegare perchè,in fin dei conti,le cose sono buone,o meglio le idee sono buone:il mondo sensibile cerca di imitare la bontà delle idee,ma con scarsi risultati.Abbiamo fin’ora detto che le imitazioni risultano imperfette:è un’ipotesi molto vaga.E’ il momento di spoiegare perchè le cose non sono perfettamente buone:bisogna o ammettere un altro principio o ammettere la bipolarità del principio:accanto all'”uno” (il bene vero e proprio)c’è la diade,la molteplicità concettuale che crea disordine.Cerchiamo di ritracciare lo schema già trattato in precedenza,però più corretto :
é una gerarchia ontologica:più si sale e più cresce il tasso di essere perchè si ha esistenza sempre più forte:l’idea di cavallo non muore,il cavallo sì.Il punto di partenza,puramente teorico,addirittura sotto il livello delle immagini-imitazioni,è il non essere,poi troviamo l’essere pieno delle idee;il bene in sè,però,per Platone è per “dignità e per potenza” superiore all’essere:se le idee sono l’essere ciò che le motiva (il bene in sè) non può essere essere.Di fronte a questa affermazione di Socrate (ricordiamoci che a parlare è lui,con parole platoniche)l’interlocutore del dialogo esclama con stupore “Oddio!”.In realtà esclama “per Apollo”.Un interprete ha avanzato un’ipotesi:dato che è un pezzo di dialogo particolarmente allusivo egli ha ritenuto che sotto l’espressione “Apollo” (la divinità del sole,già qui ci può essere un collegamento alla proporzione precedente)si possa leggere “a” (alfa privativa) e “pollos”,che significherebbe non molteplice.Effettuando questa affermazione non ci dice tanto ciò che il principio supremo è,quanto piuttosto ciò che non è (molteplice).Il bene risulta quindi coglibile con qualcosa che sta oltre alla conoscenza:se i livelli della conoscenza corrispondono all’essere e il non essere non è conoscibile,man mano che cresce il tasso di essere cresce il tasso di conoscibilità:ma il bene in sè è sopra,al di là dell’essere e quindi ha una conoscibilità totalmente fuori dal normale.Platone stesso ci dice che è una conoscenza extra-razionale.Schematizziamola in un grafico:
la conoscenza non è nient’altro che un tentativo del soggetto di arrivare all’oggetto o dell’oggetto di arrivare al soggetto:limitiamoci a dire che è un tentativo di unione tra soggetto ed oggetto.Se si sale dalla parte del soggetto,di pari passo si sale da quella dell’oggetto:crescono di pari passo.Paradossalmente,però,l’identificazione tra soggetto e oggetto implica l’inconoscibilità:per conoscere ci deve essere un soggetto che compie l’azione ed un oggetto che viene conosciuto:se vengono a mancare,manca di conseguenza anche la conoscibilità.Il bene in sè si trova esattamente nel punto di incontro tra soggetto ed oggetto:Platone afferma che la conoscenza del bene in sè sia un’esperienza mistica dove però è indispensabile la ragione;la si potrebbe tranquillamente definire una mistica di superamento della ragione.Platone dice poi di voler descrivere la nostra situazione di uomini,di come siamo e di come il nostro destino può cambiare.Si serve qui del celeberrimo mito della caverna,forse il più famoso mito platonico,dove emerge tutta la sua filosofia :
descrive una caverna profonda stretta ed in pendenza,simile ad un vicolo cieco.Sul fondo ci sono gli uomini,che sono nati e hanno sempre vissuto lì;essi sono seduti ed incatenati,rivolti verso la parete della caverna:non possono liberarsi nè uscire nè vedere quel che succede all’esterno.Fuori dalla caverna vi è un mondo normalissimo:piante,alberi,laghi,il sole,le stelle…Però prima di tutto questo,proprio all’entrata della caverna,c’è un muro dietro il quale ci sono persone che portano oggetti sulla testa:da dietro il muro spuntano solo gli oggetti che trasportano e non le persone:è un pò come il teatro dei burattini,come afferma Platone stesso.Poi c’è un gran fuoco,che fornisce un’illuminazione differente rispetto a quella del sole.Questa è l’immagine di cui si serve Platone per descrivere la nostra situazione e per comprendere occorre osservare una proporzione di tipo A : B = B : C La caverna sta al mondo esterno (i fiori,gli alberi…) così come nella realtà il mondo esterno sta al mondo delle idee:nell’immagine il mondo esterno rappresenta però quello ideale tant’è che le cose riflesse nel lago rappresentano i numeri e non le immagini empiriche riflesse.Si vuole illustrare la differenza di vita nel mondo sensibile rispetto a quella nel mondo intellegibile.Noi siamo come questi uomini nella caverna,costretti a fissare lo sguardo sul fondo,che svolge la funzioni di schermo:su di esso si proiettano le immagini degli oggetti portati dietro il muro.La luce del fuoco,meno potente di quella solare,illumina e proietta questo mondo semi-vero.Gli uomini della caverna scambieranno le ombre proiettate sul fondo per verità,così come le voci degli uomini dietro il muro:in realtà è solo l’eco delle voci reali.Gli uomini della caverna avranno un sapere basato su immagini e passeranno il tempo a misurarsi a chi è più bravo nel cogliere le ombre riflesse,nell’indovinare quale sarà la sequenza:è l’unica forma di sapere a loro disposizione ed il più bravo sarà colui il quale riuscirà a riconoscere tutte le ombre.Supponiamo che uno degli uomini incatenati riesca a liberarsi:subito si volterebbe e comincerebbe a vedere fuori gli oggetti portati da dietro il muro non più riflessi sul fondo della caverna.Poi comincerà ad uscire ma sarà piuttosto riluttante perchè infastidito dalla luce alla quale era desueto:quando finalmente uscirà si sentirà completamente smarrito e disorientato.Comincerà a guardare indirettamente la luce solare:ad esempio la osserverà riflessa su uno specchio d’acqua.Man mano che la vista si abitua guarda gli oggetti veri:gli alberi,i fiori…In un secondo tempo le stelle e poi riuscirà perfino a vedere il sole.Chiaramente vi sono chiare allusioni a varie dottrine platoniche:evidente risulta l’allusione ai 5 livelli di conoscenza;le immagini proiettate sul fondo della caverna sono l’eikasia la capacità di cogliere le realtà empiriche riflesse,grazie al fuoco che rende visibili questi oggetti “artificiali”.Gli oggetti artificiali che portano dietro il muro sono la pistis,il mondo sensibile vero e proprio.Curioso è che l’atto di voltarsi da parte degli uomini nella caverna venga espresso con la parola “convertirsi”:è l’atto fondamentale per il cambiamento della propria prospettiva esistenziale.Le cose dietro il muro riflesse nello specchio d’acqua rappresentano la dianoia,gli enti matematici;gli alberi ed i fiori sono invece le idee vere e proprie,la noesis.Il sole,invece,è il bene in sè.Le stelle sono le idee più elevate (i numeri ideali…).L’uomo che è fuggito dalla caverna e ha visto tutto si trova in una situazione piuttosto ambigua:da un lato vorrebbe rimanere all’aperto,dall’altro sente il bisogno di far uscire anche i suoi amici incatenati;alla fine decide di calarsi nella caverna e quando arriva in fondo non vede più niente,è come se accecato.Sostiene di essere tornato per condurli in un’altra realtà,ma essi lo deridono perchè non riesce più neppure a vedere le ombre riflesse sul fondo.Lui però continua a parlar loro del mondo esterno ma i suoi “amici” lo deridono e si arrabbiano e lo picchiano perfino.In realtà Platone vuole qui descrivere la storia di Socrate ,un uomo che ha visto realtà superiori e ha cercato di farle conoscere agli altri che non hanno però accettato.Per quel che riguarda il fatto che l’uomo tornato nella caverna non riesca più a cogliere le realtà sensibili,possiamo portare ad esempio la vicenda del filosofo Talete,che guardando le stelle cadeva nei pozzi e veniva deriso per il fatto che voleva vedere le stelle lui che non vedeva neppure cosa c’era per terra.La liberazione dalle catene avviene (come la reminescenza) o per caso o grazie all’intervento di qualcuno.Comunque il mito rievoca pure il compito dei governanti,che una volta raggiunto il sapere devono per forza tornare nel mondo sensibile per governare.La fuoriuscita dalla caverna può anche essere metafora del lungo percorso educativo dei filosofi-re.Si può quindi definire correttamente il mito della caverna come una sorta di riassunto della filosofia platonica.Platone passa poi alla descrizione delle “decadenze” statali:a suo avviso la miglior forma di governo è quella dello stato ideale da lui tratteggiato,che è però inattuabile:essa potremmo identificarla con l’aristocrazia,dove a detenere il potere sono coloro che risultano essere i più idonei.Tra gli stati attuabili Platone attribuisce il secondo posto (se non contiamo lo “stato secondo” delle “Leggi” )alla Timocrazia,vale a dire il governo basato sul senso dell’onore corrispondente allo stato spartano nel suo periodo migliore.A lungo si è pensato che Platone avesse effettuato questa graduatoria di forme di governo a seconda del numero di governanti:più ce n’è peggio è.In realtà la differenza tra un governo e l’altro è solo la capacità dei governanti.La repubblica ideale di Platone è un’aristocrazia idealizzata che non si distingue solo per il numero esiguo di persone preposte al governo,ma anche per le loro abilità:la sequenza delle decadenze statali va vista in parallelo con quella delle decadenze umane:infatti si ha aristocrazia quando nell’anima prevale la parte razionale (l’auriga).Nella Timocrazia,invece,prevale la parte irascibile (il cavallo bianco),desideroso di farsi onore.Subito sotto alla Timocrazia troviamo l’oligarchia,il governo dei pochi che però non sono i migliori:si servono del loro potere per arricchirsi,accecati dalla cupidigia.Ad un livello al di sotto troviamo la democrazia,che si viene ad instaurare quando la massa degli ignoranti diventa gelosa delle ricchezze degli oligarchici:il “demos” volge a suo favore i beni che prima erano dell’oligarchia.ai tempi di Platone la democrazia corrispondeva grosso modo con l’anarchia dove ciascuno faceva ciò che voleva e vigeva la maleducazione totale.Subito sotto troviamo la tirannide:dalla democrazia si passa alla tirannide quando la massa ignorante si fa abbindolare dai demagoghi che promettono sempre maggiore libertà.Essi dicono che tutti ce l’hanno con loro e che per dare al popolo la libertà promessa han bisogno di guardie del corpo e così nasce la tirannide.Platone arriva adimostrare che il destino dell’uomo giusto sono la felicità e la giustizia.Egli è felice nella vita terrena perchè la giustizia lo appaga e gli rende l’anima sana.Nel libro 10° della “Repubblica” PLatone afferma che dopo la morte per i giusti ci sarà ulteriore felicità,per gli ingiusti altra infelicità.Pur avendo già dimostrato che l’anima è eterna in modo razionale,Platone si serve poi di un mito,il celebre mito di Er ,un guerriero della Panfilia morto in battaglia.Il suo corpo viene raccolto e portato sul rogo (era un’usanza greca):proprio prima che gli diano fuoco si risveglia e racconta ciò che ha visto nell’aldilà,affermando che gli dei gli han concesso di ritornare sulla terra per raccontare agli altri uomini ciò che ha visto.Dice di aver visto 4 passaggi attraverso i quali le anime salgono nella dimensione ultraterrena,da un passaggio le buone,dall’altro le malvagie,e tramite i quali ritornano sulla terra.Infatti,dice,le anime buone finivano in una sorta di Paradiso dove godevano,le cattive in una sorta di Purgatorio (l’Inferno era un fatto raro,destinato solo ai più malvagi).I giusti ricevono premi per 1000 anni,i malvagi soffrono.Dopo questi 1000 anni le anime buone e quelle cattive si devono reincarnare.Esse si recano al cospetto delle 3 Moire che devono stabilire il loro destino.Le anime vengono radunate da una specie di araldo che distribuisce a caso dei numeri,seguendo una prassi che può ricordarci quella dei supermercati;infatti prende i numeri e li getta per aria ed ogni anima prende quello che le è caduto più vicino (questo sottolinea come nella nostra vita ci sia comunque una componente di casualità).Il numero serve per dare un ordine alle anime che devono scegliere in chi reincarnarsi;chiaramente chi ha il numero 1 è avvantaggiato perchè ha una scelta maggiore,ma deve comunque saper scegliere bene.Dunque c’è sì una componente di casualità,ma in fin dei conti la nostra vita ce la scegliamo noi:è vero che per chi nasce,per esempio,in una famiglia agiata è più facile essere onesti rispetto a chi nasce in una famiglia povera,oppure chi nasce in una famiglia onesta è avvantaggiato rispetto a chi nasce in una famiglia disonesta,ma tuttavia la nostra vita ce la scegliamo noi.Ma quelli che hanno numeri sfavorevoli non sono necessariamente svantaggiati perchè scelgono dopo:in primo luogo le possibilità di scelta che gli restano sono sempre tantissime,in secondo luogo chi è primo non sempre effettua buone scelte; Er racconta che nel suo caso chi scelse per primo scelse la tirannide che gli aveva fatto una buona impressione (infatti lassù si vedono le cose sotto forma di oggetti:forse la tirannide aveva dei bei colori,chi lo sa?).Costui,non appena si era accorto di ciò che comportava l’essere tiranno,non voleva più esserlo,ma era troppo tardi:le Moire gli danno l’incarico di tiranno e lo lanciano sulla terra,dopo averlo immerso nel fiume Lete perchè dimentichi (Er chiaramente non è stato immerso).Er dice che per ultima era arrivata l’anima di Ulisse e che,stanca della passata vita “movimentata”,scelse la vita di un comune cittadino.Platone fa notare che di solito chi veniva dal Paradiso tendeva ad effettuare scelte sbagliate,mentre chi veniva dal Purgatorio e aveva sofferto sceglieva bene.Infatti chi aveva vissuto per 1000 anni di beatitudine si era scordato di che cosa fosse la sofferenza.Quindi chi ha sofferto sceglie bene e sceglie una buona vita che lo porterà al Paradiso,mentre chi ha goduto sceglie male e dopo che ri-morirà finirà in Purgatorio.Pare quindi un circolo vizioso,ma in realtà Platone dice che il motivo per cui si sceglie una vita buona o una cattiva può derivare da doti naturali:ci sono infatti persone portate a comportarsi bene per inclinazione naturale:vi è anche chi ha conoscenze basate sulla doxa (l’opinione) e che può cogliere alte realtà,ma solo casualmente,senza riuscire a fornire motivazioni:costoro,che conducono una vita buona per caso,non radicata nella coscienza,si smontano facilmente nel Paradiso quando godono e finiranno per scegliere male.Chi ha invece raggiunto il bene in sè,la super-idea del bene,non cadrà mai nel male.Secondo alcuni studiosi nella fase della vecchiaia è come se Platone effettuasse un’autocritica della dottrina delle idee:essa,infatti,risolve alcuni problemi per crearne altri;non si è totalmente certi che sia realmente un’autocritica e c’è chi sostiene semplicemente che Platone si faccia portatore di discussioni che si tenevano nell’Accademia ,un luogo aperto dal punto di vista intellettuale:forse vi fu chi non approvò la teoria delle idee e la contestò.Vi sono anche indizi che ci inducono a pensare che sia così:il “Parmenide” rientra in questi dialoghi e vede al centro la figura di Parmenide perchè si affronta il problema del rapporto tra l’uno ed i molti,molto caro a Parmenide appunto,e quello del rapporto idee-superidea del bene;i temi centrali sono quelli dei tempi di Parmenide (il dialogo è ambientato in quel periodo):è come se Platone riprendesse ciò che era stato lasciato in sospeso anni addietro.Protagonisti del dialogo sono Socrate , Parmenide e Zenone, discepolo di Parmenide ;questo dialogo può per diversi aspetti essere accostato al “Sofista”,dove il protagonista è “lo straniero di Elea”,la città di Parmenide e di Zenone.Il vero tema centrale del “Parmenide” è quello riguardante le idee e le cose,a cui Platone aveva finora solo accennato senza mai sbilanciarsi troppo : che cosa intendesse per “compartecipazione”,per esempio,non l’aveva ancora detto : arriva a dire che le idee sono ciò in virtù di cui le cose empiriche possiedono certe caratteristiche . Nel Parmenide sono attestate l’una accanto all’altra e con pari legittimità una versione concreta e materiale e una versione astratta e metaforica della compartecipazione : nella sua versione concreta , la partecipazione delle cose empiriche ad un’idea implica che l’idea sia effettivamente presente nelle cose partecipanti : ad esempio , tutte le cose empiriche molteplici si rivelano molteplici in quanto l’idea della molteplicità è presente in esse . Nella sua versione astratta e metaforica , invece , la partecipazione consiste nella somiglianza delle cose empiriche ad un’idea . Affronta questo problema partendo proprio dall’uno ed i molti.Tuttavia , se Platone si distacca dal maestro Socrate , egli è e gli resta fedele ; è e resta fedele cioè all’ideale , che questi incarna , della filosofia come continua ricerca.Pure nel “Sofista” c’è il problema uno-molti,ma non è riferito al rapporto tra idee e cose,bensì tra idee e basta:è una questione tutta interna alle idee.Va subito rilevato che nel “Parmenide” ed in generale in tutti questi dialoghi della vecchiaia vi è un’attenuazione dell’aspetto dinamico,forse dovuto all’età:la fantasia giovanile tende a venir meno,così come la figura di Socrate tende a sfumare; mentre il “Simposio” è un esempio della letteratura greca,il “Parmenide” non lo è : testimonia la volontà di addentrarsi in discussioni tecniche e di conseguenza lo stile si fa più arido.Anche la figura di Socrate tende a diventare marginale ed a sparire:ciò significa che i temi di Platone sono davvero estranei e distanti da Socrate e non se la sente di metterglieli in bocca;è evidente che quando si parla di virtù e di giustizia ci si può riallacciare a Socrate ,ma i problemi metafisici e ontologici non erano materie che rientravano negli interessi del maestro di Platone.Nel “Parmenide” la figura di Socrate è addirittura quella di un ragazzino:volendo introdurre Parmenide per questioni cronologiche è costretto a mettere in gioco un Socrate giovane ed un Parmenide vecchio (Zenone è un uomo maturo);fatto sta che Platone deve comunque aver forzato leggermente la cronologia per immaginare l’incontro.Parmenide nel dialogo è sempre accompagnato dagli aggettivi “venerando” (sia perchè è anziano sia perchè Platone lo ritiene il fondatore della filosofia astratta) e “terribile” (ragionava in modo così logico e razionale da mettere in crisi).In tutti i dialoghi che abbiamo esaminato Socrate è sempre stato il protagonista indiscusso in cui Platone si identificava;ma nel “Parmenide” in chi dei tre si identifica ? Da un certo punto di vista si identifica in Parmenide ,da un altro in Socrate ;compare come Socrate nella forma giovanile,come Parmenide in quella senile.Il nucleo del dialogo ruota intorno a Socrate che fa delle affermazioni e a Parmenide che le corregge,dicendogli che da grande capirà.Vi è una interpretazione ingenua e giovanile delle idee ed una più senile e completa: Parmenide non è che dica cose opposte,si limita a correggere ed a rendere più complesse e complete le affermazioni di Socrate .E’ Platone anziano che si confronta con Platone giovane,ma può anche essere Platone che si confronta con chi nell’ Accademia contestava la dottrina delle idee.Come detto il “Parmenide” affronta due tematiche:l’uno-molti,che viene discusso a livello astratto,e idee-cose.Cosa significa in concreto che molte cose partecipano a un’idea sola ? Platone avanza diverse ipotesi e le respinge un pò tutte:per esempio ipotizza che il rapporto di partecipazione sia di presenza:un’unica idea sarebbe quindi presente in più cose,ma sarebbe molteplice e non più unità del molteplice:infatti ce ne sarebbero tantissime.Vi è poi la famosa argomentazione del “terzo uomo”,nella quale si evidenzia la difficoltà nel rapporto idee-cose:Parmenide ,dopo che Socrate ha esposto la dottrina delle idee, afferma che l’idea è quindi ciò che unifica molte cose,che il ragionamento è che tante cose insieme presentano una cosa in comune:gli uomini hanno una cosa in comune:l’idea di uomo.Ma l’idea di uomo,che rappresenta l’unità,dovrà per forza avere qualcosa in comune con gli uomini:gli uomini sensibili si assomigliano perchè imitano l’idea di uomo;ma un rapporto di somiglianza non c’è solo tra gli uomini sensibili,ma anche con l’idea di uomo:se ci sono gli uomini e l’idea di uomo e sono tra loro simili,ci deve essere per forza essere qualcosa di comune all’idea di uomo e agli uomini che li rende simili,che li accomuna:ci deve essere un terzo uomo;questa argomentazione può andare avanti all’infinito perchè ci dovrà sempre essere qualcosa in comune.Vi è chiaramente una contraddizione nella dottrina delle idee,che era servita per semplificare la realtà ma che la complica ammettendo la molteplicità:gli enti invece di ridursi si moltiplicano all’infinito.Vi è poi una terza argomentazione: Parmenide chiede a Socrate di che cosa ammette che ci siano le idee e lui risponde citando le cose astratte quali la giustizia,la bellezza,gli enti matematici…Dice di non essere certo che esistano idee degli oggetti sensibili veri e propri:l’idea di albero,di cavallo,di cane…Platone era ricorso a queste idee:per spiegare l’attività di un artigiano aveva perfino ammesso che le idee potessero essere create dall’uomo:Platone si era occupato del problema delle tecniche e aveva ammesso che ci fossero delle tecniche di produzione e delle tecniche di uso;chi costruisce le briglie per i cavalli mette in atto la tecnica di produzione ,il cavaliere che cavalca quella di uso.Il cavaliere deve sapere come le briglie devono essere usate,come funzionano,come devono essere:dà le indicazioni all’artigiano che le fa come vuole il cavaliere.Chi applica la tecnica di uso crea un’idea che l’artigiano deve imitare:egli guarda ad un’idea creata da chi mette in pratica la tecnica d’uso.Platone sembra ipotizzare la produzione delle idee:l’idea di tavolo,per esempio,è una sorta di idea che gli uomini si fanno.Chiaramente in una ipotetica scala gerarchica chi usa è più in alto di chi produce.Socrate dice che certamente non esistono le idee delle cose spregevoli ed insignificanti:ad esempio,il fango ed il capello che corrispettivo possono avere nel mondo delle idee,dice Socrate.Ma Parmenide gli dice di pensarci bene e forse un giorno capirà.Socrate stava evidentemente pensando alla valenza assiologica:l’idea è il punto cui le cose sensibili devono mirare,è il meglio verso cui tendere.Come si può tendere all’idea di fango ? Però Parmenide ,ontologo per eccellenza,dice che se l’idea deve essere l’essenza di ogni cosa ,anche il fango dovrà avere una sua idea. Parmenide fa qui notare che nel concetto di idea la valenza ontologica contrasta con quella assiologica,cosa che peraltro Platone sapeva benissimo : proprio per questo possiamo leggere il dibattito Parmenide–Socrate come uno scontro tra il Platone ontologico e quello assiologico . In effetti se pensiamo al piano assiologico pare impossibile che esistano idee di cose spregevoli : se però consideriamo quello ontologico , così come un cavallo esiste nella misura in cui compartecipa all’idea di cavallo , anche il fango o la sporcizia esistono nella misura in cui imitano l’idea di fango e di sporcizia . Parmenide poi mette definitivamente a tacere Socrate con un’ultima obiezione : comunque venga concepita , l’ipotesi della compartecipazione pare in contrasto con l’assunto della separazione delle idee; in effetti se le idee rimangono davvero separate dal mondo sensibile , esse saranno in relazione tra loro soltanto ma non con il mondo sensibile degli uomini , come d’altronde anche le cose empiriche si porranno le une in rapporto alle altre senza alcun genere di contatto con le idee . Pertanto se vi è questa separazione nettissima che Platone (qui Socrate) aveva sempre predicato tra mondo sensibile e mondo intellegibile , nessuna partecipazione tra idee e mondo sensibile sarà ammessa e così neppure nessuna conoscenza delle idee per noi uomini sarà possibile . Questa difficoltà è indicata da Parmenide come “la più grande di tutte” (“megiston dè tòde”) : le idee devono per forza rimanere in sè e per sè , radicalmente separate dal mondo sensibile , perchè la separazione ne preserva l’assoluta superiorità ontologica , stabilendo un’incolmabile discontinuità rispetto alle cose empiriche .Va notato che Platone,in ogni suo dialogo,prende spunto un pò da tutti gli altri filosofi e Parmenide non fa eccezione : l’idea platonica è unità e stabilità proprio come l’essere parmenideo.L’istanza etica di Socrate vuole idee solo positive e guarda alla assiologia , mentre Parmenide è interessato all’essere,al piano ontologico:d’altronde è risaputo che Socrate fosse un antropologo,una persona che si interessava ai valori.Platone si rende conto che è Parmenide ad avere ragione e non Socrate .Nel dialogo Parmenide discute sul rapporto tra l’uno ed i molti:è una discussione a tal punto tecnica e complessa che si è arrivati a pensare che si tratti di una parodia,una presa in giro da parte di Platone di alcune scuole. Comunque Platone mette in discussione la dottrina delle idee anche nell’ ” Eutidemo “ , dove viene tirato in ballo un quesito piuttosto strano : se una cosa stando vicino all’idea di bellezza diventa bella , Socrate stando vicino a Platone diventa Platone ? Tornando al “Parmenide” , in esso comincia a trasparire una nuova accezione della parola “dialettica”,tipica di Socrate e di Platone : originariamente designava il dialogo socratico , poi è passata a designare la tecnica argomentativa di Platone ed è anche divenuta sinonimo di “filosofia”;nel Parmenide” il significato si sposta da un certo modo di affrontare la conoscenza al rapporto tra le idee:non esiste solo un dialogo-scontro tra gli uomini (quello che dava vita alla fiamma) che aumenta la conoscenza , ma anche tra le idee : lo “scontro” si sposta dal soggetto della conoscenza all’oggetto.Il concetto dell’uno ed i molti si richiamano a vicenda:non si può conoscere pienamente il concetto di uno se non si conosce il concetto di molti e viceversa.Un modo per sintetizzare la filosofia di Parmenide può essere l’affermazione “l’uno è” ,la negazione della molteplicità ;Platone dice che quando si predica il concetta di uno lo si moltiplica:se non si predicasse affatto sarebbe davvero uno ,ma se ne parlo non è già più uno,è già due:gli si aggiunge il concetto di essere.”L’uno è l’essere” :affermo il molteplice perchè lo predico : nego e affermo nello stesso tempo.Le idee non sono una accanto all’altra,ma se le accosto dialogano e si scontrano.Questo è il nuovo significato di dialettica,che non designa più solo un metodo di indagine:diventa anche la struttura della realtà.Di conseguenza la dialettica è lo strumento migliore di ricerca della realtà perchè essa stessa è la realtà:c’è uno stretto rapporto tra la realtà soggettiva e quella oggettiva.Questo concetto viene trattato nel “Sofista” ancora di più che nel “Parmenide”.Un altro problema,molto astratto e legato alla possibilità di ragionare,che Platone affronta in età avanzata (e anche in gioventù) ed in diversi dialoghi è quello riguardante il vero e il falso,in parallelo con l’essere ed il non essere : si torna a problematiche parmenidee e viene messa da parte la figura di Socrate.La possibilità di poter distinguere il vero dal falso è legata al poter commettere errori ed il tema viene affrontato nel “Sofista” ;già dal titolo dell’opera si può intuire la solita critica platonica dei sofisti,già avanzata in gioventù:qui però è trattata con sfumature più ontologiche.Che cosa c’entrano i sofisti con il vero-falso e l’errore ? Si può sbagliare solo quando si può porre una differenza tra vero e falso : Gorgia e Protagora ,i due maggiori esponenti sofisti,erano rispettivamente del parere che tutto fosse falso ( Gorgia ) e che tutto fosse vero ( Protagora ):per entrambe non vi è la distinzione tra vero e falso 😮 ce n’è uno o l’altro,si basano sul fatto di non poter distinguere il vero dal falso.Per Parmenide dire il falso vuol dire ammettere il non essere,le cose come non sono (il che è impossibile);per Parmenide si dice e si pensa solo ciò che è,ciò che esiste.Questo spiega come un dialogo tutto incentrato sulla filosofia eleatica si leghi al sofismo:le tesi eleatiche e quelle sofiste mirano ad affermare che l’errore sia impossibile,che non ci sia la distinzione tra vero e falso.Sono posizioni differenti che portano alle stesse conclusioni,sebbene in modi diversi.Il “Cratilo” ed il “Teeteto” sono dialoghi dove si cerca di contestare la possibilità di non errare : se non esiste la possibilità di sbagliare tutti i discorsi saranno o veri o falsi;se tutto è vero o falso e non c’è la via di mezzo viene a perdere di significato perchè una cosa è sensata quando contiene un pò di verità,ma anche un pò di falsità,quando si trova in una via di mezzo (ancora una volta Platone assume posizioni intermedie);se non si ammette l’errore non si può ammettere la verità,che è ciò che non è sbagliato.Il “Cratilo” prende il nome da un seguace di Eraclito,che però aveva radicalizzato le posizioni del maestro e si era molto soffermato sul “panta rei” (tutto scorre):a suo avviso è impossibile dare i nomi alle cose perchè cambiano di continuo:noi chiamiamo Pò un fiume ma non è corretto:non esiste qualcosa che si chiami Pò perchè cambia in continuo (è un esempio evidente perchè le acque si rinnovano in continuazione);si fissa artificialmente una cosa che non è fissabile perchè in continua mutazione.Cratilo con il “panta rei” arriva a dimostrazioni sofistiche:è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre.Quindi in teoria ,dal momento che non si possono attribuire nomi,bisognerebbe solo indicare le cose.Secondo alcuni studiosi Platone stesso sarebbe stato allievo di Cratilo,il che può sembrare strano se consideriamo la dottrina delle idee,in cui viene ammesso un essere fisso,stabile e permanente.Pensandoci bene,però,non è poi così strano:Platone deve aver constatato che nel mondo sensibile non c’è nulla di stabile ed è ricorso alle idee.Platone nel “Cratilo” effettua un’ampia discussione sulla problematica della lingua.Al tempo dei sofisti vi erano state interessanti considerazioni a riguardo , legate al binomio “nomos”-“fusis” (convenzione-natura);questo della lingua è un problema tipicamente antropologico e di materia sofistica.Alcuni sofisti erano del parere che si attribuiscano i nomi in maniera spontanea,secondo natura (“katà fusin”),come se la natura stessa ci suggerisse la nomenclatura di cui servirsi nei suoi confronti.Altri la pensavano in modo opposto:gli uomini attribuiscono i nomi in maniera assolutamente artificiale,secondo convenzione (“katà vomon”).Questa diatriba è in corso ancora al giorno nostro;Platone,dal canto suo,sostenne che attribuiamo i nomi un pò “katà fusin” e un pò “katà nomon”.Nella tradizione ebraico-cristiana vi è il mito della torre di Babele;la lingua di Adamo (l’ebraico) sarebbe stata naturale ed i nomi corrispondevano esattamente all’essenza delle cose e proprio con i nomi si poteva cogliere l’essenza delle cose.Nella torre di Babele i linguaggi successivi sarebbero stati convenzionali e non vi era più piena corrispondenza tra i nomi e le cose.Platone è dunque del parere che la soluzione sia intermedia e noi moderni concordiamo con lui:vi è una mescolanza dei fenomeni.Esiste sì una derivazione naturale dei nomi:sono le cose stesse che suggeriscono i nomi da usare,ma le lingue parlate sono molteplici:una componente di arbitrareità ci deve per forza essere.Quindi le cose tendono a suggerire il nome con cui chiamarle ma dopo di che l’uomo ci lavora sopra correggendo il tutto con la ragione:ancora oggi,comunque,ci sono parole onomatopeiche,che suggeriscono l’essenza del soggetto cui sono riferite (“zanzara”,”cornacchia”…).Si tratta di una teoria intermedia che mette insieme il lavoro razionale a quello naturale.Ma cosa c’entra tutto questo nell’ambito del “Cratilo” e della discussione del vero-falso ? Più di quello che potrebbe sembrare : per Platone entrambe le possibilità per denominare le cose negano la possibilità dell’errore : le parole corrispondono esattamente alle cose;o sono totalmente artificiali o totalmente naturali:si arriva alla stessa conclusione.Se mi attengo alla teoria “katà fusin” un libro mi suggerisce la parola con cui chiamarlo ed è solo quella:non c’è possibilità di errore.Se mi attengo al “katà nomon” i nomi sono totalmente artificiali e quindi vanno bene tutti :lo posso chiamare libro,ma anche tavolo,scarpa…sarà in ogni caso corretto e anche qui non c’è possibilità di sbagliare:infatti in assenza di un arbitrio generale tutti i nomi risultano corretti.Il far corrispondere al meglio (con un misto di lavoro naturale e artificiale) il nome all’essenza delle cose consente di affermare che l’errore esiste e che la retorica (quella vera è ) è la filosofia.Platone sposta poi il problema dalle cose alle idee:così come si possono dare nomi alle cose che si conoscono,si possono dare nomi alle idee che si conoscono:c’è una dimensione conoscitiva e vi è uno sforzo di attribuire nomi che esprimano l’essenza di ciò a cui si riferiscono.Il “Teeteto” è un dialogo dedicato alla matematica:il protagonista , Teeteto , è un giovane matematico che in futuro diventerà famoso.E’ anche dedicato alla conoscenza sensibile e a quella intellegibile,che è quella vera e propria.Quando si parla della conoscenza sensibile viene citato Protagora,che sosteneva che le cose sono come mi sembrano e che l’uomo è misura di ogni cosa:si tratta del relativismo assoluto.Platone è interessato a ciò perchè siamo di fronte al rapporto tra vero e falso.Per poter ragionare,come detto,occorre ammattere l’esistenza del vero e del falso.A supportare le tesi di Platone è un suo allievo, Aristotele ; egli dice che con i sofisti non si può neppure discutere perchè ,dal momento che sostengono che tutto sia vero o che tutto sia falso , nel momento in cui un sofista discute smonta le sue stesse tesi perchè in un certo senso ammette la distinzione tra vero e falso,la possibilità dell’errore:se infatti ci fosse solo il vero o il falso che motivo ci sarebbe di discutere ? C’è anche chi vuole che il “Parmenide” sia in realtà una confutazione da parte di Aristotele delle teorie del maestro Platone : dunque Socrate rappresenterebbe Platone,mentre Parmenide Aristotele.In effetti ci sono numerosi indizi a sostegno di questa tesi : la stessa argomentazione del terzo uomo la ritroviamo in testi di Aristotele ed è quindi probabile che sia sua a tutti gli effetti.D’altronde Aristotele non condivise mai pienamente le teorie del maestro e se rimase nell’Accademia fino a oltre trent’anni fu solo per il rispetto che aveva nei confronti di Platone.Nel “Sofista” Socrate compare come interlocutore secondario in quanto il vero protagonista è lo “straniero di Elea” ,una figura misteriosa, che non possiamo far coincidere nè con Parmenide nè con Zenone ,e che alla fine dovrà effettuare il “parricidio” di Parmenide : arriverà cioè a rivedere le tesi dell’ontologo Parmenide e ad ammettere il non essere.Perchè se il protagonista è un eleatico il dialogo si chiama il “Sofista” ? Evidentemente perchè sia gli eleatici sia i sofisti miravano a negare l’esistenza del non essere:per i sofisti ammettere il non essere è ammettere il falso,per gli eleatici (ed in particolare per Parmenide ) ammettere il non essere significa ammettere un’ altra entità:per loro solo l’essere è e solo l’essere può essere detto.In linea di principio il tema principale del dialogo dovrebbe essere la ricerca di che cos’è il sofista tramite la ricerca di una definizione (è un processo che molto ricorda quello effettuato da Socrate).In realtà per arrivare alla conclusione si fa un giro molto lungo dove si trattano numerosi temi,il più importante dei quali è l’essere (ricordiamoci che “lo straniero” è un eleatico).Che cos’è l’essere ? Lo straniero (quindi Platone) pone due possibili alternative di interpretazione effettuate da due diversi gruppi di persone : lo scontro tra i due gruppi viene paragonato al conflitto tra i Titani e gli Dei . Gli uni vivevano sulla terra e rappresentavano la forza terrena e materiale , gli altri in cielo.I due gruppi che si scontrano nel “Sofista” sono i materialisti (paragonati ai Titani )che sostengono che l’essere è solo quello materiale e gli idealisti (paragonati agli Dei)che affermano che il vero essere sia quello ideale (Platone li chiama “amici delle idee”).Chiaramente Platone fa riferimento alle teorie di Democrito,materialista per eccellenza : egli fu il primo a depurare la materia da concezioni vitalistiche e “ilozoistiche”.Platone in qualità di filosofo idealista vede in Democrito un acerrimo nemico e la sua netta contrapposizione tra mondo sensibile e mondo intellegibile è un modo per dare contro all’avversario : è chiaro che se Platone fosse vissuto prima di Democrito non avrebbe formulato tutte le teorie che ci sono pervenute.I filosofi sono grandi o quando rompono decisamente con la filosofia a loro precedente o quando operano grandi sintesi dei loro “antenati” per creare un qualcosa di nuovo : è proprio questo il caso di Platone nella cui filosofia troviamo tutti i filosofi precedenti : Socrate ,i sofisti , i pitagorici , Parmenide , Eraclito (questi ultimi due hanno addirittura concezioni antitetiche : il primo è il filosofo dell’essere , l’altro del divenire : per Platone le idee sono l’essere pieno mentre le realtà empiriche sono il divenire).Un grande filosofo si serve anche di chi dice cose opposte alle sue : è il caso dei sofisti che si inseriscono in modo “dialettico” nella filosofia platonica ; basti pensare alla questione della seconda navigazione (che Platone effettua perchè non può accetare la ricerca delle cause materiali) o alla reminescenza (che Platone tira in ballo partendo dalle affermazioni sofiste secondo le quali è impossibile imparare).Già solo leggendo i titoli delle opere platoniche ci si accorge di come ci sia tutta la filosofia dell’epoca.Tra i personaggi che Platone cita , quello che viene sempre meno ricordato è Democrito , il cui nome di fatto non compare mai;Platone probabilmente lo conosceva benissimo e lo considerava il suo nemico naturale e l’espressione che compare nel dialogo platonico “l’essere non è nient’altro che il corpo” è senz’altro di Democrito,il materialista più convinto.Come detto,Platone contrappone gli idealisti ai materialisti:entrambe hanno torto,come dirà lo straniero,ma i materialisti sono un caso disperato ed irrecuperabile : sono teste dure con cui è impossibile il dialogo e quindi Platone dice che supporrà un dialogo fittizio con loro (immaginandosi materialisti più aperti e meglio disposti) perchè di fatto sarebbe impossibile parlare con gente così cocciuta e rigida,rigida proprio come ciò che sostengono,quasi come se la loro testa fosse piena di quella materia che vedevano ovunque : cercano di portare tutto sulla terra,come i Titani cercavano di far scendere dal cielo gli Dei. Democrito è quindi l’avversario più temibile e che più di chiunque altro va sconfitto e Platone costruisce la propria filosofia proprio per dargli contro ; chiaramente non si sarebbe potuti arrivare ad una posizione idealista se prima non ci fosse stato chi sosteneva il materialismo:sono posizioni antitetiche ma l’esistenza dell’una determina quella dell’altra.Sullo sfondo di questo scontro tra i due gruppi e tra le loro definizioni di essere,anche lo straniero dà la sua definendo l’essere come “dunamis” (possibilità , potenza):possibilità a fare che cosa ? Esiste tutto ciò che può agire o può subire una cosa : anche l’azione più piccola connota l’esistenza.A questo punto i materialisti affermano che solo ciò che è un corpo può subire o compiere azioni : essi non si limitano a dire che i corpi esistono,ma sostengono che siano le uniche cose ad esistere.Platone dice (muovendo una critica tipicamente idealista) che non è vero : se ammettiamo l’esistenza solo dei corpi cadiamo in una contraddizione.Se esiste solo ciò che è materiale,la giustizia esiste ? Platone si serve della dimostrazione per assurdo,tipica di Zenone : ammettiamo che la giustizia non esista :con che criterio diciamo che una cosa è giusta o sbagliata ? E’ inammissibile che non esista in quanto le cose sono giuste nella misura in cui compartecipano all’idea di giustizia.Ammettendo che esista è alquanto facile dire che essa non sia una realtà materiale.L’ipotesi che l’essere sia solo materiale cade miseramente.Anche “gli amici delle idee” hanno torto,ma chi sono ? Sono coloro che sostengono le tesi di Platone e che pur sbagliando sono aperti al dialogo : potrebbero tranquillamente rappresentare il Platone di tempi addietro , quando aveva appena scoperto la dottrina delle idee e non aveva ancora pensato ai problemi che potevano derivarne e gli pareva che tutto filasse liscio.Però gli “amici delle idee” possono anche rappresentare posizioni interne all’Accademia ma troppo rigide : essi stanno quindi dalla parte di Platone,che però li critica.Dove sbagliano ? Essi (ma anche Platone stesso nella sua giovinezza) sostengono la dottrina delle idee recuperando concetti tipici della filosofia parmenidea : le idee hanno infatti carattere di unicità , permanenza , eternità ,immobilità … Platone evidenzia particolarmente un aspetto : la presunta immobilità e separazione reciproca delle idee . Come detto, “gli amici delle idee” sostengono anche l’esistenza delle cose non materiali e di conseguenza delle idee in quanto subiscono un’azione :vengono pensate e conosciute.Così,però,entra in crisi la concezione delle idee come un qualcosa di immobile : esse esistono nella misura in cui subiscono un’azione e di conseguenza è ovvio che ciò comporti il movimento.Le idee si muovono perchè subiscono l’azione dell’essere conosciute. Dopo di che , Platone passa ad esaminare 5 idee di fondamentale importanza : l’essere , la quiete , il movimento , l’identico , il diverso .Platone fa subito notare come queste 5 idee siano in rapporto complesso tra di loro ed è come se fossero vive perchè hanno rapporti complessi le une con le altre.Si arriva a dire che il mondo delle idee sia un mondo vivo , dotato di intelligenza (sennò come farebbero le idee ad avere rapporti complessi ? );queste 5 idee sono tra l’altro molto importanti per esemplificare che il mondo delle idee non è affatto statico.Dapprima si considerano l’essere , la quiete ed il movimento:derivano tutte e tre dalla discussione precedente (l’essere e le 2 ipotesi , quella dei materialisti,secondo i quali l’essere è in continua evoluzione e non è mai lo stesso , e quella degli idealisti ,secondo cui è un essere immobile )e si comincia una complessa e articolata indagine per analizzare i vari rapporti che intercorrono tra queste idee : ogni idea , infatti , partecipa di altre idee,senza però identificarvisi : è chiaro che solo l’idea di essere è l’idea di essere , ma tutte le altre idee ne partecipano : infatti tutte le idee esistono , sono.Solo l’idea della quiete è l’idea della quieta,ma molte altre ne partecipano(lo stesso vale per quella di movimento).Si passa poi all’idea di identico e di diverso:ogni idea è identica a se stessa e diversa dalle altre , pur non identificandosi nell’idea di identico e di diverso.L’idea stessa dell’essere partecipa all’idea di non essere perchè l’essere è se stesso ma non è nessun’ altra idea.da qui nasce il famoso parricidio di Parmenide : anche il non essere è ,esiste ; si evidenzia quindi la distinzione di essere con valore copulativo (quel libro è bello) da essere con valore esistenziale (l’uomo è):dire “una cosa non è” non vuol dire negare la sua esistenza , ma dire che è diversamente : la penna non è il libro.Nasce quindi la possibilità dell’errore , che prima pareva negata : sbagliare significa dire le cose diversamente da come sono.Vi è quindi il nuovo valore della parola “dialettica”:le idee si richiamano le une alle altre e tra loro intercorrono comlessi rapporto:sono vive e “pensanti” , in quanto si rapportano tra di loro secondo una logica.Secondo Platone le idee sono come le lettere dell’alfabeto che si possono legare e formare un numero quasi infinito di parole ,attenendosi però alle precise regole del discorso;così le idee si possono legare con altre idee (ma non con tutte) secondo determinate leggi e non a caso (come le parole unite a caso non hanno senso , così anche le idee).Le due mansioni che la dialettica deve svolgere sono la “sunopsis” (sun + orao = vedere insieme -> unire ) e la “diairesis” (dià + aireo = dividere attraverso -> divisione ):per Platone bisogna agire come un macellaio che taglia le carni seguendo le articolazioni : occorre ritagliare il mondo delle idee ,che si ricollegano, secondo confini reali:bisogna mettere insieme ciò che va messo insieme e tagliare ciò che va separato.Si arriva a definire il sofista come “cacciatore di giovani” che va a caccia di giovani ricchi da cui spillare soldi:alla definizione si arriva mediante la “diairesis”:in primis bisogna definire la categoria generalissima a cui appartiene la cosa che stiamo definendo:nel caso del sofista bisogna subito “ritagliare” la tecnica.Ma si tratta di una tecnica di produzione o di acquisizione ? Chiaramente nel caso del sofista è acquisizione .Ma si possono acquisire diverse cose : animali , commercianti …La “diairesis” consiste nell’individuare la categoria generalissima e da lì dividere sempre a metà : ogni volta si arriva ad un bivio e si deve scegliere da che parte svoltare , per poi trovarsi ad un altro bivio finchè non si arriva ad una specie ultima , quando cioè la divisione mi porterebbe a trovare solo personaggi (nel caso del sofista Gorgia , Protagora ).Nell’ambito dei dialoghi composti in età avanzata troviamo il “Timeo” , che ha in comune con tutti gli altri dialoghi della vecchiaia il fatto che si facciano vedere le idee in una dimensione più dinamica e si evidenzino i rapporti che intercorrono tra le idee stesse (il “Sofista” ) e tra idee e cose (il “Parmenide” ).Nel “Timeo” si parla in modo particolare del rapporto idee-cose e Platone si occupa del mondo fisico a tal punto che non è sbagliato definire il “Timeo” libro fisico (da “fusis”,libro della natura).Infatti finora non si era praticamente occupato del mondo sensibile se non per affermare che è una pallida copia del mondo delle idee e per evidenziare la sua inferiorità rispetto al mondo intellegibile.Dato che era un argomento meno importante e che il “filosofo” si muove tra le idee , Platone dedicò solo un’ opera al mondo sensibile, che ci viene presentato come “il mondo in cui si muove l’uomo”.Il “Timeo” ci viene da Platone presentato come continuazione della “Repubblica” :è come se dopo aver parlato dello stato ideale , Platone si cimentasse a descrivesse il mondo fisico in cui lo stato deve operare.Va poi ricordato che il “Timeo” e il “Crizia” sono i dialoghi del mito di Atlantide , città nemica della Atene preistorica che era vista come realizzazione dello stato ideale:chiaramente Atene è collocata in un tempo senza tempo,è vista come città mitica.Questo mito tutto platonico serve a far conoscere qualcosa che non è pienamente coglibile con il raziocinio (le idde sono l’essere pieno e quindi effettivamente conoscibili con la ragione : il mondo sensibile è in continua mutazione e di conseguenza non è un essere pieno e non può essere conosciuto con la ragione;così era anche per il mito della caverna in cui si parlava del bene in sè,che era al di sopra delle idee e quindi non era pienamente conoscibile con la ragione).Questo mito verosimile viene presentato in un contesto pitagorico (il protagonista,Timeo ,è di Locri ,nell’attuale Calabria;non si sa però se codesto Timeo sia realmente esistito o sia un’ invenzione platonica come molti sofisti;fatto sta che Timeo rappresenta il “pitagorico” )e presenta una cosmogonia (come è nato il mondo) e una cosmologia (come è fatto il mondo).Descrivendo la nascita del mondo Platone si serve di una metafora (ricordiamoci che stiamo parlando di una “opinione vera”) biologica : il mondo in cui viviamo ha un padre e una madre:il padre è il mondo delle idee mentre la madre è la materia (notare che la parola materia deriva dal latino “mater” = madre).Secondo Platone il padre fornisce la forma mentre la madre la materia ( a quei tempi si dava per scontato che l’aspetto più nobile della riproduzione fosse paterno,mentre l’aspetto materno era ritenuto inferiore sebbene essenziale).Dunque ci sono questi due elementi , il padre (ricordiamoci che la forma del mondo sensibile deriva,nella misura in cui ne compartecipa, da quella del mondo intellegibile) e la madre (Platone per definirla non usa la parola materia,in greco “ule”,che verrà poi introdotta da Aristotele ,ma “concausa”,per il fatto che la madre ha un ruolo secondario rispetto al padre,o “causa necessaria”,per il fatto che la materia è la condizione per la realizzazione di qualcosa:c’è sì il cavallo ideale , ma senza materia con cui plasmare non si può fare nulla).Tuttavia chiama la madre anche “ricettacolo delle forme” per il fatto che la materia è il luogo in cui vengono ricevute le forme , e “spazio” (in greco “kora” = regione ,ma con valore astratto = spazio):la parola “kora” dà proprio l’idea dell’estensione pura,senza alcuna forma (il che comporta il fatto che può assumerle tutte).Sappiamo che le idee sono fuori dal tempo e dallo spazio : quando un’idea è compartecipata dal mondo sensibile si cala nello spazio.Tutto il “Timeo” è incentrato sulla necessità di spiegare il mondo fisico e la sua compartecipazione alle idee:le idee sono perfette , le cose no:da un lato si predica il bene (le cose tendono alla perfezione ideale)dall’altro il male (non riescono ad imitare perfettamente): si crea così una sorta di ambiguità;si può accettare la frase non platonica ( é infatti stoica ) “viviamo nel migliore dei mondi possibili” in quanto il nostro mondo si avvicina più che può a quello intellegibile.Finora per quel che riguarda l’imperfezione del mondo sensibile ce l’eravamo cavata dicendo che un’imitazione , per definizione , non è mai perfetta:ma perchè il mondo non sarà mai perfetto ? Qual è l’ostacolo ? Platone era del parere che il nostro fosse un mondo buono,ma tuttavia era consapevole della sua imperfezione.Alla domanda che ci siamo appena posti Platone rispose così : per lui ciò che impedisce al mondo sensibile di essere perfetto è la materia;perchè il mondo empirico si realizzi e si plasmi occorre che si realizzi in qualcosa privo di forma : è come un metallo che deve essere lavorato : se avesse già una sua forma immutabile non lo si potrebbe lavorare.Quindi la caratteristica della materia è non avere caratteristiche.Platone dice che il ragionamento che ci porta a conoscere la materia è “bastardo”,impuro , scorretto perchè se ad esempio guardiamo un cavallo , in realtà conosciamo l’idea : la materia la conosco come ciò che non è idea:si arriva alla conclusione in modo negativo perchè il ragionamento coglie solo una caratteristica : la materia non ha forma.Non potrebbe essere “ricettacolo delle forme” se avesse una forma definita (è come la cera sulla quale si deve attaccare un sigillo:deve essere molle e senza forma per poter così prendere quella del sigillo).Se affermiamo che la materia per ricevere le forme non deve avere forme cogliamo simultaneamente un aspetto positivo e uno negativo : è di fondamentale importanza ma soffrirà sempre di una deficienza.Consente alla materia di avere forme,ma le riceverà sempre imperfettamente perchè è priva di forme , disordinata : le si darà una forma , ma manterrà sempre una componente priva di forma:è proprio questa componente a rendere il mondo sensibile imperfetto.Quindi la materia è contemporaneamente un aiuto perchè fa calare le idee nel mondo sensibile ed un ostacolo perchè , per inclinazione naturale , mantiene una componente di disordine.Tra gli “agrafa dogma” (le dottrine non scritte) di Platone troviamo la diade indefinita , alla quale abbiamo già accennato.Platone è all’ultima fase della sua riflessione e risulta particolarmente influenzato dai pitagorici ;al vertice della realtà si trova il principio bipolare,in cui vi sono due poli come in un magnete:e come un magnete esiste solo quando ci sono un polo negativo e uno positivo che risultano essere indivisibili.L’uno è il vertice unitario , il due quello molteplice , diade indeterminata del piccolo e del grande.Platone ha spiegato che in fondo il mondo è uno , di parvenza molteplice:non è una dispersione di cose.Ma perchè , pur essendo uno , pare essere molteplice ? Come mai l’uno si moltiplica ? Vi sono due risposte : a) c’è di mezzo la materia , che genera scompiglio ed indeterminatezza , b) c’è la diade , che genera indeterminazione : se si ha della materia alla quale dare una forma , la forma stessa determina che essa sia nei suoi limiti , nè più grande nè più piccola di ciò che è : piccolo e grande sono una coppia di concetti simmetrici e polari , entrambe indeterminati (c’è sempre qualcosa di più grande e qualcosa di più piccolo) : ricorda molto il gioco del limite e dell’illimitato dei pitagorici .La parziale differenza è che più che essere due principi , sono un principio solo bipolare , altrimenti se il mondo si moltiplicasse significherebbe che i due principi (uno-diade) devono essere impliciti nella realtà.Nel principio che genera il mondo (l’uno) ci deve anche essere la diade : l’uno non rimane uno (come invece era per Parmenide) , ma presentando aspetti molteplici scende di livello : parte dal bene in sè,passa alle idee e poi si cala al mondo sensibile.se vogliamo,la materia rappresenta il male in quanto è elemento di disordine della realtà.Pare quindi che il male stesso sia parte del principio ; in verità c’è il principio da cui si origina il male , ma il male di per sè all’inizio non c’è : la diade indeterminata sta a significare che l’uno (il bene in sè) non rimane unitario , ma si cala nelle idee (che sono tante) prima e nel mondo sensibile poi.E’ come se la potenziale negatività della materia si manifestasse gradualmente : quando è nell’uno non la si vede neppure , è ben inserita e quasi identificabile con lo stesso uno.Nel mondo delle idee , invece , non si è ancora manifestata come male, ma solo come molteplicità (le idee sono tante , ma ordinate ).Nel mondo sensibile le cose sono molteplici (e si sono moltiplicate in modo indefinito : mentre l’idea di cavallo è una , i cavalli sono tantissimi , un numero quasi infinito)e disordinate:la componente di imperfezione è presente in tutti i livelli , ma man mano che si scende è come se si “inspessisse” sempre di più.Comunque tutto questo discorso rimane avvolto da un’ alone di mistero un pò perchè non sta scritto da nessuna parte , un pò perchè non è pienamente coglibile con la ragione.Dunque il mondo fisico deriva da un padre (il mondo delle idee) e da una madre (la materia , che è la condizione per l’esistenza del mondo fisico stesso ma che mantiene comunque una componente di indeterminazione) : ma cos’è che fa da madiatore tra il mondo delle idee e la materia ? Cos’è che fa sì che le idee si calino nel mondo sensibile ? Platone mette a questo punto in gioco la figura del Demiurgo (dal Greco “demos” ,popolo, + “ergon” , opera, = artigiano).Il Demiurgo è un divino artigiano : è colui che contemplando le idee plasma la materia sul modello delle idee stesse.Platone introduce quindi una divinità a tutti gli effetti (fino ad adesso non ne avevamo mai realmente incontrata una).Il concetto che l’artigiano guardi ad un modello è tipicamente platonico (e aristotelico ): mentre gli artigiani umani guardano ad un modello che hanno nella loro testa , il Demiurgo guarda ad un qualcosa che è fuori da lui:dato che le idee sono il bene per la loro categoria , anche il mondo sensibile dev’essere per forza buono , sebbene indeterminato.Che rapporto intercorre tra le idee , la materia ed il Demiurgo ? Tutti e tre sono coeterni , sono sempre esistiti.A differenza della divinità cristiana , che crea il mondo, quella platonica si limita a plasmarlo e non è onnipotente : ha infatti due limiti : la materia , che gli impedisce di costruire un mondo perfetto , e le idee , che sono il modello a cui deve per forza attenersi.Il Demiurgo guarda sì al meglio , ma il suo comportamento è dato da qualcosa da lui esterno ed indipendente.Nel Medioevo vi fu un grande dibattito teologico : le cose sono sante perchè piacciono alla divinità o piacciono alla divinità perchè sono sante ? In altre parole : la divinità è colei che riconosce le cose buone e le sceglie , o è colei che fa le cose buone ? Platone affronta questo argomento , legato al santo , nell’ ” Eutifrone “ : a suo avviso le cose sono buone ( sante ) intrinsecamente e non perchè c’è chi decide che lo siano : il bene in sè è il criterio per giudicare tutte le cose che possono essere buone;è buono ciò che partecipa alla super-idea di bene , come è bello ciò che partecipa all’idea di bellezza.Le idee sono il modello per gli uomini e per la divinità.Chiaramente la divinità vale di più rispetto all’uomo : essa riconosce facilmente il bene , mentre gli uomini hanno delle difficoltà e non sempre ci riescono.Vi fu chi arrivò a dire che ciò che è giusto è giusto perchè l’ha deciso la divinità.Chiaramente se Platone avesse avuto modo di prendere parte al dibattito teologico medioevale , avrebbe affermato che le cose buone piacciono alla divinità perchè sono buone e non avrebbe potuto accettare l’idea che le cose sono buone perchè piacciono alla divinità. E’ corretto affermare che la divinità per Platone è il Demiurgo solo entro certi limiti : se la divinità per definizione è il principio supremo , allora la divinità platonica dovrebbe essere il bene in sè.Se la divinità è principio della realtà , è evidente che non deve dipendere da nulla : ma il Demiurgo dipende dalla super-idea del bene e dalle altre idee che è costretto ad imitare : ne consegue che non è indipendente ma è al contrario limitato.Il bene in sè ,invece,abbiamo visto che è illimitato ed è lui stesso il principio (bipolare) della realtà.Il concetto di divinità nella tradizione ebraico-cristiana attinge un pò dal Demiurgo e un pò dalla super-idea del bene.Non a caso nel Medioevo il “Timeo” (che è appunto il dialogo dove compare il Demiurgo) ,a differenza degli altri dialoghi platonici, continuò ad essere letto e non cadde in disuso.Questo perchè il “Timeo” è l’opera platonica più vicina al Cristianesimo : c’è l’idea della plasmazione , piuttosto vicina a quella della creazione : inoltre la divinità in un certo momento crea il mondo (la divinità di Aristotele invece fa ben poco).Va poi ricordato che il Demiurgo è un dio-persona come quello dei Cristiani.Dietro a questo amore cristiano per il “Timeo” , probabilmente c’è un fraintendimento : le interpretazioni del “Timeo” sono due e i Cristiani scelsero probabilmente quella sbagliata.Se si legge il “Timeo” alla lettere si incontra questo “plasmatore” divino : sembra che il mondo prima non ci sia e che ci sia solo la materia : si ha l’impressione che ci sia un tempo prima e un tempo dopo . Ma Platone credeva in ciò che diceva ? Se si legge accuratamente il “Timeo” ci si accorge che Platone ad un certo punto si pone un quesito : che cos’è il tempo ? Il Demiurgo tra le varie cose plasma anche gli astri , il cui movimento regolare si identifica con il tempo.Il tempo viene definito “immagine mobile dell’eternità”: come il mondo sensibile è imitazione di quello intellegibile (il primo mutevole , il secondo eterno) , così il tempo è imitazione dell’eternità.Non a caso il tempo viene identificato con il movimento circolare : se si vuole rappresentare l’eternità con qualcosa di movimentato , senz’altro ciò che meglio la rappresenta è il cerchio , il movimento circolare in cui si compie un giro per poi tornare al punto di partenza:infatti il tempo è caratterizzato dal non essere eternità ma tornare sempre su se stesso.La cosa più simile a ciò che non si muove mai è quella che torna sempre su stessa , così come la cosa più simile che l’uomo possa fare per eternarsi è il riprodursi ciclicamente.Dunque il tempo è la plasmazione dell’eternità ideale da parte del Demiurgo.La conseguenza è che non c’è un tempo prima del mondo perchè è solo con la nascita del mondo sensibile che il Demiurgo ha calato nella realtà sensibile l’imitazione di eternità.Questa è una visione ben diversa da quella cristiana nella quale la divinità in un certo momento decise di creare il mondo.Va poi ricordato che Platone stesso all’inizio del “Timeo” dice che si tratta di un mito : di conseguenza i Cristiani hanno preso per vero qualcosa che Platone stesso dice non essere vero , ma solo un’immagine che rappresenta la relazione tra mondo intellegibile e materia.Quindi Platone non credeva assolutamente nella figura del Demiurgo ed il suo vero dio resta il bene in sè.Oltre ad esprimere la relazione tra idee e materia , il mito del Demiurgo esprime anche il finalismo : Kant direbbe “è come se” il mondo fosse stato elaborato da un artigiano.Il mondo sensibile è da sempre e per sempre un’ immagine temporale del mondo delle idee.Il Demiurgo dunque comincia a plasmare nella materia (che Platone chiama anche “spazio”)e arriva a generare tutta la realtà . Platone dice che la prima cosa che si crea nello spazio sono 4 solidi geometrici fondamentali : si tratta dei 4 solidi regolari (costituiti da facce uguali tra di loro).Platone è convinto che si possano ottenere tutti e 4 partendo da un triangolo rettangolo isoscele:ricombinandolo si possono ottenere vari tipi di figure ( se ne creerebbero 5 , ma Platone una la scarta).Essi sono il cubo , l’ottaedro , il tetraedro , l’icosaedro (quello che scarta è il dodecaedro). Questi 4 solidi stanno a rappresentare i 4 elementi fondamentali di Empedocle (terra , acqua , aria , fuoco , che verranno poi anche ripresi da Aristotele ) : ognuno dei 4 elementi di Platone è costituito da parti minime (non ulteriormente divisibili)e ciascuno è caratterizzato da una forma : per Platone la terra è il cubo , che suggerisce l’idea di regolarità , materialità , stabilità e compattezza.Il fuoco , per esempio, è invece rappresentato dal tetraedro perchè , dal momento che brucia , deve essere particolarmente spigoloso (il tetraedro è il più spigoloso) e la forma stessa della fiamma è simile a quella del tetraedro.Platone ancora una volta prende spunto dalla filosofia dei suoi precedenti mescolando in questo caso Empedocle a Democrito (che tra le varie cose riteneva che a stimolare i nostri sensi fossero le determinate forme degli atomi)e ai Pitagorici (Timeo è pitagorico e le forme degli elementi sono geometriche).Tra l’altro ci possiamo anche riallacciare alla gerarchia dei livelli della realtà : abbiamo detto (con l’aiuto del grafico) che i numeri erano a metà strada tra mondo sensibile e mondo intellegibile ; qui vengono utilizzati come collegamento tra mondo ideale e materiale.Il Demiurgo plasma quindi l’ Universo ed il Sistema (non è molto chiara la struttura astronomica che attribuisce al Sistema : pare che Platone abbia superato la teoria geocentrica ; non ammette il movimento di rivoluzione , ma sembra ammettere quello di rotazione:è la Terra che gira). Platone introduce poi il concetto di “anima del mondo” : il mondo delle idee abbiamo detto che è movimentato , intelligente, vitale: il mondo sensibile , nella misura in cui il Demiurgo lo plasma , non può che essere simile a quello intellegibile : ha un’ anima sua .L’Universo è un grande essere vivente permeato interamente da un’ anima.Tutto quindi è vitale , sebbene in diverse misure.L’osso è vivo perchè fa parte di un essere vivente , ma anche la pietra è viva perchè fa parte di questo grande essere vivente (l’Universo).Platone insiste poi particolarmente sul finalismo ( il cavallo è nato per essere veloce , il cane per fare la guardia…) e sulla stretta parentela tra uomo e animali (gli animali sono il frutto di incarnazioni infelici delle anime nell’aldilà : ricordiamoci del mito di Er ;di tutte le incarnazioni , Platone sostiene che la peggiore , dopo quella di donna e di animale , sia quella dei pesci).Le ultime riflessioni di Platone sulla vita etica (quella del singolo individuo) e sulla vita politica (quella dell’intera comunità) le troviamo nel “Filebo” e nel “Politico” : ci troviamo di fronte ad un Platone più scettico e che mette in discussione le sue stesse teorie.Si pensa che questi due dialoghi risalgano all’esperienza siracusana con il tiranno,ma c’è anche chi è del parere che questa “sfiducia” nelle sue dottrine sia dovuta solo all’età ormai avanzata:Platone , ormai vecchio , non è più entusiasta come quand’era giovane delle sue dottrine che erano nate per risolvere problemi , ma che in realtà ne avevano solo creati di nuovi.Probabilmente sono entrambe questi due fattori (l’esperienza con il tiranno e l’età avanzata) che fanno sì che Platone sia così scettico.Il “Filebo” non è un dialogo propriamente politico : viene posto l’interessante quesito : che cos’è la vita buona ? Dunque Platone riprende un tema tipicamente socratico ; si discute ancora una volta (come già nel “Gorgia” o nel “Fedone” ) se bene e piacere siano identificabili : a differenza degli altri dialoghi in cui aveva affrontato questo problema , nel “Filebo” Platone assume posizioni più moderate : anche qui nega l’identificazione , ma arriva tuttavia ad individuare diversi tipi di piacere , non necessariamente negativi : non tutti i piaceri sono per forza accompagnati dal dolore . Ci sono anche piaceri intellettuali (ad esempio la musica o quelle conoscenze che danno un senso di piacere)che non sono così strettamente legati al dolore: sono piaceri a dimensione positiva.In poche parole quando ci sono sono un piacere , quando non ci sono sono un dolore.Secondo Platone bisogna privilegiare e coltivare solo certi piaceri.Una vita buona non può essere priva di piaceri (così avevamo anche detto a riguardo dell’anima : le passioni sono fondamentali).Platone delinea così la “vita mista” , basandosi sull’idea che la bontà consista in un equilibrio dato dalla mescolanza di elementi diversi che si mescolano secondo misura : da notare che misura , 1 , numero etc. sono sinonimi per definire il bene in sè.La vita buona , per Platone , è mescolanza di intelligenza e piacere : questa mescolanza non è casuale , ma ponderata : bisogna vedere attentamente in che misura mescolare intelligenza e piacere.Per Platone l’intelligenza è superiore al piacere e tenderà sempre a prevalere per il semplice fatto che se si deve stabilire in che misura mescolare piacere ed intelligenza , è l’intelligenza stessa che ci indica la misura in cui mescolare.Quindi ,di per sè,l’intelligenza è maggiormente presente nella vita buona.Se si presta attenzione alla filosofia platonica , ci si accorge che ritorna spesso l’idea che la spiegazione ultima di tutto è riconducibile ad un sistema binomio,ad un duplice principio.Prendiamo , ad esempio, la “Repubblica” e più precisamente la tripartizione della società : le classi in realtà sono due perchè i difensori sono i futuri governanti . E’ la classe dei governanti che dà l’equilibrio alla sua classe e a quella dei produttori.Spostiamoci ora al “Fedro” e al mito della biga alata , metafora dell’anima : c’è un principio razionale (l’auriga : il fatto che sia uno solo sta a significare che la piena razionalità è nell’unicità) e due irrazionali (il cavallo bianco , che simboleggia la parte arazionale , e quello nero , che è emblema dell’irrazionalità : l’irrazionalità è data da due elementi , che simboleggiano la molteplicità):la ragione è ordinata e unica , l’irrazionalità è molteplice : il fatto che sia data da due cavalli implica la possibilità di andare in due direzioni diverse.Passiamo poi agli “agrafa dogma” (le dottrine non scritte) e al principio bipolare uno-diade : un polo (quello dominante) è l’unitarietà , l’altro è la molteplicità.Nel caso della biga alata , emerge il fatto che con la misura si controlla ciò che è illimitato : pensiamo ad un termometro ; le temperature sono pressochè infinite (in realtà non lo sono , ma facciamo conto che lo siano) e il termometro rende quindi definito ciò che è indefinito.Platone voleva scrivere una trilogia : 1) il sofista 2) il politico 3)il filosofo : il primo l’ha effettivamente ralizzato , il secondo l’ha iniziato ma non l’ha finito ed il terzo non l’ha mai neppure cominciato.Analizziamo ora il “Politico” : l’opera si intitola il “Politico” e non “la politica” (come si chiamerà invece l’opera di Aristotele ) perchè Platone era convinto che per avere uno stato perfetto occorresse che fosse governato da uomini politici perfetti.Ma chi è il vero uomo politico ? Platone parte dallo scartare la definizione omerica “il re è pastore di uomini” perchè implica una superiorità di razza da parte del politico e ciò lo si poteva accettare solo se si torna all’epoca mitica in cui gli dei governavano gli uomini.Così come nel “Sofista” (in cui il tema centrale era la possibilità di dire il falso , il non essere) , anche nel “Politico” la definizione del personaggio passa in secondo piano e risulta scherzosa.Così come nel “Sofista” , per definire si serve della “diairesis” : quella del politico è una tecnica analoga a quella del tessitore che intreccia fibre di carattere diverso:intreccia trama e ordito.Ancora oggi si suole usare l’espressione “tessuto sociale” per indicare che le funzioni si intrecciano . Nell’intrecciare i tessuti , ci sono caratteri più solidi ( coraggiosi, nella politica) ed altri più raffinati (intelligenti , nella politica) : il politico deve sapere la misura per mescolare bene i diversi “strati” sociali.Ben emerge come Platone sia più rigido e meno sciolto (soprattutto nello stile) rispetto a quanto lo era in gioventù.Egli arriva ad affermare che nello stato perfetto non ci sarebbe bisogno delle leggi perchè esse sono quasi un “male necessario” che si introducono in assenza dell’uomo politico perfetto.Infatti la legge per quanto cerchi di cogliere le sfumature non ci riesce mai totalmente e non è mai assolutamente giusta : la legge dice di non rubare e di punire chi ruba con determinate pene : ma non dice , per esempio , di punire chi ruba due libri ed un quaderno con due mesi di carcere.Se ci fossero politici perfetti deciderebbero quale pena applicare in ogni determinato caso.Come il medico riesce a vedere in ogni frangente la cura da amministrare al paziente , così il politico , per Platone , deve prendere le decisioni senza essere vincolato dalle leggi.Ma nella realtà , dove è impossibile per definizione essere perfetti ,Platone dice che le leggi sono necessarie : esse sono necessarie perchè è vero che danno norme universali e non sempre giuste in tutti i casi , ma comunque in questo vincolare danno delle regole alle quali attenersi.Seguendole non si otterrà un risultato perfetto (che si otterrebbe invece seguendo il politico perfetto) , ma comunque buono. Platone crea poi nel “Politico” una nuova gerarchia dei governi : al vertice mette sempre il suo stato ideale ma subito dopo si trovano i governanti che regnano secondo le leggi.Negli ultimi posti ci sono i governi in cui si comanda senza leggi.L’ultima fatica di Platone è costituita dalle “Leggi” , un dialogo rimasto incompiuto : si è curato della sua pubblicazione e di inserire l’ultimo libro un allievo di Platone : questo ci aiuta a capire il carattere pesante e ridondante dell’opera.E’ di gran lunga l’opera più lunga : si tratta di una raccolta di leggi e pure questo aspetto contribuisce alla pesantezza dell’opera.Il problema del consenso che abbiamo affrontato nella “Repubblica” si trasforma nell’essere tutti d’accordo che le leggi sono buone:ogni legge viene preceduta da un preambolo , da un’argomentazione dove si spiega perchè quella legge viene elaborata, perchè è giusta : oggigiorno questo non c’è nelle nostre leggi , ma tuttavia nelle proposte di legge viene data una motivazione alle nuove leggi.Vi è anche chi dice che le “Leggi” fossero un manuale in uso nell’Accademia che assunse gran prestigio : pare infatti che le nuove città , o quelle rifondate o ancora quelle ricostituite si rivolsero all’Accademia per farsi varare le leggi.Abbiamo già parlato dello Stato Secondo : Platone cerca un compromesso tra lo stato ideale (che sa bene che sia inattuabile) e la realtà : egli elimina gli aspetti più scioccanti ed inattuabili (l’abolizione della proprietà terriera e della famiglia , sebbene sostenga che i governanti debbano vivere di tanto in tanto insieme).Per lo stato delineato qui da Platone si parla anche di “involuzione politica” : lo stato di Platone , a sorpresa , diventa teocratico . Per Platone si devono venerare gli astri a causa del loro ordine e bisogna imporre la religione ai cittadini (anche con la forza : Platone può quindi apparire l’antenato degli inquisitori spagnoli). Ci troviamo di fronte ad un Platone molto conservatore (dice addirittura che chi non crede nella religione vada ucciso) e distante dalle posizioni di Socrate (che aveva idee religiose molto personali).La teoria delle “Leggi” che di gran lunga ha avuto più successo nella storia è quella della costituzione mista , che abbiamo già esaminato.Prendendo infatti i migliori aspetti di ogni forma di governo i difetti di ciascuna si attutiscono : vi è una sorta di equilibrio dei poteri.Dopo la morte di Platone , la sua scuola si continua per quasi 8 secoli, se vogliamo includervi anche la neoplatonica;ma non conserva in tutto il suo svolgimento lo stesso spirito nè si mantiene fedele alla dottrina del maestro.I successori immediati di Platone furono Speusippo e dopo di lui Senocrate , nei quali già comincia a manifestarsi l’influsso di Aristotele ,almeno per quel che riguarda la necessità di dare un ordine più sistematico ed architettonico alla dottrina.
IL PENSIERO
Alla base del sistema platonico vi é quella concezione dualistica che segnerà profondamente i successivi sviluppi della filosofia occidentale : da una parte l’ Iperuranio , il mondo delle idee perfette ed eterne , dall’ altro l’ universo fenomenico , pallida ombra e copia imperfetta di quello . Al primo appartiene anche l’ anima , imprigionata in un carcere corporeo da cui aspira a liberarsi ; questa conosce le cose attraverso l’ affiorante ricordo delle idee , che delle cose stesse sono i puri archetipi e che essa ha contemplato nella sua esistenza anteriore . Da qui la condanna , sofferta ma inevitabile , di ogni forma di arte , che della realtà sensibile é a sua volta imitazione ( mimesi ) , e l’ aspirazione a costruire una ” politeia ” terrena , che rifletta in qualche modo le idee di Bene e di Ordine del mondo iperuranico , dal rigido statalismo della Repubblica fino agli esiti teocratici delle Leggi . Due sono comunque le caratteristiche fondamentali del pensiero platonico : la sua asistematicità , che trova espressione coerente nella forma ” aperta ” del dialogo , e il suo tentativo di porsi come sintesi di tutte le posizioni che avevano caratterizzato il dibattito precedente , da Eraclito e Parmenide fino a Socrate e ai Sofisti ; e infatti non é un caso che molti dei protagonisti di tale dibattito siano anche scelti come interlocutori dei dialoghi , quasi come se Platone li chiamasse a far parte di un’ ideale giuria , che non possa non riconoscere nella sua dottrina il punto d’ arrivo di una ricerca iniziata due secoli prima in Ionia . Il perpetuo fluire eracliteo e l’ eterna immutabilità dell’ Essere parmenideo , l’ Uno degli Eleati e il molteplice degli atomisti , il relativismo di Protagora e la fede socratica in un mondo di valori assoluti : tutto confluisce nel grandioso e variegato edificio che Platone ha innalzato sulle rovine antiche della ” sapienza ” , spesso utilizzandole come materiale di ri-uso . Ma per far ciò egli ha dovuto pagare un duplice prezzo , compiendo una scelta traumatica , che il suo maestro Socrate si era rifiutato di fare . Innanzitutto ha accettato di fissare nell’ univocità della parola scritta le dinamiche movenze del dialogo , trasformandolo in un vero e proprio genere letterario . Poi si é visto costretto a trasferire sul piano ontologico la frattura del logos già avvenuta sul piano concettuale , creando due universi paralleli nei quali collocare rispettivamente doxa e aletheia , opinione ingannevole data dai sensi e verità assoluta derivante dalla contemplazione razionale degli archetipi che sono le idee , e facendo passare questa scissione anche all’ interno dell’ uomo , irrimediabilmente lacerato dal dualismo corpo-anima : questi due eventi , il farsi scrittura del logos e la rottura del suo nucleo , segnano la morte definitiva della sophia e l’ avvento della philosophia , di quella ” non amante ” ( nonostante il nome ) , ma distruttrice . Di questo doloroso passo , reso necessario dalle profonde trasformazioni di un mondo che non era più quello degli antichi sapienti , Platone é pienamente consapevole , e lo dimostra la paradossale condanna della scrittura espressa nel Fedro e l’ ancor più sconcertante dichiarazione contenuta nella Lettera VII , secondo cui egli non ha mai messo nè mai metterà per iscritto il vero cuore della sua dottrina , poichè ” non é assolutamente qualcosa che si possa esprimere a parole , come le altre discipline , ma solo dopo lunga dimestichezza e comunanza di vita riguardo alla materia stessa , all’ improvviso si manifesta all’ anima , come luce che si accende da fuoco che guizza , e si nutre poi di sè medesima ” . Che Platone avesse affidato alla scrittura solo una parte dei suoi insegnamenti é confermato dal riferimento di Aristotele ( Fisica , 209b 14 ) ai suoi agrafa dogmata , espressione che lascia intendere l’ esistenza di una dottrina esoterica , cioè riservata a una ristretta cerchia di discepoli , che il fondatore dell’ Accademia non riteneva opportuno divulgare all’ esterno . Certo , in mancanza di dati sicuri , rimane impossibile stabilire il peso specifico di tali ” dottrine non scritte ” nel contesto del pensiero platonico , quale ci é dato di conoscere dai Dialoghi , ma gli influssi pitagorici ed orfici affioranti anche in essi possono lasciarci supporre che Platone intendesse affidare a tali insegnamenti segreti una memoria sapienziale destinata a salvarsi dal generale naufragio di una cultura che ha avuto in Socrate il suo ultimo esponente .
ANTISTENE
” Io vedo i cavalli, non la cavallinità!”
Dopo la morte di Socrate (399 a.C.), la “filosofia socratica” fu insegnata ad Atene da Antistene, che – unico tra i suoi discepoli – non si era allontanato dalla città dell’Attica. Nato e vissuto ad Atene tra il 444 e il 365 a.C., egli tenne le sue lezioni filosofiche nel ginnasio ateniese di Cinosarge, rivelando grande attenzione per le tematiche dialettiche connesse al metodo d’indagine sviluppato da Socrate. Particolarmente rilevante è il nome del ginnasio in cui Antistene tenne le sue lezioni: “Cinosarge”, infatti, significa letteralmente “cane agile” (kuwn + argoV) e – secondo un’antica tradizione – di qui sarebbe derivato il nome di “cinici” a coloro che si richiamarono all’insegnamento di Antistene, tanto più che i suoi seguaci predicavano e conducevano una vita sciolta da qualsiasi vincolo familiare o politico, al di fuori di tutte le convenzioni sociali: una vita, insomma, simile a quella dei cani, che sono appunto liberi da qualsiasi legame, e pienamente autosufficienti. I principali esponenti del “cinismo” antisteneo furono Diogene di Sinope, Cratete, Metrocle e – nel III secolo – Menedemo e Menippo. Antistene era giunto a Socrate dopo una lunga frequentazione dei Sofisti (soprattutto Gorgia di Lentini) e ciò contribuì a metterlo in una posizione di particolare attrito con l’altro condiscepolo Platone, cui contese il titolo di vero interprete delle dottrine del maestro: in realtà, dalle interpretazioni che danno Antistene e Platone emergono due figure di Socrate diverse e inconciliabili; attento alle problematiche gnoseologiche, alle quali sa fornire – nei dialoghi della maturità – risposte incontrovertibilmente salde, perché poggianti sull’iperuranico mondo delle Idee, il Socrate di Platone è un Socrate “metafisico”; interamente assorbito dalle problematiche di ordine etico, incurante dei problemi concernenti la conoscenza, il Socrate di Antistene è un Socrate “antimetafisico” e completamente votato all’etica. Va subito precisato che i Cinici furono i rappresentanti di una filosofia “popolare” (c’è chi ha qualificato il loro pensiero come “filosofia del proletariato greco”) che continuò a sussistere per molto tempo nell’ambito della cultura greca ed ispirò anche generi letterari, tra i quali famosa fu la satira; anche quando i loro insegnamenti confluirono nelle dottrine digli Stoici (a partire dalla fine del IV secolo a.C.), l’atteggiamento “cinico” rappresentò sempre l’anima popolare dello stoicismo, parallela e contrapposta all’ispirazione aristocratica e colta di quella scuola. Alla base del pensiero di Antistene è il cosiddetto “intellettualismo socratico”, secondo il quale la virtù si può insegnare e può essere raggiunta attraverso un laborioso esercizio interiore (askhsiV), che addestra lo spirito come la ginnastica fa col corpo. Da qui nasce l’inflessibile rigorismo morale – che perviene a conclusioni diametralmente opposte a quelle cui era addivenuto Aristippo, propugnatore dell’edonismo -, con la condanna di ogni “vanità” umana in nome di una vita basata sull’autosufficienza (autarkeia) del saggio: atteggiamento ben compendiato dalla figura di Diogene di Sinope, il quale faceva addirittura a meno di una dimora fissa e conduceva la propria esistenza in una botte. La riflessione etica elaborata da Socrate è dunque da Antistene portata alle estreme conseguenze, con un’estremizzazione che certo non era socratica: “preferirei impazzire piuttosto che provare piacere”, asserisce significativamente Antistene, in netta rottura con Aristippo. La virtù poggia interamente sullo sforzo e sulla fatica: perciò l’eroe modello al quale fare costante riferimento è Ercole, che ha vittoriosamente affrontato le sue fatiche. Essendo la felicità riposta nell’autosufficienza, diventa necessario non soltanto non cedere ai piaceri, ma anche liberarsi dai desideri e dalle passioni che ingombrano il nostro animo. Il criterio a cui fare riferimento è, in tale ottica, la natura e non il mondo delle istituzioni umane, convenzionali, le quali incrementano i bisogni umani e quindi accrescono le forme di dipendenza:
“La virtù è sufficiente, da sola, per il raggiungimento della felicità, e non ha bisogno di niente altro. La virtù è propria delle opere, e non ha bisogno né di molti discorsi né di nozioni. Il sapiente è autosufficiente: tutte le cose degli altri sono sue. Il sapiente non si regola secondo le leggi stabilite dalle comunità politiche, ma secondo la legge della virtù”. (Diogene Laerzio Vl, 10)
La polemica sofistica (derivata da Gorgia) contro la convenzionalità delle leggi si trasforma così in Antistene e, ancor più, nei Cinici posteriori in un rifiuto totale delle regole della convivenza sociale e politica:
“Diceva queste cose, ma dava anche l’esempio facendole: di fatto falsificava monete, non concedendo nulla né alle regole morali, né a quelle naturali. Egli diceva di vivere secondo il modello di vita che era stato proprio di Ercole, senza dare la preferenza a nulla rispetto alla libertà”. (Diogene Laerzio VI,71)
La crisi dei valori politici e morali della poliV (quella crisi che si era tragicamente manifestata nella condanna a morte di Socrate da parte della democrazia restaurata) trova così nella filosofia “socratica” dei Cinici una prima tipica espressione: il cinico che non crede piú nel regime democratico, ma nemmeno in quello aristocratico, trova troppo angusto per realizzare la sua “virtù” lo spazio offertogli dalla poliV, sicchè per lui “la sola vera città è quella che coincide con il mondo” (Diogene Laerzio Vl, 72); il tema del cosmopolitismo sarà destinato a godere di grande fortuna anche presso gli Stoici. Interessato alla logica, Antistene ne contesta gli sviluppi metafisici arbitrariamente operati da Platone, soprattutto sul piano della dottrina delle idee. Celebre è, a proposito, l’affermazione di Antistene circa le Idee platoniche: “io vedo i cavalli, non la cavallinità!”. Il punto di partenza e il vero contenuto dell’apprendimento è costituito dai nomi; le definizioni, invece, in quanto connessioni tra termini, non colgono la vera natura delle cose, ma possono solamente indicare analogie tra cose. Di qui scaturisce per Antistene l’impossibilità della predicazione: le uniche proposizioni legittime sono le proposizioni identiche, per esempio “uomo è uomo”, “cane è cane”, e così via. Attribuire ad un soggetto un predicato diverso da esso equivale ad attribuire ad una cosa più nomi, ovvero a considerare ciò che è uno uguale a molti, il che è palesemente assurdo. Ogni cosa, dunque, ha un solo logoV oikeioV (“discorso appropriato”), ovvero ogni cosa può essere espressa attraverso un solo nome: ne segue, allora, l’impossibilità che i nomi mentano; il falso è in questa maniera messo al bando. Antistene afferma che mentre è possibile vedere un cavallo non è altrettanto possibile vedere e quindi descrivere e comunicare la platonica idea della cavallinità (“io vedo i cavalli, non la cavallinità!”); perciò, si può solo affermare che il cavallo è il cavallo, e non è possibile connettere in un giudizio o in una definizione due nomi, visto che dire “un cavallo è un animale” implica affermare l’identità fra i due termini, e non la relazione di appartenenza ad un insieme più vasto. Su questo problema scende in campo Platone in due dei suoi dialoghi: il Cratilo e il Sofista. Nel primo, egli dimostra come l’errore sia possibile, mentre nel secondo smaschera la possibilità (ammessa da Antistene) del “giudizio identico” (per cui ogni cosa ha un solo nome appropriato):
“[…] e con questo, credo, abbiamo apparecchiato un lauto banchetto ai giovani e a quei vecchi che imparano tardi. Infatti, è alla portata di chiunque ribattere immediatamente che è impossibile che i molti siano uno e l’uno sia molti e certamente essi godono a non lasciar dire uomo buono, ma soltanto il buono buono e l’uomo uomo”. (Sofista, 251 b)
Ben emerge come sia impossibile costruire un discorso conoscitivo sulla realtà, che è fatta di tante entità individuali irriducibili l’una all’altra; ogni entità ha un proprio nome, che è l’unico segno che di essa noi abbiamo a disposizione. Sulla scia di Platone, anche Aristotele formula un giudizio assai severo su Antistene:
“Antistene rozzamente credeva che nulla si potesse dire se non il nome proprio delle cose, un nome per ciascuna cosa”. (Metafisica, 1024 b 32)
Perciò non è possibile costruire un discorso scientifico sulle cose, perché di ciascuna di esse possiamo dire soltanto che è se stessa: l’albero è albero, il bue è bue, e cosí via. Le scienze sono quindi finzioni, e per di piú inutili:
“la musica, la geometria, l’astronomia e le altre discipline di questo genere devono essere trascurate, perché inutili e non necessarie”. (Diogene Laerzio Vl, 73)
Messa da parte la sfera gnoseologica – poiché riconosciuta del tutto improduttiva -, l’unica via degna di essere seguita è allora la via etica, sulla quale si incammineranno le filosofie fiorite in età ellenistica. I discepoli di Antistene assumeranno via via posizioni sempre più radicali e, in certo senso, esasperate rispetto a quelle del maestro: ciò avviene, in particolare, in Diogene di Sinope (400-325 a.C.) e nel suo allievo Cratete di Tebe, autore di poesie parodistiche e satiriche nonché maestro di quello Zenone di Cizio che fonderà lo Stoicismo, nel quale il Cinismo finirà per confluire.
ARISTOTELE:
Aristotele nacque a Stagira , una cittadina della penisola Calcidica nel nord della Grecia nel 384 a.c.Il padre Nicomaco era medico presso la corte del re dei macedoni Aminta , ma morì quando Aristotele era ancora giovane.Egli fu quindi allevato da un parente più anziano , di nome Prosseno.Nel 367 , all’età di 17 anni , andò ad Atene al fine di entrare a far parte dell’Accademia di Platone , che si trovava all’epoca a Siracusa.Vi rimase per ben 20 anni svolgendo un’attività di insegnamento , sino alla morte di Platone che fu nel 347-348 : in realtà se ne sarebbe già andato prima in quanto aveva idee divergenti da quelle del maestro , ma si trattenne fino alla sua morte per il rispetto che aveva nei confronti di Platone . Si allontanò dall’Accademia proprio quando era subentrato Speusippo e tra i motivi del suo allontanamento possiamo annoverare la crescente ostilità che si era venuta a creare ad Atene verso il re macedone Filippo , il quale nel 348 si era impadronito di Olinto nel nord della Grecia.Nel 347 si recò da Ermia , tiranno di Atarneo , che nutriva simpatie per la filosofia platonica e aveva messo a disposizione degli accademici una sede ad Asso ,nella Troade , una zona dell’Asia minore. Qui si stabilì Aristotele e poi nel 345 a Militene , sull’isola di Lesbo.In questo periodo egli sposò Pizia , nipote di Ermia , dalla quale ebbe 2 figli , Pizia e Nicomano , entrò in rapporto con Teofrasto , che divenne suo discepolo , e intraprese ricerche biologiche sugli animali.Nel 343 Filippo lo invitò a corte in veste di precettore di Alessandro . Qui rimase a lungo finchè Filippo non fu assassinato da Pausania nel 336 e Alessandro gli succedette al trono.Nel 335 Aristotele fece il suo rientro ad Atene con Teofrasto e svolse attività di ricerca e di insegnamento nel Liceo , un ginnasio vicino al tempio di Apollo Liceo (originariamente fu chiamato “peripato” , passeggiata e luogo di discussione) , raccogliendo intorno a sè amici e scolari.Nel 323 però , morto Alessandro in Oriente , prese il sopravvento in Atene la corrente anti-macedone capeggiata da Iperide . La tradizione vuole che Aristotele , accusato di empietà a causa dei suoi difficili rapporti con la monarchia macedone,abbia allora pronunciato la celebre frase : ” Non voglio che gli Ateniesi commettano un secondo crimine contro la filosofia ” , alludendo alle vicende di Socrate.Di fatto egli si allontanò da Atene e si ritirò a Calcide , sull’isola di Eubea , dove la famiglia di sua madre aveva possedimenti : qui morì intorno a 62 anni nel 322 a.c.Nominò suo esecutore testamentario Antipatro , che proprio nel 322 ristabiliva il dominio macedone sulla Grecia e su Atene , e lasciò Teofrasto a capo della scuola. Dunque Aristotele vive una generazione dopo rispetto al maestro Platone.Proprio rispetto a Platone ha origini sociali e geografiche differenti : abbiamo detto che non era di Atene e questo aspetto contribuì al fatto che Aristotele desse meno peso alla politica rispetto a Platone , che si sentiva pienamente cittadino della polis.Senz’altro a far sì che desse poco peso alla politica fu anche il fatto che all’epoca la polis stava attraversando un periodo di profonda crisi : infatti nella seconda metà del quarto secolo subentrò il regno macedone (ricordiamoci che il padre di Aristotele fu medico di Filippo e Aristotele stesso fu precettore di Alessandro Magno).Tuttavia quando si dedica alla politica , Aristotele risulta essere ancora molto legato al concetto di polis.Senz’altro Aristotele è influenzato dall’Accademia dove era stato per molto tempo , sebbene non condividesse pienamente le ideologie (dirà ” amicus Plato , sed magis amica veritas ” : egli era molto legato alla figura del suo maestro , ma tuttavia era più attratto dalla verità).Atene si trova in un momento difficile dove si alternano al potere il partito macedone (al quale Aristotele era vicino) e quello anti-macedone , il cui più grande e accanito sostenitore era l’oratore Demostene.Risulta particolarmente importante l’esperienza a Militene : qui , come detto , si dedicò insieme a Teofrasto a ricerche in ambito biologico e tutte strettamente legate al mondo terreno : si dice spesso che Aristotele sia partito come platonico (seguendo la dottrina delle idee) ma che poi habbia dato una svolta alle sue indagini orientandole sempre di più verso il mondo terreno.Non a caso in una celebre rappresentazione di Raffaello (che possiamo ammirare qui a lato) Platone (ormai vecchio) è raffigurato con il dito teso verso l’alto e verso il mondo delle idee , mentre Aristotele è raffigurato con la mano aperta e tesa verso la terra , verso il mondo terreno.
E’ a lungo prevalsa l’idea che Aristotele segua uno schema : si è infatti sempre pensato che le opere legate alla ricerca empirica dovessero essere state scritte nella fase della vecchiaia , quando Aristotele si era ormai definitivamente allontanato dal maestro Platone e dalle sue dottrine incentrate sul mondo intellegibile. E’ invece assai probabile che le opere di ricerca empirica siano state elaborate durante il soggiorno sull’isola di Militene , tra il primo ed il secondo soggiorno ad Atene . Se non risalgono esattamente a quel periodo , appare comunque evidente che risentano di tale esperienza : sono opere piene di osservazioni della vita marina tipica dell’isola . Gli uomini del 500 – 600 che polemizzarono avevano di Aristotele l’idea di un pensiero astratto e , potremmo dire , “libresco” : galileo stesso contrapporrà la lettura del libro della natura a quella dei libri cartacei che gli aristotelici leggevano . In realtà è una polemica non corretta : è sì vero che gli aristotelici erano come Galileo li definiva , ma è altrettanto vero che Aristotele non era così ! Quello di Aristotele non era poi un pensiero così sistematico ( spesso lo si è contrapposto a Platone stesso , che sondava le stesse cose da più punti di vista) e rigido : non è affatto vero che non guardasse al mondo ma solo ai libri . Senz’altro i libri gli piacevano e lo affascinavano , ma comunque le opere biologiche rivelano che faceva osservazioni dirette , specialmente a Militene : si recava spesso sulla spiaggia e nelle reti dei pescatori trovava interessante materiale di osservazione ; amava anche andare ad osservare dai pastori . i dati di fatto li esaminava , ma chiedeva anche il parere agli esperti in materia (pescatori , pastori) : era un uomo molto attento alla realtà . Per esempio scoprì che i cetacei non sono pesci , riuscì a scovare gli organi genitali dei polpi (che si trovano sul collo) e osservò lo sviluppo dell’embrione del pollo prendendo e aprendo uova fecondate . Mentre Platone ha composto un solo dialogo dedicato al mondo empirico (il ” Timeo “) , Aristotele ha dedicato più della metà delle sue opere a questo mondo . A differenza del maestro (che riteneva che il nostro non fosse il vero mondo) , Aristotele era convinto che l’unico mondo esistente fosse il nostro . Va poi detto che gran parte dei concetti aristotelici sono di derivazione biologica ed è interessante come dalla biologia derivino concetti filosofici . Platone svolgeva la duplice attività di maestro e di conferenziere , di Aristotele possediamo tutto ciò che ha scritto , ma il problema è che le cose più importanti non le ha messe per iscritto : come il suo maestro ha scritto per la pubblicazione : scriveva molto bene , ma probabilmente non come Platone .Dai dialoghi composti per la pubblicazione emerge che le sue posizioni non si distinguevano molto da quelle di Platone (può benissimo darsi che siano composizioni che risalgono ad un periodo in cui non si era ancora allontanato da quelle idee) : in una di queste opere troviamo di un tale che si reca da un oracolo per chiedere se tornerà mai in patria . Nonostante l’oracolo gli avesse detto che sarebbe tornato in patria , egli morì : probabilmente la patria alla quale si fa qui riferimente non è nient’altro che l’iperuranio platonico . Prendiamo ora in considerazione un’altra opera , il “Protrettico” , che potremmo definire “invito alla filosofia” ( funzione che lo scritto già rivestiva in Platone) : si tratta di un invito rivolto al re di Cipro a dedicarsi alla filosofia tramite un ragionamento “sofistico” e dialettico : la domanda che Aristotele pone è se si deve filosofare o no . Se non si deve filosofare si dirà che la filosofia è dannosa , spregevole … insomma si motiverà il perchè non bisogna filosofare : ma così facendo si filosofa , si fa un ragionamento filosofico . Sembra un’argomentazione sofistica ma non lo è in verità : una filosofia che fa prevalere gli aspetti irrazionali nella realtà lo fa tramite la razionalità (è il caso di Schopenaur o di Niezsche).Comunque questi dialoghi per la pubblicazione li possediamo solo per frammenti . Probabilmente andò così : Aristotele , come Platone , insegnava a scuola e scriveva , però a differenza del maestro il lavoro scolastico lo metteva per iscritto : quindi accanto agli scritti finalizzati alla pubblicazione vi erano gli appunti per le lezioni . Gli appunti erano più che altro uno schema da seguire e ci doveva comunque essere una componente di oralità . Questo ci aiuta a comprendere perchè fossero così schematici e disordinati . Oltre agli appunti che si tracciava Aristotele , vi erano anche quelli che prendevano i suoi alunni mentre lui spiegava : chiaramente anche questi hanno uno stile ben differente da quello usato nei testi da pubblicare . E’ proprio negli appunti che troviamo il vero Aristotele . Alla sua morte , i due gruppi di opere ebbero destini differenti : 1) quelle rivolte verso la scuola e sotto forma di appunti (dette ESOTERICHE o ACROMATICHE) finirono per cadere in disuso per via della loro “pesantezza” stilistica : l’aggettivo “esoterico” ha a che fare con il mistero 2)quelle finalizzate alla pubblicazione (ESSOTERICHE) , fluide e scorrevoli proprio perchè dovevano essere pubblicate , ebbero enorme successo : quelle esoteriche , come detto , erano troppo pesanti e ridondanti (nelle due “Etiche” 3 dei libri sono identici !!! E nella “Metafisica” riprende cose già dette) e finirono per andare perdute.Nella metà del primo secolo Andronico di Rodi ritrovò gli scritti esoterici andati perduti : li ripulì e cercò di tirare fuori un’edizione , riordinando il tutto.I criteri per riordinare delle opere sono parecchi ed uno dei più usati è senz’altro quello cronologico , che è neutro e nello stesso tempo coglie l’autore nel suo svilupparsi e perfezionarsi . Ma Andronico preferì riordinare per argomenti , raggruppando tutti i libri che trattavano un determinato argomento insieme : logica , fisica , etica.Tutto questo ebbe due conseguenze : a) A sparire furono le opere essoteriche (quelle volte alla pubblicazione) , in quanto si capì subito che il vero Aristotele era quello degli appunti scolastici. b) Ancora oggi abbiamo l’ordine che fu assegnato da Andronico e non quello effettivamente assegnato da Aristotele : non bisogna farsi ingannare , in quanto Aristotele ha scritto opere singole : non possiamo sapere se quello di Andronico fu realmente l’ordine che diede Aristotele (è molto imbrobabile) . Di conseguenza la sistematicità di cui lo si accusava gli derivava da Andronico : infatti Aristotele era aperto e desideroso di confrontarsi con predecessori e contemporanei.L’intero “corpus” aristotelico è strutturato secondo l’andamento dato : 1) Logica (che Aristotele non chiamava però così : lui inventò la logica ma non la parola ; la chiamava “analitica” : si tratta degli aspetti formali dei ragionamenti) : i tanti scritti di logica vengono definiti “organon” (strumento della conoscenza): nella sua classificazione delle scienze , Aristotele non inserisce la logica perchè non ha contenuti : il contenuto della logica è la sua forma stessa.Le due categorie di conoscenza erano la FISICA (in quanto ci sono corpi che cadono : comprendeva anche la biologia) e l’ETICA (intesa in senso lato : politica).Questa è dunque la tripartizione classica , ma nella logica ci sono anche la retorica e la politica , ma è sotto il nome di “Metafisica” (ciò che sta al di là della dimensione fisica) che si trovano gli scritti più importanti : Aristotele la chiamava Filosofia prima.Perchè si chiamava metafisica ? Inizialmente la filosofia prima venne chiamata metafisica perchè Andronico collocò i trattati di filosofia prima dopo i trattati di fisica : “metà” in greco , seguito dall’accusativo , significa “dopo” e quindi “metà tà fusicà” significava ciò che stava dopo le cose fisiche.Da allora nasce quest’idea della metafisica , prima con valenza editoriale , dopo con il significato vero e proprio : le cose al di là del mondo fisico.Qui emergono diversi concetti che però Aristotele elaborava “fisicamente” : a confermare questa tesi è il fatto che raccogliesse pareri qua e là , oppure che varò la costituzione per gli Ateniesi (egli raccolse 158 costituzioni per avere materiale su cui ragionare per la sua politica : tra l’altro un secolo fa in Egitto questa costituzione ateniese di Aristotele fu ritrovata in un papiro ) : non si deve poi scordare la “historia animalium” (che non è una storia , bensì una descrizione particolareggiata degli animali) , che potremmo catalogare come opera zoologica : Aristotele per creare quest’opera aveva raccolto diverse esperienze (l’amico Teofrasto , invece , si occupò di botanica).Nella “Metafisica” Aristotele argomenta che l’uomo per sua inclinazione naturale aspira alla conoscenza e traccia dunque una scala gerarchica della conoscenza ( un pò come aveva fatto Platone ) : man mano che si sale ogni gradino è caratterizzato da un approfondimento rispetto al precedente . Al gradino più basso troviamo 1)la SENSAZIONE : ricordiamoci che Aristotele ha della conoscenza una concezione empiristica : la mente umana prima delle sensazioni è una “tabula rasa” (una tavola incerata schiacciata e rinnovata) : prima dell’esperienza sensuale non c’è nulla (a differenza di quanto diceva Platone , che era un innatista) ; in Aristotele c’è un rifiuto radicale della concezione innatistica : la conoscenza ci deriva interamente dall’esperienza sensuale.Per Platone l’esperienza sensuale c’era , ma era una concausa : era infatti semplicemente un modo per realizzare la reminescenza . L’opposizione Platone – Aristotele è davvero forte : ancora oggi c’è chi è innatista (e sostiene che nasciamo già con alcune cose nella testa) e chi è empirista (ed è del parere che la nostra mente è una tabula rasa).In realtà la filosofia successiva non sarà nient’altro che una variante di posizioni aristoteliche o platoniche . E’ come se questi due grandi filosofi avessero tracciato i due modelli per filosofare .Le sensazioni sono quelle che l’uomo ha in comune con gli animali : per Aristotele ci sono due tipi diversi di anime : un tipo , più complesso , ed un altro , più semplice. L’anima dei vegetali , per esempio , non prova sensazioni , mentre quella dell’uomo e dell’animale prova sensazioni : è proprio il poter provare sensazioni che funge da punto di partenza per la conoscenza.Aristotele attribuisce grande importanza all’udito (organo con cui si possono ascoltare i discorsi : malgrado Aristotele sia più “libresco” di Platone , in lui non troveremo mai una polemica contro gli scritti : anzi , l’idea che per studiare ci si debba servire di libri è tipicamente aristotelica ) e questo significa che ai suoi tempi l’oralità era ancora importantissima . Però per Aristotele l’organo di gran lunga più importante era la vista perchè più di ogni altro consente di distinguere gli oggetti : non a caso conoscere significa proprio distinguere , definire : ad un livello empirico la prima separazione è la distinzione degli oggetti sensibili . Però il grosso limite della sensazione è che fa cogliere solo il fatto , il che (in greco l'”oti”) e non il perchè (il “dioti”) : per arrivare al perchè bisogna seguire un lungo percorso .2) Al secondo gradino Aristotele mette la MEMORIA : l’intelligenza si può sviluppare se accanto alla sensazione c’è la memoria : gli animali non riescono a conservare la singola esperienza e così non hanno intelligenza . La memoria consiste proprio nel conservare le singole esperienze , nel ricordare le sensazioni . 3) Al terzo gradino Aristotele pone l’ESPERIENZA : essa non è la singola sensazione , bensì l’accumularsi di sensazioni grazie alla memoria : questa è l’esperienza : mettendo insieme una serie di casi singoli si riesce ad arrivare ad una prima forma di generalizzazione . Se si ha avuto a che fare con malattie e cure , si avrà una generalizzazione e si saprà come agire nel caso si ripresentino : mi sono accorto che una medicina giova ad una determinata persona , poi ad un’altra e poi ad un’altra ancora tutti accomunati dalla stessa malattia , anche somministrandola ad un’altra persona otterrò gli stessi risultati . Chi ha esperienza medica e ha visto che certe medicine hanno giovato a più persone con una stessa malattia è arrivato a dire che a chi ha tale malattia va somministrata tale medicina : questa però non è ancora la “scienza” vera e propria . Si ha una vera conoscenza quando si può dire che la determinata malattia va curata con una determinata medicina perchè va ad operare su determinate cose , organi…Con la scienza si arriva al “dioti” puro ; mentre con l’esperienza intuisco che una determinata medicina giova in certi casi , con la scienza riesco a fornire delle motivazioni : ad esempio , tramite la scienza so che l’aspirina ha un effetto anticoagulante e che di conseguenza posso prevenire e curare l’infarto : non dico più che in certi casi ha funzionato e che quindi anche qui deve funzionare , bensì che avendo un effetto anticoagulante curerà e gioverà a tutti coloro che han l’infarto . Si passa così dall’oti al dioti : quelle persone sono guarite perchè hanno quella determinata malattia e questa medicina la cura. Si passa quindi dal particolare all’universale : il vero passaggio è quando da un pò di casi riesco a cogliere il significato universale : non parlo più di individui che hanno certi sintomi etc. , ma , per esempio , di diabetici.Da una collezione di casi particolari raggiungo una concezione universale.La scienza grazie all’esperienza mi dice che le malattie circolatorie si curano con l’aspirina e di conseguenza quell’individuo che soffre di cuore deve essere curato con l’aspirina : con una serie di esperienze raggiungiamo la scienza . Aristotele , poi , afferma che coloro che sono esperti , che hanno acquisito tante esperienze , sono migliori rispetto a quelli che hanno studiato e sanno solo il dioti : affinchè la scienza entri in funzione le esperienze sono fondamentali : esse ci consentono di riportare i casi singoli a verità universali . L’esperto ha solo la casistica , lo scienziato solo la scienza , la verità universale : nella pratica l’esperto va meglio fin tanto che lo scienziato non fa esperienze . Un medico che non abbia mai studiato medicina , ma che sia esperto (avendo già curato o operato) è di sicuro meglio di un medico che abbia studiato tutto ma che non abbia mai avuto esperienze di intervento . Il medico con scienza ed esperienza risulta a sua volta essere il migliore di tutti : l’esperienza è un insieme di casi da cui si possono trarre conclusioni generali operative : il buon medico deve sapere da casi particolari ricondursi a casi generali e viceversa . La “tekne” sembra essere molto vicina all’esperienza , ma in realtà comporta un coglimento della realtà universale , l’acquisizione del dioti e dell’oti . Da questi singoli casi si trae una verità di carattere generale : perchè in tutti quei casi va così ? Nel caso della medicina parliamo di eziologia , perchè si usa una determinata cura : se si sa calare l’universale nel particolare è già una buona cosa : perchè se io ho un ‘ottima conoscenza dell’universale (che ho ottenuto studiando sui libri) , ma poi non so calarla nel particolare , la mia conoscenza è inutile . In realtà si dovrebbe parlare di scienza applicata , di “tekne” . Aristotele sulle scienze fa una classificazione generale : 1) le scienze applicabili (quelle che mi consentono di produrre qualcosa) 2) le scienze NON applicabili (quelle che non mi fanno produrre niente) . A proposito delle “teknai” Aristotele effettua una tripartizione : ci sono le tecniche a)necessarie b)utili c)piacevoli . Esaminiamo le distinzioni : la tecnica di procacciarsi il cibo è senz’altro necessaria : occorrono conoscenze applicative per sapersi procacciare il cibo (Ippocrate diceva che occorreva pure la conoscenza di come cucinarlo , e questa è una scienza utile , non fondamentale) ; come esempio di “tekne” piacevole possiamo portare l’arte culinaria , che mira solo a soddisfare e a dare piacere al palato . La tekne per Aristotele non rappresenta comunque il livello più alto del sapere perchè è subordinata in ogni caso a fini diversi della conoscenza : è dall’esperienza che si genera la tekne , ma l’esperienza non è ancora tekne pura : la tekne è infatti caratterizzata dall’avere come oggetto della propria conoscenza l’universale : la medicina raggiunge il livello di tecne (e non più di semplice esperienza) quando è in grado di conoscere che un determinato rimedio non guarisce solamente Socrate e Platone , bensì ogni persona affetta da una determinata malattia . Il che significa che quel rimedio è efficace nella totalità o universalità dei casi in cui c’è quella malattia . Anche chi ha fatto esperienza sa che quel determinato rimedio è stato efficace in una pluralità di casi , ma non sa perchè (ha l’oti , ma non il dioti) . Secondo Aristotele al di sopra delle tecniche si colloca una forma di conoscenza che ha di mira soltanto se stessa : il sapere per il sapere , ossia la conoscenza disinteressata , libera da vincoli , non subordinata a fini esterni ad essa . Questa è la “sophia” , il sapere più sublime a cui mira la filosofia . Così Aristotele ha definitivamente staccato l’idea del sapere da come era in passato , dove il sapere veniva visto come legato e funzionale all’agire e al produrre . Per poter ricercare questo sapere disinteressato occorre quella che in greco era detta “scholè” , ossia l “otium” latino , il tempo libero da ogni attività lavorativa o pubblica . Dunque se è vero che tutti gli uomini per inclinazione naturale aspirano al sapere , è altrettanto vero che solo i filosofi realizzano in senso pieno questo fine iscritto nella natura dell’uomo . Ma perchè questo sapere che in fondo non serve a nulla è la cosa più importante ? E’ proprio il fatto di non servire a niente che lo innalza : una cosa che non serve è più nobile perchè non è legata al rapporto di servitù . Le sensazioni servono all’uomo e ne prova piacere : se per esempio avessimo la possibilità di conoscere la realtà senza vederla , non per questo vorremmo essere ciechi : nella vista consiste un piacere irrinunciabile . Questo “esperimento mentale” conferma le tesi di Aristotele . Comunque Aristotele crea anche una scala di acquisizione cronologica di queste teknai : le scienze necessarie sono le prime che l’uomo deve acquisire , in quanto gli consentono la sopravvivenza , poi deve acquisire quelle utili , che gli offrono comodità non fondamentali , ma importanti , ed infine quelle piacevoli (ed inutili) : possiamo riassumere così la scala di acquisizione cronologica :”primum vivere , deinde philosophare “: prima di tutto bisogna pensare alla vita (Aristotele si mostra ancoira una volta legato al mondo terreno) . Il fatto che vengano acquisite per ultime , non significa che le scienze piacevoli valgano meno , anzi sono le più preziose in assoluto . Le prime scienze che acquisiamo sono le esperienze , ma le più importanti sono le scienze universali , che consentono una visione di insieme . Come abbiamo detto , le conoscenze piacevoli si sviluppavano nella “scholè” : per noi il non fare niente è un concetto negativo prima che sul piano morale-assiologico , su quello ontologico : nel non far niente vi è la mancanza di qualcosa . Per i Greci e per i Latini era diverso : la “scholè” era quella parte dell’esistenza in cui ci si dedicava all’attività studiosa . E’ interessante come Aristotele insista su questa forma di studio disinteressato e affermi ripetutamente che questa sia la più nobile delle vite . Questo è dovuto a due fattori : 1) la mentalità greca generale (come quella Latina) era propensa ad esaltare l’ozio 2) tra Platone e Aristotele c’è una grande differenza : secondo Platone si deve arrivare alle conoscenze supreme , al mondo intellegibile ; per Aristotele le conoscenze sono sensibili e presenti su questo mondo . Quando delineano il modello di vita da seguire , Platone traccia il percorso volto al raggiungimento del bene in sè (si vede comunque nel mito della caverna che i filosofi devono ritornare sulla terra a governare : il punto di arrivo è il re-filosofo) ; per Aristotele non è così : riconosce il modello dell’uomo cittadino , ma l’uomo più elevato sarà lo studioso , colui che si dedica all’otium e non al negotium : come mai ? Ricordiamoci che Aristotele vive dopo Platone , in un’epoca in cui la polis è in crisi (per Platone e Socrate era scontato che l’uomo ed il cittadino fossero un tutt’uno ) : vi è un progressivo scollamento da Socrate in poi tra uomo e cittadino , che un tempo erano indivisibili : Socrate aveva voluto morire , mentre Platone si era reso conto che la politica fosse ingiusta e aveva spostato la figura del politico nel mondo ideale : Sofocle in persona aveva notato questo progressivo scollamento uomo-cittadino . Per Aristotele non solo l’uomo può essere uomo senza essere necessariamente cittadino , ma anzi nella dimensione in cui non è cittadino è migliore : questa teoria avrà gran successo e prenderà piede (pensiamo agli epicurei ed al loro motto “lathe biosas” , ” vivi di nascosto ” : l’uomo per essere felice deve vivere lontano dalla politica , in privato ).Quindi possiamo provare a tracciare una graduatoria del graduale staccamento uomo – cittadino : a) in Socrate c’è piena identificazione b) in Platone c’è sì identificazione , ma non in questo mondo (in quello delle idee) c) Aristotele apprezza la vita politica , ma non c’è più l’identificazione tra uomo e cittadino d) in Epicuro c’è un totale rifiuto della figura uomo-politico associata . Va poi ricordato che Aristotele era uno straniero e non poteva svolgere vita politica : è quindi evidente che non si sentisse uomo-cittadino , ma tuttavia questo è l’aspetto meno imprtante che determinò lo scolllamento aristotelico tra uomo e cittadino .Dalla fine del quinto secolo fino al terzo si arriva ad un rifiuto della politica : la filosofia nasce quando le civiltà si sviluppano e un gruppo sociale ( i filosofi ) può vivere senza lavorare . Aristotele distingue due grandi classi di scienze : quelle che hanno come oggetto il necessario e quelle che hanno come oggetto il possibile . Osserviamo qui sotto lo schema generale : Le prime sono dette scienze TEORETICHE e riguardano appunto ciò che è o ciò che avviene necessariamente sempre o per lo più (in greco “epì polù”) nello stesso modo . Per necessario intendiamo ciò che non può essere o avvenire diversamente da come è o avviene . Si tratta dunque di domini di oggetti o eventi caratterizzati da una regolarità totale o con scarse eccezioni : la matematica rientra nelle teoretiche perchè 2 + 2 mi darà sempre 4 e non si può fare nulla se non indagare a fondo . Il mondo biologico rientra anch’esso nelle teoretiche ma nella “sezione” epì polù (per lo più ) . L’epì polù lo possiamo definire come un surrogato delle scienze matematiche , che vanno sempre allo stesso modo : Aristotele studiò anche le generazioni e si accorse che non sempre riuscivano bene : gli individui di solito (per lo più) vengono in un modo , ma può succedere che vada diversamente e che abbia storpiature , deformità . Come nel caso delle generazioni , così anche nel mondo molti avvenimenti sono accidentali ma non sono studiabili perchè di essi non si può indicare il dioti (il perchè) . Il secondo ambito è invece costituito dalle scienze PRATICHE e POIETICHE : esse concernono ciò che può essere in un modo o nell’altro ; questa è la caratteristica propria dell’ azione e della produzione di oggetti : esse infatti possono avvenire o non avvenire , avvenire in un modo o in un altro . A loro volta azione (praxis , da qui pratiche) e produzione (da poieo , da qui poietiche) si distinguono per il fatto che l’azione ha il proprio fine in se stessa , ossia nell’esecuzione dell’azione stessa , mentre la produzione ha il suo fine fuori di sè , ossia nell’oggetto che essa produce . L’etica è una scienza pratica : il suo fine è in se stessa ed è il comportamento ; la poesia è una scienza poietica perchè mi fa produrre poesie : il suo fine sta al di fuori di sè . Tuttavia Aristotele non ci parla molto delle poietiche perchè non lo interessavano molto : ricordiamoci che per lui la vita migliore è quella del filosofo , mentre quella dell’artigiano che produce non è valutata positivamente (come d’altronde non lo era in tutto il mondo greco) . L’unica scienza poietica valida ed utile era per Aristotele la poesia , della quale ci parla ampiamente nella “Poietica” , opera che però non ci è pervenuta interamente : pare che ce ne fosse un altro libro che non fu mai ritrovato e sulla cui ricerca ruota “Il nome della rosa” di Umberto Eco . Per Aristotele il concetto di poietica era molto legato a quello di tragedia : la poietica infatti la si può estendere a qualsiasi forma di creazione artistica : è la conoscenza che genera qualcosa . A riguardo dell’opera d’arte e della tragedia erano già state formulate due importanti tesi : a) Gorgia , il cui giudizio era stato fortemente positivo : in assenza di un modello da imitare (per lui l’essere non esisteva e tutto era falso) , l’artista è colui che crea nuovi mondi ed è tanto più bravo tanto più riesce ad ingannare gli spettatori . b) Platone , il cui giudizio non era certo stato positivo : per lui l’arte e la tragedia erano copie di copie , vale a dire copie del mondo sensibile che a sua volta è copia del mondo intellegibile . Si aggiungeva poi la crisi sul piano morale : l’arte fomenta e stimola la passioni inducendo i giovani (e non solo) ad avvicinarsi ad esse . Aristotele assume una nuova ed importantissima posizione : egli rivaluta l’arte (ed in particolare la tragedia) sia sotto il profilo ontologico sia sotto quello etico : sul iano ontologico Platone diceva che era imitazione di imitazione , Aristotele fa notare che la tragedia ha per lo più come argomento il mito , che racconta cose non vere : i prsonaggi sono dei “tipi umani” . La tragedia , dice Aristotele , descrive il verosimile : non ci dice cosa ha fatto quella determinata persona in quel frangente , ma cosa farebbe qualsiasi persona in quel caso . Ci presenta non il vero ma il verosimile : questo per Aristotele è un elemento che conferisce un valore particolare : ricordiamoci che la vera scienza per Aristotele è scienza dell’universale e non el particolare : la tragedia ha quindi una valenza conoscitiva ed è molto migliore della storia : la storia infatti non mette mai di fronte all’universale , bensì racconta le gesta dei singoli : mi racconta casi particolari e non universali . La tragedia ha quindi una valenza filosofica perchè mi mette di fronte a casi universali.La tragedia è imitazione in forma drammatica e non narrativa di un’azione seria e compiuta in sè attraverso una serie di avvenimenti che suscitano pietà e terrore : il suo contenuto è un mito . Da qui in poi si rivaluterà completamente l’arte che Platone aveva disprezzato . Per dirla alla Platone , l’arte per Aristotele non imita il mondo sensibile , ma le idee stesse : imita infatti l’universale . Esaminiamo ora l’aspetto etico-morale dell’arte : come Platone , così anche Aristotele sostiene la metriopazia ( il controllo , la misura delle passioni) e non l’apazia (la privazione delle passioni ) : la valutazione della tragedia da parte di Aristotele è antitetica rispetto a Platone anche sul piano etico : Platone diceva che stimolava alle passioni e che quindi andava abolita , Aristotele introduce la KATARSI artistica : (parola che deriva dalla medicina , suo padre era medico , e risente del suo interesse biologico : katarsi significa “purga” e più in generale “purificazione” : è il meccanismo con cui ci si purifica dalle sostanze dannose ) : chiaramente è una metafora . Ma che cosa intende Aristotele per purificazione ? Il passo in cui ci parla della katarsi è molto breve (ricordiamoci che erano appunti) complesso e quindi è difficile capire se intenda purificazione dAlle passioni o dElle passioni : Se fosse dAlle passioni , sembrerebbe che con la tragedia ci si libera dalle passioni , il che è una contraddizione ; quindi Aristotele intendeva purificazione dElle passioni : nella tragedia infatti vengono messe in gioco passioni negative , spaventose : Platone le rifiutava totalmente perchè pensava che vedendole si stimolassero e nascessero in chi le vedeva ; Aristotele , invece , scopre che vedere in scena certe passioni ha l’effetto di oggettivarle e di far sì che l’individuo possa riuscire a controllarle : ancora oggi gli psicologi mirano quando i pazienti sono afflitti da ansie a farle uscire , a tirarle fuori , a far prendere coscienza al paziente delle proprie ansie : il fatto di guardarle in faccia , a tu per tu , consente di controllarle e di razionalizzarle . Vedere sulla scena , in un situazione in cui si oggettiva e si vede con un certo distacco , permette di razionalizzare le passioni . Il processo della katarsi consente all’uomo di vivere meglio le passioni negative , il terrore inducendolo a guardarsene . Ritorniamo ale scienze teoretiche , il cui fine è la verità e la cui base è il sapere per il sapere : Aristotele effettua una tripartizione : le scienze teoretiche sono 1) FISICA 2) MATEMATICA 3)FILOSOFIA PRIMA .Parliamo di esse a seconda degli oggetti che studiano . Della fisica Aristotele ne parla come filosofia seconda : essa studia oggetti che esistono di per sè , ma sono mutevoli . La matematica studia oggetti immutabili , ma che di per sè non esistono . La filosofia invece studia oggetti che non si muovono ed esistono di per sè .Per Platone erano sostanze in senso pieno le idee , mentre il mondo sensibile era un essere depotenziato : Aristotele costruisce una filosofia più vicina al senso comune : egli si chiede : ” quali tipi di sostanze esistono ? ” Arriverà a dimostrare l’esistenza di cose immmateriali , come Dio , ma egli parte dicendo che senz’altro tutte le cose materiali che vediamo intorno a noi esistono ; per Aristotele non esistono da soli e separatamente quelle cose che per Platone esistevano (in particolare quelle caratteristiche quantitative che Platone diceva esistere di per sè) , come gli enti matematici , i numeri : per Platone c’era il triangolo in sè e poi gli altri triangoli sensibili . Per Aristotele è l’opposto : esistono i triangoli materiali e poi quello immateriale , che però non può mai esistere come realtà autonoma . Platone aveva minuziosamente dimostrato che noi quando dimostriamo ci riportiamo all’idea di triangolo . Per Aristotele esistono prima i triangoli materiali e poi quello immateriale : quello “ideale” per Aristotele non è nient’altro che una nostra creazione , siamo noi che facciamo un’astrazione : esso esiste solo come risultato di un processo di astrazione da noi operata . Due libri hanno la forma di parallelepipedo : Platone direbbe che imitano l’idea di parallelepipedo . Per Aristotele no , è l’opposto : si fa un processo di astrazione dove poco per volta si tirano fuori le caratteristiche : i due libri non hanno colori uguali , quindi tolgo i colori ; hanno scritte diverse , quindi tolgo le scritte ; sono imprecisi , tolgo le imprecisioni ; privato di tutte le caratteristiche mi rimane solo più la forma di parallelepipedo : il processo consiste essenzialmente nell’asportare via le differenze tra i due libri . Diciamo che la matematica indaga cose che di per sè non esistono perchè le si creano con l’astrazione e cher indaga cose immutevoli perchè il parallelepipedo è sempre esistito . Per Platone il parallelepipedo esiste nell’iperuranio , per Aristotele nel mondo terreno , nei due libri , per esempio . La fisica studia quel mondo fisico che Platone non amava : le sostanze materiali che di per sè esistono ma sono mutevoli . In particolare la fisica studia gli enti naturali . La filosofia prima è anche chiamata metafisica (abbiamo già spiegato il perchè) Che cosa studia ? Ci sono due modi per definire l’oggetto dello studio della filosofia prima : a) Gli oggetti che esistono da soli come le cose sensibili e sono però immutabili come i numeri della matematica : la filosofia prima assumerà poi le istanze di teologia perchè è solo la divinità che è immutabile ed esiste di per sè . b) E’ comunque anche un’ontologia perchè studia pure l’essere in quanto essere (quest’espressione , essere in quanto essere , fu proprio creata da Aristotele) . Non si occupa di un tipo particolare di essere . Lo studio degli animali in quanto animali è la biologia , quello dei numeri in quanto numeri è la matematica , e così via .La filosofia prima invece studia simultaneamente un solo oggetto (la divinità) e tutti gli oggetti per la loro caratteristica di essere . Aristotele discute poi dell’infinito nel contesto matematico : egli nega l’esistenza dell’infinito , che negherà anche parlando di cosmologia : il cosmo è una cosa finita . L’infinito per Aristotele esiste solo potenzialmente , ma non è mai effettivamente attuabile . Non esiste come realtà fisica e neanche come realtà matematica : esiste solo potenzialmente . Concentriamoci sul contesto matematico : Aristotele sa bene che ogni numero è aumentabile di una unità : l’infinito numerico è però solo potenziale : si usano sempre e solo numeri finiti che si possono aumentare di una unità : non c’è mai in atto un numero infinito , solo potenzialmente c’è . L’infinito esiste anche nell’infinitamente piccolo (sempre potenzialmente) : si può dividere all’infinito , ma comunque in realtà non si trova mai un numero infinito . Bisogna precisare che Aristotele aveva una concezione CONTINUA della realtà e non discreta (come invece aveva Democrito ) : per Aristotele i numeri non sono infinitamente divisibili (va detto che all’epoca non si conoscevano le frazioni ). L’infinito potenziale esiste , sia nel piccolo sia nel grande ; questo però vale solo per la matematica , perchè invece nel mondo fisico non c’è neppure in forma potenziale . Le considerazioni di Aristotele sulla matematica sono state importantissime per la storia tant’è che ancora oggi abbiamo una concezione della matematica che ci deriva da Aristotele : per noi , come per Aristotele , i numeri sono astrazioni e non realtà di per sè esistenti (come era invece per Platone : il due esisteva perchè imitava l’idea di due) : per Platone il due di per sè non esiste : lo si ricava tramite quel processo di astrazione che abbiamo prima spiegato : ci sono due libri , due penne … Comunque ancora oggi la questione non è stata risolta e c’è ancora chi sostiene che i numeri esistano davvero come realtà a sè stanti , schierandosi così dalla parte di Platone : il ragionamento che li porta a dire che esistano indipendentemente dalla realtà è riassumibile in questi termini : se nessuno contasse più , i numeri continuerebbero ad esistere ? I semiplatonici dicono di sì . Però ad Aristotele la matematica non interessa molto , a differenza di Platone che era legato ai Pitagorici : la fisica aristotelica torna ad essere una fisica puramente qualitativa . Se ci chiedessimo se nella concezione della realtà è più moderno Platone o Aristotele la risposta non sarebbe facilissima : Aristotele riconosce un’autonomia del mondo fisico (indipendente dal mondo delle idee) ; però Platone ha un carattere quantitativo nello studio della realtà : lo si può definire un precursore della fisica moderna ; per Platone infatti non si può studiare il mondo sensibile senza applicare la matematica . Il motore che avvia la ricerca del sapere è ravvisato da Aristotele nell meraviglia , nel meravigliarsi e nel chiedere “perchè ?” . La meraviglia dà quindi avvio ad una ricerca volta a dare risposta a questa domanda e segna la transizione dal che (l’oti) al perchè (il dioti) . Per Aristotele la scienza trova la sua espressione nel linguaggio e precisamente nei discorsi . Nei dialoghi la logica svolge un ruolo fondamentale : essa era stata inventata in epoche precedenti ad Aristotele ; pensiamo a Parmenide (identità , contraddizione) o a Platone (soprattutto nel ” Sofista “) : però non era ancora chiaro fino in fondo il carattere formale della logica : veniva solo applicata ad aspetti concreti . Aristotele invece è stato l’inventore di un metodo : la sostituzione delle proposizioni con le lettere (cosa che si usa adesso soprattutto in matematica) : a è un numero qualsiasi , non si sa quale , ma sarà sempre quello . Ciò implica la possibilità di studiare le strutture a prescindere dai contenuti . In realtà la parola “logica” è stata coniata dagli Stoici ed ha avuto gran successo : la logica è quella che studia il “logos” , il pensiero . In realtà Aristotele la chiamava ANALITICA (dal greco analuo , ana+luo = scomporre una realtà complessa nei suoi elementi : proprio come le proposizioni sostituite dalle lettere ) . Come detto , la logica non rientra nelle scienze perchè non è scienza , però è lo strumento delle scienze : mi consente di verificare la coerenza dei passaggi logici : essa di per sè non ha nessun oggetto . Logica deriva da logos , termine che significa tanto discorso quanto pensiero : è come se prima di parlare ad alta voce si parlasse dentro di noi ; lo studio di Aristotele in teoria studia , indaga il pensiero ma in realtà studia il linguaggio perchè non si può avere accesso alle menti altrui per indagare il pensiero . Successivamente la logica diventerà studio dei diversi tipi di discorso . Accanto ai libri di logica , Aristotele ha scritto la “Retorica” : fa notare che noi siamo abituati a pensare che la forma classica del discorso è quella in cui si predicano il soggetto ed il predicato : esempio “Socrate corre ” ; “Socrate è ad Atene” …Le proposizioni costituite da predicato e soggetto sono chiamate APOFANTICHE (o dichiarative : dicono qualcosa di qualcosa) : queste proposizioni sono le uniche che possono essere o vere o false : se dico “il libro è sul tavolo ” può essere vero (se effettivamente il libro è sul tavolo) , ma anche falso (se non è sul tavolo) . Le preghiere , le esclamazioni , le domande , i comandi non dichiarativi : non sono nè veri nè falsi ; se dico “oimè ” non è nè vero nè falso . La retorica può rivolgersi sia al passato (valuto , per esempio , le imprese di un uomo) sia al presente (lodo le caratteristiche di una persona , per esempio) sia al futuro (impartisco comandi) : sono i discorsi suasori , dove l’importante è la tecnica del persuadere ; Aristotele però non si rivela molto interessato ai discorsi suasori , che non sono nè veri nè falsi . Dire “Socrate è un uomo” non è un ragionamento , ma una proposizione (apofantica) che può essere o vera o falsa . Un ragionamento invece è una catena di proposizioni e Aristotele lo chiama ” SILLOGISMO ” (sun + lego = ragionamento concatenato) ; un sillogismo è costruito da due premesse e una conclusione . Le proposizioni sono anche scomponibili ; le parti che costituiscono una proposizione sono il soggetto ed il predicato , e dato che sono gli estremi della proposizione vengono chiamati “termini della proposizione” . Le proposizioni possono essere divise sotto tre aspetti : 1) QUANTITATIVO 2)QUALITATIVO 3) MODALE . 1) Sul piano quantitativo , le proposizioni possono essere universali o particolari .Se dico “tutti gli uomini sono mortali” è universale ; se invece dico “alcuni esseri viventi sono animali” è particolare. Nel primo caso dico che tutti , senza eccezioni , gli uomini sono mortali . Nel secondo caso dico alcuni . Aristotele nell’ambito delle quntitative riconosce anche le “individuali” , per esempio “Socrate è uomo ” il soggetto non ha valenza nè universale nè particolare , bensì individuale o particolarissimo . Un termine individuale in una proposizione non può mai fungere da predicato , ma solo da soggetto . Invece , i termini che rientrano a costituire le proposizioni della scienza possono fungere sia da predicato sia da soggetto : sono quindi termini universali (ad esempio “uomo”) . 2)Sul piano qualitativo , possono essere affermative o negative : sia le universali sia le particolari possono essere sia negative sia affermative ;universale affermativa “tutti gli uomini sono mortali” ; particolare affermativa “alcuni esseri viventi sono mortali” ; universale negativa : “Nessun uomo è bianco” ; particolare negativa “qualche uomo non è bianco ” . 3) Sul piano modale , le proposizioni possono essere a) possibili b) contingenti c) impossibili d) necessarie : a)non è in un modo , ma potrebbe esserlo (non piove ma potrebbe cominciare) b) è l’opposto del possibile : è in un modo , ma potrebbe non esserlo (piove , ma potrebbe non piovere) c) ciò che non è che non può essere d) ciò che è e che non potrebbe non essere . Le modali stanno tra loro a 2 a 2 : l’impossibilità è una forma di necessità : dire che una cosa è impossibile significa dire che è necessario che non sia .Nel “Parmenide” di Platone questo concetto emergeva molto bene : la necessità è ciò che è e che non può non essere . La logica ci consente di studiare la struttura del pensiero e di cogliere gli aspetti formali , evitando così di incappare in errori formali : essa ci permette di fare ragionamenti coerenti .L’unico modo per non fare errori di ragionamento è separare la forma dal contenuto . Aristotele dice che le proposizioni possono essere CONTRADDITORIE o CONTRARIE : le contrarie hanno la prerogativa di non poter essere entrambe vere , ma di poter essere entrambe false : per esempio le proposizioni “tutti gli uomini sono bianchi” e “nessun uomo è bianco” sono tutte e due false , in quanto qualche uomo è bianco e qualche altro non lo è . Le contrarie però accettano una via di mezzo : in questo caso la via di mezzo è “alcuni uomini sono bianchi” : un buon modo per cogliere due proposizioni contrarie è vedere se hanno una via di mezzo. Le contradditorie invece hanno la prerogativa di essere necessariamente una vera e l’altra falsa : “tutti gli uomini sono bianchi” , “qualche uomo non è bianco” : se la seconda è vera , la prima non lo è .Questa divisione aristotelica tra proposizioni contrarie e contradditorie è di fondamentale importanza perchè noi nei ragionamenti talvolta traiamo conclusioni sbagliate perchè non abbiamo ben chiaro il funzionamento delle proposizioni : a volte diciamo che una cosa è falsa e argomentiamo che l’opposto è vero : questo vale solo per le contradditorie : è il principio della dimostrazione per assurdo . Se non mi accorgo che le proposizioni sono contrarie e ragiono così sbaglio clamorosamente : ad esempio , ” Stalin è un imbecille” : questo non mi consente di dire ” Hitler è intelligente” : sono due contrarie e quindi ci deve essee una possibilità intermedia . Finchè le forme del pensiero sono intrecciate col contenuto , i ragionamenti sono incoerenti : per ragionare bene bisogna separare la forma dal contenuto , un pò come nella matematica con le lettere , dove si vede il ragionamento allo stato puro . La logica si muove su tre livelli 1) TERMINI : come abbiamo detto sono il soggetto ed il predicato : i termini non sono mai nè veri nè falsi , solo le proposizioni possono essere vere o false : se dico “uomo” non è nè vero nè falso , ma se dico “l’uomo corre” può essere falso ; anche se dico una cosa che non esiste come l’ippogriffo , un animale mitologico , non è sbagliato : infatti costruendo la proposizione potrò dire “l’ippogriffo non esiste ” ed è giusto , oppure “l’ippogriffo esiste” ed è sbagliato . 2) le proposizioni , che sono le uniche che possono essere o vere o false . 3) I sillogismi , dati da due premesse e una conclusione : essi non sono nè veri nè falsi , ma coerenti o incoerenti : tutto dipende dalle premesse che avevo in partenza . Ad esempio, prendiamo due premesse sbagliate : “tutte le cose verdi sono vegetali” e “tutte le rane sono verdi” : con il sillogismo arrivo alla conclusione che tutte le rane sono vegetali , ma il sillogismo non è affatto sbagliato : sono sbagliate le premesse ! La conclusione è stata tratta correttamente sfruttando le premesse . si chiama premessa maggiore di un sillogismo quella che fornisce informazioni più generali , mentre premessa minore quella che fornisce informazioni più particolareggiate : ad esempio : premessa maggiore “tutti gli animali sono mortali” ; premessa minore “tutti gli uomini sono animali” ; conclusione “dunque tutti gli uomini sono mortali” . Questo sillogismo viene detto di “prima figura” : le premesse sono universali affermative ed il termine medio è “animali” , che nella prima frase è soggetto , nella seconda è predicato . Il termine “animali” è termine MEDIO perchè mi consente di collegare tra loro nella conclusione gli altri due termini che compaiono invece ciascuno in una sola delle premesse . Accanto a questa prima figura per Aristotele esistono altri due tipi di figure , che si distinguono in base alla posizione del termine medio come soggetto o predicato nelle premesse . Ciascuna figura a sua volta si può articolare in diversi “modi” , a seconda delle qualità delle premesse (affermative o negative) o della quantità (universali o particolari) . Ma solo la prima figura agli occhi di Aristotele è quella propriamente scientifica : essa infatti consente di rispondere alla domanda centrale della scienza “perchè ?” ; nel nostro caso se ci si chiede perchè tutti gli uomini sono mortali , la risposta è insita nel termine medio “animali” . E’ il fatto che gli uomini sono animali a spiegare il fatto che essi sono mortali . Il sillogismo partendo dalle premesse arriva a dimostrare che gli uomini sono mortali . Se le premesse sono vere anche la conclusione è necessariamente vera . Proprietà del sillogismo è infatti la trasmissione della verità dalle premesse alla conclusione.Il carattere universale delle premesse consente di raggiungere una conclusione universale e necessario e proprio della scienza è ciò che è vero universalmente in tutti i casi . Il termine medio gioca un ruolo fondamentale perchè mi consente di collegare le premesse per trarre la conclusione . Si possono anche analizzare le mansioni dei termini : il medio svolge le funzioni sia di predicato (tutti gli uomini sono animali) sia di soggetto (tutti gli animali sono mortali) : è proprio il fatto che in una proposizione il medio sia soggetto e nell’altra predicato che mi consente di trarre la conclusione corretta . Se il “medio” fosse solo predicato o solo soggetto in tutte e due le premesse non potremmo trarre conclusioni così semplici : se per esempio avessimo queste due premesse “tutti i vegetali sono verdi ” e “tutte le rane sono verdi” finiremmo per dire “tutte le rane sono vegetali” : il medio (rane) è soggetto in tutte e due le proposizioni . In questo caso teoricamente non lo si può neanche chiamare termine medio . La logica , come detto , ci consente di evitare errori perchè separa le forme dai contenuti ; nel passato ci fu chi disse “quel tale ha quel carattere ed è delinquente” “tu hai quel carattere” “di conseguenza sei delinquente” : è sbagliatissimi perchè il termine medio (carattere) è solo predicato . Secondo Aristotele il termine medio serve a spiegare il dioti , il perchè di un qualcosa . Si è però più volte notato che in realtà le conclusioni spesso non derivano dalle premesse : nel nostro caso per dire che gli uomini sono mortali non è necessario dire che sono animali e gli animali ono mortali : tutti sappiamo che gli uomini sono mortali anche senza effettuare questo ragionamento . Sappiamo per altre vie che l’uomo è mortale (per esempio per il fatto che tutti gli uomini esistiti sono morti) , però il sillogismo ci fa capire il legame logico tra le varie proposizioni : ci consente di acquisire il dioti e non solo l’oti ; sappiamo tutti che l’uomo è mortale , ma per capire il perchè occorre il sillogismo . Ciò che ci fa capire il perchè (ed in parte vi si identifica) è il termine medio : il puro e semplice oti (gli uomini sono mortali) non dimostra l’inutilità del sillogismo : è un pò come un sistema . In altre parole il sillogismo non ci fa capire la verità , ma i nessi tra le verità . Perchè gli uomini sono mortali ? La risposta è nel termine medio : perchè sono animali . La struttura del sillogismo è DEDUTTIVA : si parte da verità universali per dimostrare realtà particolari . Il termine deduzione deriva dal latino “deduco” (de+duco = tiro giù da una verità che sta più in alto una verità che sta più in basso) . Ma che origine hanno le premesse ? Possono avere due origini differenti : a) possono essere conclusioni : ogni premessa infatti può essere conclusione di altre premesse : è comunque un processo che non può andare avanti all’infinito . b) In molti casi le premesse generali derivano da processi induttivi (arrivo cioè da casi particolari a casi più generali) ; la conoscenza è un pò come un circolo , ma non vizioso : da casi generali si passa a casi più specifici e viceversa ; sarebbe un circolo vizioso se per arrivare a verità generali si dovessero analizzare tutti i casi : ad esempio se per dimostrare che “tutti gli animali sono mortali” dovessi esaminare uno ad uno tutti gli animali esistenti (ed esistiti) sono mortali : ma non è così ! Aristotele ritiene che mediante processi astrattivi , con un certo numeri di esempi si possa cogliere un’essenza generale comune a tutti gli elementi di una specie : come per Platone , anche per Aristotele esistono realtà universali che vengono compartecipate da tanti individui : per lui però sono forme e non idee: la forma uomo è in tutti gli uomini : se l’essenza uomo è caratterizzata dalla mortalità posso arrivare a tirar fuori da un pò di casi che tutti gli uomini sono mortali . Per capire questo non ho bisogno di andare a vedere che tutti gli uomini esistiti sono morti : da singoli casi con l’astrazione e cogliendo le caratteristiche (sfruttando solo quelle comuni) posso arrivare a dire che tutti gli uomini sono mortali : questo anche se analizzo solo tre uomini : tutti e tre han la forma uomo : se son morti quei tre tutti quanti gli uomini sono mortali : passo dal particolare all’universale . Anche Socrate , per dire , anche se adesso è ancora vivo , è un mortale perchè tutti gli uomini lo sono : dimostro con l’induzione . Quindi abbiamo detto che non è un circolo vizioso perchè non vado ad esaminare tutti gli uomini del mondo , ma solo alcuni : arrivo a dire che è mortale Socrate che non era nel gruppo di coloro che ho analizzato : però arrivo a dire che anche lui è mortale . Per Aristotele esistono gli UNIVERSALI , che a differenza di quanto era per Platone sono calati nella materia : se in un tale colgo l’essenza universale dell’uomo , questo processo vale per qualsiasi uomo . L’intelletto per Aristotele ha funzione DIMOSTRATIVA : consente , partendo da determinati principi , di arrrivare a conseguenze . Ma abbiamo detto che il sillogismo può essere di vari tipi : quello scientifico è quello che parte da premesse vere per arrivare a conclusioni vere . Aristotele fa notare che mentre se una premessa le conclusioni sono vere , se invece le premesse sono false non sempre le conclusioni sono false . Ad esempio , posso arrivae a dire che le rane sono verdi dicendo che sono vegetali . Tutte le rane sono vegetali , tutti i vegetali sono verdi , di conseguenza tutte le rane sono verdi . Si può in qualche misura argomentare in modo contrario : quando le conclusioni son false , allora anche le premesse sono false (argomentazione per assurdo) , ma se mi trovo di fronte a conclusioni vere non sempre le premesse sono vere . Il sillogismo scientifico presuppone che oltre al dimostrare correttamente , ci sia l’intelletto , il saper cogliere principi : c’è la dimostrazione come argomentazione , l’intelletto per cogliere principi : la scienza raccoglie ambedue . Il numero di casi per l’induzione non è sempre lo stesso : per i casi empirici ne occorrono un pò : Aristotele crede di poter stabilire una realazione tra il fatto che un animale sia longevo e il fatto che sia dotato di cistifellea : cita così diverse specie animali e la durata della loro vita . Ma in alcuni frangenti basta un caso solo : è il caso della geometria . Con l’induzione si arriva a tante cose : per Aristotele attraverso l’intelletto si arriva a principi comuni validi per tutte le scienze , e ad altri validi solo per alcune scienze : i principi della geometria per esempio riguardano solo le qualità spaziali . Facciamo un piccolo riassunto : il sillogismo è lo strumento principale della scienza : la scienza è quindi dimostrazione . Ma si può dimostrare tutto ? Nasce qui il problema dell’assunzione delle premesse ; certamente molte premesse di determinati sillogismi (come abbiamo già detto) sono a loro volta conclusioni di altri sillogismi , ma se si vuole evitare di andare all’infinito alla ricerca di premesse , che debbono costituire il saldo punto di partenza della scienza ,occorre rintracciare un tipo di premesse la cui verità non richieda necessariamente una dimostrazione . Occorre quindi uno strumento , diverso dalla dimostrazione , in grado di coglierle nella loro verità . A questa funzione presiede l’intelletto . Esso è dunque una disposizione non innata , ma acquisibile con l’esercizio , a cogliere l’universale per via non dimostrativa . Esso coglie i primi principi indimostrabili che stanno alla base di ogni scienza per via induttiva . Ecco quindi la distinzione di cui parlavamo tra principi propri di ogni singola scienza (quali per la geometria la definizione degli enti e delle figure geometriche , per l’aritmetica la definizione dei numeri in pari , dispari …) e i principi comuni a tutte le scienze (per esempio “il tutto è maggiore della parte” o “Se da uguali sono sottratti uguali , i resti sono uguali):essi hanno una caratteristica non devono essere dimostrati . Ciascuna scienza li usa in relazione agli oggetti specifici di sua competenza : per esempio la geometria in relazione alle grandezze geometriche , l’aritmetica in relazion ai numeri , e così via . Aristotele trova tre principi fondamentali da cui nessuna scienza può prescindere : 1) IDENTITA’ 2) CONTRADDIZIONE 3) TERZO ESCLUSO . 1) A è A e non può essere non-A 2)Aristotele dà 2 formulazioni a questo principio a)è impossibile che la stessa cosa sia e non sia al tempo stesso (sembra uguale a quello di identità , ma non lo è) b) è impossibile che una stessa cosa appartenga e non appartenga nello stesso tempo alla stessa cosa . c)A o è B o non è B : non c’è una terza possibilità : delle due proposizioni contradditorie una deve essere per forza vera . Questi sono i principi generaliossimi della logica : aristotele fa notare che non sono dimostrabili (come abbiamo detto anche noi) ; a rigore non si possono neppure cogliere bene per via induttiva . Aristotele argomenta in loro favore con la CONFUTAZIONE : non dimostra la verità , ma fa notare che sarebbe impossibile ragionare senza di loro ; non solo , è anche impossibile argomentare contro questi tre principi . E’ un caso di dimostrazione indiretta (quasi per assurdo) . Aristotele è il primo autore che ammetta una autonomia reciproca delle scienze : per Platone esisteva una sola scienza : chi sapeva i principi , sapeva tutto . Con Aristotele incomincia quel processo per cui le varie scienze hanno acquisito autonomia dal sapere centrale e dalla filosofia . In Aristotele la filosofia è la filosofia , ma poi c’è l’albero della scienza , dove c’è un tronco centrale ma anche tante ramificazioni . Aristotele riconosce sì una certa autonomia alle varie scienze , ma come i rami di un albero sono in stretto contatto con il tronco centrale , così le varie scienze sono imparentate con un tronco centrale : la filosofia e la logica : da notare che i principi della logica sono in buona parte gli stessi della filosofia . Prendiamo per esempio le tesi di Parmenide ed in particolare il principio della contraddizione : in termini logici si dice che non c’è contraddizione , ma sul piano filosofico-ontologico si dice che è impossibile che lo stesso soggetto abbia caratteristiche contradditorie : per noi come per Aristotele le leggi del pensiero e della realtà sono le stesse . Aristotele fa vedere cose della realtà anche nell’ambito della logica , in forma logica . A quei tempi tutto era diverso : pensiamo ai Pitagorici che si stupivano che ciò che scopriva la matematica corrispondeva alla realtà : il teorema di Pitagora vale su un triangolo astratto (sull’idea di triangolo, secondo Platone ) e poi su quelli reali . In Aristotele la parola DIALETTICA ha significato diverso rispetto a Platone : per Platone era un sinonimo di filosofia , per Aristotele significa “ragionamento che implica una dimostrazione con gli altri” . Posso sì dedurre ed indurre da solo , ma la dialettica implica un rapporto con gli altri : è quel ragionamento che parte non da ciò che è vero perchè colto col sillogismo ed il ragionamento scientifico , ma da punti di partenza (premesse) prese per buone nel contesto in cui si parla : Aristotele dice “le premesse usate dai più o dagli esperti o dalla maggioranza degli esperti ” : non è una verità assoluta , ma un modo per cominciare la discussione di una tematica . E’ interessante notare che Aristotele abbia inventato il sillogismo ma che l’abbia usato davvero poco : usa di più gli argomenti dialettici : prende dei punti condivisi da molti e li discute : quando si cimenta nella ricerca delle quattro cause , parte dai punti di vista dei presocratici (coloro che vissero prima di Socrate ) .Agli occhi di Aristotele la conoscenza è una sorta di processo collettivo nel quale si trovano coinvolti gli uomini del passato e del presente . Quindi partiva dalle premesse dei suoi predecessori e ci ragionava sopra discutendo se potevano essere accettate o no . Aristotele crede di partire dai PHAINOMENA (“fenomeni” , ciò che appare all’esperienza) : questo conferma il fatto che Aristotele sia un empirista : per lui la mente è una “tabula rasa” da riempire con le esperienze . Comunque fanno parte dei “phainomena” non solo le esperienze , ma anche le opinioni altrui : Aristotele anche quando studia gli organismi riproduttivi , non si serve solo delle esperienze personali , ma anche dei pareri degli antichi . Lo studia comincia ad essere mescolanza di esperienze personali e ragionamenti con il libro : è proprio con Aristotele che il libro diventa strumento di sapere : ci fornisce quel materiale di elaborazione degli altri , ciò che è stato scritto . Ma se per conoscere si usano queste tecniche , il sillogismo che valore ha ? Il meccanismo per scoprire la verità è la dialettica , quello per stabilire i nessi delle realtà è il sillogismo , che ci fornisce il dioti . A livello teorico abbiamo distinto fisica da metafisica : sia il sillogismo sia la dialettica rientrano nella metafisica , la pretesa di cogliere ciò che sta al di là delle cose fisiche . L’essenza c’è anche nella fisica . La fisica studia gli oggetti che esistono di per sè ma sono mutevoli (è l’opposto della matematica) ; la metafisica studia tutto l’essere in quanto essere ma anche l’essere che esiste ed è immutabile (la divinità) ; in pratica studiamo la metafisica come ontologia : se è studio dell’essere in quanto essere si occupa anche di oggetti fisici . Ma che cos’è l’essere ? L’essere può essere ricondotto alla sostanza . Dire “che cosa è l’essere?” si può ricondurre a “che cosa è la sostanza?” . Per rispondere Aristotele si pone un problema : ” essere” ha significato univoco o biunivoco ? (in realtà “biunivoco” e “univoco” sono termini medioevali) Aristotele risponde che non è nè univoco nè biunivoco , ha significati analogici ; a questo punto Aristotele fa un esempio servendosi dell’aggettivo greco “salutare” : è salutare tutto ciò che ha a che fare con la salute , il clima , una persona , un cibo … Il ragionamento che ne consegue è che se ci chiediamo se è univoco o biunivoco il significato dell’essere , dobbiamo rispondere che non è nè l’uno nè l’altro : non può avere sempre lo stesso significato , ma comunque i vari significati sono tra loro imparentati perchè si riferiscono tutti ad un unico concetto , la salute . L’essere è analogico : tutti i significati di essre si appoggiano alla “sostanza” , il significato più importante . Aristotele fa poi un discorso a cavallo tra realtà e logica : le cose possono avere una miriade di caratteristiche ; è vero che posso predicare in maniera sterminata , ma le tipologie si possono ridurre a poche possibilità , le CATEGORIE (in totale 8 o 10 : in realtà erano 8 , ma il 10 suonava meglio …):in Greco categoria significa “predicato” : le categorie sono quindi 8 tipi di predicazioni che si possono fare : prendiamo ad esempio Socrate : 1) SOSTANZA ? Socrate 2)QUANTITA’? Un metro e mezzo 3) QUALITA’ ? Bianco o filosofo 4) RELAZIONE ? Figlio di Sofronisco 5)LUOGO ? In carcere 6) TEMPO ? L’anno della morte 7) SITUAZIONE ? Star seduto 8) AVERE ? Un mantello (Aristotele ne aggiunge poi due giusto per far cifra tonda e arrivare a 10 : 9)AGIRE? Bagnare 10)SUBIRE? L’essere bagnato). Tra le categorie la più importante è appunto la sostanza : tutte la altre infatti devono per forza essere predicate di qualcosa , ossia appunto di una sostanza . Per esempio “bianco” o “un metro e mezzo” possono essere predicati alla sostanza “Socrate” .Il loro essere è sempre in riferimento ad una sostanza , e dipende da essa . Ma la stessa cosa non vale necessariamente per tutte le sostanze . A questo proposito Aristotele distingue nello scritto “Sulle categorie ” tra sostanze prime e sostanze seconde . La sostanza prima , per esempio “questo uomo qui” (l’individuo Socrate) non può mai essere predicata di un’altra sostanza nè esistere in un’altra sostanza . Le sostanze seconde invece , ossia le specie (per esempio , uomo) e i generi ( per esempio , animale), possono essere predicate delle sostanze prime . Per esempio è possibile dire “Socrate è uomo” . Secondo Aristotele , Platone aveva commesso l’errore di attribuire esistenza autonoma ai predicati , ossia alle sostanze seconde che in realtà esistono soltanto in riferimento a sostanze individuali .Ma viene spontaneo chiedersi quale sia la differenza tra universale e sostanza : Aristotele stesso si pone questa domanda e cerca di dare una risposta ne “La metafisica” ; egli dice che la sostanza di una cosa è quella che è caratteristica di quella cosa , che non inerisce ad un’altra cosa . L’universale invece è comune , perchè infatti si dice universale ciò che per natura inerisce a più cose . Quindi di che cosa sarà sostanza l’universale ? Infatti l’universale o sarà la sostanza di tutte le cose alle quali inerisce , o non sarà la sostanza di nessuna . Ma non può essere la sostanza di tutte ; se sarà la sostanza di una sola cosa , allora anche tutte le altre cose saranno quest’unica cosa , poichè le cose che hanno un’unica sostanza ed un’unica essenza sostanziale sono esse stesse un’unica cosa : è un ragionamento per assurdo , si assume cioè come premessa che l’universale sia sostanza . Inoltre si dice sostanza ciò che non può essere predicato di un soggetto (nel caso delle sostanze prime) , mentre l’universale si predica sempre di un soggetto . Aristotele arriva alla conclusione che gli universali (che Platone chiamava idee) non possano esistere separatamente dalle sostanze : “uomo” non esiste come entità separata dalle sostanze singole , “Socrate” , “Platone” , “Gorgia” … Ci sono 8 modi per dire l’essere ma non equivoci : tutti si riconnettono all’essere come sostanza : perchè? Non esistono le qualità al di fuori delle quantità : pensiamo al quadrato : di per sè non esiste , esiste solo come processo di astrazione di un libro per esempio . Il libro è blu : il blu esiste sempre nella misura in cui inerisce alla quantità (il libro) : il libro esiste di per sè sempre . Le categorie risultano dunque 7 + 1 (la sostanza) . Ci sono poi le cose che esistono come qualità delle sostanze (il blu , il quadrato …)Il significato principale dell’essere è la sostanza : ma più precisamente la sostanza individuale ; emerge qui un’altra grande differenza tra Platone e Aristotele : per Platone esistevano più gli universali (le idee) che gli individuali : l’idea di cavallo esisteva più del cavallo stesso : le idee si calavano nel mondo sensibile . Per Aristotele invece esistevano di più gli enti empirici rispetto a quelli astratti : ciò che una cosa è sta nella cosa stessa e non al di fuori di essa ; è una visione IMMANENTE , mentre quella platonica è trascendente . Ciò che propriamente esiste sono gli enti singoli : il significato principale dell’essere è la sostanza , ciò che è effettivamente . La sostanza è ciò a cui le qualità ineriscono . Il quaderno però (esempio di sostanza ) può essere due cose diverse : 1) può essere il quaderno che ho in mano “hic et nunc” (qui e adesso , in Greco “tòde ti”) 2)può anche essere la categoria generale dei quaderni : di fronte ad una persona posso dire “Caio” (per esempio), che è il nome proprio della persona o “uomo” che è la categoria alla quale appartiene : in entrambe i casi indico la sostanza con entrambe i nomi : quand’è che si indica la sostanza prima di cui abbiamo già parlato ? Quando si cita ciò che è “hic et nunc” : quando dico che la sostanza è il significato dell’essere , devo dire che il significato primo dell’essere è la sostanza prima . Come si può distinguere sostanza prima da sostanza seconda ? La sostanza prima è sempre e solo soggetto : se dico “il libro è blu” è sostanza prima perchè soggetto ; se però dico “quest’oggetto è un libro” è sostanza seconda perchè “libro” è predicato . Se dico “Socrate è uomo” non può fungere che da soggetto e da sostanza prima : anche se dico “questo qui è Socrate” in fondo è soggetto . Le sostanze seconde possono essere SPECIE e GENERI : Socrate è sostanza prima , “uomo” è la specie , “animale” è il genere : ci sono più livelli di generità . Un buon modo per distinguere specie da genere è che se ho una specie non la si può suddividere ulteriormente se non in casi singoli : da uomo posso solo passare a Socrate , Platone … Il genere (animale) invece è ulteriormente divisibile . Questo ci aiuta a capire che cosa significa per Aristotele definire : non posso definire Socrate , ma l’uomo : definire è indicare la specie , la divisione ultima . Platone si serviva invece della diairesis . Aristotele punta su genere-specie : si individua il genere prossimo , cioè il genere immediatamente successivo , più generale dopo la specie : nel genere animale devo indicare la caratteristica che separa quel genere dagli altri : nel caso del genere animale bisogna dire per indicare l’uomo “animale razionale” . Si troova la differenza che contraddistingue l’elemento dal resto della specie . Le sostanze dunque sono in senso primario e non in funzione di qualcos’altro . Se dico “Socrate è magro” , l’esser magro di Socrate è un caso individuale della qualità generale dell’essere magro . Ma questa qualità generale , la magrezza , non è una sostanza . Infatti mentre la sostanza (ad esempio Socrate) può esistere senza la qualità di magrezza , la magrezza non può esistere senza la sostanza a cui è riferita . In questo caso la nozione di sostanza si distingue da quella di ACCIDENTE : una sostanza ha molte proprietà accidentali , vale a dire proprietà che essa può avere o non avere , senza che l’averle o il non averle comprometta il suo essere quella sostanza determinata . Queste considerazioni portano Aristotele lontano dalla dottrina delle idee platonica . Per Platone ci sono cose bianche perchè c’è l’idea di bianchezza che viene compartecipata ; per Aristotele la bianchezza è perchè ci sono cose bianche , ossia sostanze dotate della qualità di bianchezza . Così il numero 3 esiste perchè esistono gruppi di tre cose . L’universale (il tre , la bianchezza , l’uomo…) , che è oggetto della scienza , non ha esistenza separata dalle cose sensibili , come aveva preteso Platone , ma esiste nelle sostanze individuali . Ritorniamo allo studio dell’accidente : ogni specie ha determinate caratteristiche che appartengono agli individui della specie sempre o “epì tò polù” (per lo più) ; i cani hanno sempre o per lo più quattro gambe . La sostanza di ogni specie indica ciò che hanno sempre o quasi sempre (epì tò polù) : ma Aristotele non si interessa delle singole differenze . L’uomo ha sempre o per lo più due occhi perchè fa parte della sua natura : ma non fa parte della sua natura che siano blu , verdi … Ecco allora che ci troviamo di fronte agli accidenti , quelle cose che non sono nè sempre nè epì tò polù : possono esserci . I concetti fondamentali della fisica sono legati al mutamento e al movimento : infatti gli enti fisici sono quelli che esistono di per sè , ma che sono mutevoli . Il termine greco che designa il movimento è “kìnesis” : in realtà sarebbe più appropriato tradurlo con ” mutamento-movimento” : certi mutamenti vanno infatti ricondotti al movimento : prendiamo ad esempio il crescere di un animale , forma di mutamento : le sue particelle si muovono e fanno sì che lui cambi . Il mutamento però può avvenire solo sotto 4 categorie : 1) luogo : è il più banale ; la penna era qui , ora è lì : si è spostata . 2) quantità : un essere che cresce muta di quantità 3)qualità : abbronzandosi , per esempio , si muta di colore e quindi di qualità . 4)sostanza : è il mutamento più radicale : quando un animale nasce passa dal non essere all’essere e viceversa quando muore passa dall’essere al non essere . Il movimento inerisce alle cose fisiche : ma non necessariamente dove c’è movimento c’è corruzione : il mutamento avviene non per forza sotto tutte e 4 le categorie : è solo con il mutamento di sostanza che c’è corruzione . Gli astri , per esempio , mutano solo di luogo e non di sostanza : per questo per Aristotele sono eterni . Per lui ci sono propriamente tre enti : a) SUBLUNARE : è il nostro mondo , che sta al di sotto della luna ;esso muta sotto tutte e 4 le cause e per questo è corruttibile . b)CELESTI : gli enti celesti per Aristotele sono eterni : mutano solo di luogo . Gli enti celesti sono quegli enti che vanno dalla luna in sù . c) DIO : non muta affatto , in nessuna delle 4 categorie . Aristotele rifiuta la seconda navigazione platonica e orienta le sue indagini interamente sul mondo sensibile . Ma come funziona il mutamento ? Una prima spiegazione la troviamo nel binomio forma-materia : mentre Platone parlava di idee , Aristotele parla invece di forma : è come se Aristotele immanentizzasse le idee nella realtà . E’ interessante notare che Platone le idee le chiamava o “eidos” o “idea” (tutti e due i termini derivano da “orao” , vedere : le idee erano quelle cose che si vedevano non con gli occhi , ma con l’intelletto ) ; Aristotele dal canto suo traduce “forma” con due parole : “morfè” o “eidos” : si è sempre cercato di evitare di mettere in gioco la stessa parola nei due autori e così per Platone parliamo di idee e con Aristotele di forma : ma in realtà tutti e due usano la stessa parola (eidos) : infatti l’idea di idea c’era anche in Aristotele , ma lui la calava totalmente nella realtà . Aristotele è arrivato a dire che la sostanza è il significato principale dell’essere : ma la sostanza come è fatta ? I predecessori avevano individuato due cose tra loro distinte : a)i Presocratici avevano individuato la materia : ciò di cui una cosa è fatta . b) Platone aveva individuato la forma che una cosa ha : Platone diceva che ciò che faceva un cavallo non era la materia ma la forma . Aristotele non accetta nè la A nè la B : l’idea di cavallo da sola non esiste , ma neppure la pura e semplice materia da sola . Per essere una sostanza deve essere una sostanza specifica ed in più deve essere caratterizzata da una struttura specifica che mi consenta di dire “questo è un cavallo” . Un quaderno è un quaderno perchè c’è della materia ed in più c’è la forma , la struttura che me lo fa individuare come quaderno . Si tratta di un vero BINOMIO materia-forma (Aristotele lo chiama “sinolo” da sun + olos = un tutt’uno di materia e forma) ; ogni sostanza fisica è un binomio di materia e forma : non è un semplice aggregato : per Platone un uomo era fatto di anima e corpo : l’anima era una realtà a parte , tant’è che il corpo per lei era una prigione . Per Platone erano due materie separate . Per Aristotele è totalmente differente la questione : l’uomo è un sinolo , un binomio di anima e corpo . Non si può dividere la materia dalla forma : è una realtà inscindibile; senza il binomio non può esistere la sostanza ; questo implica la mortalità dell’uomo : l’uomo è un sinolo di materia e forma : quando si scioglie una componente (il corpo) si rompe tutto . La forma è quel carattere comune a tutti gli enti di una determinata specie : la forma uomo è presente in tutti gli uomini . Prendiamo un gatto : cosa è che rende quel gatto diverso dagli altri gatti ? E’ la materia , che fa sì che lui sia , esista ; la forma fa sì che lui sia un gatto e non un cane . La materia individua la forma : la forma gatto non esiste da nessuna parte : essa è solo in tutti i gatti esistenti , ma di per sè non esiste . Quando il gatto muore la forma e la materia si disperdono : in realtà la forma non sparisce perchè è in tutti gli altri gatti (anche in quelli che l’han procreato) . Aristotele è un FISSISTA : le specie , secondo lui , sono sempre esistite e sempre esisteranno . In ogni trasformazione c’è sempre qualcosa che cambia , che si trasforma : è la materia (o SOSTRATO , dal latino “substratum” = ciò che giace sotto ; dal greco “upokeimenon”).Facciamo un esempio : una persona va al sole e diventa scura : c’è un sostrato che muta , pur restando in fondo lo stesso : in questo caso il sostrato è la persona stessa : è ciò che permane nella trasformazione . Si passa dalla privazione di una forma all’acquisizione di una forma . Facciamo un esempio : nella procreazione Aristotele (come Platone ) era convinto che la madre fornisse la materia ed il padre la forma : la materia passa dal non possedere la forma del padre ad avere la forma del padre . Dunque abbiamo in gioco : a)il sostrato (o materia) b) la privazione di forma c) l’acquisizione di forma . Il concetto di materia è puramente relativo : ogni processo non riguarda mai la materia pura : uno che si abbronza , passa dalla privazione di colorito all’acquisizione di colorito : la persona funge da sostrato , ciò che perdura nel mutamento . La materia della persona che si abbronza passa dalla mancanza di una forma all’acquisizione di una forma (l’abbronzatura) : la persona è già strutturata , è un sinolo di forma e materia . Aristotele parla allora di materia prima (“prote ule”) , della materia priva di forma , senza il sinolo : è un concetto solo teoretico : in realtà in ogni ente c’è sempre il binomio . Ogni processo parte da qualcosa che funge da materia pura priva di forma per arrivare ad acquisire la forma : però in realtà la materia che deve acquisire la forma , è già un sinolo di materia e forma . Nel nostro caso la persona che si abbronza funge da sostrato : deve acquisire la forma abbronzatura : funge quindi da materia pura , ma in realtà è già un sinolo di forma e materia . Ha già cioè subito un processo di formazione dal padre e dalla madre . E’ quindi passato da privazione abbronzatura ad acquisizione abbronzatura : ma qualcuno potrebbe dire (giustamente) “è passato da acquisizione pallore a privazione pallore” . Noi infatti abbiamo una concezione meccanicistica : le cose che avvengono in natura non sono nè buone nè cattive : Aristotele è un finalista e per lui la natura non fa nulla invano : tutto ciò che fa ha uno scopo (positivo) . Aristotele ha dunque una concezione finalistica (o teleologica) della natura : ogni ente la forma la porta dentro di sè e tende a realizzarla il più possibile . Per Aristotele le cose negative non hanno forma (come per Platone non c’era l’idea di cose negative , come il fango o il capello) . Per noi il processo con cui si nasce è analogo a quello con cui si muore : in entrambe i casi da una forma si passa ad un’altra . Per Platone la morte è un processo degenerativo . Aristotele analizza il movimento vedendolo come il passaggio di un sostrato da privazione di una forma ad acquisizione di quella forma . Comunque questi tre aspetti si possono ricondurre a due : infatti sia privazione sia acquisizione sono riferiti alla forma : sono privazione e acquisizione di forma . Il cambiamento lo si può anche vedere sotto la celebre dottrina delle 4 cause : 1)materiale : indica ciò di cui una cosa è fatta (nel caso di una statua , per esempio , il bronzo) 2)efficiente (o motrice) : indica ciò che mette in moto la cosa , ciò che fa avvenire il processo (nel caso di una statua , lo scultore) . 3) Formale : indica la forma che acquisirà (forma di statua) . 4)Finale : indica lo scopo per cui è fatta (nel caso della statua , per venerare la divinità ). Aristotele utilizza le 4 cause per gli enti naturali , ma si serve di esempi del mondo artificiale-umano perchè così può rendere più visibili cose che nel mondo naturale sono meno visibili . In effetti che in natura ci sia il finalismo è difficile dimostrarlo : invece , un architetto che fa una casa la fa per mettere al riparo delle persone . Nella natura il finalismo è immanente . In Platone il fine stava al di fuori delle cose stesse (consisteva nell’imitare le idee nel miglior modo possibile) . In Aristotele l’essenza delle cose è nelle cose stesse e l’essenza è un qualcosa di dinamico : non è solo ciò che un cavallo è , ma anche ciò che mira ad essere (un cavallo mira ad essere un buon cavallo). Per Aristotele il mondo fisico non va svalutato come era per Platone : è proprio nel mondo fisico che si trova l’essenza delle cose . Aristotele sa bene che anche il mondo naturale è finalistico , che un fiore ha il suo scopo , ma sa anche che è meno evidente rispetto al caso della casa . Anche Aristotele , un pò come Talete con il magnete , prende esempi significativi per poi estenderli all’intera realtà . Nel mondo artificiale , poi , le cause sono caratterizzate dal fatto di essere totalmente separate e distinte le une dalle altre;prendiamo il caso della casa : c’è il materiale (i mattoni , il cemento… emerge come la materia sia un concetto relativo : il mattone è già un sinolo di materia e forma , ma funge da materia prima ), l’architetto (che è la causa efficiente : mette in moto la materia) , la forma (che l’architetto ha in mente) e lo scopo (far vivere delle persone all’interno) . Le opere biologiche di Aristotele sono molto importanti perchè da lì ha derivato le sue ideologie : per esempio , i fenomeni riproduttivi animali : la madre fornisce la materia , il padre la forma (la madre fornisce la materia priva di forma,quindi è causa materiale : tutte le altre cause sono nel padre : egli possiede già la forma da dare ed è quindi causa formale , è causa efficiente perchè mette in moto il processo fecondando , ed è pure causa finale : lo scopo dell’uomo è essere uomo ) . L’essenza è quindi , come abbiamo detto , ciò che una cosa è , ma anche ciò che mira ad essere ; in fin dei conti le cause sono riconducibili a due principi : la forma e la materia . Per Aristotele gli enti naturali hanno dentro di sè il principio del movimento : nel caso delle produzioni tecniche è esterno . Un altro modo con cui Aristotele spiega il movimento è quello della POTENZA e dell’ATTO : questa coppia è un altro modo per ammazzare Parmenide : già Platone aveva commesso il parricidio di Parmenide introducendo l’essere diversamente . Aristotele lavora però nel campo del cambiamento : dall’essere una cosa al non essere più quella cosa e viceversa . Introduce quindi la coppia potenza-atto . Aristotele fa notare che quando qualcosa cambia non passa solo da privazione ad acquisizione , ma subisce anche un altro processo : in partenza era potenzialmente quello che poi è diventato effettivamente . La pianta è trasformazione del seme : il sostrato da privazione di forma albero passa ad acquisizione di forma albero : ma si può anche dire che il seme è un albero in potenza : può diventare albero , come può non diventarlo . Il seme può quindi diventare albero : da albero potenziale diventa albero attuale . Aristotele afferma che questa coppia spiega anche una cosa che nella forma di cambiamento sostrato,privazione,acquisizione non era spiegata : non sempre il seme diventa albero . Certo un seme di quercia ha più possibilità di diventare albero rispetto ad un chicco di grano : il primo è un albero in potenza , il secondo no . Ci sono quindi varie canalizzazioni : prima si deve appurare che sia un albero in potenza (il chicco di grano non può esserlo) , poi occorre che ci siano le condizioni favorevoli perchè diventi albero attuale . Un uovo di struzzo sarà per forza struzzo in potenza e non potrà mai diventare gallina . Aristotele insiste particolarmente sul fatto che ogni cosa per passare da potenza ad atto ha bisogno di qualcosa che sia già in atto : l’uovo di struzzo , per esempio , per diventare struzzo attuale ha bisogno di essere fecondato da uno struzzo già struzzo , uno struzzo attuale . Se non intervengono i fattori necessari alla realizzazione del processo , esso non avviene . Il processo di canalizzazione è molto meno forte nel mondo artificiale rispetto al mondo naturale (a differenza del finalismo) : se ad esempio prendiamo un pezzo di legno , a differenza di uno struzzo , può diventare non tutto , ma più cose : un tavolo , una sedia , un mobile … E’ interessante ricordare che Aristotele ha dato una sua risposta al quesito “è nato prima l’uovo o la gallina ? ” : lui rispose che nacque prima il gallo ; questa domanda era problematica pure per lui (ricordiamo che era un fissista) ; questa domanda può anche essere interpretata come “è nato prima l’atto (la gallina) o la potenza (l’uovo) ?” . Aristotele a questo punto fa notare che l’atto sta prima della potenza ontologicamente e concettualmente : non possiamo definire fino in fondo un uovo se non specifichiamo di che cosa è (di gallina , di struzzo…) : se invece diciamo gallina tutti capiamo senza problemi . L’uovo non è quindi definibile perfettamente se non faccio riferimento all’atto , se non dico che è una gallina in potenza (per definirlo ho quindi bisogno di conoscere l’atto) . La potenza ha come fine l’atto , ma l’atto non ha come fine la potenza . Un bambino è un uomo in potenza : questa teoria però ha creato problemi ed esagerazioni sul piano pedagogico (soprattutto nella pedagogia gesuita) : si è negata l’autonomia delle varie età basandosi sul fatto che il fine è essere uomo . Anche nella storia si fa spesso così : si valuta ciò che viene prima in funzione di ciò che viene dopo : così è anche per i Presocratici , che sono stati appellati in questo modo in funzione della venuta di Socrate , negando loro autonomia . Sul piano ontologico abbiamo visto che , ad esempio , l’uovo per diventare gallina deve essere fecondato da un gallo già in atto . Addentriamoci ora nella cosmologia aristotelica : di che cosa è fatto il mondo ? In ultima istanza sarà fatto di forma e materia , come tutto il resto : ma sono concetti puramente teoretici e relativi : non esiste mai (o quasi) materia senza forma o forma senza materia . Aristotele riprende Empedocle ed individua 4 sinoli elementari : acqua , terra , cielo , fuoco . Ciascuno di questi sinoli è caratterizzato dal possedere due delle quattro qualità base : secco e umido , caldo e freddo . La terra per esempio è fredda e secca , il fuoco è caldo e secco e così via . Ma dove sarebbero questi sinoli elementari ? Prendiamo un qualsiasi elemento di questo mondo : ad esempio un uomo : la materia sono i suoi organi , la forma è il modo in cui sono stati strutturati ; prendiamo ora il suo cuore : anch’esso è un sinolo di materia e forma : la materia è il tessuto , la forma è quella del cuore . Ora prendiamo il tessuto : anche lui è sinolo di materia e forma : la materia sono i quattro elementi , la forma è la proporzione in cui sono stati mescolati . Prendiamo ora l’acqua (uno dei 4 elementi) : quale è la materia e quale è la forma ? Qui la separazione può essere solo concettuale : si può dire che essa è fatta di materia prima (prote ule) : abbiamo già detto che però in realtà il sinolo materia forma è inscindibile . Oltre alla materia prima troviamo anche due coppie di realtà : il caldo e il freddo ; il secco e l’umido : combinando queste 4 coppie si potrebbero teoricamente ottenere 6 cose , ma in realtà se combino il caldo con il freddo e il secco con l’umido non mi ricavo niente : così sono solo 4 le coppie combinabili . Ogni accoppiamento caratterizza ciascuno dei 4 elementi : abbiamo già detto che la terra è caratterizzata dall’essere fredda e secca . I 4 elementi sono la base dalla cui aggregazione e disgregazione deriva tutto il resto : sembra uguale ad Empedocle , ma in realtà non è così : per Aristotele , infatti , non sono le parti ultime della realtà (che invece sono le coppie caldo-freddo e secco-umido) : di conseguenza gli elementi possono trasformarsi gli uni negli altri , ad esempio tramite processi di evaporazione o di congelamento : mediante questi processi si possono spiegare , tra l’altro , i fenomeni metereologici . Ogni elemento può trasformarsi immediatamente in quello con cui ha una caratteristica in comune acquisendo l’altra . Per esempio la terra ha in comune con il fuoco il fatto di essere secca , però lei è fredda mentre il fuoco è calda : acquisendo il calore diventa fuoco . Gli elementi hanno poi un’altra caratteristica : il peso . Due elementi sono leggeri (fuoco,aria) , due pesanti (acqua,terra) . Il PESO per Aristotele è la tendenza ad andare verso il centro della terra (che per lui è pure centro dell’universo) : il basso in generale è il centro della terra . Noi pensiamo che il centro della luna sia sulla luna , Aristotele invece pensa che sia sulla terra . Per lui alto e basso hanno valore assoluto : il basso è il centro della terra . Tutti i corpi tendono o a scendere o a salire : sono i movimenti naturali . Ogni elemento si muove per propria natura in una direzione determinata dal suo peso : ciascuno di essi ha dunque un proprio LUOGO NATURALE , al quale tende . Quindi il luogo naturale di ogni elemento corrisponde al suo peso : in ordine di peso stanno così : 1)terra 2)acqua 3)aria 4)fuoco . Da notare che il finalismo vale perfino per le realtà più elementari : se il fine del cavallo è essere cavallo , quale è il fine della terra (uno a caso dei 4 elementi) ? Il suo fine è comportarsi come le compete , stare cioè verso Terra . Il finalismo dei 4 elementi è tendere ciascuno al proprio luogo naturale . Facciamo un esempio : prendiamo un libro ; esso è fatto di terra (di materia , insomma) : se lo mettiamo per terra non si muove perchè è nel suo luogo naturale . Se lo alziamo e lo portiamo in aria e poi lo lasciamo , esso cade perchè l’aria non è il suo luogo naturale e tende quindi a ritornare alla sua collocazione . Lo stesso discorso vale per una bottiglia d’aria messa in acqua : essa tende a salire (dal momento che l’acqua non è il luogo naturale dell’aria) per raggiungere l’aria . Aristotele dice che ci sono due tipi di movimenti a) Quelli che riportano gli elementi ai loro luoghi naturali b) Quelli violenti o contro natura : posso lanciare una pietra in aria o mettere una bottiglia piena d’aria sott’acqua : la pietra ricade e la bottiglia risale . Se tiriamo una penna per aria , noi sappiamo che per un pò sale in quanto le diamo un impulso che la fa salire per un pò : per Aristotele non è così . Lui è convinto che ogni cosa che si muove è mossa da altre (da una causa efficiente) : non ammette che una cosa tenda a mantenere lo stato in cui viene posta (principio di inerzia) ; Questo vale sia per i moti naturali sia per quelli violenti . Aristotele dice che se lancio in aria una penna essa trascina movimenti circostanti e composti : viene qui messo in gioco l’ambiente : è l’ambiente che secondo Aristotele porta su per un pò la penna . Facciamo qualche osservazione : se Aristotele ammette quest’idea , vuol dire che nega l’esistenza del vuoto : non esiste neanche come vuoto relativo (come era per Democrito) : se ci fosse il vuoto salirebbe all’infinito . Il principio di inerzia mi dice che se conferisco movimento ad un corpo , esso tende a tenere quel moto all’infinito : questo significa che sia quiete sia moto sono stati : se un oggetto si muove quindi ciò che va spiegato è perchè si fermi : dovrebbe per il principio di inerzia proseguire in quel moto all’infinito . Bisogna quindi spiegare il mutamento di stato (da moto passa ad inerzia) . Per Aristotele invece non va spiegata la quiete ma il movimento , che è una forma di cambiamento : è un passaggio da potenza ad atto : la penna è qui ma potrebbe essere lì ; la sposto ed ecco che è lì . Il mutamento-movimento per Aristotele richiede una causa . Per noi va invece spiegata l’accelerazione , il cambiamento di velocità . Il lancio della penna mi spiega che acquista un movimento teoricamente infinito ; per Aristotele è normalissimo che la penna dopo un pò cada : essa tende al suo luogo naturale : quello che per lui va spiegato è perchè per un pò essa tenda a salire . Per Aristotele la quiete è uno stato , il movimento un mutamento (ed i mutamenti vanno spiegati) . Per noi sono entrambe stati . Abbiamo detto che si accusò Aristotele di essere poco attento alla realtà : qui abbiamo una prova per smentire quest’affermazione : infatti la realtà a riguardo della penna sembra proprio dare ragione a lui e non a noi . Guardiamo ora alla concezione cosmologica aristotelica : Aristotele sostiene il geocentrismo : la terra , in quanto corpo più pesante , occupa il centro dell’universo . Da notare che il mondo di Aristotele è un mondo finito : a partire dai Pitagorici era prevalsa l’idea che l’infinito fosse qualcosa di negativo (diversamente da come la pensava Anassimandro) . Il finito è quindi sinonimo di perfezione . Aristotele dice poi che c’è un centro : ci sono i luoghi naturali e alcuni corpi tendono al centro , altri alla periferia . Se ci sono un basso e un alto ci deve per forza essere anche un centro : se esistono gli elementi ed i luoghi naturali , allora il mondo è finito . Nell’infinito infatti non ci sono nè l’alto nè il basso . Ma attenzione , si può capovolgere il ragionamento : l’infinito esiste , quindi l’alto ed il basso non ci sono . Aristotele parte però dal presupposto che il basso e l’alto esistano . E’ un pò come per Melisso : le sue tesi vennero riprese dagli Atomisti per capovolgere le tesi eleatiche . In sostanza Aristotele nega l’esistenza di più universi : Democrito e Anassimandro invece la sostenevano . Se la tendenza è di andare al centro della terra non ci devono essere altri universi altrimenti collasserebbero tutti al centro della terra : Aristotele si serve della dimostrazione per assurdo : se esistesse un altro mondo esso sarebbe costituito dagli stessi elementi del nostro : ma in base alla dottrina dei luoghi naturali ciascun elemento tenderebbe ad esso e quindi la terra di questo secondo universo tenderebbe a congiungersi con la terra del nostro universo e così tutti gli altri elementi ; il carattere finito dell’universo è contrassegnato dalla sua perfezione . I 4 elementi spiegano il funzionamento del mondo sublunare , che per Aristotele è assai differente da quello celeste : il sublunare è caratterizzato dai 4 elementi , il cui destino è di nascita e di morte . Essendo una realtà fisica , per essere eterno dovrebbe avere un movimento eterno , che però non ha : il movimento del mondo è infatti rettilineo : l’eternità non può identificarsi con qualcosa di rettilineo . Così il destino degli enti fisici è di nascita e di morte . Una forma di eternità sul nostro mondo può essere reperita nelle specie , che sono eterne (Platone diceva che l’eros era un tentativo degli enti mortali di eternarsi) , o nei 4 elementi che si mutano tra loro . Queste cose godono di una eternità indiretta . Il mondo celeste (quello che va dalla luna in sù) è differente : a quei tempi si pensava che fosse immutabile perchè per intere generazioni si vedevano costellazioni immutate , sempre disposte nello stesso modo . Solo le comete si muovevano , ma Aristotele pensava che esse fossero un fenomeno metereologico del mondo sublunare . Quindi il mondo celeste per Aristotele è immutabile : abbiamo detto che il mutamento può essere secondo 4 qualità e Aristotele credeva che fossero gli altri pianeti a ruotare intorno alla terra e non viceversa (come invece aveva ipotizzato Platone ) : ma se si muovono devono per forza mutare e quindi non sono eterni , direbbe qualcuno . Aristotele però dice che il loro è un movimento circolare , che ritorna su se stesso . E’ un movimento che non comporta alcuna forma di corruzione : Platone aveva parlato del movimento circolare come immagine mobile dell’eternità : Aristotele riprende questa concezione . Aristotele dice che il mondo sublunare è costituito da un quinto elemento , l’ETERE , privo di peso e dotato di movimento circolare : di esso sono dotati i corpi celesti . Dicevamo che per Aristotele il vuoto non c’è : come non esiste nel mondo sublunare , così non esiste fuori dall’universo : per lui tutto è pieno . Ma fuori dell’universo cosa c’è ? La risposta di Aristotele è “niente” , che è diverso dal vuoto : finisce proprio l’universo . Se ci fosse il vuoto ci dovrebbe essere un luogo che lo contiene , un contenitore di vuoto : per Aristotele proprio non c’è niente ! L’universo non è in nesun luogo perchè : Aristotele definisce un luogo come la superficie contenuta da qualcosa : ma dato che nulla può contenere l’universo , esso non è in nessun luogo . Se non è in nessun luogo non è nel vuoto . Non è un nulla fisico , ma un nulla metafisico . La finitezza stessa della materia impedisce che ci sia uno spazio infinito . La fisica moderna ha fatto marcia indietro perchè tende a dire che l’universo non è nè finito nè infinito . Aristotele invece è convinto al cento per cento che sia finito e che non ci sia vuoto nè nel mondo sublunare nè nell’intero universo . L’infinito abbiamo visto che esiste solo potenzialmente nei numeri : essi non sono nè finiti nè infiniti . Ma come funziona il cosmo aristotelico ? Il mondo sublunare è costituito da 4 sfere ; poi ci sono la luna e gli astri . L’universo nel suo insieme è una grande sfera . Dalla luna fino al confine estremo tutto è fatto di etere . L’equilibrio dell’universo è dato dall’orbita : ci sono 2 forze , una che spinge per far andare il tutto sulla retta (come va il mondo sublunare) , l’altra che spinge per far cadere : le due forze contendono e ne consegue che l’universo giri su se stesso . La luna non è nient’altro che un oggetto incastrato nell’etere che ruota intorno alla terra : la luna è conficcata nella sfera dell’etere . In sostanza è tutta la sfera che ruota e non solo la luna : essa ruota proprio perchè ruota la sfera . Aristotele distingue i PIANETI dalle STELLE FISSE , che hanno la caratteristica di girare tutte insieme . I pianeti , invece , vagano per conto loro (il termine pianeta in greco significa letteralmente “vagante”) .Per ogni sfera ci sono pianeti ed ogni gruppo di sfere fa muovere un pianeta . Ma quali sono i pianeti ? Il sole , la luna ed altri ancora , come Mercurio . Come abbiamo detto Aristotele dà per scontato che le realtà celesti siano immutabili : egli arriva ad ammettere la circolarità e la regolarità partendo dal presupposto che fossero immutabili ; da questo derivava che avessero movimenti circolari : il movimento circolare è infatti quello che suggerisce maggiormente l’idea di eternità . Chiaramente non erano dati osservativi , perchè Aristotele vedeva che i pianeti son fermi e a volte in movimento , a volte accelerano , a volte rallentano : per motivare questi moti irregolari Aristotele doveva ricorrere a più sfere concentriche che insieme muovevano un pianeta (ogni gruppo di sfere muove il suo pianeta). Il movimento di ogni pianeta era ottenuto con la combinazione di più sfere ed ogni sfera era legata a sua volta a più sfere : ne consegue che Aristotele arrivi ad ammettere che non siano le 4 che abbiamo detto più quelle necessarie a muovere un pianeta (che , per dire , erano 3) : in tutto erano circa 47 o 55. Aristotele acquisì queste idee da Eucnosso di Cnide , un platonico . Le sfere rappresentano l’eternità , o meglio , un’eternità speciale . Sia la realtà sublunare sia quella celeste ha una sua forma di eternità : il mondo sublunare ha un’eternità specifica , che cogliamo soprattutto nell’eternità delle specie , il mondo celeste ha una eternità numerica : tra queste due forme di eternità intercorre una forma di rapporto : la ciclicità degli enti celesti detta l’alternarsi delle stagioni : possiamo quindi affermare che la ciclicità specifica è in gran parte dettata da quella numerica . Abbiamo già detto che per Aristotele dove c’è movimento ci deve essere per forza essere qualcosa che muove (causa efficiente) perchè ” omne movens ab alio movetur ” : anche il movimento celeste va quindi spiegato . Quale è la prima cosa che muove tutta la realtà celeste (Aristotele dice :”quale è il primo mobile ?”) ? La risposta sta nel CIELO DELLE STELLE FISSE , una specie di pelle dell’universo : le stelle sono infatti fissate nel cielo . Ma se il cielo delle stelle fisse muove tutto il resto , vuol dire che anche lui si muove : dove c’è movimento c’è qualcosa che muove : quindi qualcosa deve mettere in moto il cielo delle stelle fisse . Sembra che si possa andare avanti all’infinito nella ricerca del “primo motore” (ciò che per primo ha messo in movimento tutto) . Qualcuno potrebbe dire : ma non c’è un movimento ciclico che possa spiegare tutto ? Aristotele dice di no . Bisogna trovare un punto fisso che muove senza essere mosso . Se A è causato da B , B non ha bisogno di motivazioni oppure si fa riferimento a C e poi a D . Ma andare all’infinito alla ricerca delle spiegazioni è un processo privo di senso . Come nella logica occorreva trovare qualcosa che fosse così e non avesse bisogno di spiegazioni : chi pretende che tutto debba essere dimostrato , secondo , Aristotele è una persona con cui non si può ragionare . Si deve quindi trovare qualcosa che causi il movimento ma che non venga mosso . Ebbene una cosa che muove paradossalmente può non essere mossa . Esiste quindi un primo motore che pur senza essere mosso e senza muoversi mette in moto l’intero universo : è il “motore immobile” , come lo chiama Aristotele : esso si identifica con la DIVINITA’ . Abbiamo già detto che Aristotele aveva risposto alla domanda “che cosa esiste” dicendo “intanto esistono indubbiamente le cose fisiche che vediamo intorno a noi” : ora arriva a dimostrare l’esistenza di una realtà immateriale . Il movimento dei cieli abbiamo detto che è eterno (proprio perchè il cielo è eterno) : se il movimento è eterno , allora il motore è dotato di pura attualità ed è privo di potenza : essa infatti implica che una cosa possa accadere , ma anche che possa non accadere . Un qualcosa fatto di potenza e atto è destinato a fermarsi prima o poi . Il motore immobile (la divinità) è quindi atto allo stato puro . Ma sappiamo che l’atto si identifica con la forma e la potenza si identifica con la materia : di conseguenza la divinità è forma allo stato puro : non è un sinolo di materia e forma . Abbiamo detto che nella concatenazione dei motori bisogna per forza arrivare ad un qualcosa che muova senza essere mosso sennò si andrebbe avanti nella ricerca all’infinito . A questo punto quindi Aristotele introduce la divinità . Questo motore deve poi essere eterno perchè deve giustificare il movimento eterno delle sfere celesti . La divinità è l’unica realtà immateriale che Aristotele individui . Abbiamo già detto che la divinità è l’oggetto principale della filosofia prima , che ha le istanze di ontologia e di teologia . Ma se la divinità è una realtà immateriale , come fa a muovere , visto che il movimento avviene per contatto ? Aristotele risponde che la divinità muove il cielo delle stelle fisse non come causa efficiente , bensì come causa finale : se fosse causa efficiente , la divinità dovrebbe effettivamente agire sul mondo spostandolo . Ma questo è impossibile perchè è una realtà immateriale . Ma c’è anche un’altra motivazione , altrettanto importante : la divinità proprio perchè è una realtà suprema non può “interessarsi” e quindi agire effettivamente sul mondo : la divinità non fa nulla direttamente sul mondo , non ha una volontà d’azione sul mondo . Ha un’attività tutta sua e particolare che si svolge interamente dentro di lui . Agire sul mondo significherebbe autodiminuirsi : una realtà superiore quale la divinità che si occupa di una realtà inferiore quale è il nostro mondo sarebbe un controsenso , una forma di autodiminuzione della divinità stessa . Sarebbe un’ imperfezione della divinità . La divinità agisce sul mondo come “oggetto di amore e desiderio” : come la cosa amata attrae chi la ama , così la divinità attrae il mondo . Quando una cosa attrae qualcuno non si può propriamente dire che la cosa agisca su questo qualcuno , anche se in un certo senso è causa (finale) del movimento : è per quella cosa che quel qualcuno muove . Così la divinità è causa del movimento dei cieli e quindi indirettamente dell’intero universo (ricordiamoci che la ciclicità del movimento dei cieli è poi causa della ciclicità delle stagioni che a sua volta influisce sulla ciclicità particolare del mondo sublunare : la riproduzione che rende le specie eterne) . La divinità diventa quindi la causa (finale) del movimento dell’intero universo , quindi la si può chiamare motore immobile o causa incausata . La divinità non produce l’universo dal nulla , come fa invece nella tradizione ebraico-cristiana , nè lo plasma , come faceva invece il demiurgo platonico : lo mette semplicemente in moto . Non ha quindi nessun rapporto causale con l’esistenza del mondo , ma ha solo rapporto causale (finale) con il movimento del mondo . Cosa vuol dire che la divinità attrae il mondo ? Non bisogna pensare che sia come un cane che sente il cibo e gli si avvicina , perchè così non quadrerebbero alcune cose : l’universo si sposterebbe , e per andare dove ? La divinità è priva di materia e quindi non sta in nessun luogo , dato che è puramente formale . Bisogna quindi rettificare che il primo mobile cerca di avvicinarsi alla divinità nel senso che cerca di imitarla . L’avvicinarsi del mondo alla divinità va visto come un tentativo del mondo di assimilarsi alla divinità . Ma cosa vuol dire assimilarsi alla divinità ? Abbiamo visto che la caratteristica fondamentale della divinità è la sua eternità , data dalla mancanza di materia e di potenza . Come fa la realtà fisica ad imitare , ad assimilarsi ad una realtà immateriale ed eterna ? La risposta sta nel moto circolare , la miglior imitazione di eternità da parte degli enti fisici in movimento . Perchè il cielo delle stelle fisse gira ? Perchè è imitazione dell’eternità divina . Questo è il moto del primo mobile , ma come si muovono le sfere successive ? Qui i passi di Aristotele non sono chiarissimi (ricordiamoci che si tratta di appunti) . Ci sono due ipotesi : 1) che si muova per attrito : una volta che si muove il cielo delle stelle fisse , tutti gli altri cieli inferiori si muovono per attrito . Ma è poco probabile quest’ipotesi perchè è vero che tutte le sfere si muovono in modo circolare , ma il movimento è dato dalla combinazione di più movimenti , tutti circolari , ma gli uni differenti dagli altri . Se andasse davvero per attrito , le sfere avrebbero tutte la stessa direzione . 2) Già Platone ipotizzava che i cieli fossero realtà viventi ed intelligenti : per lui movimento era sinonimo di vita ed in più movimenti così ordinati presupponevano un’intelligenza . Aristotele riprende in sostanza questa teoria (in maniera meno animistica) : è probabile che pensasse che non solo il primo mobile imita la divinità col moto circolare , ma anche le sfere inferiori , a modo loro , operano alla stassa maniera , ciascuna secondo la propria natura . Dato che ciascuna lo fa secondo la propria natura , è evidente che lo fanno in modo diverso : ci sono quindi movimenti differenti e questo implica che ogni sfera abbia un qualcosa di molto simile ad un’anima : le sfere celesti sono dotate di una specie di anima . Quest’idea dell’intelligenza celeste aristotelica viene in qualche modo tradotta nell’intelligenza angelica dantesca : gli angeli del Paradiso che muovono le sfere celesti , sono proprio dei governatori di queste sfere . E’ la traduzione in chiave cristiana della teoria aristotelica . Ma la divinità cosa fa in buona fine ? Certo non agisce sul mondo in modo provvidenziale . E’ stato detto che l’ateismo ha due varianti : a) c’è l’ateismo nel senso più classico , che è la nagazione dell’esistenza di dio ( come esempio si può citare Leopardi ) . b) Ma si può parlare di ateismo anche quando si dice che dio non si occupa del mondo . Gli epicurei per esempio non negavano l’esistenza degli dei , ma dicevano che proprio perchè erano perfetti non si occupavano del mondo dell’uomo : sarebbe un abbassamento delle divinità . E’ un ateismo più sfumato . Aristotele assume una posizione che è una via di mezzo : anche per lui la divinità non si occupa del mondo , ma tuttavia lo governa : si configura come causa finale ultima : tutto il finalismo che governa l’intera realtà ha il suo punto di riferimento nella divinità , che è quindi garante dell’ordine e della regolarità , ma non in senso attivo : non c’è nessuna provvidenza . Governa il mondo perchè il mondo cerca di imitarlo . Dante conclude la Divina Commedia dicendo “… l’amor che muove il cielo e le altre stelle” : da notare che c’è un richiamo ad Aristotele , ma attenzione : Dante sta parlando dell’ l’amore di Dio (genitivo soggettivo ) , l’amore che dio prova per gli uomini : Aristotele invece dice l’amore di dio , ma con il genitivo oggettivo : l’amore nei confronti di dio : è l’amore che il mondo prova per dio che lo fa muovere . La divinità aristotelica non è provvidenziale e non la si può pregare : la preghiera di Aristotele è l’intera sua opera , in particolare le parti biologiche : c’è chi l’ha definita una preghiera apofantica : non è una preghiera con cui si prega e si chiede , ma con cui si illustra la perfezione dell’universo . Nel mondo classico non c’era nè politeismo nè monoteismo : anche in Aristotele è così : c’è la divinità come realtà suprema , ma in un certo senso le intelligenze celesti sono divinità minori : c’è quindi una sorta di mescolanza tra monoteismo e politeismo . La divinità non si occupa del mondo , ma non può non fare niente . La perfezione e la felicità sono per Aristotele legate all’attività e quindi anche la divinità deve fare qualcosa : ha un’attività tutta interna a se stessa . L’attività suprema per Aristotele è il pensare , quindi la divinità è essenzialmente una mente . Ma a che cosa pensa ? Di sicuro non pensa ad una realtà inferiore come l’universo e quindi pensa solo a se stesso . Emerge qui la definizione della divinità come “pensiero di pensiero” . Ritorniamo ora sulla nostra terra . Vediamo ora il pensiero di Aristotele a riguardo del vivente e dell’anima : Aristotele ha scritto parecchi libri a riguardo : “Historia animalium” , “De partibus animalium” , “De generatione animalium” , “Parva naturalia” , “De motu animalium” … Le opere biologiche sono importanti perchè i concetti fondamentali della metafisica derivano da qui in Aristotele . Il concetto di movimento , per esempio , è particolarmente evidente nel mondo naturale . La riproduzione degli animali deve avergli dato lo spunto per formulare la teoria della privazione forma , acquisizione forma , sostrato … Le realtà viventi sono realtà fisiche e quindi dotate di materia e forma : nella fattispecie la materia e la forma di cui è composto un sinolo vivente sono quelle che comunemente chiamiamo anima e corpo . L’anima non è una realtà fisica ultima : è fatta di materia e forma . Sono dotati di anima gli uomini , gli animali e le piante . L’anima è la forma particolare che hanno gli esseri viventi . Questo significa che non c’è una differenza qualitativa radicale tra le cose inorganiche e gli esseri viventi , c’è solo una differenza quantitativa : l’anima non è altro che un tipo di forma particolarmente complesso . Facciamo un esempio : anche gli elementi hanno forma : la forma della terra è l’essere fredda e secca . Se metto insieme alcuni o tutti e 4 gli elementi ottengo una realtà complessa . Significa aggiungere sempre aspetti formali nuovi : la terra ha solo quei 2 aspetti formali , se mescolo con alcuni dei 4 elementi ottengo una realtà complessa e composta : ottengo un tessuto ; se aggrego tessuti diversi posso ottenere un organo . Allora significa aggiungere sempre aspetti formali nuovi . Se prendo un pò di muscolo , un pò di tessuto tendineo ed un pò di tessuto osseo ottengo per esempio una mano : non è la stessa cosa che i tessuti di cui è fatta : c’è un elemento formale in più . C’è una differenza : a livello di elemento l’aspetto formale di quelli che abbiamo detto ; a livello di tessuti etc. l’elemento formale che si aggiunge è il modo in cui sono combinati : i tessuti da Aristotele vengono chiamati parti OMEOMERE , cioè sono parti che quando vengono divise sono costituite della stessa materia : se divido un muscolo in 2 parti , ottengo 2 parti di muscolo . Significa “parti simili” . Se invece ho una mano , che è la combinazione di tessuti ed è un ORGANO , essa si chiama parte non omeomere , non simili tra loro : se divido una mano , non ottengo 2 mani , bensì più tessuti differenti . Se metto insieme diversi organi ottengo un SISTEMA (ad esempio il sistema nervoso , o quello respiratorio) e se invece unisco tutti i sistemi ottengo un ORGANISMO complesso . Aristotele dice che l’anima è ” l’atto puro di un corpo che ha la vita in potenza ” : in un corpo costituito da tessuti , organi e sistemi , l’anima è la forma di quel corpo lì , non di un corpo qualsiasi , ad esempio un libro che non ha la struttura adatta per avere un’anima . Tutte le cose hanno una forma , ma solo le cose strutturate in maniera complessa (complessa = capace di svolgere tante funzioni diverse ; una penna non può fare che cadere ; un corpo vivente , una pianta , svolge diverse funzioni) hanno un’anima ; questo consente ad Aristotele di negare la reincarnazione dell’anima , che invece sosteneva Platone : la trasmigrazione presupponeva che ogni anima potesse starsene da sola ; e poi non può andare da qualsiasi parte l’anima : per Platone l’anima poteva finire in un corpo femminile , nel corpo di un animale … Questo per Aristotele è impossibile perchè un’anima è strettamente connessa ad un corpo : la forma vale solo per un corpo . Per Platone anima e corpo sono due cose distinte , una abita nell’altra : per Aristotele l’anima non è una sostanza , è una forma : la sostanza è solo il sinolo materia-forma . Di conseguenza viene negata la trasmigrazione delle anime , dove ogni forma andava in ogni corpo ; ma viene anche negata l’immortalità dell’anima : se l’anima è la forma di un corpo vivente , quando il sinolo si rompe , la forma non può vivere da sola (solo quella divina può) : essa vive solo calata nella materia . Certo abbiamo detto che la forma uomo non muore quando muore il singolo uomo : continua ad esistere in tutti gli altri uomini . Non si può però parlare di sopravvivenza individuale . Abbiamo già visto che il mondo aristotelico è dominato dal finalismo , che emerge soprattutto nel mondo biologico : i cavalli hanno gli zoccoli per poter camminare su determinati terreni . Il finalismo non è però perfetto : è un pò come per Platone : c’è di mezzo la materia che interferisce : è quella cosa priva di forma necessaria a far realizzare le forme ; per Aristotele vale ancora di più che per Platone che le forme per esistere abbiano bisogno della materia : per Platone infatti c’erano le idee che esistevano di per sè . La materia fa sì che le cose materiali siano destinate a morire . E’ con Aristotele che la parola ULE (materia) assume il significato di materia : essa infatti prima significava legname ed aveva la stessa derivazione del latino “silva” , senza la v e la s : il legname suggerisce proprio l’idea di materiale da costruzione . Tutto quel che nasce è destinato a perire ; certo è vero che “la natura non fa nulla invano” , come ripete sempre Aristotele , tutto è finalizzato ; tutto è dotato di forma e quindi tutto è bello per Aristotele anche l’insetto più ripugnante ha una sua forma e quindi va apprezzato . Va però detto che la natura può fare tutto , ma con quello che ha a disposizione : Aristotele è convinto che nel metabolismo degli esseri viventi si producano materiali di scarto : tra di essi Aristotele annovera pure le produzioni di carattere corneo : le unghie , i capelli : non vengono prodotte per un fine ; ci sono anche produzioni casuali : ma la natura per quanto può usa tutto ciò che ha a disposizione : ha a disposizione questi scarti e lei li usa per i capelli e le unghie . Non tutto quindi è finalizzato : utilizzando ciò che ha a disposizione la natura fa del suo meglio , ma non sempre ci riesce . Ad esempio : la riproduzione è un processo finalistico (dare la forma paterna) : se tutto funzionasse bene i figli sarebbero tutti maschi : ma dato che la materia è elemento di imperfezione , può succedere che nascano femmine o bambini difettosi . Può succedere che non assomigli al padre , nè a nessun parente : quando la forma non riesce a dominare la materia allora si verificano questi casi . Non c’è un salto netto tra mondo vivente e mondo non vivente , così come non c’è un salto netto tra mondo vivente superiore (uomini) e mondo vivente inferiore (piante , animali): entrambe sono costituiti dal sinolo materia-forma . E’ interessante il fatto che Aristotele credesse nella generazione spontanea : credeva che gli animali superiori si riproducessero in maniera sessuata , mentre che gli esseri inferiori (come i piccoli insetti) si generassero spontaneamente : Aristotele non era in grado di vedere che in realtà si riproducono con le uova , le larve … Lui ipotizzava che l’energia del sole fosse in grado di far passare in certe occasioni dal mondo inorganico al mondo organico . Diceva che nelle acque stagnanti riscaldate dal sole potevano generarsi organismi viventi . Ovviamente questa idea si basava sul fatto che non ci fosse un salto netto tra mondo organico e mondo inorganico : era solo una differenza di complessità . Naturalmente Aristotele aveva torto , come spesso accadeva (Aristotele va ricordato che non era riuscito a capire che cosa fossero effettivamente i fossili) : si scoprì nel ‘600 che in realtà c’erano le uova , la larve e quant’altro mediante un esperimento : misero della carne in un barattolo privo di contatti con l’esterno : la carne andò in putrefazione , ma non nacquero gli organismi perchè gli insetti non poterono depositare le larve . Nel ‘600 però si arrivò ad una conclusione giusta in merito alle circostanze , però in generale meno giusta di quanto si possa pensare : veniva negata ogni forma di passaggio dal mondo inorganico a quello organico , come se il mondo organico fosse differente qualitativamente . In realtà non è così : la scienza moderna ci suggerisce che in qualche situazione questo passaggio si è verificato . Aristotele non aveva concettualmente torto : l’idea di fondo era giusta . Questo consente di dire che certe cose che per un verso sono progresso , per un altro non lo sono e viceversa . Dunque abbiamo detto che gli organismi viventi hanno un’anima : Platone aveva parlato di 3 parti dell’anima (la biga alata) : Aristotele fa un discorso che presenta analogie con quello platonico , ma che in realtà è diverso : non parla di 3 parti dell’anima , ma di tipi diversi di anima , alcuni più semplici , altri più complessi . I più semplici presentano determinate funzioni , quelli più complessi presentano accanto alle funzioni più semplici possedute dagli altri , alcune funzioni più complesse . Aristotele parla di tre tipi di anima : 1) VEGETATIVA 2) SENSITIVA 3) INTELLETTIVA . Apparentemente sembra che parli di 3 anime diverse : in realtà sono 3 tipologie di anime dotate alcune di poche funzioni , altre di più funzioni . In sostanza lui divide i vegetali dagli animali , dall’uomo . I vegetali hanno l’anima vegetativa ; non possiede nè le funzioni intellettive nè quelle sensitive (alle quali sono connesse le funzioni del movimento) : la pianta ha solo la funzione vegetativa , si nutre , cresce e si riproduce . Sono anime vegetative perchè hanno solo l’anima vegetativa . Gli animali possiedono altre funzioni , per cui la loro anima è sensitiva : ma attenzione , l’anima sensitiva oltre a possedere le funzioni vegetative possiede ulteriori funzioni . L’anima sensitiva fa sì che gli animali mangino , crescano , si riproducano (come le piante) ma in più provino sensazioni ed abbiano (di conseguenza) il movimento perchè solo l’animale sentendo che là c’è il cibo si muove per prenderlo . L’uomo ha l’anima intellettiva : non è un’anima che si aggiunge , è solo un’anima più complessa : possiede le funzioni vegetative (come piante e animali) , quelle sensitive (come gli animali) ed in più possiede la funzione intellettiva , la capacità di ragionare ed universalizzare : scire per causas e generalizzare . Le anime si distinguono quantitativamente e non qualitativamente . E’ interessante notare che queste anime vengano chiamate con la funzione che le contraddistingue dalle altre : l’anima sensitiva possiede anche le funzioni vegetative , ma ciò che caratterizza l’animale è il fatto di provare sensazioni . Così l’anima intellettiva caratterizza l’uomo per la facoltà di ragionare : vuol dire che l’uomo non è caratterizzato dal fatto di vivere , ma di pensare . Il pensare è l’essenza dell’uomo . Infatti è quello che lo contraddistingue dagli altri animali : è un animale razionale . A riguardo dell’intelletto umano è nata una delle questioni più complesse della storia della riflessione , questo perchè Aristotele ci fornisce poche informazioni e non chiarissime : abbiamo visto la questione della potenza e dell’atto : ogni cosa che passa dalla potenza all’atto , ha bisogno per far questo dell’intervento di qualcosa già in atto . Questo vale anche per i processi conoscitivi : l’uomo è senziente in potenza finchè non ha una percezione specifica ; così il blu di un libro è un sensibile in potenza finchè non viene percepito : finchè la mia capacità di vedere non si incontra con il colore , io rimango un senziente in potenza ed il blu sensibile in potenza . Quando si incontrano io divento senziente in atto ed il blu sensibile in atto : vale anche per l’intelletto ; nella mia anima si forma la forma sensibile dell’oggetto che vedo , vale a dire la forma senza materia : la forma sensibile in potenza è diventata forma sensibile in atto . Una volta che ho una forma sensibile (o più di una) , devo fare un ulteriore passaggio che non è percepire il libro , ma pensarlo . Pensare e conoscere vuol dire secondo l’universale . Vuol dire deprivare una forma sensibile dalle sue caratteristiche specifiche che ne fanno la forma di quel particolare oggetto per cogliere quell’aspetto generale che ne fa una forma intellegibile : incontro una persona (sensibile in potenza) e diventa sensibile in atto , io senziente in atto : nella mia mente entra la sua forma con le sue caratteristiche specifiche e sensibili ; la capacità intellettiva è quella che fa un altro passaggio : fa passare la forma sensibile in atto al livello atto : conoscere nella persona che incontro la forma uomo (tramite l’induzione) : tolgo le caratteristiche specifiche per arrivare al generale . La forma sensibile in atto è quindi forma intellegibile in potenza : le forme sensibili di tizio e di caio , possono diventare il punto di partenza per il processo di astrazione che mi porta alla forma uomo . Potenzialmente la forma di tizio è forma uomo . L’intelletto in potenza diventa intelletto in atto : l’intelletto in potenza inizialmente è una tabula rasa : prima di arricchirsi con esperienze è vuoto . Ma l’intelletto per passare da potenza ad atto deve avere l’aiuto di qualcosa già in atto ed ecco che Aristotele fa riferimento ad un intelletto definito POIETIKOS (intelletto attivo o produttivo) : io ho intelletto in potenza ; con le esperienze sensibili diventa intelletto in atto : ma ci deve essere qualcosa in atto che consenta il passaggio : ecco il “nous poietikos” (che compare una volta sola in tutte le opere di Aristotele) , quel qualcosa che essendo già in atto (ha cioè già in atto tutte le forme)mi consente il passaggio ; che cosa sia il nous poietikos Aristotele lo dice solo di sfuggita : dice che è qualcosa che sopravviene dall’esterno ed è incorruttibile . Da questa frase buttata lì da migliaia di anni si discute : le possibilità sono diverse : 1) é una parte dell’anima umana : ma se è parte dell’anima umana , sembra che ci sia un pezzetto di anima umana immortale , che già quando nasciamo ha tutte le forme . 2) Questo nous poietikos è uno solo , esterno all’anima : a questo punto è una divinità , ma è la stessa che abbiamo incontrata nella cosmolgia ? Cadremmo di nuovo in contraddizione , perchè quella là pensava solo a se stessa . Qui aiuta gli uomini a pensare , è provvidenziale . Alessandro di Afrodisia diede la prima interpretazione : il nous poietikos è parte dell’individuo e quando si muore muore anch’esso . Averroè dirà che il nous poietikos si identifica con la divinità : è unico e separato . Accettata quest’ipotesi viene comunque negata l’immortalità dell’anima : il nous poietikos è qualcosa al di fuori dell’uomo . Averroè diceva “chi pensa è immortale , chi non pensa crepa” : se pensando si partecipa dell’attività del nous poietikos si partecipa all’immortalità del nous poietikos : si ha una forma di immortalità . Per capire il finalismo aristotelico è interessante il confronto con Anassagora : Anassagora diceva che l’uomo è intelligente perchè ha la mano che gli consente di avere un particolare rapporto con la natura ; Aristotele diceva che l’uomo è l’animale più intelligente e che di conseguenza la natura (che non fa nulla invano) gli ha dato la mano . Passiamo ora ad esaminare la politica e l’etica aristotelica , che stanno nelle scienze pratiche . La politica riguarda il comportamento della società , mentre l’etica quello del singolo . In Platone il cittadino e l’uomo erano ancora grosso modo un tutt’uno , ma con Aristotele la distinzione si accentua . Aristotele dedica un libro alla politica (“La politica”) . Il punto di partenza è la frase famosa “l’uomo è per natura un animale politico” ; Aristotele dice che non sono politici nè gli animali nè gli dei : solo l’uomo lo è . Cosa significa quest’espressione ? Vuol dire sia che per natura è legato ad una vita comunitaria con gli altri sia che la forma tipica della vita sociale è la polis (termine dal quale deriva la parola politica) . Aristotele come sappiamo ha vissuto rapporti stretti con la Macedonia : tuttavia la politica di Alessandro Magno ha poco a che fare con il pensiero di Aristotele : è legato all’idea che l’uomo è legato alla polis e Alessandro Magno è la nagazione della polis . Aristotele innanzitutto fa notare una cosa : aqltri animali vivono in società , ma è un fatto istintivo : in loro manca l’aspetto organizzativo . Dire che l’uomo per natura è un animale politico significa anche implicitamente negare il cosiddetto “CONTRATTUALISMO” , la tesi secondo la quale lo stato è un contratto , una convenzione fatta a tavolino dagli uomini , che si rendono conto che stare insieme è vantaggioso . Aristotele la pensa diversamente : è un’attitudine naturale ; è vero che gli uomini si raggruppano anche per interesse , per trarre vantaggi : nessuno può fare tutto bene e da sè ed è meglio che ciascuno si specializzi in un’attività . Ma non è un processo convenzionale , bensì è spontaneo . Aristotele dice poi che il fatto di vivere insieme non è solo dettato da esigenze materiali : anche se l’uomo avesse tutto ciò di cui ha bisogno e fosse autonomo tenderebbe lo stesso a vivere insieme ad altri . Vi è una spontanea voglia di stare insieme . L’uomo tende quindi ad aggregarsi in modo naturale : i contrattualisti dicevano che ogni uomo era un atomo nella società . Il carattere naturale per Aristotele comporta il carattere gradualistico : vede nella polis l’ultima gradino dei processi aggregativi : prima c’è il villaggio , e prima ancora la famiglia , il nucleo naturale dei processi di aggregazione sociale , il cui culmine è nella polis . Che la famiglia sia un’associazione naturale e precedente alla polis è un’affermazione importante perchè ha influenzato molto la dottrina cattolica sulla famiglia . La famiglia è la società naturale e primordiale : è nata prima e autonomamente e quindi ha dei suoi diritti . Quando Aristotele parla della famiglia la chiama OIKOS (casa) : è interessante perchè la famiglia è il nucleo primario non solo sul piano degli affetti , ma anche sul piano economico : economia infatti significa regolamentazione dell’oikos . Quando Aristotele parla della famiglia cita 4 figure : padre , madre , figli e schiavi , che svolgevano attività agricole e di servizio per la casa . Anche nella famiglia si formano diversi rapporti di autorità : il padre (il pater familias latino) ha diversi rapporti di autorità sulla moglie , sui figli e sugli schiavi . Il rapporto nei confronti dei figli è temporaneo e dura finchè essi non crescono ; il rapporto nei confronti degli schiavi è permanente . A noi pare sconcertante il concetto di schiavitù , ma Aristotele cerca di fornire argomentazioni valide : tuttavia , lui stesso si accorge di alcune contraddizioni . Lui dice che la schiavitù è un qualcosa di naturale e necessario (da notare che Aristotele tende molto di più di Platone ad accettare le cose come sono : non ci dice come Platone come dovrebbe essere il mondo , ma come è effettivamente) ; anche nello studio della politica Aristotele parte dai phainomena , dalle documentazioni storiche per poi fare confronti tra le varie forme di governo : raccolse tantissime costituzioni e fece le sue considerazioni . Come giustifica la schiavitù ? Dice che esistono individui per natura liberi ed altri per natura schiavi ; l’argomentazione è fondata sulla capacità di deliberare , di ragionare ; Aristotele dice che c’è una parte dell’umanità capace a mettere in pratica le sue capacità mentali (in potenza le abbiamo tutti , si tratta di farle passare in atto ) e una parte che non è capace : non sa fare scelte razionali . Se è così , dice Aristotele , è meglio non solo per i padroni , ma anche per gli schiavi stessi essere schiavi (va ricordato che la schiavitù greca era molto meno pesante di quella romana) : una persona incapace di governarsi autonomamente trae solo benefici dall’essere governata da qualcun altro . Aristotele arriva a definire lo schiavo STRUMENTO INANIMATO . Il vero problema è che in concreto non si diventa schiavi per il fatto che non si è in grado di pensare : si diventa schiavi con le guerre : chi perde diventa schiavo , chi vince diventa padrone . Ricordiamoci che Platone stesso aveva rischiato di diventare schiavo perchè era stato catturato dai pirati : certo Platone in quanto a pensare ne sapeva qualcosa … Aristotele se ne rende conto ma non trova altre via di uscita . Aristotele è stato il fondatore della scienza economica : uno dei concetti fondamentali da lui elaborati è la concezione del denaro e delle sue funzioni . Per lui esistono due modi per usare il denaro , una legittima , l’altra no . L’economia è il governo della casa , il processo con cui si procurano i beni per far funzionare bene la casa . Naturalmente bisogna fare acquisti e scambi : c’è il baratto ma anche l’uso della moneta . Le idee di Aristotele sul denaro verranno addirittura riprese da Marx : l’uso del denaro è legittimo se viene usato per fare acquisti , ma diventa illegittimo se lo si usa non come mezzo ma come fine , quando cioè non lo uso più per fare acquisti ma per accumularlo : Aristotele quindi condanna l’accumulazione (in Greco “crematistikà”) . E’ un uso contro natura del denaro ; questo concetto di secondo natura e contro natura è sempre presente in Aristotele . La natura del denaro , la sua essenza è quella di essere mezzo di scambio . E’ una condanna ante litteram del capitalismo . Passiamo all’analisi politica vera e propria : opera anche lui una catalogazione delle forme di governo . E’ una catalogazione abbastanza simile a quella operata da Platone nel “Politico” : la distinzione tra forme di governo negative e positive è data dal fatto che chi governa governi per l’interesse pubblico o personale . La monarchia è la forma di governo dove il singolo governa per il bene di tutti ; la tirannide quella dove il singolo governa per il proprio bene . L’aristocrazia e l’oligarchia sono lo stesso e così anche la democrazia e la politeia . La democrazia è il governo dei molti : la collettività può governare negli interessi di tutti (politeia) o in quelli della maggioranza che governa (la democrazia) . La politeia è la costituzione per eccellenza (secondo Aristotele) ; in realtà bisogna fare attenzione al fatto che Aristotele divida secondo due criteri politici : a)numerico : governano tanti , pochi… b)sociologico : la democrazia non è solo il governo dei più , ma anche il governo del demos (popolo) : anche in Italiano l’espressione popolo ha duplice valenza : può essere governo della popolazione , ma anche governo del popolo inteso come parte inferiore della società . Condanna la democrazia perchè è il governo della maggioranza popolare , socialmente inferiore , che tende a governare per il proprio interesse , varando leggi a proprio interesse . Per Aristotele la miglior forma di governo è la politeia , la democrazia positiva , quando i più governano bene . La politeia viene vista secondo un criterio quantitativo , ma anche secondo un criterio sociale : Aristotele dice che tutti accetteremmo che fosse uno solo a governare se egli avesse più virtù di tutti gli altri messi insieme : sarebbe il miglior governo , ma è puramente astratto . Nella politeia , per quanto la maggior parte delle persone abbia virtù mediocri , tutto sommato mettendole insieme qualcosa si ottiene : messi insieme non saranno gran chè , ma insieme riusciranno a far funzionare il governo . Sul piano della sociologia come si caratterizza la politeia ? Per il prevalere del ceto medio : la politeia è una democrazia moderata , del ceto medio . Il motivo principale è che è una società non polarizzata , dove non c’è netta distinzione tra ricchi e poveri : una società troppo polarizzata è instabile perchè in perenne conflitto . Quindi sarà una società più stabile ; ma c’è poi un effetto paradossale : noi siamo abituati all’idea che una democrazia funziona tanto meglio quanto più è compartecipata : Aristotele fa un ragionamento opposto . In sostanza dice in maniera più realistica quanto Platone aveva detto nella ” Repubblica ” : il ceto medio non ha alcun interesse a governare (come i filosofi per Platone ) ; se diamo il potere al ceto medio , è presumibile che esso sarà poco attirato dal governo perchè ha una sua attività economica . Parteciperà moderatamente : Aristotele ha in mente una democrazia tranquilla . Passiamo ora all’etica : primo concetto fondamentale è quello di felicità ; l’etica di Aristotele è un’etica eudaimonistica (che mira alla felicità) . Va però fatta una distinzione tra etica EUDAIMONISTICA ed EDONISTICA (che mira al piacere) : Aristotele tende a descrivere come l’uomo si comporta e non come dovrebbe comportarsi . Dice che l’uomo mira alla felicità ; l’etica edonistica è una variante dell’etica eudaimonistica . L’etica epicurea sarà edonistica : l’uomo cerca il piacere . Aristotele non nega che il piacere abbia la sua importanza ; ma la felicità non è il piacere , è qualcosa di più ampio che contiene anche il piacere . L’etica di Aristotele è eudaimonistica ma non edonistica . Il ragionamento di Aristotele è questo : deve arrivare a capire quale è il fine ultimo dell’uomo . Quindi dice che bisogna distinguere i fini in sè ed i fini che mirano a realizzarne altri : è vero che ciascuno ha fini personali , ma in realtà il fine ultimo di tutti è la felicità : cosa vuoi fare ? voglio acquisire un titolo di studio . Ma non è un fine in se stesso : lo fai in funzione di qualcos’altro . Per svolgere una professione . Non è un fine ultimo : lo fai per fare qualcos’altro : per avere soldi . Ma coi soldi voglio andare in vacanza . Ma perchè vuoi andare in vacanza ? Per fare cose che mi piacciono . Perchè vuoi fare quelle cose ? Perchè così sono felice . La felicità è il fine ultimo dell’uomo . Il piacere non è il fine ultimo , ma accompagna e perfeziona ogni attività e sarà tanto migliore quanto migliore è l’attività che esso accompagna . La felicità non viene mai concepita come far niente : è sempre legata all’attività , sia fisica sia intellettiva : la felicità è l’atto di un’azione ben riuscita . Il piacere si accompagna a queste situazioni . Che cos’è la felicità per l’uomo ? La felicità deriva dall’esercizio di un’attività e visto che la specificità dell’uomo è la razionalità , si può dire che la felicità derivi dall’esercizio della ragione . Per gli animali in teoria non si può parlare di felicità , ma comunque la felicità di un cavallo , per esempio , è fare il cavallo . Lo stesso in un certo senso vale per l’uomo . E’ meglio essere sani che malati , belli che brutti e così via , ma non è l’elemento centrale : l’elemento centrale è fare l’uomo , esecitare la ragione . Esercitare la ragione vorrà dire due cose distinte . Aristotele ha distinto ragione teoretica (quella che ci fa conoscere) da ragione pratica (quella in grado di goverrnare razionalmente il nostro comportamento ) . Questa distinziona delle funzioni della ragione governa la distinzione delle due tipologie di VIRTU’: la parola virtù va intesa in senso più generico da come siamo abituati : in Greco è “aretè” ed è l’eccellenza , ciò che fa sì che l’uomo sia veramente uomo , esercitando al meglio le facoltà che gli sono proprie . Ci sono le virtù etiche e le virtù dianoetiche , che riguardano la ragione , la virtù teoretica di per se stessa : le etiche riguardano l’uso della ragione volto a finalità pratiche , mentre le dianoetiche riguardano l’uso della ragione di per se stessa . Le etiche invece hanno a che fare con il costume , l’ethos (il mos latino) . Sono legate a funzioni pratiche . Aristotele considera le virtù etiche come “habitus” , la tendenza di fondo a comportarsi in un determinato modo . Nella fattispecie la virtù è habitus a comportarsi secondo la medietà : la mediocritas latina , la via di mezzo , l’evitare gli estremi . Aristotele in greco la chiama “MESOTES” , la capacità a tenere il giusto mezzo . La virtù è quindi in generale la disposizione costante a cogliere la via di mezzo sempre . Cosa vuol dire ? Ricordiamoci che quella aristotelica (come quella platonica) è l’etica della metriopazia , del controllo delle passioni . Rispetto ad ogni passioni bisogna evitare sia l’eccesso sia l’eliminazione . Per passione intendiamo quegli istinti naturali che la ragione deve saper controllare . Prendiamo come esempio la virtù del coraggio : consisterà in una habitus a mantenere il giusto mezzo di fronte ad una paura . Quale è il giusto mezzo ? Non la codardia , ma nemmeno la temerarietà . Consisterà in una medietà . La medietà di cui parla Aristotele è più qualitativa che quantitativa : l’esempio classico di Aristotele è quello della generosità : non si deve nè essere avari nè prodighi (lo dice anche Dante nel settimo canto dell’Inferno) : la generosità consiste nel dare il giusto . Se essere prodighi vuol dire dare 10 denari ed essere avari vuol dire darne 2 , non è che la generosità consista nel darne 6 (che è la media matematica) : il giusto mezzo è qualcosa di molto più sfumato . Essere generosi vuol dire cogliere il giusto comportamento in ogni singola circostanza . Non è sempre la metà : a volte può essere di più , a volte meno . Chiaro che la generosoità per chi ha tanti soldi è diversa rispetto a chi ne ha pochi . Il problema è questo : l’habitus è innato o acquisito ? Don Abbondio avrebbe optato per la prima ipotesi : il coraggio se non lo si ha non può nascere da sè . Aristotele non sarebbe d’accordo : per lui infatti c’è il problema di un’apparenza di circolo vizioso che lui vuole risolvere . Quale è ? E’ questa : compirà azioni coraggiose chi è coraggioso ; però è anche vero che è compiendo azioni coraggiose che si acquisisce l’habitus . Quindi c’è un circolo vizioso apparente : chi è coraggioso compie azioni coraggiose , chi compie azioni coraggiose diventa coraggioso . In realtà è molto meno vizioso di quel che sembri : è evidente che solo chi sa suonare il pianoforte suona bene il pianoforte . E’ anche vero che non c’è altra maniera per imparare a suonare il pianoforte che suonare il pianoforte . In realtà cosa è che realmente succede ? In una sorta di circolarità aperta mi si dice a livello teorico come fare un accordo con il piano : si acquisiscono pian piano le basi fino ad arrivare a suonare autonomamente . Non è un circolo vizioso . E’ presumibile che Aristotele intendesse dire che ci fossero proprio momenti in cui mettersi a tavolino e studiare il da farsi . La ragione pratica mi fa scegliere il comportamento giusto . Aristotele individua poi il concetto di giustizia distributiva e commutativa . E’ un concetto già intuito da Platone : la giustizia distributiva è quella che distribuisce secondo certi parametri ; quella commutativa è quella che distribuisce in parti uguali . La giustizia distributiva distribuisce determinate cose a gruppi di persone : denaro , onore , potere … Ma secondo quale criterio ? Aristotele sottolinea che i criteri variano a seconda del regime . I regimi democratici distribuivano il potere in base alla cittadinanza , quelli oligarchici in base alla ricchezza e così via . La commutativa è quella che regola gli scambi : non è una questione di proporzione , ma di uguaglianza . In poche parole , mentre con la distributiva ci sarà chi riceverà di più e chi di meno a seconda dei criteri in vigore , con la commutativa non è così : negli atti di compravendita non conta che una persona sia nobile , bella ricca e altro … Se io vendo una cosa voglio che mi si dia in cambio lo stesso valore : è irrilevante se sono più ricco , più bello … Aristotele dice che questo vale sia per i contratti volontari (come quello di compravendita) sia per quelli involontari . Lui definisce il furto “contratto involontario” : uno prende ad un altro una cosa che l’altro non è disposto a dargli ; però vale anche qui la giustizia commutativa : bisogna punire il ladro in modo equivalente al danno che la vittima ha subito e questo vale per tutti . Da notare una cosa : è uno dei tanti modi di concepire la punizione , ma non è il solo . Poi Aristotele fa una classificazione delle virtù dianoetiche , che corrisponde all’elenco dei diversi tipi di scienze : l’arte (tekne) , la saggezza (phronesis) , la scienza , l’intelletto e la sapienza . Apparentemente non corrisponde : le scienze erano 3 e qui troviamo 5 nomi . In realtà in pratica corrisponde : sono 5 virtù del sapere . L’arte corrisponde alle scienze poietiche (è un sapere che mira a produrre) , la saggezza corrisponde alle scienze pratiche (saggezza è ben diverso da sapienza : è il sapere che mi permette di governare il mio comportamento) , tutte le altre 3 corrispondono alle teoretiche : la sapienza è la somma di scienza ed intelletto : l’intelletto è la capacità di cogliere i principi di una dimostrazione , la scienza è la capacità di dimostrare . Mettendo insieme queste due facoltà ottengo la sapienza . C’è una sovrapposizione tra le scienze etiche e tra le dianoetiche : la saggezza : è una forma del sapere , ma essendo forma di sapoere che riguarda il saper fare , il comportarsi è chiaro che è la ragione che mi consente di sviluppare le virtù etiche : le scelte umane si fanno con la saggezza . Il tema conclusivo dell’etica è l’AMICIZIA : ci son diversi tipi di amicizia : a) per utilità : sono amico di uno perchè ne traggo vantaggi ; b) per piacere : sono amico di uno perchè mi fa piacere (magari è una persona divertente); c) amicizia disinteressata , fondata sulla virtù : lega i buoni ed i buoni naturalmente . L’amicizia non è necessariamente legata all’utilità o al piacere ; come nella politica dicevamo che l’uomo per natura è animale politico , qui l’uomo per natura cerca amicizie , è animale socievole . Nessun uomo fa a meno di avere amicizie . La vera amicizia è quella fondata sulla virtù : è l’unica che lega buoni con buoni . Aristotele fa notare che se anche l’uomo potesse fare a meno da un punto di vista pratico delle amicizie , tenderebbe ugualmente ad averne . La conclusione è incentrata sulla ricerca del modello ultimo di vita da imitare . Fa una distinzione che in Platone non c’era : Platone era molto socratico ed il sapiente platonico era quello che sapeva e che era giusto di conseguenza . In Aristotele c’è collegamento tra scienza e virtù , ma non una sovrapposizione (come invece c’era per Platone); sul piano umano il modello di vita è quello fondato sulle virtù etiche : il modello del buon cittadino . In realtà però le virtù dianoetiche sono superiori , però il seguire perfettamente le virtù dianoetiche è un qualcosa di sovraumano . Chi è il modello del sapiente che segue la virtù dianoetica ? La divinità . Essa pensa sempre e all’oggetto supremo : una vita contemplativa , di studio , intellettuale . E’ ancora superiore rispetto al cittadino , ma è sovraumano : anche il filosofo che cerca di seguire le virtù dianoetiche si avvicina alla divinità . Ma la divinità svolge quell’attività di continuo , il filosofo lo può fare solo in qualche momento : ha esigenze biologiche , politiche , economiche … Solo in pochi momenti gode della virtù divina . E’ una posizione intermedia quella di Aristotele . Il sapiente è ancorato al divino in primo luogo perchè gli oggetti del suo sapere sono divini : egli infatti cerca di scoprire i principi e le cause che sono all’origine del mondo . Va poi detto che la divinità stessa è l’esatta proiezione della vita del sapiente : il pensare , la “theoria” , è l’attività propria della divinità , che però a differenza del sapiente , la esercita ininterrottamente : ” sedendo et quiescendo efficitur sapiens ” ( sedendo e riposando si diventa saggi ) .
GRIGLIA RIASSUNTIVA
Esposizione
impostazione di fondo
Esiste sì, come per il suo maestro Platone, un mondo intelligibile, spirituale e invisibile (i “Motori immobili”), ma è pienamente reale anche il mondo sensibile, questo mondo, che è fatto di sostanze materiali.
Se infatti per Platone centrale è l’idea, realtà perfetta e immutabile, per Aristotele centrale è la sostanza, che è anzitutto sostanza materiale, corporea.
Mentre Platone era quindi tutto proteso verso il mondo delle idee, che abbiamo già visto prima e vedremo dopo dell’unione al corpo della nostra anima, per Aristotele questa, presente, è la vera vita. Niente egli ci dice di una vita ultraterrena (che però nemmeno esclude).
suddivisione del sapere
tutto il sapere si suddivide ordinatamente:
-
metafisica
-
matematica
-
fisica
-
etica
-
politica
metafisica
Il suo fine è la contemplazione, cioè la conoscenza (disinteressata) della verità. Infatti, secondo Aristotele “tutti egli uomini, per natura, tendono al conoscere (panteV anqropoi tou eidenai oregontai fusei)”.
“Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (…). Ora chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere (…). Cosicché se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica.” (Met, A, 2, 982b) ” Il fine della scienza teoretica è la verità” (Met, a elatton, 1, 993b).
Il che significa che c’è nell’uomo il desiderio di conoscere la verità, e questo desiderio è più forte di qualsiasi interesse pratico. L’uomo desidera sapere il senso della sua esistenza, come è davvero, non piegandone la ricerca a un progetto predeterminato.
La metafisica ha quattro significati fondamentali
aitiologia
In quanto tale la metafisica è scienza delle cause prime, ossia dei supremi perché. Si possono in effetti conoscere dei perché prossimi, che si costituiscono in realtà come dei “come” in rapporto ai perché supremi, alle cause prime, che la metafisca considera.
Tali cause prime sono quattro: materiale, formale, efficiente (o agente) e finale.
La causa materiale o materia è il sostrato indeterminato, privo quindi di caratteri specifici. Di questa causa si sono occupati essenzialmente i primi filosofi (dalla scuola ionica a Eraclito).
La causa formale o forma è il fattore determinante, ciò che fa sì che la materia indeterminata assuma certi caratteri distintivi. Di questa causa si è occupato in particolare Platone, con la sua teoria delle idee.
La causa efficiente (o efficace, o agente) è ciò da cui è prodotto l’effetto: è la causa nel senso corrente del termine. È Empedocle ad aver per primo individuato questa causa, da lui collocata nelle forze di Amore e Odio.
La causa finale o fine è ciò verso cui tende la cosa causata. Di questa causa ha parlato soprattutto Anassagora, con la sua teoria del Nous, che organizza tutta la realtà dei semi in modo ordinato e finalizzato.
Materia e forma sono principi intrinseci alla cosa, al punto che non si possono scindere. Causa efficiente e finale sono invece estrinseci alla cosa causata, la prima precedendola, la seconda seguendola.
ontologia
“Vi è una scienza che studia l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale”, afferma Aristotele all’inizio del libro Gamma. La metafisica è infatti, nel suo secondo senso, scienza dell’essere in quanto essere.
[analogia=uni-molteplicità dell’essere] L’essere, ciò che è in ogni cosa, è al contempo uno (identico nelle diverse cose) e molteplice (poiché le cose sono comunque molte), ossia è analogo. Aristotele afferma quindi la analogia dell’essere.
[unità dell’essere] In quanto uno, l’essere ha delle leggi, dei principi a cui obbedisce: il principio di identità, di non-contraddizione e del “terzo escluso”, per cui è impossibile che la stessa cosa sia e non sia (to gar auto ama uparcein te kai mh uparcein adunaton tw autw kai kata to auto, G, 3, 1005b 19/20).
Come si dimostrano tali principi supremi? Non possono essere dimostrati positivamente. È da pazzi dice infatti Aristotele, chiedere la dimostrazione di tutto: alcune cose sono autodimostrantesi: sono evidenti. Se si pretendesse di dimostrare tutto si cadrebbe in un circolo vizioso: si dimostrerebbe A con B, B con C e così via, fino a Z, che sarebbe dimostrata con A. Ilche sospenderebbe il tutto a una ultima non dimostrazione. Da un lato quindi i principi supremi sono immediatamente evidenti.
Tuttavia una qualche forma di dimostrazione esiste: per assurdo. Mostrando che chi volesse negarli non potrebbe essere coerente.
Chi volesse negare i principi supremi dovrebbe essere come un tronco (omoios futw): infatti qualsiasi parola o discorso uno pronunzi intende dare con ciò stesso un senso preciso al suo discorso o alla sua parola. Nessuno parla per dire una cosa e il suo contrario e infinite altre cose. Ma così dovrebbe essere se il principio di non contraddizione non fosse vero. Il che dimostra che è impossibile, di fatto, negarlo (G, cap. 4/6).
[molteplicità dell’essere] Si danno quattro significati fondamentali dell’essere:
/ | [ideale] |
(“secondo il vero e il falso”) | |||||
essere
|
/ | accidentale (katà symbebekòs) |
|||||
\ | [reale] | / | secondo potenza e atto | (essere in senso dinamico) | |||
\ | [necessario] | ||||||
\ | secondo le categorie | (essere in senso statico-strutturale) |
specificazioni
1. Essere secondo il vero e il falso (to on os alethès): è l’essere in quanto pensato: solo questo essere può essere falso; infatti la falsità è solo nel giudizio del soggetto che non si “adegua” all’oggettività del reale. Non esistono “cose false”, ma pensieri falsi. Il che significa che l’esssere in senso vero e proprio coincide col vero. Il che è molto prossimo al dire che la realtà non inganna, ma è il soggetto umano a porre diaframmi alla verità, a cercare di alterare ciò che di per sè sarebbe retto e limpido.
2. Essere accidentale: è l’essere che di fatto si trova ad accadere, ma potrebbe anche non accadere; è senza essere radicato nelle profondità necessarie delle strutture intelligibili che costituiscono l’intelaiatura del reale. Di fatto è accidentale ogni realtà particolare e ogni evento concreto. Necessarie sono solo le struttura inteligibili, le nature specifiche e le leggi universali. Questo significa che per Aristotele io che scrivo e tu che leggi esistiamo per un caso, e per caso ci è accaduto nella vita quello che ci è accaduto: il particolare in quanto tale non ha senso, è assurdo. Sensato è unicamente l’universale. Ma in questo modo, per Aristotele, la vita concreta non è salvata.
3. Essere secondo potenza e atto. Con questi concetti Aristotele imposta la sua soluzione al problema della contraddittorietà del divenire, quale la aveva prospettata Parmenide. Per il quale il divenire è l’essere del non essere e il non essere dell’essere. Invece il passaggio è non dal non-essere (assoluto) ma da quel non-essere relativo che è l’essere potenziale all’essere attuale. Il che non implica contraddizione. Essere potenziale è ad esempio il seme rispetto alla piante che se ne svilupperà: il seme è in atto seme, e in potenza pianta.
4. Essere secondo le categorie. Ossia sostanza, qualità, quantità, luogo, tempo, relazione, agire, patire. Una distinzione essenziale va fatta tra la categoria di sostanza, che è la principale, e quelle degli “accidenti”. Solo la sostanza “sussiste”, mentre gli accidenti “ineriscono” alla sostanza, come sue determinazioni. Non esiste il verde in sè, ma il verde di una data sostanza (ad esempio di una pianta), mentre la pianta esiste in sè stessa, non “appoggiandosi” ad altro, non inerendo.
usiologia
Nell’essere, tra i vari tipi di essere un posto centrale lo occupa la sostanza.
Sostanza è un essere che non inerisce ad altro, ma è sostrato di inerenza di altro (cioè degli accidenti). Le caratteristiche della sostanza sono le seguenti:
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In base a tali presupposti può essere detto sostanza:
teologia
tra le varie sostanze centrale è la sostanza prima, il Motore Immobile, che, pur invisibile e spirituale, può essere affermato a partire dal divenire che constatiamo nel mondo fisico.
Il Motore Immobile, suprema perfezione della realtà, è eternamente felice nella contemplazione di sè stesso, ma non conosce altro fuori che sè (=non è creatore del mondo, nè provvidenza: è il mondo che “va” verso di lui, come verso il suo Fine)
fisica
il mondo sensibile è fatto da sostanze, composte di materia e di forma, e divenienti;
il loro divenire può essere di diversi tipi (locale, qualitativo, quantitativo, sostanziale), ed ha necessariamente delle cause.
le sostanze corporee sono collocate in uno spazio, che è finito, mentre divengono nel tempo che è infinito (=il mondo è eterno).
etica
L’uomo organizza tutto il suo agire in vista di un fine, e i fini particolari sono subordinati a un fine ultimo;
di fatto i diversi uomini hanni diversi fini ultimi (il denaro, il piacere, il successo, etc.), ma ciò non toglie che il vero fine ultimo, quello commisurato alla natura umana sia uno solo.
esso non può essere il piacere (comune agli animali), nè la ricchezza (che è puro strumento-per), nè il successo e la gloria, che sono esteriori all’uomo; esso è la realizzazione ciò che di più proprio abbiamo come uomini, e al contempo la più perfetta partecipazione possibile alla vita del Motore Immobile: la contemplazione della verità intelligibile.
di fatto solo pochi uomini possono raggiungere tale fine ultimo
tutti invece possono coltivare le virtù, ognuna delle quali è giusto mezzo tra due estremi (esempio il coraggio lo è tra viltà e temerarietà)
politica
L’uomo è per natura socievole
la forma migliore di società è quella basata sul “giusto mezzo”: una “polis” non troppo grande nè troppo piccola, non governata nè da una troppo ristretta oligarchia nè dalla massa del popolo, incline a farsi condizionare dalle emozioni;
esistono differenze qualitative tra gli esseri umani: i liberi sono superiori agli schiavi, i greci ai barbari, gli uomini alle donne e ai figli.
LE OPERE
In diversi passi dei suoi scritti Aristotele parla di opere ” essoteriche ” ( exoterikoi logoi ) e in un brano della Poetica ( I 454b 15 ) usa nello stesso significato l’ espressione ” opere pubblicate ” ( ekdedomenoi logoi ) . Il riferimento é ad un complesso di libri destinati ad un pubblico più vasto della ristretta cerchia degli allievi , e perciò caratterizzati da una particolare cura per la forma , quella stessa che indusse Cicerone a parlare del ” flumen orationis aureum ” ( acad. II , 119 ) a proposito dello stile del filosofo . Di questi scritti nulla ci é rimasto , tranne una Costituzione di Atene , conservataci da un papiro egiziano , alcuni titoli e un certo numero di frammenti . Il corpus aristotelico a noi pervenuto é invece costituito dalle cosiddette opere ” acroamatiche ” ( cioè destinate all’ ascolto ) o ” pragmateiai ” , che si possono chiamare anche ” esoteriche ” , in quanto di uso esclusivamente interno alla scuola , il Liceo . Al primo gruppo , quello delle opere perdute , appartenevano alcuni scritti giovanili in forma dialogica , che anche nei titoli riecheggiavano opere di Platone ( Politico , Sofista , Menesseno , Simposio ) o comunque riprendevano argomenti tipici della speculazione di quello , come ” grillo ” o ” Sulla retorica ” , ” Eudemo ” o ” Sull’ anima ” , ” Sulla filosofia ” , ” Sull’ educazione ” , ” erotico ” , ” Sulla giustizia ” , ” Protrettico ” ( cioè esortazione alla filosofia ) ecc . Al suo regale allievo macedone erano indirizzati gli scritti ” Sulla monarchia ” e ” Alessandro ” o ” Sulla colonizzazione ” , mentre carattere essenzialmente erudito avevano alcune compilazioni come gli ” Elenchi dei vincitori dei giochi Pitici e Olimpici ” , ” Le vittorie alle Dionisie cittadine e alle Lenee ” e ” Le didascalie ” , che riportavano gli argomenti dei drammi partecipanti ai concorsi drammatici , con la data e il piazzamento ottenuto , mentre un’ opera di proporzioni gigantesche , realizzata con l’ apporto degli allievi , era la raccolta delle Costituzioni di 158 città greche , della quale faceva parte quella di Atene . Le opere esoteriche ci sono giunte ordinate secondo uno schema , che si apre con il cosiddetto Organon , comprendente gli scritti dedicati alla logica , concepita appunto come ” strumento ” ( organon ) indispensabile e preliminare alla speculazione filosofica : essi sono le Categorie ( di dubbia autenticità ) , sulle dieci definizioni dell’ essere ; ” Sull’ interpretazione ” , sulle parti e le forme della proposizione ; ” Analitici primi ” , in due libri , sul sillogismo ; ” Analitici secondi ” , anch’ essi in due libri , sulla teoria della conoscenza ; ” Topici ” in otto libri , sul metodo dialettico di argomentazione ; ” Confutazioni sofistiche ” . Seguono gli scritti dedicati alla fisica , intesa come scienza della natura , che comprendono la ” Fisica ” , in otto libri , sulla costituzione dell’ universo ; ” Sul cielo ” , in quattro libri ; ” Sulla generazione e sulla corruzione ” , in due libri ; ” Fenomeni metereologici ” , in quattro libri . Una sezione di questo gruppo di opere é dedicata allo studio del mondo vivente : a un’ introduzione di carattere generale , ” Sull’ anima ” in tre libri , segue una raccolta di nove opuscoli , di vario argomento , nota col titolo latino di ” parva naturalia ” ( ” brevi trattati di scienze naturali ” ) e una serie di scritti sul mondo animale ( ” Sulle parti degli animali ” , ” Sulla generazione degli animali ” , ecc. ) . Alla parte dedicata alla fisica segue , in 14 libri , quella che Aristotele chiamava ” filosofia prima ” , ma che é comunemente detta ” Metafisica ” , dalla posizione occupata all’ interno del corpus ( metà tà fusikà , dopo gli scritti di fisica ) . L’ opera , che dopo una storia della filosofia precedente passa a trattare la dottrina dell’ Essere , risulta costituita da parti composte in tempi diversi e non tutte autentiche , ma al di là delle oscillazioni di pensiero costituisce uno dei momenti chiave della speculazione aristotelica . La ricerca del bene individuale e di quello collettivo sono rispettivamente oggetto dell’ etica e della politica . La prima comprende tre scritti : ” Etica Nicomachea ” , in dieci libri , detta così da Nicomaco , figlio di Aristotele , che ne fu l’ editore ; ” Etica Eudemea ” , in sette libri , che per motivo analogo al precedente prende il nome da Eudemo , discepolo di Aristotele , ma non da tutti é ritenuta autentica ; ” Grande Etica ” , in due libri , meglio nota col titolo latino di ” Magna moralia ” e quasi certamente di redazione scolastica . In otto libri é la ” Politica ” , di cui taluni considrano le Costituzioni una sorta di lavoro preparatorio . Completano lo schema la ” Retorica ” , in tre libri , e la Poetica , in due libri di cui ci é giunto solo il primo . A queste opere vanno aggiunte quelle che , pur presenti nel corpus , sono quasi concordemente ritenute spurie e tra le quali possiamo ricordare ” Sull’ universo ” , ” Sullo spirito ” , ” Sui colori ” , ” Sulle piante ” , ” Problemi ” , ” Retorica ad Alessandro ” , ecc. Il modo in cui questo secondo gruppo di scritti ci é pervenuto é quanto mai avventuroso : lasciati da Aristotele in eredità al suo successore Teofrasto e da questo a un altro allievo , Neleo di Scepsi , rimasero nelle mani dei discendenti di costui , che per un certo periodo li nascosero addirittura in un sotterraneo per sottrarli ai sovrani di Pergamo , i quali avrebbero voluto collocarli nella loro biblioteca . Acquistati poi dal bibliofilo Apellicone di Teo , furono infine ritrovati ad Atene da Silla durante la guerra militare ( 86 a.C. ) e portati a Roma , dove vennero pubblicati da Andronico di Rodi .
LA CONOSCENZA
Nella “Metafisica” Aristotele argomenta che l’uomo per sua inclinazione naturale aspira alla conoscenza e traccia dunque una scala gerarchica della conoscenza (un pò come aveva fatto Platone ) : man mano che si sale ogni gradino è caratterizzato da un approfondimento rispetto al precedente . Al gradino più basso troviamo 1)la SENSAZIONE : ricordiamoci che Aristotele ha della conoscenza una concezione empiristica : la mente umana prima delle sensazioni è una “tabula rasa” (una tavola incerata schiacciata e rinnovata) : prima dell’esperienza sensuale non c’è nulla (a differenza di quanto diceva Platone , che era un innatista) ; in Aristotele c’è un rifiuto radicale della concezione innatistica : la conoscenza ci deriva interamente dall’esperienza sensuale.Per Platone l’esperienza sensuale c’era , ma era una concausa : era infatti semplicemente un modo per realizzare la reminescenza . L’opposizione Platone – Aristotele è davvero forte : ancora oggi c’è chi è innatista (e sostiene che nasciamo già con alcune cose nella testa) e chi è empirista (ed è del parere che la nostra mente è una tabula rasa).In realtà la filosofia successiva non sarà nient’altro che una variante di posizioni aristoteliche o platoniche . E’ come se questi due grandi filosofi avessero tracciato i due modelli per filosofare .Le sensazioni sono quelle che l’uomo ha in comune con gli animali : per Aristotele ci sono due tipi diversi di anime : un tipo , più complesso , ed un altro , più semplice. L’anima dei vegetali , per esempio , non prova sensazioni , mentre quella dell’uomo e dell’animale prova sensazioni : è proprio il poter provare sensazioni che funge da punto di partenza per la conoscenza.Aristotele attribuisce grande importanza all’udito (organo con cui si possono ascoltare i discorsi : malgrado Aristotele sia più “libresco” di Platone , in lui non troveremo mai una polemica contro gli scritti : anzi , l’idea che per studiare ci si debba servire di libri è tipicamente aristotelica ) e questo significa che ai suoi tempi l’oralità era ancora importantissima . Però per Aristotele l’organo di gran lunga più importante era la vista perchè più di ogni altro consente di distinguere gli oggetti : non a caso conoscere significa proprio distinguere , definire : ad un livello empirico la prima separazione è la distinzione degli oggetti sensibili . Però il grosso limite della sensazione è che fa cogliere solo il fatto , il che (in greco l'”oti”) e non il perchè (il “dioti”) : per arrivare al perchè bisogna seguire un lungo percorso .2) Al secondo gradino Aristotele mette la MEMORIA : l’intelligenza si può sviluppare se accanto alla sensazione c’è la memoria : gli animali non riescono a conservare la singola esperienza e così non hanno intelligenza . La memoria consiste proprio nel conservare le singole esperienze , nel ricordare le sensazioni . 3) Al terzo gradino Aristotele pone l’ESPERIENZA : essa non è la singola sensazione , bensì l’accumularsi di sensazioni grazie alla memoria : questa è l’esperienza : mettendo insieme una serie di casi singoli si riesce ad arrivare ad una prima forma di generalizzazione . Se si ha avuto a che fare con malattie e cure , si avrà una generalizzazione e si saprà come agire nel caso si ripresentino : mi sono accorto che una medicina giova ad una determinata persona , poi ad un’altra e poi ad un’altra ancora tutti accomunati dalla stessa malattia , anche somministrandola ad un’altra persona otterrò gli stessi risultati . Chi ha esperienza medica e ha visto che certe medicine hanno giovato a più persone con una stessa malattia è arrivato a dire che a chi ha tale malattia va somministrata tale medicina : questa però non è ancora la “scienza” vera e propria . Si ha una vera conoscenza quando si può dire che la determinata malattia va curata con una determinata medicina perchè va ad operare su determinate cose , organi…Con la scienza si arriva al “dioti” puro ; mentre con l’esperienza intuisco che una determinata medicina giova in certi casi , con la scienza riesco a fornire delle motivazioni : ad esempio , tramite la scienza so che l’aspirina ha un effetto anticoagulante e che di conseguenza posso prevenire e curare l’infarto : non dico più che in certi casi ha funzionato e che quindi anche qui deve funzionare , bensì che avendo un effetto anticoagulante curerà e gioverà a tutti coloro che han l’infarto . Si passa così dall’oti al dioti : quelle persone sono guarite perchè hanno quella determinata malattia e questa medicina la cura. Si passa quindi dal particolare all’universale : il vero passaggio è quando da un pò di casi riesco a cogliere il significato universale : non parlo più di individui che hanno certi sintomi etc. , ma , per esempio , di diabetici.Da una collezione di casi particolari raggiungo una concezione universale.La scienza grazie all’esperienza mi dice che le malattie circolatorie si curano con l’aspirina e di conseguenza quell’individuo che soffre di cuore deve essere curato con l’aspirina : con una serie di esperienze raggiungiamo la scienza . Aristotele , poi , afferma che coloro che sono esperti , che hanno acquisito tante esperienze , sono migliori rispetto a quelli che hanno studiato e sanno solo il dioti : affinchè la scienza entri in funzione le esperienze sono fondamentali : esse ci consentono di riportare i casi singoli a verità universali . L’esperto ha solo la casistica , lo scienziato solo la scienza , la verità universale : nella pratica l’esperto va meglio fin tanto che lo scienziato non fa esperienze . Un medico che non abbia mai studiato medicina , ma che sia esperto (avendo già curato o operato) è di sicuro meglio di un medico che abbia studiato tutto ma che non abbia mai avuto esperienze di intervento . Il medico con scienza ed esperienza risulta a sua volta essere il migliore di tutti : l’esperienza è un insieme di casi da cui si possono trarre conclusioni generali operative : il buon medico deve sapere da casi particolari ricondursi a casi generali e viceversa . La “tekne” sembra essere molto vicina all’esperienza , ma in realtà comporta un coglimento della realtà universale , l’acquisizione del dioti e dell’oti . Da questi singoli casi si trae una verità di carattere generale : perchè in tutti quei casi va così ? Nel caso della medicina parliamo di eziologia , perchè si usa una determinata cura : se si sa calare l’universale nel particolare è già una buona cosa : perchè se io ho un ‘ottima conoscenza dell’universale (che ho ottenuto studiando sui libri) , ma poi non so calarla nel particolare , la mia conoscenza è inutile . In realtà si dovrebbe parlare di scienza applicata , di “tekne” . Aristotele sulle scienze fa una classificazione generale : 1) le scienze applicabili (quelle che mi consentono di produrre qualcosa) 2) le scienze NON applicabili (quelle che non mi fanno produrre niente) . A proposito delle “teknai” Aristotele effettua una tripartizione : ci sono le tecniche a)necessarie b)utili c)piacevoli . Esaminiamo le distinzioni : la tecnica di procacciarsi il cibo è senz’altro necessaria : occorrono conoscenze applicative per sapersi procacciare il cibo (Ippocrate diceva che occorreva pure la conoscenza di come cucinarlo , e questa è una scienza utile , non fondamentale) ; come esempio di “tekne” piacevole possiamo portare l’arte culinaria , che mira solo a soddisfare e a dare piacere al palato . La tekne per Aristotele non rappresenta comunque il livello più alto del sapere perchè è subordinata in ogni caso a fini diversi della conoscenza : è dall’esperienza che si genera la tekne , ma l’esperienza non è ancora tekne pura : la tekne è infatti caratterizzata dall’avere come oggetto della propria conoscenza l’universale : la medicina raggiunge il livello di tecne (e non più di semplice esperienza) quando è in grado di conoscere che un determinato rimedio non guarisce solamente Socrate e Platone , bensì ogni persona affetta da una determinata malattia . Il che significa che quel rimedio è efficace nella totalità o universalità dei casi in cui c’è quella malattia . Anche chi ha fatto esperienza sa che quel determinato rimedio è stato efficace in una pluralità di casi , ma non sa perchè (ha l’oti , ma non il dioti) . Secondo Aristotele al di sopra delle tecniche si colloca una forma di conoscenza che ha di mira soltanto se stessa : il sapere per il sapere , ossia la conoscenza disinteressata , libera da vincoli , non subordinata a fini esterni ad essa . Questa è la “sophia” , il sapere più sublime a cui mira la filosofia . Così Aristotele ha definitivamente staccato l’idea del sapere da come era in passato , dove il sapere veniva visto come legato e funzionale all’agire e al produrre . Per poter ricercare questo sapere disinteressato occorre quella che in greco era detta “scholè” , ossia l “otium” latino , il tempo libero da ogni attività lavorativa o pubblica . Dunque se è vero che tutti gli uomini per inclinazione naturale aspirano al sapere , è altrettanto vero che solo i filosofi realizzano in senso pieno questo fine iscritto nella natura dell’uomo . Ma perchè questo sapere che in fondo non serve a nulla è la cosa più importante ? E’ proprio il fatto di non servire a niente che lo innalza : una cosa che non serve è più nobile perchè non è legata al rapporto di servitù . Le sensazioni servono all’uomo e ne prova piacere : se per esempio avessimo la possibilità di conoscere la realtà senza vederla , non per questo vorremmo essere ciechi : nella vista consiste un piacere irrinunciabile . Questo “esperimento mentale” conferma le tesi di Aristotele . Comunque Aristotele crea anche una scala di acquisizione cronologica di queste teknai : le scienze necessarie sono le prime che l’uomo deve acquisire , in quanto gli consentono la sopravvivenza , poi deve acquisire quelle utili , che gli offrono comodità non fondamentali , ma importanti , ed infine quelle piacevoli (ed inutili) : possiamo riassumere così la scala di acquisizione cronologica :”primum vivere , deinde philosophare “: prima di tutto bisogna pensare alla vita (Aristotele si mostra ancoira una volta legato al mondo terreno) . Il fatto che vengano acquisite per ultime , non significa che le scienze piacevoli valgano meno , anzi sono le più preziose in assoluto . Le prime scienze che acquisiamo sono le esperienze , ma le più importanti sono le scienze universali , che consentono una visione di insieme . Come abbiamo detto , le conoscenze piacevoli si sviluppavano nella “scholè” : per noi il non fare niente è un concetto negativo prima che sul piano morale-assiologico , su quello ontologico : nel non far niente vi è la mancanza di qualcosa . Per i Greci e per i Latini era diverso : la “scholè” era quella parte dell’esistenza in cui ci si dedicava all’attività studiosa
LA CONCEZIONE DEL CITTADINO
Per noi moderni il non fare niente è un concetto negativo prima che sul piano morale-assiologico , su quello ontologico : nel non far niente vi è la mancanza di qualcosa . Per i Greci e per i Latini era diverso : la “scholè” era quella parte dell’esistenza in cui ci si dedicava all’attività studiosa . E’ interessante come Aristotele insista su questa forma di studio disinteressato e affermi ripetutamente che questa sia la più nobile delle vite . Questo è dovuto a due fattori : 1) la mentalità greca generale (come quella Latina) era propensa ad esaltare l’ozio 2) tra Platone e Aristotele c’è una grande differenza : secondo Platone si deve arrivare alle conoscenze supreme , al mondo intellegibile ; per Aristotele le conoscenze sono sensibili e presenti su questo mondo . Quando delineano il modello di vita da seguire , Platone traccia il percorso volto al raggiungimento del bene in sè (si vede comunque nel mito della caverna che i filosofi devono ritornare sulla terra a governare : il punto di arrivo è il re-filosofo) ; per Aristotele non è così : riconosce il modello dell’uomo cittadino , ma l’uomo più elevato sarà lo studioso , colui che si dedica all’otium e non al negotium : come mai ? Ricordiamoci che Aristotele vive dopo Platone , in un’epoca in cui la polis è in crisi (per Platone e Socrate era scontato che l’uomo ed il cittadino fossero un tutt’uno ) : vi è un progressivo scollamento da Socrate in poi tra uomo e cittadino , che un tempo erano indivisibili : Socrate aveva voluto morire , mentre Platone si era reso conto che la politica fosse ingiusta e aveva spostato la figura del politico nel mondo ideale : Sofocle in persona aveva notato questo progressivo scollamento uomo-cittadino . Per Aristotele non solo l’uomo può essere uomo senza essere necessariamente cittadino , ma anzi nella dimensione in cui non è cittadino è migliore : questa teoria avrà gran successo e prenderà piede (pensiamo agli epicurei ed al loro motto “lathe biosas” , ” vivi di nascosto ” : l’uomo per essere felice deve vivere lontano dalla politica , in privato ).Quindi possiamo provare a tracciare una graduatoria del graduale staccamento uomo – cittadino : a) in Socrate c’è piena identificazione b) in Platone c’è sì identificazione , ma non in questo mondo (in quello delle idee) c) Aristotele apprezza la vita politica , ma non c’è più l’identificazione tra uomo e cittadino d) in Epicuro c’è un totale rifiuto della figura uomo-politico associata . Va poi ricordato che Aristotele era uno straniero e non poteva svolgere vita politica : è quindi evidente che non si sentisse uomo-cittadino , ma tuttavia questo è l’aspetto meno imprtante che determinò lo scolllamento aristotelico tra uomo e cittadino .Dalla fine del quinto secolo fino al terzo si arriva ad un rifiuto della politica : la filosofia nasce quando le civiltà si sviluppano e un gruppo sociale (i filosofi) può vivere senza lavorare .
LE SCIENZE
Aristotele distingue due grandi classi di scienze : quelle che hanno come oggetto il necessario e quelle che hanno come oggetto il possibile . Osserviamo qui sotto lo schema generale
Le prime sono dette scienze TEORETICHE e riguardano appunto ciò che è o ciò che avviene necessariamente sempre o per lo più (in greco “epì polù”) nello stesso modo . Per necessario intendiamo ciò che non può essere o avvenire diversamente da come è o avviene . Si tratta dunque di domini di oggetti o eventi caratterizzati da una regolarità totale o con scarse eccezioni : la matematica rientra nelle teoretiche perchè 2 + 2 mi darà sempre 4 e non si può fare nulla se non indagare a fondo . Il mondo biologico rientra anch’esso nelle teoretiche ma nella “sezione” epì polù (per lo più ) . L’epì polù lo possiamo definire come un surrogato delle scienze matematiche , che vanno sempre allo stesso modo : Aristotele studiò anche le generazioni e si accorse che non sempre riuscivano bene : gli individui di solito (per lo più) vengono in un modo , ma può succedere che vada diversamente e che abbia storpiature , deformità . Come nel caso delle generazioni , così anche nel mondo molti avvenimenti sono accidentali ma non sono studiabili perchè di essi non si può indicare il dioti (il perchè) . Il secondo ambito è invece costituito dalle scienze PRATICHE e POIETICHE : esse concernono ciò che può essere in un modo o nell’altro ; questa è la caratteristica propria dell’ azione e della produzione di oggetti : esse infatti possono avvenire o non avvenire , avvenire in un modo o in un altro . A loro volta azione (praxis , da qui pratiche) e produzione (da poieo , da qui poietiche) si distinguono per il fatto che l’azione ha il proprio fine in se stessa , ossia nell’esecuzione dell’azione stessa , mentre la produzione ha il suo fine fuori di sè , ossia nell’oggetto che essa produce . L’etica è una scienza pratica : il suo fine è in se stessa ed è il comportamento ; la poesia è una scienza poietica perchè mi fa produrre poesie : il suo fine sta al di fuori di sè . Tuttavia Aristotele non ci parla molto delle poietiche perchè non lo interessavano molto : ricordiamoci che per lui la vita migliore è quella del filosofo , mentre quella dell’artigiano che produce non è valutata positivamente (come d’altronde non lo era in tutto il mondo greco) . L’unica scienza poietica valida ed utile era per Aristotele la poesia , della quale ci parla ampiamente nella “Poietica” , opera che però non ci è pervenuta interamente : pare che ce ne fosse un altro libro che non fu mai ritrovato e sulla cui ricerca ruota “Il nome della rosa” di Umberto Eco . Per Aristotele il concetto di poietica era molto legato a quello di tragedia : la poietica infatti la si può estendere a qualsiasi forma di creazione artistica : è la conoscenza che genera qualcosa . Ritorniamo ale scienze teoretiche , il cui fine è la verità e la cui base è il sapere per il sapere : Aristotele effettua una tripartizione : le scienze teoretiche sono 1) FISICA 2) MATEMATICA 3)FILOSOFIA PRIMA .Parliamo di esse a seconda degli oggetti che studiano . Della fisica Aristotele ne parla come filosofia seconda : essa studia oggetti che esistono di per sè , ma sono mutevoli . La matematica studia oggetti immutabili , ma che di per sè non esistono . La filosofia invece studia oggetti che non si muovono ed esistono di per sè .Per Platone erano sostanze in senso pieno le idee , mentre il mondo sensibile era un essere depotenziato : Aristotele costruisce una filosofia più vicina al senso comune : egli si chiede : ” quali tipi di sostanze esistono ? ” Arriverà a dimostrare l’esistenza di cose immmateriali , come Dio , ma egli parte dicendo che senz’altro tutte le cose materiali che vediamo intorno a noi esistono ; per Aristotele non esistono da soli e separatamente quelle cose che per Platoneesistevano (in particolare quelle caratteristiche quantitative che Platone diceva esistere di per sè) , come gli enti matematici , i numeri : per Platone c’era il triangolo in sè e poi gli altri triangoli sensibili . Per Aristotele è l’opposto : esistono i triangoli materiali e poi quello immmateriale , che però non può mai esistere come realtà autonoma . Platone aveva minuziosamente dimostrato che noi quando dimostriamo ci riportiamo all’idea di triangolo . Per Aristotele esistono prima i triangoli materiali e poi quello immateriale : quello “ideale” per Aristotele non è nient’altro che una nostra creazione , siamo noi che facciamo un’astrazione : esso esiste solo come risultato di un processo di astrazione da noi operata . Due libri hanno la forma di parallelepipedo : Platone direbbe che imitano l’idea di triangolo . Per Aristotele no , è l’opposto : si fa un processo di astrazione dove poco per volta si tirano fuori le caratteristiche : i due libri non hanno colori uguali , quindi tolgo i colori ; hanno scritte diverse , quindi tolgo le scritte ; sono imprecisi , tolgo le imprecisioni ; privato di tutte le caratteristiche mi rimane solo più la forma di parallelepipedo : il processo consiste essenzialmente nell’asportare via le differenze tra i due libri . Diciamo che la matematica indaga cose che di per sè non esistono perchè le si creano con l’astrazione e cher indaga cose immutevoli perchè il parallelepipedo è sempre esistito . Per Platone il parallelepipedo esiste nell’iperuranio , per Aristotele nel mondo terreno , nei due libri , per esempio . La fisica studia quel mondo fisico che Platone non amava : le sostanze materiali che di per sè esistono ma sono mutevoli . In particolare la fisica studia gli enti naturali . La filosofia prima è anche chiamata metafisica (abbiamo già spiegato il perchè) Che cosa studia ? Ci sono due modi per definire l’oggetto dello studio della filosofia prima : a) Gli oggetti che esistono da soli come le cose sensibili e sono però immutabili come i numeri della matematica : la filosofia prima assumerà poi le istanze di teologia perchè è solo la divinità che è immutabile ed esiste di per sè . b) E’ comunque anche un’ontologia perchè studia pure l’essere in quanto essere (quest’espressione , essere in quanto essere , fu proprio creata da Aristotele) . Non si occupa di un tipo particolare di essere . Lo studio degli animali in quanto animali è la biologia , quello dei numeri in quanto numeri è la matematica , e così via .La filosofia prima invece studia simultaneamente un solo oggetto (la divinità) e tutti gli oggetti per la loro caratteristica di essere . Aristotele discute poi dell’infinito nel contesto matematico : egli nega l’esistenza dell’infinito , che negherà anche parlando di cosmologia : il cosmo è una cosa finita . L’infinito per Aristotele esiste solo potenzialmente , ma non è mai effettivamente attuabile . Non esiste come realtà fisica e neanche come realtà matematica : esiste solo potenzialmente . Concentriamoci sul contesto matematico : Aristotele sa bene che ogni numero è aumentabile di una unità : l’infinito numerico è però solo potenziale : si usano sempre e solo numeri finiti che si possono aumentare di una unità : non c’è mai in atto un numero infinito , solo potenzialmente c’è . L’infinito esiste anche nell’infinitamente piccolo (sempre potenzialmente) : si può dividere all’infinito , ma comunque in realtà non si trova mai un numero infinito . Bisogna precisare che Aristotele aveva una concezione CONTINUA della realtà e non discreta (come invece aveva Democrito ) : per Aristotele i numeri non sono infinitamente divisibili (va detto che all’epoca non si conoscevano le frazioni ). L’infinito potenziale esiste , sia nel piccolo sia nel grande ; questo però vale solo per la matematica , perchè invece nel mondo fisico non c’è neppure in forma potenziale . Le considerazioni di Aristotele sulla matematica sono state importantissime per la storia tant’è che ancora oggi abbiamo una concezione della matematica che ci deriva da Aristotele : per noi , come per Aristotele , i numeri sono astrazioni e non realtà di per sè esistenti (come era invece per Platone : il due esisteva perchè imitava l’idea di due) : per Platone il due di per sè non esiste : lo si ricava tramite quel processo di astrazione che abbiamo prima spiegato : ci sono due libri , due penne … Comunque ancora oggi la questione non è stata risolta e c’è ancora chi sostiene che i numeri esistano davvero come realtà a sè stanti , schierandosi così dalla parte di Platone : il ragionamento che li porta a dire che esistano indipendentemente dalla realtà è riassumibile in questi termini : se nessuno contasse più , i numeri continuerebbero ad esistere ? I semiplatonici dicono di sì . Però ad Aristotele la matematica non interessa molto , a differenza di Platone che era legato ai Pitagorici : la fisica aristotelica torna ad essere una fisica puramente qualitativa . Se ci chiedessimo se nella concezione della realtà è più moderno Platone o Aristotele la risposta non sarebbe facilissima : Aristotele riconosce un’autonomia del mondo fisico (indipendente dal mondo delle idee) ; però Platone ha un carattere quantitativo nello studio della realtà : lo si può definire un precursore della fisica moderna ; per Platone infatti non si può studiare il mondo sensibile senza applicare la matematica . Il motore che avvia la ricerca del sapere è ravvisato da Aristotele nell meraviglia , nel meravigliarsi e nel chiedere “perchè ?” . La meraviglia dà quindi avvio ad una ricerca volta a dare risposta a questa domanda e segna la transizione dal che (l’oti) al perchè (il dioti) . Per Aristotele la scienza trova la sua espressione nel linguaggio e precisamente nei discorsi . Nei dialoghi la logica svolge un ruolo fondamentale : essa era stata inventata in epoche precedenti ad Aristotele ; pensiamo a Parmenide (identità , contraddizione) o a Platone (soprattutto nel “Sofista” ) : però non era ancora chiaro fino in fondo il carattere formale della logica : veniva solo applicata ad aspetti concreti . Aristotele invece è stato l’inventore di un metodo : la sostituzione delle proposizioni con le lettere (cosa che si usa adesso soprattutto in matematica) : a è un numero qualsiasi , non si sa quale , ma sarà sempre quello . Ciò implica la possibilità di studiare le strutture a prescindere dai contenuti . In realtà la parola “logica” è stata coniata dagli Stoici ed ha avuto gran successo : la logica è quella che studia il “logos” , il pensiero . In realtà Aristotele la chiamava ANALITICA (dal greco analuo , ana+luo = scomporre una realtà complessa nei suoi elementi : proprio come le proposizioni sostituite dalle lettere ) . Come detto , la logica non rientra nelle scienze perchè non è scienza , però è lo strumento delle scienze : mi consente di verificare la coerenza dei passaggi logici : essa di per sè non ha nessun oggetto . Logica deriva da logos , termine che significa tanto discorso quanto pensiero : è come se prima di parlare ad alta voce si parlasse dentro di noi ; lo studio di Aristotele in teoria studia , indaga il pensiero ma in realtà studia il linguaggio perchè non si può avere accesso alle menti altrui per indagare il pensiero . Successivamente la logica diventerà studio dei diversi tipi di discorso . Accanto ai libri di logica , Aristotele ha scritto la “Retorica” : fa notare che noi siamo abituati a pensare che la forma classica del discorso è quella in cui si predicano il soggetto ed il predicato : esempio ” Socrate corre ” ; ” Socrate è ad Atene” .
L’ARTE E LA KATARSI
Per Aristotele il concetto di poietica era molto legato a quello di tragedia : la poietica infatti la si può estendere a qualsiasi forma di creazione artistica : è la conoscenza che genera qualcosa . A riguardo dell’opera d’arte e della tragedia erano già state formulate due importanti tesi : a) Gorgia , il cui giudizio era stato fortemente positivo : in assenza di un modello da imitare (per lui l’essere non esisteva e tutto era falso) , l’artista è colui che crea nuovi mondi ed è tanto più bravo tanto più riesce ad ingannare gli spettatori . b) Platone , il cui giudizio non era certo stato positivo : per lui l’arte e la tragedia erano copie di copie , vale a dire copie del mondo sensibile che a sua volta è copia del mondo intellegibile . Si aggiungeva poi la crisi sul piano morale : l’arte fomenta e stimola la passioni inducendo i giovani (e non solo) ad avvicinarsi ad esse . Aristotele assume una nuova ed importantissima posizione : egli rivaluta l’arte (ed in particolare la tragedia) sia sotto il profilo ontologico sia sotto quello etico : sul iano ontologico Platone diceva che era imitazione di imitazione , Aristotele fa notare che la tragedia ha per lo più come argomento il mito , che racconta cose non vere : i prsonaggi sono dei “tipi umani” . La tragedia , dice Aristotele , descrive il verosimile : non ci dice cosa ha fatto quella determinata persona in quel frangente , ma cosa farebbe qualsiasi persona in quel caso . Ci presenta non il vero ma il verosimile : questo per Aristotele è un elemento che conferisce un valore particolare : ricordiamoci che la vera scienza per Aristotele è scienza dell’universale e non el particolare : la tragedia ha quindi una valenza conoscitiva ed è molto migliore della storia : la storia infatti non mette mai di fronte all’universale , bensì racconta le gesta dei singoli : mi racconta casi particolari e non universali . La tragedia ha quindi una valenza filosofica perchè mi mette di fronte a casi universali.La tragedia è imitazione in forma drammatica e non narrativa di un’azione seria e compiuta in sè attraverso una serie di avvenimenti che suscitano pietà e terrore : il suo contenuto è un mito . Da qui in poi si rivaluterà completamente l’arte che Platone aveva disprezzato . Per dirla alla Platone , l’arte per Aristotele non imita il mondo sensibile , ma le idee stesse : imita infatti l’universale . Esaminiamo ora l’aspetto etico-morale dell’arte : come Platone , così anche Aristotele sostiene la metriopazia ( il controllo , la misura delle passioni) e non l’apazia (la privazione delle passioni ) : la valutazione della tragedia da parte di Aristotele è antitetica rispetto a Platone anche sul piano etico : Platone diceva che stimolava alle passioni e che quindi andava abolita , Aristotele introduce la KATARSI artistica : (parola che deriva dalla medicina , suo padre era medico , e risente del suo interesse biologico : katarsi significa “purga” e più in generale “purificazione” : è il meccanismo con cui ci si purifica dalle sostanze dannose ) : chiaramente è una metafora . Ma che cosa intende Aristotele per purificazione ? Il passo in cui ci parla della katarsi è molto breve (ricordiamoci che erano appunti) complesso e quindi è difficile capire se intenda purificazione dAlle passioni o dElle passioni : Se fosse dAlle passioni , sembrerebbe che con la tragedia ci si libera dalle passioni , il che è una contraddizione ; quindi Aristotele intendeva purificazione dElle passioni : nella tragedia infatti vengono messe in gioco passioni negative , spaventose : Platone le rifiutava totalmente perchè pensava che vedendole si stimolassero e nascessero in chi le vedeva ; Aristotele , invece , scopre che vedere in scena certe passioni ha l’effetto di oggettivarle e di far sì che l’individuo possa riuscire a controllarle : ancora oggi gli psicologi mirano quando i pazienti sono afflitti da ansie a farle uscire , a tirarle fuori , a far prendere coscienza al paziente delle proprie ansie : il fatto di guardarle in faccia , a tu per tu , consente di controllarle e di razionalizzarle . Vedere sulla scena , in un situazione in cui si oggettiva e si vede con un certo distacco , permette di razionalizzare le passioni . Il processo della katarsi consente all’uomo di vivere meglio le passioni negative , il terrore inducendolo a guardarsene .
I SILLOGISMI
Accanto ai libri di logica , Aristotele ha scritto la “Retorica” : fa notare che noi siamo abituati a pensare che la forma classica del discorso è quella in cui si predicano il soggetto ed il predicato : esempio ” Socrate corre ” ; ” Socrate è ad Atene” …Le proposizioni costituite da predicato e soggetto sono chiamate APOFANTICHE (o dichiarative : dicono qualcosa di qualcosa) : queste proposizioni sono le uniche che possono essere o vere o false : se dico “il libro è sul tavolo ” può essere vero (se effettivamente il libro è sul tavolo) , ma anche falso (se non è sul tavolo) . Le preghiere , le esclamazioni , le domande , i comandi non dichiarativi : non sono nè veri nè falsi ; se dico “oimè ” non è nè vero nè falso . La retorica può rivolgersi sia al passato (valuto , per esempio , le imprese di un uomo) sia al presente (lodo le caratteristiche di una persona , per esempio) sia al futuro (impartisco comandi) : sono i discorsi suasori , dove l’importante è la tecnica del persuadere ; Aristotele però non si rivela molto interessato ai discorsi suasori , che non sono nè veri nè falsi . Dire ” Socrate è un uomo” non è un ragionamento , ma una proposizione (apofantica) che può essere o vera o falsa . Un ragionamento invece è una catena di proposizioni e Aristotele lo chiama ” SILLOGISMO ” (sun + lego = ragionamento concatenato) ; un sillogismo è costruito da due premesse e una conclusione . Le proposizioni sono anche scomponibili ; le parti che costituiscono una proposizione sono il soggetto ed il predicato , e dato che sono gli estremi della proposizione vengono chiamati “termini della proposizione” . Le proposizioni possono essere divise sotto tre aspetti : 1) QUANTITATIVO 2)QUALITATIVO 3) MODALE . 1) Sul piano quantitativo , le proposizioni possono essere universali o particolari .Se dico “tutti gli uomini sono mortali” è universale ; se invece dico “alcuni esseri viventi sono animali” è particolare. Nel primo caso dico che tutti , senza eccezioni , gli uomini sono mortali . Nel secondo caso dico alcuni . Aristotele nell’ambito delle quntitative riconosce anche le “individuali” , per esempio “Socrate è uomo ” il soggetto non ha valenza nè universale nè particolare , bensì individuale o particolarissimo . Un termine individuale in una proposizione non può mai fungere da predicato , ma solo da soggetto . Invece , i termini che rientrano a costituire le proposizioni della scienza possono fungere sia da predicato sia da soggetto : sono quindi termini universali (ad esempio “uomo”) . 2)Sul piano qualitativo , possono essere affermative o negative : sia le universali sia le particolari possono essere sia negative sia affermative ;universale affermativa “tutti gli uomini sono mortali” ; particolare affermativa “alcuni esseri viventi sono mortali” ; universale negativa : “Nessun uomo è bianco” ; particolare negativa “qualche uomo non è bianco ” . 3) Sul piano modale , le proposizioni possono essere a) possibili b) contingenti c) impossibili d) necessarie : a)non è in un modo , ma potrebbe esserlo (non piove ma potrebbe cominciare) b) è l’opposto del possibile : è in un modo , ma potrebbe non esserlo (piove , ma potrebbe non piovere) c) ciò che non è che non può essere d) ciò che è e che non potrebbe non essere . Le modali stanno tra loro a 2 a 2 : l’impossibilità è una forma di necessità : dire che una cosa è impossibile significa dire che è necessario che non sia .Nel “Parmenide” di Platone questo concetto emerg